Lupi lunedì in visita al cantiere, lo aspetteremo!

Lupi lunedì in visita al cantiere, lo aspetteremo!

Lunedì il ministro Lupi, probabilmente per rafforzare le sue becere posizioni espresse su twitter e in qualche intervista, verrà al cantiere in visita. Ora che il teorema Caselli è crollato sembra che andare in pellegrinaggio in Clarea sia rimasta l’ultima possibilità. Chissà che non si unisca anche Barosio!

Le agenzie di stampa dicono anche che “Dopo la visita il ministro pranzerà con i tecnici e gli operai nella mensa del cantiere, al termine un brindisi natalizio”.

Quale migliore occasione per i notav per essere presenti in Clarea dalle ore 10.30 per fargli gli auguri e portargli un bel panettone?

Scarponi, bandiere e fischietti pronti!

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L’ultimo baluardo dei No Terzo Valico: “Lo difenderemo con le unghie e con i denti”

http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/12/19/news/l-ultimo-baluardo-dei-no-terzo-valico-sara-difeso-con-le-unghie-e-con-i-denti-1.191870?ref=HEF_RULLO

Sono i No Tav dell’Appennino ligure. Lottano contro la nuova ferrovia tra Genova e la pianura padana, che con un tunnel di 27 chilometri collegherà (per la terza volta) Liguria e Basso Piemonte. Un autunno di frane ed esondazioni ha riacceso la protesta, proprio ora che gli espropri sono quasi terminati. Ma manca ancora il campo dell’alessandrino dove partirà il traforo

DI MASSIMILIANO SALVO

I cantieri del Terzo Valico si riconoscono subito, perché sono incorniciati da reti di plastica arancione che sbucano tra le case. A volte circondano gli orti e si arrampicano sulla collina, come in via Rocca dei Corvi: il nome è da borgo medievale ma siamo nella periferia industriale di Genova, a Fegino, in un quartiere di palazzi radi, graffiti e capannoni dismessi. Dove i torrenti sono esondati lo scorso mese e la ferrovia che arriva dalle riviere incontra i binari diretti verso nord, a Torino e Milano.

In questo nodo ferroviario partirà il Terzo Valico dei Giovi, una nuova linea che collegherà – per la terza volta – Liguria e Piemonte: dopo un tunnel di 27 chilometri i treni sbucheranno ad Arquata Scrivia, al di là degli Appennini, per proseguire sino a Tortona. In Val Polcevera, a Genova, le reti arancioni spuntano un po’ ovunque. Accanto alla scuola elementare Villa Sanguineti, intorno al vecchio deposito ferroviario di Trasta o dietro al cimitero di Bolzaneto. E lungo i binari della ferrovia: è qui che durante l’alluvione del 10 ottobre una frana ha fatto deragliare un Freccia Bianca diretto a Torino. La procura di Genova indaga e per ora non ci sono certezze sull’accaduto, ma i No Terzo Valico della zona non hanno dubbi.

«La frana è stata causata dal cantiere sopra i binari – denuncia Davide Ghiglione, militante del Comitato della Val Polcevera – Lì prima c’erano gli alberi, ora è tutto disboscato. Con i lavori è cominciata la rovina del territorio, e saremo noi abitanti della valle a pagarne le conseguenze».

IL TERZO VALICO, UNA STORIA LUNGA VENT’ANNI
Del Terzo Valico si parla dall’inizio degli anni Novanta. E’ una linea ferroviaria AV/AC (alta velocità e alta capacità, per passeggeri e merci) che dal 2020 potenzierà i collegamenti del porto di Genova con Torino e Milano. L’opera si inserirà nel Corridoio Reno – Alpi della TEN-T core network, la rete di trasporto tra le regioni europee più popolate e industrializzate. Protagonista del Terzo Valico è il Gruppo Ferrovie dello Stato, attraverso Rfi e la società di ingegneria Italferr; il General Contractor incaricato di progettare e costruire l’opera è il Consorzio Cociv, composto per il 64% dalla società di costruzioni Salini-Impregilo.

Il Terzo Valico è sembrato un sogno di fantascienza sino al 2010, quando il Cipe – che nel 2001 lo aveva definito un’infrastruttura strategica di interesse nazionale – ne ha autorizzato la realizzazione: 53 chilometri di tratta, di cui 37 in galleria, nelle province di Genova e Alessandria. Il costo? Sei miliardi e duecento milioni euro: più del Mose di Venezia.

