GLI UOMINI DI POLETTI? TUTTI DENTRO O INDAGATI! ECCO LA MAPPA, DA NORD A SUD DELLA VERA “PIOVRA” LEGALIZZATA DELL COOPERATIVE ROSSE

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MAZZETTA ROSSA LA TRIONFERA’ – DAL MOSE A “MAFIA CAPITALE” FINO AL CASO ISCHIA, SI MOLTIPLICANO LE INCHIESTE SULLE COOP LEGATE AL PD – NELLA VICENDA EXPO RICICCIA GREGANTI, EX TESORIERE DEL PCI-PDS

Non c’è solo lo scandalo di Ischia e Mafia Capitale: le cooperative rosse sono state al centro di diverse indagini anche in Veneto, Toscana e Emilia – A Molfetta, grazie all’intervento del Pd che ha negato l’uso delle intercettazioni relative al senatore alfaniano Azzollini, è stata forse disinnescata una bomba giudiziaria…

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Francesco De Dominicis per “Libero Quotidiano”

 Non è stato lo scandalo di Ischia venuto a galla ieri il «battesimo» delle coop rosse con le tangenti. E la «prima volta» non è stata nemmeno l’inchiesta dello scorso novembre ribattezzata «Mafia Capitale». Il fenomeno delle cooperative legate al Partito democratico è di dimensioni assai rilevanti, spesso finito sotto la lente delle procure della Repubblica, quasi sempre per affari e agganci con la politica

Le mutue agganciate a Legacoop, una sorta di holding del settore, sono 15mila e il fatturato è vicino agli 80 miliardi di euro. Per difendersi, i vertici del Pd hanno sempre usato l’espressione «casi isolati». Tuttavia, a compulsare gli archivi s scopre che la casualità di certi «fili rossi» pare invocata a sproposito. E il 2014 è stato l’anno in cui sono deflagrate due bombe giudiziarie che hanno colpito l’asse coop-Pd. A maggio dello scorso anno, tanto per cominciare, l’inchiesta su Expo 2015 dei pm di Milano ha riportato alla ribalta il nome di Primo Greganti.

 L’ex tesoriere del Pci-Pds era considerato il referente delle coop rosse ed era stato arrestato (poi a novembre il patteggiamento per tre anni) nell’ambito del terremoto giudiziario che aveva visto finire in manette Luigi Calogero Addisi, ex consigliere comunale democrat a Rho, cittadina che ospita appunto i cantieri Expo. Da Milano a Roma. Con l’inchiesta «Mafia Capitale», che dallo scorso 2 dicembre ha scosso la prima città d’Italia spezzando definitivamente il quadro idilliaco che tutti conoscevano (più o meno superficilamente).

Vale a dire che il sistema cooperativo si è di fatto snaturato, facendo diventare le imprese di mutuo soccorso delle vere e proprie società d’affari, talora al confine (o oltre) della legalità. Un mondo che vale il 12 per cento del pil italiano, sempre più potente, dal quale per evidenti ragioni (quattrini) il Pd non si è potuto slegare. Anzi. Semmai sono in via di aumento le sliding door e non a caso Giuliano Poletti, ex presidente della Legacoop, è passato nelle file del governo, nominato dal premier Matteo Renzi ministro del Lavoro.

Motivo per cui l’inquilino di palazzo Chigi è stato costretto a difendere a spada tratta il ministro quando furono pubblicate la foto di una cena a cui partecipò il fondatore della Coop 29 giugno, impresa fornitrice del comune di Roma, fondata dal presunto dominus della prospettata cupola romana, Salvatore Buzzi. Ma un ruolo da protagoniste le coop lo hanno giocato anche negli appalti a Venezia per il Mose. Lì si parlò di un giro di mazzette e lavori per oltre 36 milioni di euro.

Le cooperative avevano imparato la regoletta: per lavorare si doveva pagare. I riflettori furono puntati, tra altro, su Franco Morbiolo, ex presidente del Coveco, il consorzio della Lega delle Cooperative del Veneto, che stando all’accusa sarebbe stata la centrale delle mazzette rosse, da complessivi 890mila euro. Soldi dalle coop agli esponenti o eletti del partito, insomma.

