Adesso il Pentagono ammette: “Non abbiamo contenuto l’Isis”

Il capo del Pentagono Ash Carter: “La realtà è che siamo in guerra”. Ma esclude un intervento di terra da parte degli Stati Uniti: “Americanizzerebbe il conflitto”
Sergio RameMer, 09/12/2015 – 17:11
 
“La realtà è che siamo in guerra“. In un’audizione davanti alla commissione Difesa del Congresso il capo del Pentagono Ash Carter fa il punto sulla strategia degli Stati Uniti contro i tagliagole dello Stato islamico.
 
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Strategia che, nonostante Carter abbia “personalmente contattato” quaranta Paesi per chiedere un maggiore contributo nella lotta al Califfato, non ha ancora dato i risultati sperati. “Sono d’accordo con il generale Dunford che non abbiamo contenuto l’Isis“, ha ammesso il capo del Pentagono sottolineando che dispiegare “significative” forze di terra americane in Siria e in Iraq è una cattiva idea perché “americanizzerebbe” il conflitto.
 
In un incontro con la stampa italiana il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov ha detto che il problema dell’Isis può essere risolto “abbastanza velocemente, se si sommano le potenzialità della coalizione americana e della Russia con la creazione di una chiara cooperazione con le forze di terra” che già combattono in Siria. Anche gli Stati Uniti sono convinti che solo una coalizione internazionale può sconfiggere una volta per tutte gli uomini di Abu Bakr al Baghdadi. Tuttavia, le diverse forze in campo faticano a dialogare tra loro. E, a conti fatti, soltanto Vladimir Putin sembra impegnarsi attivamente per spazzar via il Califfato. Per la prima volta ha confermato di aver usato un sottomarino schierato nel Mediterraneo per colpire obiettivi a Raqqa. Poco dopo Putin, ordinando l’analisi dei risultati dei raid, si è augurato che tali missili non debbano mai essere armati con testate nucleari. “Non c’è alcuna necessità di usare le armi nucleari contro l’Isis – ha subito corretto il tiro Lavrov – ce la possiamo cavare con quelle convenzionali, cosa che corrisponde pienamente alla nostra dottrina militare”.
 
Le dichiarazioni di Putin la dicono comunque lunga sull’impegno russo in Siria. Eppure il premier turco Ahmet Davutoglu è tornato ad accusare Mosca di colpire soprattutto l’Esercito siriano libero che combatte Bashar al Assad: “In Siria la Russia sta compiendo un tentativo di pulizia etnica nei confronti delle forze turcomanne”. E lo stesso Carter, davanti alla commissione Difesa del Senato americano, ha invitato Putin a “concentrarsi sulla parte giusta di questa guerra” contro lo Stato islamico. E ha chiesto più impegno contro il califfato agli alleati del Golfo. “Spero che soprattutto le nazioni arabe sunnite del Golfo facciano di più…”. Da parte loro gli Stati Uniti sono pronti a inviare elicotteri Apache e consiglieri militari in Iraq per aiutare le forze locali a riprendere il controllo di Ramadi.

Il figlio di Erdogan viene chiamato il “ministro del Petrolio del Daesh”

06/12/2015
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L’Occidente si rifiuta di credere che la Turchia sia coinvolta nel business con il Daesh, tuttavia anche se si chiudono gli occhi di fronte a prove evidenti, la reputazione del figlio del presidente Erdogan parla da sola, scrive l’edizione tedesca “Handelsblatt”.
Anche se sulla carta Bilal Erdogan, figlio del presidente della Turchia, abbia cercato di mantenere un curriculum impeccabile, la sua biografia è ricca di macchie molto scure, quasi a dire che le accuse russe contro di lui non sono infondate, scrive “Handelsblatt”.
Nel 2013 la Procura sospettava Bilal Erdogan del riciclaggio del denaro di suo padre. L’accusa era basata su un dossier, che includeva foto ed intercettazioni telefoniche tra Bilal e Recep Tayyip Erdogan.
L’allora primo ministro intimava al figlio di “sbarazzarsi di tutti i soldi a casa”, scrive il giornale.
 
Nei primi mesi del 2014 è apparsa un’altra intercettazione telefonica sul pagamento di 10 milioni di dollari. Non è stato chiarito da chi provenisse il denaro. Tuttavia i media hanno ipotizzato che si trattava di tangenti in relazione alla costruzione di un gasdotto.
Erdogan si era difeso dicendo che l’audio era un montaggio e “un falso sporco.”
A novembre il ministro dell’Informazione siriano Omran al-Zoubi aveva detto che il petrolio contrabbandato dal Daesh viene trasportato su autocisterne di proprietà di Bilal Erdogan. Secondo il ministro siriano, il figlio del presidente acquistava dai jihadisti petrolio e manufatti storici.
Secondo altre accuse, Bilal spediva nei Paesi asiatici il petrolio contrabbandato dalle zone occupate dai fondamentalisti in Iraq, fatto per cui i media locali lo hanno chiamato il “ministro del petrolio del Daesh.”
 
La pubblicazione fa notare che i giornali turchi ripetutamente si sono interrogati sul perchè le navi di Bilal si trovassero nelle coste siriane.

E’ LA STAMPA, BELLEZZA! Di Siria, Iraq, Turchia, Francia, Argentina, Venezuela e..il Sole24 ore

http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2015/12/e-la-stampa-bellezza-di-siria-iraq.html

MONDOCANE

MERCOLEDÌ 9 DICEMBRE 2015

Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono” (Malcom X).
Arrestato in Puglia un iracheno che agevolava l’arrivo su gommoni di terroristi. Che assurdità!  Si fosse mai visto un agente Cia o Mossad arrivare su barconi!” (Anonimo)
Ci felicitiamo con Erdogan e il popolo turco. Queste elezioni riflettono la stabilità  e la civiltà della Turchia, capitale del califfato islamico e difensore dei valori politici e morali” (Hamas in Deutsche Presse Agentur, 2/11/2015)
Quelli che dicono, ma no, non è vero che la tv determina le scelte politiche, che i media sono una potenza che asfalta ogni pensiero indipendente. Stanno perlopiù a sinistra e assolvono a una funzione consolatoria e auto-assolutoria. Come quando Mao, in una delle sue rare traveggole, definì l’imperialismo “tigre di carta”. L’informazione in Occidente è invece una potenza geopolitica senza la quale quella delle armi e della finanza avrebberoi, come dire, le vele flosce della bonaccia.e girerebbero alla deriva. Quando, a favorire regime change elettorali o colorati più delle armi e dei golpe potè la CNN.
 