L’11 novembre 2011, il giorno prima delle dimissioni di Berlusconi da presidente del consiglio, Rfi e Cociv firmano il contratto per i lavori e i cantieri possono partire. I comitati già contrari all’opera si ricompattano battezzandosi “movimento No Tav/Terzo Valico”, in segno di vicinanza alle proteste della Val di Susa. Sono composti da circa 200 abitanti delle valli in cui passerà la linea e comprendono ambientalisti, militanti di Rifondazione comunista, del Movimento 5 stelle e dei centri sociali. Da quel momento organizzano manifestazioni e presidi per sensibilizzare e contrastare gli espropri, radunando anche più duemila persone. E dopo un autunno di frane ed esondazioni, ribadiscono con ancora più forza la contrarietà alla nuova ferrovia.

COLLEGHERA’ LA LIGURIA ALL’EUROPA

La costruzione del Terzo Valico è una battaglia senza punti di incontro tra i favorevoli (nel mondo della politica e dell’economia ligure, praticamente tutti) e i contrari. Per i primi è un’infrastruttura irrinunciabile, per i secondi una follia inutile e dannosa. «Collegherà la Liguria all’Europa», ripetono il Governatore della Liguria Claudio Burlando e l’assessore regionale alle infrastrutture Raffaella Paita, entrambi del Pd. «E’ un’opera fondamentale per il porto di Genova», spiega il presidente dell’Autorità Portuale, Luigi Merlo. «Il mercato sta concentrando il traffico in pochi porti e Genova deve essere pronta. Quest’anno farà il suo record con circa 2 milioni 150 mila teu e un aumento del 9 per cento rispetto al 2013. Grazie agli investimenti fatti tra due anni sarà in grado di accogliere 4 milioni di teu». 

Secondo i sostenitori dell’opera, il Terzo Valico aiuterà infatti il porto di Genova a diventare un hub di accesso al corridoio Genova-Rotterdam: le merci in arrivo dall’Asia preferiranno Genova al Mare del Nord perché i tempi di viaggio si accorceranno. Le attuali due linee che partono da Genova non sono sufficienti: l’ottocentesca “linea dei Giovi” è troppo tortuosa e ha una pendenza del 35 per mille, mentre la “Succursale dei Giovi”, di inizio ‘900, ha una pendenza del 17 per mille ed è utilizzata anche dai treni passeggeri a lunga percorrenza. Il Terzo Valico avrà una pendenza del 12,5 per mille, ridurrà il traffico su gomma e porterà lavoro: a pieno regime i cantieri occuperanno più 4.100 persone.

LE RAGIONI DEI NO TERZO VALICO

Tutti i vantaggi dell’opera sono però contestati dai No Terzo Valico, che sul sito “NoTavTerzovalico.info” lo attaccano dal punto di vista economico, ambientale ed etico, criticandone l’utilità, l’enormità del costo (che a livello consuntivo potrebbe aumentare ancora) e il rischio di scavare in montagne dove c’è il pericolo di trovare amianto. Il movimento è inoltre allarmato da un’infrastruttura costruita per lotti non funzionali – quindi inutilizzabile finché non sarà finita – con cantieri che rischiano di durare molto più del previsto perché i finanziamenti non sono garantiti sino alla conclusione dei lavori.

Le loro proteste non sono state sempre pacifiche: i manifestanti hanno preso più di 200 denunce per interruzione di pubblico servizio, resistenza, danneggiamenti e occupazione di terreni. «Non è una semplice battaglia contro un treno – precisa Claudio Sanita di Arquata Scrivia, tra i leader del movimento, sottoposto a misure giudiziarie con il divieto di stare in tutti i comuni attraversati dal Terzo Valico – Siamo contro un modello di sviluppo imposto dall’alto senza adeguate motivazioni. Abbiamo bisogno di cura del territorio e trasporti pubblici locali, non di un’opera che costerà 117 milioni di euro al chilometro».

