La grande rabbia dei ribelli “Noi, picchiati e insultati”

IL RACCONTO. Il raid nelle parole di chi c’era
Gli agenti: “Abbiamo fatto quello che ci è stato ordinato”

dal nostro inviato NICCOLÒ ZANCAN

VENAUS – La signora Donata Martelli è caduta di schiena nell’erba ghiacciata: “Per pietà, fermatevi”. Era una notte di stelle, limpidissima. Gli agenti avevano un incarico assegnato: “Dovete riprendere il controllo del territorio”. Si sentiva il rumore degli anfibi sull’ultimo tratto di strada asfaltata. Urla e trattative: “Abbiamo le mani alzate, non vedete? Smettetela!”. Piedi nel fango. Rumori di scudi. “I fotografi qui non possono stare”, gridavano i poliziotti. Forse avrebbero preferito che non vedessero certe scene. 

Come quando hanno continuato a prendere a calci la signora che chiedeva aiuto: “Ho 45 anni, vivo a San Didero, sono madre di due figli e ho sempre lavorato. Mi urlavano: “Si rialzi!”. Ma intanto mi colpivano”. Oppure quando un ragazzo di 23 anni di Susa, già fermato e ammanettato perché aveva tolto il casco a un agente, è stato portato via da tre poliziotti. E uno di loro, ancora usava il manganello lungo la strada. 

C’era molta preoccupazione fra gli agenti. Molta stanchezza, forse. Perché a un certo punto è stato colpito anche il signor Silvano Borgis, 65 anni, operaio in pensione, presidente dell’associazione alpini di Bruzolo. È stato manganellato allo bocca dello stomaco, si è accasciato ma è rimasto cosciente. La signora Patrizia Triolo, 39 anni, impiegata della Valsusacar, è stata la prima ad essere travolta. Era lì con la giacca a vento, un po’ goffa per il collare che deve portare dopo un incidente stradale: “Ho cercato di proteggermi con le braccia, ma non ho fatto in tempo”. Piangeva col sangue sulle labbra: “Cosa ho fatto di male?”. 

 

Alessandro Contaldo, il fotografo di Repubblica, stava facendo il suo lavoro: “Istintivamente ho protetto la macchina fotografica al petto. Un poliziotto mi ha tirato cinque manganellate sulla schiena. Io urlavo: “Sono un fotografo”. E lui: “Benissimo, andiamo a controllare i documenti”. Ma mi stava trascinando verso una zona completamente buia. Per fortuna ho incontrato un ispettore che mi ha riconosciuto”. 

Alle 3,40 del mattino la polizia si è ripresa la valle. Senza preavviso: “Abbiamo fatto quello che ci è stato ordinato”. Dopo sette giorni di tregua e trattative fallite, lo ha fatto con un’azione militare durata venti minuti. Seicento agenti contro centocinquanta manifestanti. “In questi casi purtroppo si verificano sempre degli incidenti – diceva il capo della Digos di Torino, Giuseppe Petronzi – è fisiologico. Direi che comunque sono stati contenuti”. 

Alcuni agenti del reparto Mobile di Bologna e Firenze però hanno perso il controllo. Uno di loro brandiva due manganelli e colpiva a casaccio. Altri hanno preso a calci tre manifestanti che dormivano sotto una tenda. Un uomo di quarant’anni cercava di fuggire inciampando nel suo sacco a pelo. E poi, nella confusione, c’era Alessio Meyer, 22 anni, studente universitario di Susa, che barcollava e si teneva la testa fra le mani: “Stavamo indietreggiando a braccia alzate, laggiù vicino alla ruspa della polizia. Mi hanno colpito tre volte, ho visto donne e anziani travolti. Ho visto un agente, in piedi sul caterpillar, che gridava: “Vi schiacciamo tutti!””. 

Alle quattro del mattino sono arrivate le autoambulanze. La gente era ammucchiata in tre punti diversi del pianoro, tenuta sotto controllo da cordoni di polizia e carabinieri. Il parroco di Venaus suonava le campane della chiesa per chiamare tutti a raccolta. E Nilo Durbiano, il sindaco del paese, sempre più solo, sempre più livido, diceva: “Quello che successo è gravissimo. Per la dignità delle persone e per la democrazia”. 

La serata al presidio di Venaus era stata quasi allegra. Panini al formaggio, vino rosso, musiche, fuochi. Una televisione sempre accesa per sentire le ultime notizie. Il bollettino del settimo giorno di resistenza era attaccato sulle pareti della baracca della Pro-Loco: “Tempo sereno, neve che si scioglie, crescita fangosa con rischio di impantanamenti. Munirsi di scarpe pesanti, guanti, sciarpe e giacche impermeabili. Il sunto: affari poco trasparenti, profitti e uso delle forze dell’ordine. Non è giusto quello che stanno cercando di fare”. Lele Rizzo, uno degli autonomi che da sette anni fa parte integrante della protesta contro la Tav, diceva: “Mi auguro che abbiano capito che usare la forza contro questa gente sarebbe un errore gravissimo. Per certi versi, sarebbe un favore enorme al movimento”. 

Il favore è arrivato con i lampeggianti azzurri dei blindati e le torce nei boschi. Nessun arresto fra le frange eversive, però: ieri notte non c’erano. C’era il metalmeccanico Emilio Montaldo, 27 anni, nato e cresciuto a Susa, sdraiato in barella: “Stavo bevendo un bicchiere di vino, mi hanno gettato contro la finestra del presidio”. All’alba, resti di barricate e facce stravolte. Intorno al nuovo cantiere della Tav, una rete di plastica arancione. 

(7 dicembre 2005)

La grande rabbia dei ribelli “Noi, picchiati e insultati”ultima modifica: 2015-12-06T20:03:43+01:00da davi-luciano
Reposta per primo quest’articolo