Il petrolio di Erdogan? Ma su, non esageriamo!
Cominciamo dal basso, deontologicamente parlando. Qualche brava persona s’è entusiasmata, o, quanto meno, è rimasta positivamente sorpresa, da un recente pezzullo sul giornale della Confindustria a firma di uno dei sui esperti di Medioriente. Vi si afferma, con sicumera, che nel marasma mediorientale l’interesse turco e occidentale per i rifornimenti petroliferi dell’Isis conta una cippa, trattandosi “di poche migliai di barili”. Tutt’al più sarebbe solo il “tentativo di creare un casus belli”. Mica del sultanotto che spera di tirarsi dietro, per una vittoria su Assad e per la conquista di brani di Siria e Iraq, le riluttanze europee e di settori USA e Nato. No, no, ragazzi, il tentativo è della Russia “che vuole punire Erdogan anche militarmente e darà armi ai curdi siriani e del PKK” ! Tra verità scontate, vere e proprie sciocchezze e depistaggi, la questione petrolio Isis-Erdogan costituisce il mimetizzato baricentro dell’articolessa. Insieme alla denuncia dell’aggressività dell’orso russo. Mica di Erdogan e della Nato i quali, oltre che ai jihadisti, ai curdi di ogni obbedienza, iracheni e siriani, stanno anch’essi fornendo armi e assistenza militare, ma stavolta non perché salvino la Siria, o l’Iraq Perché, al contrario, contribuiscano alla frantumazione dei due Stati già multietnici, multiconfessionali, laici, unitari.
L’analista che si esprime sul giornale incaricato di promuovere gli interessi nazionali e globali della cupola transnazionale, ridicolizzando le pratiche gangsteristiche del clan Erdogan, reagisce all’imbarazzo dei regimi becchini degli Stati arabi liberi di fronte alla prova provata dai russi (ma anche, nel nostro piccolo, da alcuni nicchiaroli come noi) che il capo della colonna portante dell’imperialismo nell’area non si rivela solo masskiller delle proprie popolazioni e, con l’Arabia Saudita e tagliateste minori, armiere, ufficiale pagatore e santuario dei jihadisti. Quelle macchioline sull’integrità dei preziosi alleati erano già state sbianchettate dall’operazione Parigi e conseguente connubio orgasmatico UE-Turchia, costato alla prima 3 miliardi per non farsi invadere da migranti e la riapertura gratis a Erdogan delle porte del bordello europeo.
L’imbarazzo così dissipato, è ripiombato sui congiurati occidentali, vero macigno di Sisifo, ora che si è visto come il mazzabubù turco sia anche il boss della mafia di Stato turco-jihadista-israeliana che, grazie ai partner Isis (presuntamente da obliterare), trae incrementi di potenza economica e, dunque, politica e militare, dal furto e contrabbando del petrolio. Petrolio del nordest siriano, di Mosul e Kirkuk, che, come quello della Libia, a sberleffo degli ecochiacchiericci di Parigi, svolge un ruolo strategico per la sopravvivenza delle vacillanti economie occidentali in ansia di espansione predatoria. Se poi qualche perplessità nei meno boccaloni rimane circa la presentabilità di un simile figuro nel consesso civile, ecco che il bravo Alberto Negri ci porta  a parteggiare per il governo Usa. Mica è padrino e complice del demente turco all’interno del manicomio criminale Nato. Anzi, “vuole assestare a Erdogan una lezione” e, anzi, da tempo tenta di incrinare dall’interno il potere di Erdogan e del partito islamico AKP”.
Usa puri e duri. Pur fornendo agli F16 turchi le coordinate per abbattere il Su-24 russo, pur dettando legge ai cieli e alle FFAA turche e mediorientali dalla megabase di Incirlik, pur imponendo agli europei l’ingresso del tirannosauro levantino che ci minaccia con la piaga delle cavallette arabe, pur avendo evitato per un anno di colpire, nella loro “guerra all’Isis”, colonne di autocisterne Isis fornitrici sottocosto di miliardi di dollari alla tribù regnante ad Ankara, di milioni di barili a Israele (vedi mappa) e a disinvolte società occidentali, sono sopra ogni sospetto perché a Erdogan “vogliono assestare una lezione”. E a proposito di società che, anche alle nostre pompe, potrebbero smerciare petrolio ricavato dal business con i razziatori tagliagole, perché Renzi, per far qualcosa contro l’Isis anche lui, non sollecita la Guardia di Finanza, la Dogana, i carabinieri, a dare un’occhiata alle bolle di carico e scarico, che so, dei Moratti, dei Garrone, dell’Eni….
Grande Negri! In perfetta continuità deontologica con la sua analisi libica, sciorinata in tv a “Presa diretta”. In un coretto di gentiluomini cari a Soros, che gelavano il conduttore Jacona con i Grand Guignol di Gheddafi, “incitatore degli stupri di massa delle donne libiche”, indicava come primo impegno dei liberatori della Libia quello di costruire finalmente delle scuole. Evidentemente là dove Gheddafi aveva costruito solo lager per migranti e oppositori. Questo nel paese che l’ONU aveva classificato primo per scolarizzazione di tutta l’Africa.
 
Le vene aperte del Medioriente e chi vi si abbevera
Lasciando nel cassonetto fuori casa queste miserie, vediamo cosa succede da quelle parti, sotto l’occhio vigile (preoccupato? compiaciuto? chiediamolo a Negri) degli Usa. Grazie ai curdi iracheni, carissimi amici di Ankara e soci di Isis nel contrabbando del petrolio, si è potuto moltiplicare il flusso di dollari verso le tasche di papà Erdogan e le compagnie di trasporto marittimo del figliolo Bilal, compensando quello dalla Siria, temporaneamente ridotto dall’intervento russo e dall’avanzata delle forze patriottiche. Nella mappa qui sopra sono tracciate le due direttrici di un contrabbando che fonti locali ci dicono facilitato da mediatori curdi, siriani, turchi e israeliani. Dai giacimenti sotto controllo Isis e curdi, il greggio giunge al suo hub nella città araba di Zakho, a nord di Mosul, sotto controllo congiunto curdo-turco. Da lì partono verso il porto di Ceyhan circa 632.000 barili al giorno, una bazzecola per Negri, sia in cisterna, sia attraverso un vecchio oleodotto (che il PKK, meno amico di Erdogan, sabotò l’agosto scorso, causando a Bilal una perdita di 250 milioni di dollari).
Sappiamo, e non da mo’, che l’intento imperialsionista è di squartare e ridurre in bantustan tutti gli Stati non conformi della regione. Sulla lista, dopo Libia, Siria, Iraq, Yemen, ci sta anche l’Egitto. Troppo grosso per ora da prendere di petto. A punirlo e angheriarlo per il suo flirt con la Russia e il suo appoggio agli anti-islamisti laici di Tobruk, che combattono i Fratelli musulmani e la loro prole jihadista, bastano per ora i terroristi Isis nel Sinai, al Cairo, ad Alessandria. Se l’accaparramento di petrolio è, come è, il perno del capitalismo neo- imperialista, capita che in maggioranza si trovi là dove ci si gioca il dominio geopolitico del mondo. E per la gestione degli snodi geopolitici non bastano le cisterne trafficate dal mafie regionali. Occorre il controllo del territorio. Che è anche il presupposto per l’affermazione della potenza regionale neo-ottomana, in coabitazione – finchè dura – con Arabia Saudita e il suo Isis, con Israele e con la partecipazione subalterna dei curdi di Iraq e Siria (questi ultimi ora anch’essi blanditi e armati dagli Usa e perciò in preda a lacerazione interne).
 