L’ANALISI COSTI-BENEFICI

La battaglia dei No Terzo Valico è sostenuta da autorevoli voci del mondo scientifico e accademico. Il professor Marco Ponti, docente di economia dei traporti al Politecnico di Milano – a lungo consulente per Banca Mondiale, Ministero dei trasporti e Ferrovie dello Stato – ha realizzato uno studio sul Terzo Valico, pubblicato ad aprile 2014 sul sito LaVoce.info. «Pur con ipotesi molto ottimistiche su costi e traffici, i risultati sono stati negativi. Ma non sono stati smentiti da alcuna analisi ufficiale, né economica né finanziaria – spiega – Non è chiaro quanto sarà a carico dei contribuenti e quanto degli utenti. E questo fa pensare che sarà tutta a carico dei contribuenti. Di certo non ci saranno finanziamenti europei, trattandosi di una linea nazionale. Chi vuole il Terzo Valico si basa su ragionamenti metafisici e ripete che serve “per il progresso” o “per rilanciare il porto”. Anche se i container da mandare a nord non ci sono: le previsioni di traffico degli anni ‘90 calcolavano una crescita infinita, ma il mondo è andato in una direzione diversa e il traffico attuale è inferiore del 40 per cento rispetto a quanto prevedevano». 

Il professor Ponti fa notare come i pareri favorevoli provengano da soggetti non neutrali, che avrebbero vantaggi dall’opera, mentre la spesa di soldi pubblici ricadrebbe su tutti. «I sostenitori dimenticano di dire che il primo affidamento dei lavori al consorzio Cociv, senza bando di gara, risale addirittura al 1992 – continua – E che Mauro Moretti, quando era amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, ha dichiarato in pubblico che il Terzo Valico non serve». Chi lavora nelle ferrovie combatte però ogni giorno con linee in salita dove i treni merci faticano anche con due locomotori, mentre la coabitazione con quelli passeggeri causa continui ritardi. «E’ un problema superabile – continua Ponti – le linee sono sottoutilizzate e alle merci la velocità non interessa. Negli Stati Uniti vanno a 35 Km/h e usano la sestupla trazione: lo spostamento delle merci dai camion per un’ora di tempo risparmiato è velleitario».

SERVONO ANCORA 4,4 MILIARDI

Nel frattempo i primi due lotti costruttivi sono partiti con 500 milioni di euro del Governo Berlusconi e 1,1 miliardi del Governo Monti. Si tratta principalmente di espropri, costruzioni di nuove strade e avvio dei cantieri. Altri 200 milioni sono arrivati con il decreto “Sblocca Italia”. Ma secondo il decreto interministeriale che distribuisce i fondi – in attesa della registrazione della Corte dei Conti – i 200 milioni per il terzo lotto dovranno bastare sino al 2018. Quando i lavori dovrebbero essere quasi conclusi, e invece mancherebbero ancora 4,4 miliardi di euro.

I CANTIERI TRA FRANE ED ESONDAZIONI

A Isoverde, appena fuori Genova, le scritte No Tav firmano i cassonetti della spazzatura, le pensiline degli autobus e le lenzuola appese alle finestre. Qui sorgerà un campo base per gli operai e proprio nella montagna dietro al paese, a Cravasco, si scava una delle quattro gallerie di servizio. «Prima di cominciare i lavori dovevano allargare le strade – protesta Lorenzo Torrielli, artigiano della zona e membro del Comitato No Terzo Valico Valverde – Non è accaduto, e ormai passano anche più di cento camion e betoniere al giorno». Dopo il Passo della Bocchetta si arriva in Val Lemme e quindi in Piemonte. A Voltaggio è in costruzione un’altra galleria di servizio, la “Finestra Vallemme”, cominciata già negli anni Novanta e poi chiusa con una travagliata vicenda giudiziaria.

In questa valle di boschi con allevamenti di mucche sui prati i danni delle alluvioni sono stati numerosi. Il torrente Lemme è esondato e gli smottamenti hanno coinvolto anche la strada tra la Val Lemme e la Valle Scrivia, appena allargata per consentire il passaggio dei camion. «Anziché fare dei muraglioni di contenimento hanno usato dei blocchi di cemento – denuncia Mario Bavastro, vicepresidente di Legambiente Vallemme – La strada è franata ovunque e in un tratto si è spezzata. Queste montagne non reggono più, lo ripetiamo da anni».

«L’AMIANTO E’ POCO E NON PERICOLOSO»

La galleria di servizio detta “Finestra della Castagnola”, nel Comune di Fraconalto, è al confine tra Liguria e Piemonte. I cantieri arrivano davanti alle case. «I camion sollevano nuvole di polvere bianca – protesta una famiglia del borgo che vuole restare anonima per paura di ritorsioni – In queste montagne si è sempre detto che è probabile la presenza di amianto. Viviamo con le finestre chiuse, siamo preoccupati per la nostra salute».