Ma aiuti anche in senso contrario, come a Molfetta dove grazie all’intervento del Pd – che ha negato l’uso delle intercettazioni relativa al senatore alfaniano Antonio Azzollini – è stata forse disinnescata una bomba. La faccenda vedeva il coinvolgimento della storica Cooperativa muratori e cementisti di Ravenna che al porto pugliese aveva ottenuto la bellezza di 7,8 milioni di euro di risarcimento per il ritardo nel dare il via ai lavori. L’ampliamento del porto arrivò a costare 150 milioni e l’appalto era finito sotto indagine con l’ipotesi di truffa ai danni dello Stato.

 In provincia di Ferrara, tanto per restare nello stesso territorio, la Cooperativa costruttori era naufragata in un mare di debiti ed era finita sotto inchiesta con l’accusa di fare affari con il clan dei Casalesi. La procura di Firenze si era occupata di una faccenda legata alla Tav e alla Coopsette, dossier che vedeva indagate 36 persone, compreso l’ex presidente Pd della regione Umbria

9 dicembre, arrivano le condanne: 1 anno e 2 mesi per gli scontri in piazza Castello

Venerdì 10 Aprile 2015 18:58

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Questa mattina presso il Tribunale di Torino si è concluso il processo di primo grado per gli imputati che nel dicembre 2013 presero parte alle mobilitazioni promosse dal “Coordinamento 9 dicembre” e per una settimana bloccarono la città di Torino e i comuni limitrofi. Gli imputati – tra i quali figura Tommaso, un compagno del Collettivo Universitario Autonomo di Torino – erano stati arrestati lo scorso 13 maggio con misure cautelari che andavano dagli arresti domiciliari all’obbligo di firma.

Il carattere intimidatorio dell’operazione è da subito risultato palese: ad essere colpiti, infatti, furono per lo più giovani e studenti delle più diverse estrazioni sociali, utilizzati come un comodo capro espiatorio da una classe politica che, di fronte alla rabbia e alla conflittualità delle giornate di dicembre, espresse viva preoccupazione per una protesta che eludeva i caratteri tipici di altre mobilitazioni e per questo risultava più difficilmente controllabile. Proprio a Torino, dunque, dove il cosiddetto movimento dei “forconi” ha avuto delle peculiarità rispetto al resto d’Italia, la magistratura ha deciso di utilizzare mezzi di repressione più “incisivi” e decisamente rapidi.

Dei cinque imputati condannati questa mattina, quattro erano accusati di reati relativi all’ordine pubblico per la giornata del 9 dicembre, quando migliaia di torinesi si riversarono per le strade del centro e portarono un vero e proprio assedio al Palazzo della Regione Piemonte, dove la polizia non esitò a reprimere la protesta (alla faccia della solidarietà con i “cittadini”!) con cariche ripetute e un utilizzo sproporzionato di gas lacrimogeni. L’accusa è stata sostenuta dal pm Antonio Rinaudo – già noto alle cronache, in compagnia del collega Padalino, per l’ostilità nei confronti della lotta No Tav – che ha ripetutamente sottolineato come più che i fatti specifici contestati contassero soprattutto le frequentazioni e gli eventuali precedenti penali degli imputati.

Piccole condanne per possesso di stupefacenti o l’appartenenza a una tifoseria organizzata sono quindi state la leva con cui il “pm con l’elmetto” ha tentato di convincere il giudice di una comune matrice “criminosa” che avrebbe spinto gli imputati a fomentare gli scontri del 9 dicembre. Nel caso di Tommaso, poi, l’appartenenza al csoa Askatasuna e la sua partecipazione a manifestazioni contro la linea Torino-Lione in Valsusa sono diventati elementi cardine nell’arringa del pm, quasi che la caratterizzazione dell’imputato in quanto No Tav lo rendesse più facilmente incline a comportamenti violenti.

La richiesta di condanna a due anni di reclusione è stata poi ridotta dal giudice Paola Boemio a pene che vanno dai quattordici mesi per coloro che erano coinvolti negli scontri del 9 ai sei mesi per episodi relativi ad altre giornate. Una condanna comunque elevata che punta a due scopi precisi: intimidire e punire duramente quella parte di popolazione che il 9 dicembre 2013 ha espresso una rabbia genuinamente conflittuale – seppur non scevra da criticità – mettendo in pratica una mobilitazione radicale e diffusa sul territorio. Una rabbia che ha duramente messo alla prova la stabilità politica e gestionale di una città, dimostrando come, ancora oggi, una risposta dal basso sia capace di fare tremare gli scranni di chi ci comanda.

Qui alcune riflessioni scritte da Tommaso durante i domiciliari.