Iraq, arriva il califfo vero
Ed ecco che il 4 dicembre, come ci racconta anche il governativo turco “Hurryet”, a Bashiqa, una trentina di km a nord di Mosul, seconda città irachena e centro di una bonanza petrolifera, arriva un reggimento di soldati turchi corredati di venti carri armati, artiglieria, droni, elicotteri. L’avanguardia di una forza di spedizione  Si tratta di una base dove, da qualche anno, i turchi addestrano peshmerga (gli “addestratori” della Pinotti operano a Irbil). E’ il trampolino di lancio verso Mosul. Massimo centro economico e strategico della regione che vorrebbero anche i curdi, per quanto totalmente arabo, ma si dovranno accontentare dell’altrettanto araba Kirkuk(che apre l’oleodotto verso Haifa, Israele). La Turchia non dimentica che Mosul fu strappata all’impero ottomano in disfacimento e messa sotto mandato britannico fino al 1932 (l’imposero, contro le rivolte arabe, i gas di Churchill su Baghdad). E non ha mai cessato di rivendicarla.
Ha voglia Baghdad a denunciare la violazione della sovranità nell’assenza di un mandato ONU e a esigere l’immediato ritiro. Visto che gli Usa chiudono un occhio (altro che puniti da Obama), ci vorrebbe anche qui, a dare peso alla protesta, l’intervento russo. Intervento invocato dal parlamento iracheno, ma frenato dal premier Abadi, angosciato dalla possibile reazione dei 3.500 e passa marines sul posto e da altre migliaia di loro colleghi contractors. Ora le alternative sembrerebbeo tre: o Mosul viene lasciata in mano all’Isis, o se la prendono i curdi, o ne fa un boccone Ankara. Nei primi due casi, visto che le tre forze in campo collaborano alla frammentazione dell’Iraq, si arriverebbe probabilmente a un accordo concepito in Nato. La Turchia, con la garanzia dell’indisturbato flusso di idrocarburi, assumerebbe il ruolo di protettore, gli altri di proconsoli..
 
Fattosi neocon, Obama si dà una mossa in Siria. Contro Assad.
Se la gestione della rapina di petrolio iracheno è lasciata ai protagonisti autoctoni, gli alloctoni Usa-Nato si occupano di quello siriano. In parallelo con l’occupazione turca del Nord Iraq, forze militari Usa sono penetrate dalla Turchia nel nordest siriano e hanno occupato l’aeroporto di Abu Hajar, nella regione di Hasaka (città araba tolta all’Isis dai curdi dell’YPG. Curdi già mitizzati dai nostri guru sinistri, ma ora fonte di qualche perplessità davanti alla loro nuova intesa con gli Usa, finalizzata alla spartizione della Siria tra Israele (Golan), Turchia, Curdi, protettorati coloniali. Tecnici Usa stanno costruendo una pista di 2,5 km, larga 250 m, adatta ai più pesanti bombardieri e aerei da trasporto. I lavoratori impiegati sono curdi. L’evidenza mostra che l’intervento statunitense a tutto mira fuorchè a salvare la Siria  e l’Iraq dai jihadisti, allora e sempre mercenari Nato-Golfo. Un’evidenza già mille volte provata dai rifornimenti della Coalizione all’Isis in Iraq, è ribadita da questa mossa, neanche comunicata a Damasco. Ennesima conferma, il bombardamento Usa della base siriana di Deir Al Zour (6 dicembre): nove missili, non uno, magari per sbaglio, che hanno ucciso o ferito 16 soldati e devastato il campo. Ennesima flagrante violazione della sovranità siriana, in mancanza di un qualsiasi mandato internazionale (e lo sarebbe anche se bombardassero dune di sabbia), denunciata da Damasco a un’ONU sorda e cieca.
 
Francia, Argentina, Venezuela: la debacle
I tre tremendi sganassoni rifilati all’umanità – elezioni francesi, argentine, venezuelane –  arrivano da dati oggettivi, cause riconoscibili, ma deflagrano e stordiscono, proprio come le bombe assordanti in uso presso i repressori di massa, grazie alla carica distruttiva che gli aggiungono i trasmettitori mediatici. Il che conferma, lo dico in tutti i miei incontri pubblici e mi viene confermato dallo smarrimento di chi mi ascolta, che l’informazione non è una tigre di carta. Informazione negata, occultata, manomessa, falsa. Il controcanto delle voci altre è sepolto sotto le bombe, o eliminato dai satelliti, o reso stravagante e inattendibile.
L’operazione di regime perpetrata a Parigi, pur nelle sue dimensioni sanguinose, di per sé non tali da sconvolgere interi assetti sociali e istituzionali, grazie all’incontrastato uragano di supporto dei media e al panico programmato e diffuso, ha assunto quella portata epocale che ha raso al suolo culture giuridiche, fondamenta costituzionali, modi di vivere, epistemologia della realtà, percezione della comunità umana. Uragano che, come in occasione dell’11 settembre e di tutti gli eventi affini, ha estirpato e disperso ogni obiezione, ogni falla nella narrazione (e a volte si tratta di voragini), le più lampanti contraddizioni. Da cui  la decerebrazione di massa, l’accorruomo generale sotto i vessilli della sicurezza e dell’autorepressione, il trionfo della demagogia, la blindatura verso altri mondi e, quindi, l’ulteriore frantumazione della comunità nazionale e umana, da perfezionare con xenofobia e guerra.
Non tutto è stampa, è vero. Nell’esito elettorale ci hanno messo pesantemente del loro imbecilli stazzonati, per quanto muniti di zanne di vampiro, come Hollande, Valls, Sarkozy, una accolita di fatiscenti nanetti da giardino, rispetto ai quali Marine Le Pen appariva un tosaerba a scoppio di ultimo modello. Qui è divertente vedere come le nostre “sinistre” e “centrosinistre” (cioè destre) si affannino a esorcizzare il fenomeno Front National, esploso sopratutto nelle regioni più depresse, tra operai e disoccupati, con il trito ritornello della “xenofobia”, del “razzismo”, del “populismo” o, come titola il “manifesto” con grottesca semplificazione, “eau de Vichy”, incollando sulla Le Pen la salma del maresciallo Petain.
 
Bataclan val bene una guerra coloniale
Ci sarà stato l’effetto Bataclava, l’indotto migranti, la pancia borghese famelica di grandeur, ma il successo di questa formazione ha ben altra sostanza. E’ la rivolta contro un’Europa che ha annichilito ogni voce popolare; è la rivendicazione di una sovranità nazionale intollerabile per la globalizzazione neoliberista e tecnonazista che, fin dai primordi dell’Unione, sotto la spinta lungimirante degli Usa, ha voluto spianarsi la strada facendo saltare gli ostacoli delle costituzioni democratiche nazionali sorte dalla lotta antifascista. Insomma l’ennesima sfera del pensiero, l’ennesimo campo d’azione, che la sinistra si è lasciata sottrarre nella sua trafelata ricerca di legittimazione capitalista. Facendo il verso agli arcaismi ancora al potere, quelli sì genuinamente populisti, alla maniera delle tre carte (conoscete qualcuno più populista di Renzi, Tsipras o Hollande?), definisce “populista” tutto quel che di buono e cattivo dilaga sulle praterie ideologiche lasciate sguarnite e così si rade il pelo cresciutole sullo stomaco. Eppure, anche in questo fallimentare contesto, è ancora la stampa a ricucire le lise vele dei capitani e dei mozzi e a soffiarci dentro.
 