Per il Cociv non c’è nulla da temere. Campioni di roccia sono stati analizzati dal Cnr, che ha rivelato una quantità di amianto modesta e non pericolosa.  Si lavora rispettando un apposito “protocollo amianto” prescritto dal Ministero dell’Ambiente, che sorveglia sui lavori insieme alle Regioni Liguria e Piemonte.

IL GEOLOGO: «ROTTO IL PATTO CON LA NATURA»

«L’eventuale presenza di amianto è un problema superabile ma farà aumentare i costi di un’opera già costosissima – avvisa il geologo Mario Tozzi, ricercatore del Cnr – La questione però è un’altra: la Liguria è probabilmente la regione più fragile d’Italia dal punto di vista idrogeologico. Con le ultime alluvioni è chiaro che dopo anni di abbandono del territorio, il patto con la natura si è rotto. Scavare nelle montagne non farà che aumentare il rischio di frane».   «Dovremmo usare i pochi soldi rimasti per la manutenzione di quello che abbiamo e non sta in piedi – precisa il climatologo e meteorologo Luca Mercalli – Anche perché con il cambiamento climatico queste zone rischiano di diventare ancor più vittime di precipitazione estreme».

ARQUATA SCRIVIA, L’ULTIMO BALUARDO

Ne sa qualcosa il Basso Piemonte, vittima di violente alluvioni a ottobre e novembre. La Galleria di Valico sbucherà ad Arquata Scrivia, i treni prenderanno il bivio per Torino a Novi ligure e quello per Milano a Tortona. In queste colline e pianure l’avversione contro la grande opera raggiunge l’apice. La base dei No Terzo Valico è ad Arquata, in uno dei pochi terreni ancora da espropriare proprio accanto al cantiere di Radimero. Qui partirà lo scavo della Galleria. Le bandiere sventolano su un campo con un cartello di legno e una scritta rossa: «Proprietà privata presidiata dal popolo No Tav». Nelle campagne circostanti ci sono stati scontri con le forze dell’ordine ad aprile – quando dopo una marcia con duemila persone alcuni attivisti hanno tagliato le recinzioni e occupato il cantiere – e a fine luglio, dopo un tentativo di esproprio degenerato con lanci di lacrimogeni e manganellate. A settembre un altro tentativo è fallito perché il terreno era occupato da centinaia di attivisti.

«Continueremo a presidiare la nostra base a oltranza – assicura uno dei leader dei No Terzo Valico di Arquata, Claudio Sanita – Da questo scavo usciranno milioni di metri cubi di terra e non sappiamo che polveri respireremo per anni. Per questo anche al prossimo tentativo di esproprio saremo in centinaia. Difenderemo il campo di Radimero a volto scoperto, con le unghie e con i denti. Ci prenderemo le manganellate e respireremo i gas lacrimogeni, ma non importa: dobbiamo difendere il nostro territorio e la nostra salute».

PRIMO: SALVARE LE BANCHE! Il Quantitative easing di Mario Draghi di Leonardo Mazzei

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20 dicembre
Il processo inarrestabile della disunione europea va avanti
 
Quantitative easing (QE): ecco il nuovo pomo della discordia di un’Europa sempre più divisa. La questione è da tempo sul tavolo della Bce, ma adesso il tempo stringe. Il problema è quello se utilizzare, oppure no, il QE per acquistare titoli di Stato. E, se sì, in quale misura. Su tutto ciò i paesi dell’eurozona sono divisi, e così pure il comitato esecutivo della Bce.
 
Il QE è un classico strumento di politica monetaria. L’acquisto di titoli – in generale non importa se pubblici o privati – è il mezzo per ottenere un significativo aumento della massa monetaria. Uno “stampare moneta” che, aumentando la liquidità, è normalmente orientato a far ripartire il credito e gli investimenti. Uno strumento, dunque, di una politica anticiclica utilizzato per contribuire all’uscita dalle recessioni più profonde. Che è quello che hanno fatto, con risultati significativi anche se non sempre univoci, le banche centrali degli Stati Uniti (Fed), del Giappone e della Gran Bretagna.
 
