Dal bail-out al bail-in

di Federico Zamboni – 29/04/2015

Fonte: Il Ribelle

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Poco meno che di sfuggita, come un avvertimento doveroso ma tutto sommato di routine. E con il solito, comodissimo alibi del richiamo alle norme UE: della serie “ormai si è deciso così, lassù, e noi possiamo/dobbiamo soltanto adeguarci”. La comunicazione del governatore della Banca d’Italia, del resto, è arrivata nel corso di un’audizione al Senato e nell’ambito di un discorso più ampio, dal titolo fatalmente ponderoso di “Indagine conoscitiva sul sistema bancario italiano nella prospettiva della vigilanza europea”.

Tra una riflessione e l’altra, ecco spuntare anche l’insidiosissimo promemoria su ciò che cambierà a partire dal primo gennaio 2016 in tema di salvataggi bancari, con l’entrata in vigore del Meccanismo Unico di Risoluzione delle Crisi (Single Resolution Mechanism, SRM). Lo scopo, secondo i proclami dei suoi sostenitori, consisterebbe nel non scaricare più esclusivamente sulle casse pubbliche i costi necessari ad evitare il fallimento degli istituti di credito ormai prossimi al crac, per introdurre invece una nuova disciplina in base alla quale le perdite vengono innanzitutto addebitate agli azionisti e alla clientela. Detto in sintesi, e utilizzando la neolingua della finanza internazionale di matrice angloamericana, si passerà dal vecchio bail-out al novello bail-in.

La formula è suggestiva, ma è fuorviante. Il messaggio che viene lanciato è che dal prossimo anno pagheranno i diretti interessati, anziché la generalità dei contribuenti. La verità, celata nelle pieghe di un intricato dispositivo che è impossibile condensare in poche righe (vedi lo schematico ma ampio riassunto del Sole 24 Ore, nell’aprile 2014), è molto meno limpida. E molto meno etica.

Cominciamo dalla cornice: il limite della responsabilità patrimoniale dei privati è l’otto per cento delle passività complessive della banca, mentre al di là di questo ammontare tornano in scena strumenti di portata, e di finanziamento, più generale. Da un lato il Fondo Unico di Risoluzione (Single Resolution Fund, SRF) che è alimentato dalle banche ma che andrà a regime solo nel 2025, e che a sua volta opera fino a un massimo di un ulteriore cinque per cento; dall’altro, superata invano anche questa soglia e sempre che gli organi comunitari ritengano di intervenire, c’è il famigeratissimo MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità che ci si compiace di definire “salva Stati” e che è a carico delle nazioni aderenti alla UE, con l’Italia al terzo posto tra i sottoscrittori, dopo Germania e Francia, a fronte di un impegno pari a ben 125 miliardi.

E adesso, finalmente, veniamo al quadro specifico: mettere sul medesimo piano gli azionisti e i clienti significa comunque fare un regalo, ingiustificato, agli azionisti stessi, che in quanto proprietari, e soli compartecipi degli eventuali utili, sono gli unici sui quali dovrebbero ricadere le possibili perdite. Certo: per clienti “corresponsabili” si intendono, almeno per ora, i titolari di obbligazioni emesse dalla banca in questione – a cominciare da quelle cosiddette “subordinate” che per il loro maggiore rendimento sono meno garantite rispetto ai crediti ordinari – e di depositi superiori ai centomila euro, ma stride comunque la pretesa di chiamarli a rispondere della cattiva amministrazione altrui, come se il mero fatto di essersi fidati di quel particolare istituto li rendesse complici del disastro anziché parti lese.

Da semplici clienti, in pratica, a pseudo soci. Soci di serie B o C, visto che sopporterebbero soltanto gli oneri. Laddove al contrario, se proprio si dovesse ammettere questa equiparazione coatta, sarebbe giusto che le perdite da essi subite venissero successivamente recuperate, almeno in parte, attraverso l’attribuzione di azioni del ricostituito capitale sociale.

Cosa fa Ignazio Visco, invece? Se la cava auspicando una più puntuale informazione sui rischi connessi a determinati impieghi: «Le banche dovranno, inoltre, adottare un approccio nei confronti della clientela coerente con il cambiamento fondamentale apportato dalle nuove regole, che non consentono d’ora in poi il salvataggio di una banca senza un sacrificio significativo da parte dei suoi creditori. La clientela, specie quella meno in grado di selezionare correttamente i rischi, va resa pienamente consapevole del fatto che potrebbe dover contribuire al risanamento di una banca anche nel caso in cui investa in strumenti finanziari diversi dalle azioni, il che fa venir meno la certezza del mantenimento del valore del capitale investito fino ad ora radicata nella consapevolezza dell’investitore».

Traduzione: un bell’avviso a mo’ di liberatoria, che chissà quanti comprenderanno fino in fondo, e avanti come al solito. Con l’ulteriore e non trascurabile aggravante, visto che le nuove norme si applicano anche ai rapporti costituiti in passato, di rendere inutili gli avvertimenti futuri per chi si ritrovi già impelagato in contratti, vedi le succitate obbligazioni, da cui non ha modo di uscire.

Il succo, tanto per cambiare, è che bisogna rastrellare risorse tra i cittadini comuni, in maniera tale da attenuare il più possibile l’aggravio sui grandi azionisti. E il nodo puntualmente ignorato è che il problema non è salvare le banche che non sanno badare a sé stesse, ma salvare le nazioni, e i rispettivi popoli, dai banchieri che lo sanno benissimo, come badare a sé stessi.

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Dal bail-out al bail-inultima modifica: 2015-05-06T21:58:04+02:00da davi-luciano
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