Argentina di Cristina o di Ernestina?
La potenza di fuoco dell’oligarchia mediatica si è esercitata in Argentina al punto da rovesciare la realtà nel suo contrario. Obliterato è il riscatto operato dal peronismo di sinistra dei coniugi Kirchner rispetto alla catastrofe neoliberista inflitta al già più prospero paese del continente dalla successione di presidenti incompetenti e farabutti, dal dittatore Videla al joker Menem, telecomandati dalle multinazionali e dal FMI. Grazie al gruppo monopolista “Clarin” di Ernestina Herrera De Noble, già intima dei generali, tanto da essersi appropriata di due figli sottratti a martiri della resistenza, alle reti televisive capeggiate dal monopolista brasiliano Globo, alla CNN in spagnolo e al loro codazzo di giornali e tv che, come in Italia, subiscono l’egemonia e abdicano all’indipendenza, i grandi meriti del dodicennio di ripresa si sono dissolti nella retorica di un bandito neoliberista, prono ai latifondisti e ai  potentati transnazionali, come Mauricio Macri.
E’ vero che la sinistra kirchneriana si era affidata a un personaggio pallido e trasversale come l’imprenditore Daniel Scioli, compiendo il ricorrente errore di tante sinistre, a partire dalle nostre e, in quel continente, da Allende, di abbindolare un po’ di ceti “moderati” nel segno nefasto e anticlassista delle unità nazionali. Scioli ha inseguito la destra sul tema strumentale dell’ordine pubblico (occhio, M5S!), a scapito dei rapporti con i sindacati, movimenti sociali e con la piazza. Si sa dove portano i “compromessi storici”. Alla copia si finisce sempre col preferire l’originale, anche perché ontologicamente dotato di maggiore potere di persuasione grazie al cinico uso della retorica e della menzogna.
E’ finita sotto il tappeto mediatico la memoria delle nefandezze e dei disastri di Carlos Menem che dell’Argentina s’era venduto perfino i cimiteri. Ma anche la  riduzione della povertà sotto il 20% e dell’indigenza sotto il 5% (al tempo di Menem la povertà assoluta aveva raggiunto il 56%), il contenimento fiscale dello strapotere dei terratenientes, le fabbriche occupate restituite ai lavoratori, la lotta all’emarginazione, la promozione delle scuole pubbliche, la quasi miracolosa resurrezione dal default e la resistenza ai fondi avvoltoio Usa, il rafforzamento dell’integrazione latinoamericano in Mercosur, Unasur, Celac, l’alleanza con i governi socialisti latinoamericani, l’antimperialismo. Pompata, invece, oltre ogni credibilità, ma che ha lasciato il segno, l’infondata accusa al governo di aver ucciso un magistrato che indagava sul nesso False Flag tra l’attentato alla mutua israelita di Buenos Aires (1994, 85 vittime) e l’Iran, regime che Cristina avrebbe coperto grazie a forniture di petrolio (inesistenti).
E già Macri, entusiasmando la borghesia compradora, storicamente forte nel paese e con un seguito di plebi sottoproletarie, promette un ritorno a legami stretti con Washington, la firma di trattati neoliberisti con l’UE, l’espulsione del Venezuela, “totalitario e violatore dei diritti umani”, dal Mercosur. Notare la manina data a Macri dall’anti-kirchnerista patentato Jorge Bergoglio, quando ha deplorato il coinvolgimento dell’Argentina nel narcotraffico (accusa lanciata al governo proprio da Macri). Bergoglio, uno che è convissuto in tutta armonia con i generali della dittatura avrebbe dovuto tacersi.
 
Venezuela, una rivoluzione frenata
In Venezuela il chavismo ha perso la seconda elezione su 20 in 17 anni. E Nicolàs Maduro, il “despota antidemocratico” per il 99% della stampa occidentale (quella europea, riunita nell’ Alleanza dei Periodici Europei, aveva lacrimato sul “grido di libertà del Venezuela”), ha istantaneamente riconosciuto il risultato dei 90 seggi vinti dalla Mesa de Unidad Democratica (MUD) contro i 46 del PSUV, sui 167 dell’assemblea nazionale (19 vanno ancora assegnati). Alla faccia di Hillary Clinton e di tutti gli avvoltoi filo-Usa che avevano previsto un’ecatombe della legalità elettorale e avevano attribuito a Maduro l’assassinio di un esponente della destra, invece ucciso in una resa dei conti tra bande mafiose. Accusa, quella della belva genocida, candidata alla presidenza degli Usa, che risulta paradossale in bocca di chi, in Honduras, aveva rovesciato con il colpo di Stato del 2009 il presidente Zelaya democraticamente eletto. Anche qui, a dispetto dell’ottima “all news” Telesur creata da Chavez, una tv che con RT (Russia Today) costituisce l’optimum dell’informazione corretta e professionalmente impeccabile, non ha retto il confronto con la flotta di corazzate del capitale revanscista, mai intaccate nel loro monopolio. E anche le radio libere di quartiere, che tanto hanno contribuito a sventare il golpe del 2002 e a far crescere conoscenza e coscienza, sono quasi tutte sparite.
Enormi, e senza uguali nel mondo occidentale, sono i meriti dello chavismo nella ricostruzione di una nazione depauperata e desovranizzata da dittatori e manutengoli del neoliberismo Usa. Sul piano della giustizia sociale, della riduzione della povertà, dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente, dell’istruzione, della mobilità, delle infrastrutture, dell’unità progressista e antimperialista del continente. Fin da quando, sotto l’impulso determinante di Hugo Chavez, nel 2004 l’intera America Latina (ricordare le enormi manifestazioni in Argentina, con Maradona in prima fila), respinse l’ALCA, il trattato-capestro che avrebbe dovuto ricondurre la regione alla condizione di cortile di casa degli Usa, trattato di libero scambio predecessore del TTIP in arrivo tra Washington e Bruxelles.
 
Dodici mesi di guerra della destra con il terrorismo delle guarimbas (attentati di strada, 43 morti centinaia di feriti), sabotaggio economico e valutario, accaparramento e imboscamento delle derrate alimentari distribuite a basso costo dal governo e rivendute a prezzi speculativi dal contrabbando, infiltrazione di paramilitari terroristi dalla Colombia, rinfocolamento della criminalità di strada, esponenti di esercito e polizia subornati da agenti Usa e infiltrazione nelle comunità delle relative Ong e sette evangeliche, ostilità della gerarchia ecclesiastica alimentata dal nunzio apostolico Pietro Parolin, oggi con Bergoglio segretario di Stato, potenza comunicativa dell’opposizione e dell’oligarchia che ne è l’espressione mediatica, foraggiata a milioni di dollari dal Dipartimento di Stato, dalla Cia e dall’Atlantic Council finanziato da Exxon Mobil, Chevron, e dagli armieri Lockheed Martin.
Al di là dei fenomeni di corruttela negli apparati amministrativi e circoli dirigenti, la cosiddetta “bolibourgeoisie”, riconosciuti e combattuti da Maduro forse con insufficiente determinazione, c’è chi non esime il chavismo, sia del fondatore che del successore, da timidezze e ritardi nel processo rivoluzionario verso il “Socialismo del XXI secolo”. La strategia dei consigli comunali, contrappeso popolare alle istituzioni locali e statali, non allargata e potenziata adeguatamente, un rapporto non sufficientemente equilibrato tra organizzazioni rivoluzionarie sul territorio, partito e governo, una bonifica mai completata degli elementi spuri o nemici nelle forze armate e di sicurezza, un’economia e un’istruzione ancora largamente in mano a privati speculatori e manipolatori, la grande distribuzione lasciata a spadroneggiare contro i “mercal”, i mercati pubblici di generi di prima necessità dai prezzi calmierati, la volenterosa ricerca di mediazioni con i “ceti medi ricuperabili”. Insomma l’allendismo, il berlinguerismo, lo tsiprismo
 