Il caso dell’eurozona è però palesemente diverso. E la diversità risiede nell’assurdità di una moneta unica per 18 stati con 18 diversi debiti, con 18 diversi tassi di interesse e 18 diversirating. Il tutto a rappresentare 18 economie piuttosto disomogenee tra loro. Ovvio che in questa situazione la Bce sia intervenuta di fatto, negli anni scorsi, solo a tamponare provvisoriamente la situazione nei momenti più drammatici della crisi del debito.
 
Ed è chiaro che, nella sostanza, quegli acquisti hanno rappresentato una violazione dei trattati europei che vietano la messa in comune del debito dei singoli stati. Una violazione sulla quale tutti hanno chiuso un occhio per evitare il default dei paesi dell’area mediterranea. Ma oggi questo divieto viene richiamato con decisione dal presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che non più tardi di ieri l’altro lo ha ribadito con forza in una lunga intervista concessa a la Repubblica.
 
Lo scontro è dunque nelle cose, dato che gli interessi tendono sempre più a divergere. Ed è uno scontro ormai interno alla più “sacra” delle istituzioni europee, laddove la “sacralità” fa coppia fissa, come sempre in Europa, con la negazione di ogni principio democratico. Stiamo ovviamente parlando della Bce.
 
Nei giorni scorsi due importanti organi di stampa tedeschi, il settimanale Die Zeit ed il quotidiano Die Welt, hanno riferito, senza essere successivamente smentiti, di una clamorosa spaccatura all’interno del comitato esecutivo della Bce. Ben tre membri su sei – la tedesca Lautenschläger, il lussemburghese Mersch ed il francese Coeuré – si sarebbero rifiutati di sottoscrivere le dichiarazioni di Draghi che sembrerebbero preludere ad una sorta di “QE” all’europea”, sia pure rimandandolo a gennaio.
 
La posizione anti-QE viene ampiamente ripresa e motivata nella già citata intervista di Weidmann, il quale conferma il no tedesco, rinforzandolo con un altro esplicito no alle richieste di flessibilità sui bilanci di Francia ed Italia. In sostanza Weidmann dice che le regole vanno semplicemente rispettate, che ogni deroga concessa servirebbe solo a renderle meno credibili. La classica impuntatura tedesca, si dirà, ma è un fatto che le regole alle quali egli si richiama sono state effettivamente sottoscritte da tutti i paesi dell’eurozona. Con l’Italia di Monti e Napolitano che, per eccesso di zelo, ne ha inserito il punto cardine perfino in Costituzione!
 
Tuttavia, nonostante l’opposizione tedesca, è assai probabile che il QE si faccia. Ma con quali scopi e in quali forme?
 
Chiariamo subito un punto. Con l’eccezione del patetico Scalfari, che continua a credere che il QE venga fatto per uscire dal credit crunch (stretta del credito), aprendo così la strada all’ormai mitica “ripresa”, tutti sanno che il quantitative easing all’europea ha fondamentalmente un altro scopo: quello di salvare le banche italiane dalla bancarotta.
 
In queste settimane, ma in maniera più massiccia nei primi mesi del 2015, le banche dovranno restituire i prestiti del cosiddetto LTRO (Long term refinancing operation), concessi dalla Bce tra il dicembre 2011 e il febbraio 2012. Pur essendo stati definiti di “lungo termine”, questi finanziamenti sono ormai a scadenza. Il problema è che le banche del sud Europa furono chiamate ad utilizzare quei soldi per acquistare i titoli del debito dei rispettivi stati. In quell’operazione le banche guadagnarono, e non poco, visti i bassi tassi di interesse praticati da Francoforte, riempiendo però oltre misura i propri portafogli di titoli destinati a deprezzarsi nel prossimo futuro.
 
Assolutamente emblematico il caso italiano, ma lo stesso fenomeno si è verificato anche negli altri stati investiti dalla crisi del debito. Rispetto a tre anni fa la montagna di Btp posseduta dalle banche del nostro Paese è infatti passata da circa 200 miliardi ad oltre 400. Un raddoppio che mette a rischio la stabilità dei bilanci bancari, data l’insostenibilità delle attuali quotazioni.
 
Da cosa deriva questa insostenibilità? Per capirlo basta aprire gli occhi e mettere a confronto due dati: il primo è il livello straordinariamente basso dei tassi di interesse; il secondo è il deterioramento del livello del debito, al quale corrisponde anche un progressivo declassamento del rating, come quello annunciato nei giorni scorsi da Standard & Poor’s. Semplicemente due cose che non possono stare insieme. Di sicuro non a lungo.
 
