Val Susa. Tesori dissepolti, inscatolati, insabbiati

Il tormentato e folle rapporto tra archeologia e Grandi Opere

di Barbara Debernardi

La Valle di Susa, l’archeologia e le “grandi opere” sembrano avere un rapporto tanto antico quanto tormentato: già nel 1871, durante i lavori per la realizzazione della linea ferroviaria del Frejus nel tratto tra Salbertrand e Oulx furono portati accidentalmente alla luce alcuni sepolcreti protostorici. In quell’occasione il geologo Bartolomeo Gastaldi poté salvare solo pochi reperti da alcune tombe galliche di un’ampia necropoli di cui oggi più nulla possiamo sapere. Il ritrovamento infatti venne distrutto per far posto ai binari.

“Leggerezza” di tempi passati? Niente affatto.

Abbiamo già avuto modo di raccontare  la vicenda dell’insabbiato sito di Cesana Pariol, scomparso per far posto ai parcheggi dell’impianto olimpico di bob e abbiamo dovuto prendere atto, grazie ad una interrogazione presentata in merito al consiglio Regionale da Francesca Frediani, consigliera del M5S, che né la Regione Piemonte, né la Sovrintendenza archeologica competente hanno a oggi intenzione di valorizzare l’area, seppur consapevoli dell’importanza del sito. Ma il caso di Cesana non è certamente isolato, né il più eclatante.

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La vicenda del sito della Maddalena di Chiomonte, ormai tristemente nota ai più, racconta un altro esempio di pessima gestione del patrimonio culturale del territorio. Nel 1984, mentre si stava realizzando l’autostrada del Frejus, furono portati alla luce un insediamento neolitico e una necropoli coeva, risalenti a 6000 anni fa e considerati ancora oggi uno dei siti archeologici preistorici più ricchi e interessanti di tutto l’arco alpino occidentale. Tuttavia, in seguito all’apertura del cantiere-fortino del sondaggio geognostico del Tav, di quel complesso, originariamente trasformato in museo a cielo aperto e ulteriormente arricchito di un vero e proprio museo in muratura, in cui erano conservati i numerosissimi reperti e le sepolture rinvenute nell’area, non resta nulla, se non il sito internet. Là dove, in apertura, con beffarda precisione, si segnala che “il museo e il sito archeologico sono momentaneamente chiusi. Ci scusiamo per il disagio”.

Potrebbero bastare questi due esempi per denunciare una stoltezza e una miopia tutte italiane, capaci prima di investire in scavi e poi di abbandonare, quando non danneggiare, il patrimonio culturale portato alla luce. Patrimonio che potrebbe invece a tutti gli effetti diventare con minimo sforzo, ma indispensabile e oculata pianificazione, una attrattiva turistica e una risorsa economica per l’intero territorio. Ma val la pena di raccontare un terzo caso, meno noto dei precedenti, per quanto non meno sconcertante.

Nel 1990, mentre si costruiva l’autostrada del Frejus, in località La Perosa (poco oltre Sant’Antonio di Ranverso, in direzione Rivoli) vennero rinvenuti oltre 100 metri di un tracciato di strada basolata, realizzato secondo la tecnica romana, a “rudus”, attribuibile alla metà del I secolo d.C. Detto in termini semplici: l’unico tratto ancora esistente della “strada delle Gallie”.

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Lì attorno emersero anche un insediamento rustico caratterizzato da una serie di piccoli edifici risalenti ad un’epoca compresa tra il I secolo a.C. e la seconda metà del I secolo d.C. E, a poca distanza dall’abitato, una ricca sepoltura ad incinerazione, deposta all’interno di una piccola camera funeraria. Ulteriori indagini permisero inoltre di individuare una variante più tardiva,  del II e III secolo d.C., della via pubblica per le Alpi Cozie e ancora una successiva realizzazione, intorno al VII secolo, di un’area cimiteriale, composta di ben 36 sepolture, alcune piuttosto ricche, probabilmente appartenenti a una piccola comunità, probabilmente di origine longobarda.

L’importanza del rinvenimento fu tale che per impedirne la distruzione, venne ideata una variante all’originario tracciato autostradale, che in effetti oggi in quel tratto passa in galleria, proprio al di sotto della antica via romana.

Inutile dire che altrove il sito sarebbe diventato oggetto di ulteriori investimenti, sarebbe stato messo in rete con il vicino complesso romano di villa rustica rinvenuta più o meno nello stesso periodo in località Verné di Rosta e sarebbe oggi una meta turistica inserita in un più ampio pacchetto dedicato alla Valle di Susa romana e comprendente la villa romana di Caselette, quella -splendida- di Almese e ovviamente tutta l’antica Segusio.

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Invece no. Coerentemente, così come è accaduto con  La Maddalena e con Pariol, anche La Perosa è stata prima scavata, poi inscatolata e infine insabbiata, nonostante quanto auspicasse, più di 20 anni fa, l’archeologa Brecciaroli che all’epoca così scriveva: “ci si augura di poter al più presto completare l’indagine in vista della sistemazione dell’area nell’ambito di un progetto più vasto di valorizzazione delle aree archeologiche individuate lungo il tracciato della Superstrada del Frejus. Risulta infatti evidente come il sito fornisca elementi di notevole interesse nel quadro più vasto dei fenomeni territoriali connessi al collasso delle strutture dello Stato romano alla fine dell’Impero.”

Oggi pare che il collasso in realtà sia altrove. Cercando sul sito della Soprintendenza archeologica del Piemonte, alla voce La Perosa infatti desolatamente leggiamo:

Luogo di custodia dei materiali: Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte e del Museo Antichità Egizie. Informazioni: Il sito è stato ricoperto.”

B.D. 12.1.2015

Nell’ultima foto: I “ripari” della necropoli della Maddalena di Chiomonte

Val Susa. Tesori dissepolti, inscatolati, insabbiatiultima modifica: 2015-01-13T21:01:31+01:00da davi-luciano
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