Ma, se guardiamo al resto del mondo occidentale, tutte queste carenze sono niente rispetto a un cambiamento di paradigma senza confronti e precedenti nell’attuale rapporto tra classi, a favore del benessere e del ruolo dei ceti da sempre emarginati e spolpati dalla minoranza straricca. Una minoranza razzista e prevaricatrice, con l’occhio fisso su Washington, compradora come quella delle più arretrate società del Sud del mondo, ma di queste ancora più vendicativa e feroce. Le ineguagliabili “misiones”, campagne per il riscatto popolare a tutti i livelli, analfabetismo sradicato, sanità universale gratuita (con il decisivo apporto dei medici cubani), esplosione della creatività culturale e artistica, piena occupazione, ripetuto aumento del salario minimo, casa e pensione a tutti, moltiplicazione delle università e scuole pubbliche, redistribuzione delle terre, salvaguardia e autonomia delle popolazioni native. Tutto a dispetto della crisi economica determinata da un’inflazione artificiosamente alimentata, dal crollo del prezzo del petrolio, da un sabotaggio esterno e interno che continua dal tentato golpe del 2002 e si è scatenato negli ultimi anni.
 
Ridurre all’obbedienza il più fortemente ideologizzato paese dell’America Latina, una delle maggiori potenze energetiche del mondo, sarebbe la breccia più grande aperta dall’imperialismo nel continente da riconquistare. Viene dopo la “normalizzazione” del Cile e dell’Uruguay, l’istigazione alla sovversione del Brasile, la cui dirigenza socialista è forse la più autodistruttiva tra quante sono rientrate nell’orbita dei “Chicago boys”, il recupero di tutto il lato andino dal Cile alla Colombia, fatto salvo l’Ecuador di Correa (sottoposto a tentativi di golpe e sommosse di quinte colonne indigene), il golpe parlamentare in Paraguay e, soprattutto, il colpo di Stato di Obama e della segretaria di Stato Clinton nell’Honduras che stava entrando nell’ALBA e che oggi ha tolto al Messico colonizzato dagli Usa con narcotraffico e multinazionali, la palma di paese più derelitto e insanguinato da omicidi criminali e di Stato.
La maggioranza conseguita permette agli escualidos di sconvolgere l’intero assetto fin qui realizzato dal bolivarismo. Il 60% del PIL dedicato ai programmi sociali scomparirebbe a favore di investimenti predatori negli strumenti del trasferimento neoliberista della ricchezza. Potrà votare leggi di amnistia per i criminali del golpe e del sabotaggio economico, far rientrare i finanzieri ladri scappati a Miami, convocare una nuova costituente, sfasciare il Consiglio Elettorale Nazionale colpevole di trasparenza e precisione, riconvertire la magistratura, infiltrare i corpi militare e della polizia, promuovere l’impeachment del presidente, invitare basi militari Usa, aderire a trattati di scambio capestro, modificare a favore del capitale le voci del bilancio, abolire “Petrocaribe” con cui Caracas sosteneva le economie dei Caraibi amici, potenziare l’istruzione privata a scapito della pubblica, riappropriarsi dei latifondi, rovesciare l’attuale politica di appoggio e amicizia ai popoli in resistenza e, dunque, partecipare a missioni militari imperiali.
Resistono i sempre più isolati fortini di Bolivia, Ecuador, Nicaragua, ma l’impero, nell’offensiva scatenata contro l’America Latina, ha segnato punti importanti, a partire dall’Honduras ritornato repubblica delle banane, anche grazie al tributo ai golpisti da parte del primate Oscar De Maradiaga, oggi braccio destro del papa. Sconsolante, deprimente, è notare come, in questa guerra all’ultimo sangue, all’ultima biodiversità, ultimo ambiente, ultimo lavoratore in dignità, ultima sovranità popolare e nazionale, ultimo riscatto indigeno, ultima unità continentale, Cuba, un tempo del Che, svolga il ruolo, meschino e collaborazionista, mediato dalle Chiese, della pacificazione e del partneriato subalterno con i massacratori yankee dei suoi fratelli latinoamericani. Ai popoli che vorranno rispondere con la presa di coscienza e la mobilitazione insurrezionale all’assalto dei necrofagi del Nord non conviene più cercare il faro-guida all’Avana. Conviene ripartire da Bolivar, Chavez,  Morales,Tupamaros, senza dimenticare Gramsci e, soprattutto, Marx. E, perché no, Bashar El Assad. Tocca fa risuonare voci e i rispettivi strumenti di diffusione che ricuperino alla consapevolezza della verità masse frastornate e obnubilate. Cosa di cui avremmo bisogno anche noi. E’ la stampa, bellezza.
Pubblicato da alle ore 18:01

Presentazione del docufilm: L’ITALIA AL TEMPO DELLA PESTE- Grandi Opere, Grandi Basi, Grandi Crimini”

2) Presentazione a Milano, Casa Rossa, il 19 dicembre, alle 18.00, del docufilm “L’ITALIA AL TEMPO DELLA PESTE- Grandi Opere, Grandi Basi, Grandi Crimini”
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Venerdì 11 dicembre presidio all’aula bunker per udienza appello Chiara, Claudio, Niccolò e Mattia

Non fu terrorismo, almeno così si è espressa per ben due volte la Cassazione, ma l’accusa torna in quell’aula bunker venerdì 11 dicembre, nel processo di appello contro Chiara, Claudio, Niccolò e Mattia, quattro dei sette attivisti coinvolti nelle vicende giudiziarie per l’attacco al cantiere nella notte tra il 13 e il 14 maggio 2013 che portò all’incendio di un compressore. A sostenere nuovamente l’accusa di terrorismo sarà il Procuratore Generale Maddalena, il cui pensionamento era previsto per il 31 dicembre ma è di oggi la notizia che il Consiglio di Stato ha congelato il pensionamento di Guariniello, Maddalena ed altre 84 toghe in conseguenza di un ricorso straordinario presentato al presidente della Repubblica.

A due anni dall’arresto e a quasi un anno dalla sentenza che in primo grado ha visto assolti i quattro compagni dall’accusa di terrorismo si ritorna nel grigiore dell’aula bunker, cornice perfetta per consentire ai media di costruire l’immagine negativa di chi in una notte, con mezzi dei quali tutti disponiamo, ha “bucato” un dispositivo di sicurezza spropositato a difesa di un cantiere, con un’azione di sabotaggio definita dagli stessi imputatiun granello di sabbia nell’ingranaggio di un progresso il cui unico effetto è l’incessante distruzione del pianeta in cui viviamo”.