Certo, la riduzione dei tassi nominali è dovuta anche alla situazione di sostanziale deflazione in cui ci troviamo. Un fenomeno che, ad oggi, garantisce ancora un discreto interesse reale ai possessori dei Btp. C’è però un problema, e si chiama futuro. I Btp decennali rendono attualmente circa il 2% lordo. Ora, chi scommetterebbe mai su un tasso di inflazione inferiore al 2% tra 3 anni, 5 anni, 10 anni? Ovviamente nessuno. Ma chi ha in portafoglio questi titoli, specie quelli acquistati nell’ultimo periodo, e dunque con tassi più bassi, ha esattamente questo problema.
 
Un problema che può essere risolto solo disfacendosi di questa massa di Btp. Mediobanca, ad esempio, prevede che le banche italiane vorranno e dovranno scendere da 400 a 100 miliardi in un anno. Ma a chi vendere i restanti 300? O meglio, come farlo senza produrre un crollo del loro prezzo, e di conseguenza un’impennata dei tassi di interessi reali? Siccome non pare proprio che ci sia la ressa per comprarli, c’è solo una soluzione: l’acquisto da parte della Bce. E’ l’attesa di questo evento che ha consentito di mantenere i tassi ad un livello così basso ed oggettivamente innaturale.
 
Da questo punto di vista l’intervento della Banca centrale europea è dunque una necessità assoluta. In caso contrario, al primo stormir di foglie, cioè alle prime avvisaglie di nuove tensioni sui mercati finanziari, molte banche rischierebbero il crac. Ovvio che Francoforte lo voglia impedire, anche perché la bancarotta del sistema bancario italiano equivarrebbe alla fine della moneta unica.
 
L’intervento di Draghi appare dunque obbligato, ma davvero la Bce vorrà funzionare come “acquirente di ultima istanza”? Non pensiamo proprio. Molto probabilmente il “QE all’europea” sarà la solita mezza misura: utile a “comprare tempo” (quanto è difficile dirlo), del tutto inutile per affrontare i nodi strutturali generati dal sistema dell’euro.
 
Se così stanno le cose, lo scontro che investe la Bce, che riflette quello tra il blocco tedesco e i paesi dell’area mediterranea, si risolverà in un compromesso che farà del QE di Francoforte la classica coperta corta. Non del tutto inefficace, ma del tutto insufficiente.
 
Perché “coperta corta” è presto detto. L’ipotesi è quella di aumentare il bilancio della Bce di 1.000 miliardi. In realtà niente di trascendentale, visto che in questo modo si tornerebbe ai valori di tre anni fa, nel frattempo erosi dalla restituzione dei crediti del LTRO. In pratica una partita di giro: con una mano Francoforte rientrerebbe in possesso dei soldi serviti alle banche per acquistare titoli, con l’altra acquisterebbe essa stessa, questa volta direttamente, nuovi titoli.
 
Ma quanti di questi 1.000 miliardi verrebbero spesi per acquistare bond dei vari debiti pubblici degli stati dell’eurozona? Secondo le stime più accreditate (vedi, ad esempio, il Sole 24 Ore del 5 dicembre scorso) la cifra più realistica si aggirerebbe sui 500 miliardi. Ma quali stati ne beneficerebbero?
 
Gli europeisti più ingenui, una specie zoologica ancora esistente anche se in tendenziale via d’estinzione, penseranno forse ad acquisti indirizzati esclusivamente, o almeno principalmente, verso i paesi in difficoltà del sud Europa. Eh no, signori cari! L’Europa non funziona così. Non funziona in base ad un criterio solidaristico, che poi sarebbe l’unico in grado di tenere in piedi la baracca. Funziona invece in base al Pil. Il che significa che l’Italia con il suo 17,6% sul totale dell’eurozona avrebbe acquisti per 88 miliardi e la Grecia per meno di 10, mentre la Germania – che di tali acquisti non ha ovviamente alcun bisogno – ne beneficerebbe per 135 miliardi. Viva l’Europa!
 
Ora sarà chiaro perché il QE, sempre che si faccia, avrà in realtà un’efficacia assai limitata. 88 miliardi, che peraltro verrebbero acquistati in un periodo di tempo presumibilmente assai lungo, sono ben poca cosa rispetto all’urgenza a vendere delle banche. Urgenza che diventerebbe ben più stringente qualora i tassi riprendessero a crescere. Una prospettiva assai naturale, indipendentemente dalla probabile esplosione di nuove crisi finanziarie, dato che l’operazione della Bce punta ad alzare il livello dell’inflazione fino alla soglia del 2%.
 