 

Veronesi: “Sei povera? Valuta la maternità surrogata”

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di Ilaria Muggianu Scano | 8 dicembre 2015
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.Ai lettori più attenti non può esser passato inosservato il clamore sollevato dal recente articolo di biasimo a firma di Marina Terragni sulle pagine di “Io Donna”, inserto femminile de Il Corriere della Sera, circa alcune riflessioni espresse da Umberto Veronesi, oncologo di comprovata fama planetaria, sulla pratica dell’utero in affitto.
Scorrendo tra le pagine della recente autobiografia “Confessioni di un anticonformista“, pubblicata da Marsilio editore, leggiamo la dichiarazione esortativa che nelle ultime ore continua a spaccare le coscienze:
“Per una donna povera prestare il proprio utero a pagamento può essere l’occasione per migliorare sensibilmente il proprio tenore di vita, per aiutare i figli a pagare gli studi”.
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Il ricercatore italiano è noto in tutto il mondo per aver partecipato alla fondazione dell’Airc (Associazione italiana per la ricerca sul cancro) e per aver avviato, nel 1973, una sperimentazione su 700 donne, conclusa otto anni dopo, al termine della quale veniva stabilito che davanti a un tumore di piccole dimensioni, non superiore ai due centimetri di diametro, la chirurgia conservativa sarebbe stata in grado di garantire percentuali di guarigione completa pari a quelle ottenibili con la mastectomia radicale, ovvero la rimozione totale della mammella. Riuscirà a dimostrare come salvare la vita della donna aggredita dal cancro e a come migliorarla dopo la malattia.
 
Umberto Veronesi, ex parlamentare e senatore a vita, anche in passato mai è stato ambiguo sulla sua posizione circa l’utero in affitto; nel sito della fondazione a lui intitolata il Ricercatore dichiarò nel novembre 2011: “Se facciamo un discorso ampio, si possono moltiplicare gli esempi di “affitto”. Il minatore che scende in miniera per ricavare il carbone prezioso alla società, “affitta” le sue braccia che usano il martello pneumatico. Anche lo scienziato che offre il suo cervello a pagamento affitta un suo organo. È certamente una visione forse troppo razionalizzata, che probabilmente scandalizza e fa arrabbiare, ma il fatto di “affittarsi” fa parte della nostra società“.
 
L’insorgere di un problema di natura etica è legato al fatto che in Europa non esista una regolamentazione giuridica circa la maternità surrogata, e nemmeno un dibattito in cui il ventre di una donna poverissima possa decretare la felicità di una famiglia tradizionale, senza suscitare il pensiero che la pratica avvenga secondo una piena libertà della gestante.
 
Intanto un fermo “no” e un appello contro la pratica dell’utero in affitto (in maniera indipendente dalle dichiarazioni di Veronesi) arriva, inaspettatamente, dalle donne del movimento femminista “Se Non Ora Quando”. A firmarlo numerosi volti noti del mondo dello spettacolo e della cultura, tra gli altri: Dacia Maraini, Francesca Neri, Stefania Sandrelli, Fabrizio Gifuni, Claudio Amendola e Aurelio Mancuso già presidente di Arcigay. L’appello recita: “Noi rifiutiamo di considerare la ‘maternità surrogata’ un atto di libertà o di amore. In Italia è vietata, ma nel mondo in cui viviamo l’altrove è qui: ‘committenti’ italiani possono trovare in altri Paesi una donna che “porti” un figlio per loro. Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione”.
 
La regista Cristina Comencini, dalle pagine di Repubblica di venerdì 4 dicembre è categorica sull’argomento: “Una madre non è un forno. Abbiamo sempre detto che il rapporto tra il bambino e la mamma è una relazione che si crea. Concepire che il diritto di avere un figlio possa portarti all’uso del corpo di donne che spesso non hanno i mezzi, che per questo vendono i loro bambini, riconduce la donna e la maternità a un rapporto non culturale, non profondo”.
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La maternità surrogata è sempre una forma di sfruttamento soggetta a ricatti e guadagni illeciti? Stati Uniti, Canada e Inghilterra hanno legiferato in merito alla Gpa, ottenendo che la donna che concede l’affitto del proprio utero disponga di una certa serenità economica in modo da scongiurare l’ipotesi di guadagno, al contrario di quanto invece aupica Veronesi. Limitazioni arrivano anche dai Paesi in via di sviluppo, dove la pratica è diffusissima da decenni, in seguito al rifiuto della coppia impegnata nella maternità surrogata, dopo la scoperta che la madre biologica ha dato alla luce un bimbo down.
C’è chi rifiuta che lo spazio sacro della maternità divenga oggetto di legge, e fonte di sopravvivenza in casi di totale indigenza, e non di una scelta legata all’etica individuale allontana da una seria riflessione sull’ipotesi di ogni forma di possibile tutela per qualsiasi persona chiamata a far parte del tessuto sociale, qualsiasi natale abbia avuto.

SIONISMO IL VERO NEMICO DEGLI EBREI – L’ANPI di Roma si ritira dalla presentazione del libro di Alan Hart

come disse Napolitano, antisionismo vuol dire anti semitismo anche se sono due cose completamente diverse
 
Diego Siragusa- Curatore del libro – intervistato da Alido Contucci di LiberaRete – Libera.Tv Roma
 

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Il 7 dicembre 2015 presso la sede dell’ANPI di Roma doveva tenersi la presentazione della versione italiana del libreo di Halan Hart “Il sionismo è il vero nemico degli ebrei” di Alan Hart. A questo incontro, che era stato organizzato anche dalla sezione ANPI don Pappagallo, dovevano partecipare Giorgio Gomel (ebrei per la pace), Marco Ramazzotti Stockel (rete ebrei contro l’occupazione), CarloTagliacozzo (studioso dello Shoa), e Diego Siragusa (che ha tradotto e scritto la prefazione del libro).  Invece contro questa iniziativa è intervenuta la Comunità ebraica di Roma. Invece di confermare l’iniziativa, in cui veniva presentato un libro diffuso a livello mondiale, l’ANPI nazionale e l’ANPI di Roma hanno immediatamente ceduto alle pressioni ed hanno imposto alla sezione ANPI don Pappagallo di ritirarsi dall’organizzazione dell’evento con la falsa giustificazione di non approvare manifestazioni anti-semite.
 
Sui fatti accaduti abbiamo chiesto un commento a Diego Siracusa, curatore del libro in Italia ed abbiamo anche cercato di ottenere una più precisa giustificazione dal rappresentante della sezione dell’ANPI locale che però è stato evasivo come documentato dal video allegato a questo articolo.
 
E’ la seconda volta in pochi giorni che documentiamo fatti simili. La scorsa settimana a Trieste è stato il Comune a ritirasi da una iniziativa sulla situazione in Palestina su pressione dell’Ambasciata di Israele. (guarda qui) Il condizionamento indotto sulla politica italiana da parte di strutture diplomatiche o associative legate allo stato di Israele è ormai pesantissima e costante. Ciò che si vuole colpire è l’informazione indipendente anche e soprattutto quando questa provviene da fonti ebraiche critiche con le politiche di colonizzazione, occupazione e discriminazione attuate dal Governo di Israele. Costringere i palestinesi allo stereotipo dei terroristi fanatici è parte della guerra mediatica che sostiene le violenze ed i crimini militari sul terreno.
 

LA PRECISAZIONE DELLA SEZIONE ANPI DON PAPPAGALLO
 
 

 IL COMUNICATO ANPI NAZIONALE
Carlo Smuraglia: “L’Anpi come sempre è vicina alla comunità ebraica”
Polemiche per la presentazione di un volume (titolo: “Sionismo, il vero nemico degli ebrei”) su iniziativa della sezione Anpi di Roma, “Don Pietro Pappagallo”. Iniziativa che ha suscitato la reazione del presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna: “È sconcertante che l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani, realtà che dovrebbe tutelare e diffondere ben altri valori, si faccia promotrice di un’iniziativa di aperto odio antiebraico e antiisraeliano”.
 
Da qui la precisazione dell’Anpi con una dichiarazione di Carlo Smuraglia, presidente nazionale.
 
“Della presentazione del volume “Sionismo, il vero nemico degli ebrei” promossa dalla Sezione ANPI “Don Pietro Pappagallo” di Roma e prevista per il 7 dicembre non sapevamo nulla, com’è naturale, trattandosi di un’iniziativa del tutto autonoma, senza adeguate cautele, tant’è che è stata già revocata. Abbiamo letto anche il comunicato del Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna, e intendiamo assicurare che l’ANPI Nazionale non ha mai avuto, né potrebbe avere alcuna intenzione di promuovere iniziative antiebraiche e/o antisemite. Siamo favorevoli ad ogni tentativo di avvicinamento e di composizione di posizioni opposte, ma riteniamo che ciò debba sempre essere fatto con la massima cautela e senso di responsabilità. L’ANPI Nazionale ribadisce la sua posizione di sempre, di vicinanza alla Comunità ebraica, di perseguimento della pace, del rispetto, della tolleranza e della convivenza pacifica e contro ogni tipo di discriminazione”.
 
IL COMUNICATO ANPI DI ROMA
Presentazione libro antisionista: l’Anpi di Roma ha cancellato l’iniziativa.
‘Siamo vicini alla comunità ebraica’.
“Appena appresa la notizia della presentazione del libro antisionista, ieri abbiamo immediatamente stabilito di non dare seguito all’iniziativa in accordo con la sezione ANPI don Pappagallo perché non in linea con i valori ed i principi dell’Anpi che rifiutano qualsiasi forma di razzismo ed antisemitismo”, ha dichiarato il presidente dell’Anpi di Roma, Ernesto Nassi.
“Siamo vicini alla comunità ebraica con la quale abbiamo condiviso tante iniziative. Per quanto riguarda le attività dell’Anpi di Roma, ricordiamo che tutte le nostre iniziative sono pubblicate e consultabili nel nostro blog”.
 

Sionismo. Il vero nemico degli Ebrei. Vol. 1: Il falso messia, di Alan Hart, (Zambon, 2015)
Dal libro di Alan Hart
 
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Sia io personalmente che il mio libro «Sionismo: il vero nemico degli ebrei»  siamo considerati una spina nel fianco del regime sionista e anche dei regimi arabi corrotti e repressivi. E c’è una ragione valida: il mio libro mette il dito su una piaga tanto profonda quanto marcia. Il fatto è che non si può raccontare la verità sul sionismo senza raccontare la verità sui regimi arabi.
Come spiegherò tra breve, la verità è che, nonostante la falsa retorica del contrario, i regimi arabi non hanno mai avuto alcuna intenzione di combattere Israele per liberare la Palestina. E ciò aiuta a spiegare perché i regimi arabi sono da sempre complici dei sionisti nel volere sopprimere una verità storica molto scomoda. Stiamo parlando dei GOVERNI arabi, non dei popoli, che invece sono tutti dalla parte dei palestinesi.
[…]
Per la maggioranza degli ebrei oggi nel mondo, il titolo del mio libro — Zionism: the real enemy of the Jews (Sionismo: il vero nemico degli ebrei) — è molto scomodo, troppo scomodo, e alcuni si sentono profondamente offesi e oltraggiati da queste parole; eppure sono convinto che se fossero ancora vivi, oggi, i tanti oppositori ebrei al sionismo di quel periodo pre-olocausto, approverebbero la mia affermazione formulata nel titolo.
[…]
La verità storica è essenziale per dare ai cittadini il potere contrattuale necessario a mettere in moto la macchina democratica in favore della giustizia per i palestinesi e della pace per tutti noi.
Senza questo potere contrattuale basato sulla padronanza della verità storica, non esiste a mio avviso alcuna possibilità di ottenere la giustizia per i palestinesi – né la pace per tutti noi. E il cancro di questo conflitto alla fine ci consumerà, tutti.
 
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Altroché Je suis Paris

 di Andrea Bizzocchi – 07/12/2015
 
Fonte: andreabizzocchi
 
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Al di là delle stucchevoli e francamente vomitevoli retoriche del “Je suis Paris” (di retoriche stucchevoli e vomitevoli avevo già scritto a proposito dei fatti di Charlie Hebdo , retoriche per le quali bisogna essere terribilmente in malafede (il potere e i media che del potere rappresentano il cane da guardia) o terribilmente ingenui (le masse che il potere lo subiscono), vorrei riassumere in breve la sostanza dei fatti parigini, o meglio di ciò che c’è dietro i fatti parigini:
1) L’Isis, ormai lo sanno anche i sassi, è una creazione Usa/Cia o di chi per loro.
2) Se proprio non è una creazione diretta (ma lo è), diciamo pure che che gli Usa/Cia ne hanno “aiutato” la nascita, l’affermazione e l’espansione.
3) Gli Usa/Cia finanziano, sia direttamente che indirettamente l’Isis (e non solo). Gli schemi per farlo sono semplicemente infiniti.
4) Anche ammesso (ma non concesso) che gli Usa/Cia non abbiano nulla a che vedere con la creazione dell’Isis, non si capisce perché questi ultimi non avrebbero il diritto di reagire ai reiterati attacchi portati dall’Occidente e dagli Usa in particolare, a partire dall’Afghanistan in avanti, a quello che genericamente definiamo “mondo musulmano”. O il diritto di fare le guerre ce l’ha solo l’Occidente per esportare le sue gemme splendenti della “democrazia”, della libertà (ha-ha), del libero mercato (una liberissima rapina), ecc. ecc.? Urge capire che a prescindere da tutto il resto quella di “terrorismo” non è altro che una definizione, e poiché nelle guerre mosse dagli Usa e dai suoi alleati l’incidenza di vittime civili è superiore al 90%, ne consegue per pura deduzione logico-matematica, che i primi terroristi al mondo sono proprio gli Usa e i suoi alleati; insomma, il mondo “libero”. Ci sarebbe anche da aggiungere che quando si combatte con avversari che vantano una superiorità militare-tecnologica infinitamente superiore alla propria, allora la lotta, per chi è attaccato, non può che assumere le forme del terrorismo.
Fatta salva questa premessa vorrei andare dietro questi fatti apparenti. Gli Stati Uniti sono un Paese tecnicamente in bancarotta (in realtà tutti i Paesi al mondo lo sono, e questo per il semplice motivo che un denaro che viene emesso e prestato con interessi non può che creare un debito impagabile; difatti non il debito ma, udite udite, gli interessi generati dal debito, sono superiori al Pil dell’economia globale. Come può dunque l’economia reale, cioè quegli umani che con il loro lavoro la mandano avanti, ripagare questo debito? Non può. Del resto i debiti sono uno strumento di controllo ancor prima che di arricchimento. Ne parlo diffusamente nella mia trilogia Pecore da tosare – E io non pago – Euroballe).
All’interno dello scacchiere malato del debito mondiale si muovono con la grazia di un elefante in un negozio di porcellane gli Stati Uniti per mantenere “forte” il dollaro. Per essere più chiari, gli Usa, quando le cose si mettono male per loro, hanno essenzialmente una sola strada: una guerra mondiale. Gli americani, si sa, sono dei veri duri (Rambo docet), e quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. Detto altrimenti, un bel conflitto ad ampio raggio, o meglio ancora una sorta di guerra permanente, è l’unica maniera per gli Usa di mantenere la propria egemonia mondiale.
Gioverà anche dare un’occhiata rapida alla storia e ricordare che gli Usa uscirono dal primo conflitto mondiale da debitori che erano (nei confronti principalmente del Regno Unito) a creditori, e uscirono ancor più rafforzati dal secondo conflitto quando addirittura riuscirono ad imporre il dollaro come moneta di riferimento internazionale. Basta pensare che il petrolio, il bene primario (in realtà un male primario) per sorreggere l’impalcatura del nostro mondo, viene commercializzato sin dal 1970 unicamente in dollari statunitensi. E Saddam e Gheddafi, che accettarono invece euro per il loro petrolio, ne sanno (sapevano) qualcosa.
Questo signoraggio mondiale del dollaro permette agli Usa di importare qualunque bene/merce a basso prezzo (e mantenere il popolo statunitense nel suo benessere/malessere da consumo) e soprattutto gli consente di acquistare in tutto il mondo risorse naturali, aziende, fabbriche, ecc., a basso, bassissimo e a volte addirittura inesistente costo.
E’ anche opportuno tenere a mente che l’unica vera, grande risorsa degli Usa, è l’enorme divario tecnologico-militare che questi vantano nei confronti del resto del mondo, divario che ovviamente non hanno nessuna intenzione di lasciar colmare. Insomma, gli Usa, o meglio le élite finanziarie ebreosioniste che gli stanno dietro e che li manovrano, hanno necessità di un bel conflitto mondiale che possa rilanciare il dollaro e mantenerli in un rapporto di dominanza globale, anche e soprattutto per tenere a bada le altre grandi potenze (Cina ma soprattutto Russia in primis), che ancora non si sono piegate ai loro desiderata. Sono fermamente convinto che in questo preciso momento storico, l’unico vero ostacolo alla realizzazione di questo piano sia la Russia di Putin. L’accerchiamento di Paesi Nato della Russia, la questione Ucraina, i prezzi bassissimi di gas e petrolio (da cui l’economia russa dipende fortemente) dopo i picchi di qualche anno fa, vanno visti molto chiaramente in questa ottica.
Ma questa guerra mondiale serve soprattutto ad un riequilibrio politico-economico il cui obiettivo è la nascita di un governo mondiale unico, di un esercito unico mondiale, di una economia unica mondiale, di una moneta unica mondiale (che sarà il dollaro o più probabilmente qualcosa che lo sostituirà, tanto le monete si possono creare e disfare a piacimento).
Per tornare a noi e concludere. Da queste esigenze le élites dominanti hanno elaborato una strategia politico-militare avviata con la farsa dell’11 Settembre (lo scrivo chiedendo perdono alle vittime ovviamente, così come chiedo perdono alle vittime di Parigi) e proseguita con altri accadimenti fino ad arrivare ai fatti parigini e di cui l’impiego dell’Isis rientra a pieno titolo. Tutto questo sono solo antipasti di ciò che accadrà. Ma per favore, risparmiateci almeno la retorica del Je suis Paris. Qui siamo in guerra, questa guerra non è stata creata dall’Isis (semmai l’Isis è stato creato ai fini di questa guerra), e comunque la sostanza di tutte le guerre è che a rimanerne vittima ed a pagarne il prezzo è sempre la gente comune. In conclusione, “moi, Je ne suis pas Paris”.
 

Dalla Turchia: venti di guerra

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Quello che è successo lo sanno tutti. La Turchia ha abbattuto un aereo russo che, molto probabilmente, non aveva violato il suo spazio aereo. Quello che non si sa, invece, è che da tre anni la Turchia ha – unilateralmente e contro ogni regola del diritto internazionale – stabilito una No-fly-zone larga 8 chilometri a sud della propria frontiera meridionale, cioè all’interno del territorio siriano. Dal giugno 2012, in altri termini, Ankara fa finta che i cieli di un pezzo di Siria le appartengano, e quindi si arroga il diritto di “difendere” il nord della Siria come se fosse il sud della Turchia. Dunque, con ogni probabilità il Su-24 russo è stato abbattuto proprio su questo territorio, ove peraltro sono caduti i rottami dell’aereo; e altrettanto probabilmente – aggiungo – a violare lo spazio aereo di uno Stato sovrano (in questo caso la Siria) sono stati proprio i due caccia-killer di Ankara.
I motivi del comportamento turco – a parte la “normale” arroganza – sono due, ed entrambi inconfessabili. Uno: colpire i guerriglieri kurdi anti-Isis ed evitare ogni loro contatto con le province kurde della Turchia. Due: tutelare la zona attraverso cui si realizza l’interscambio semiclandestino Turchia-Isis (rifornimenti militari, foreign fighters, contrabbando di petrolio, eccetera).
Altra cosa poco nota (che i nostri media si sono ben guardati dal diffondere) è che – anche a voler credere che l’aereo russo fosse sconfinato – il diritto internazionale vieta che il Paese “invaso” possa abbattere il velivolo “invasore”, a meno che questo non sia in procinto di compiere azioni aggressive (bombardamenti, mitragliamenti al suolo, eccetera). E ciò, pur con tutta la protervia del caso, neanche i turchi osano affermarlo.
Terza cosa, infine, più grave e preoccupante per le sue implicazioni, anche questa taciuta al pubblico italiano. Fin dall’inizio del suo intervento in Siria, la Russia comunica dettagliatamente all’aviazione americana i piani di volo dei propri aerei, onde evitare ogni possibile incidente o collisione con i velivoli della “coalizione” a guida statunitense. Il sospetto – che Putin ha esternato senza tanti complimenti – è che gli americani abbiano comunicato i piani di volo russi ai turchi, mettendoli così in condizione di predisporre l’agguato.
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Perché è particolarmente preoccupante questo ultimo fatto? Perché l’azione turca era chiaramente una provocazione: si voleva che la Russia reagisse, magari bombardando qualche obiettivo entro i confini turchi. Dopo di che – ci scommetto – sarebbe scattata la trappola: la Turchia avrebbe invocato l’articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico (quello che considera un attacco a un singolo Stato-membro come un attacco alla NATO nella sua interezza) e la Russia si sarebbe trovata automaticamente in guerra contro mezzo mondo. In altri termini, un invito alla terza guerra mondiale.
La Russia – si sa – non è caduta nella trappola, pur rafforzando la propria presenza in Siria e mettendo all’angolo la Turchia. Ma ciò non toglie che il tentativo di scatenare un conflitto devastante ci sia stato. E sgomenta il fatto che, fra tutti i leader occidentali, il solo Obama abbia trovato il coraggio di dire che «anche la Turchia ha il diritto di difendere le sue frontiere», fingendo d’ignorare tutti i retroscena del caso.
Quasi quasi si potrebbe pensare che la voglia di terza guerra mondiale non appartenga alla sola Turchia. E quasi quasi si potrebbe pensare che nei prossimi giorni possa verificarsi qualche altra provocazione. Magari dalle parti dell’Ucraina.
Fonte: “Social”, 4 dic. 2015 (per gentile concessione dell’Autore)
di Michele Rallo – 07/12/2015
 
Fonte: Il Discrimine