Ma, al di là delle cifre, quel che va rilevata è l’assoluta indisponibilità politica delle istituzioni europee, in questo tutte unite, a prendere in considerazione qualsiasi ipotesi di una pur parzialissima mutualizzazione del debito. Detto per inciso: auguri Tsipras!
 
E’ in questa cornice, in questa gabbia d’acciaio, che si svolge lo scontro interno alla Bce. Uno scontro, tutto politico, nel quale Draghi prova ancora a sostenere una posizione federalista (quella che punta ai mitici e sempre più irraggiungibili Stati Uniti d’Europa). E’ quel che ha fatto qualche giorno tempo fa, durante la sua visita in Finlandia, dove ha detto che: «Il successo dell’unione monetaria dipende dalla consapevolezza che una moneta unica significa unione politica».
 
Questa posizione che, sia chiaro, porterebbe ad un mostro antidemocratico ancor peggiore di quello attuale, ha ovviamente una sua logica, dato che alla lunga non potrà mai reggere una moneta senza stato. Ma è una logica che confligge con la realtà delle cose. Quello in atto non è un percorso verso l’unione politica, bensì un processo di progressiva disunione dell’UE.
 
Non conosciamo il futuro di Draghi, sul quale si vocifera molto, al punto che qualcuno lo immagina al Quirinale. Quel che conosciamo è l’opinione tedesca. Di Weidmann abbiamo detto, mentre dei continui richiami rigoristi della Merkel hanno scritto anche recentemente i giornali. Ora sappiamo anche la posizione della già citata signora Lautenschläger, membro tedesco del comitato esecutivo della Bce, che ha preso platealmente le distanze da Draghi, attaccando l’ipotesi del QE e soprattutto l’acquisto di titoli di stato, dato che tale operazione equivarrebbe ad un «trasferimento fiscale».
 
Vedremo cosa accadrà a gennaio, ma anche se il QE prenderà davvero il via, i paletti di questa operazione sembrano già ben fissati. E se Draghi potrà forse avere una vittoria d’immagine, è assai più probabile che nella sostanza sia Weidmann ad avere successo.
 
Quel che è certo è che lo scontro è in atto. E che il blocco rigorista non intende mollare di un centimetro. Non si tratta della sola Germania. Basti pensare alle minacce di Juncker a Francia ed Italia, ed alla clamorosa interferenza nelle vicende politiche della Grecia.
 
Un ricordo, quello di queste ultime vicende, che dedichiamo a quelli che negano l’esigenza di riappropriarsi della sovranità nazionale. Che sono poi quelli che… «l’Europa è riformabile». A costoro possiamo solo consigliare un’antica ricetta, quella dell’analisi concreta della situazione concreta. Una ricetta per la quale i fatti ci regalano ogni giorno qualche ingrediente in più.

Obama a Cuba: regalo di Natale col “pacco”

Un braccio di ferro lungo 55 anni. Cuba e gli Usa, i nemici storici, riannodano le relazioni. In un discorso memorabile il presidente Barack Obama ha addirittura citato l’eroe cubano José Martì. Si tratta indubbiamente di un evento di portata storica, quantomeno nella sua simbologia: nel passo indietro statunitense, nella ammissione di fatto del fallimento di un embargo criminale che lungi dal piegare il popolo cubano, lo ha trasformato nella memoria viva e tangibile della resistenza nazionale. E la citazione di Marti è il messaggio più forte.

Certo, visto da chi è stata proferita, la frase “somos todos americanos” potrebbe essere tutt’altro che un’apertura. E non per essere ad ogni costo pessimisti, o vedere ovunque la malafede, ma gli americanos del norte sono portatori di una cultura, se così si può chiamare il way of life a stelle e strisce, che nulla ha a che vedere con la storia degli americanos di Cuba, come del resto dei paesi centro e sudamericani. Ancor di più oggi, che alla gran parte dei governi latinoamericani di centro e destra, legati a doppio filo con le ambasciate Usa, si sono sostituiti governi rivoluzionari, di sinistra, antimperialisti. Con capi di Stato socialisti in varie gradazioni di intensità, ma comunque portatori di un nuovo modo di concepire l’America Latina, e cioè come un’entità capace di porsi come un blocco compatto e emergente in un mondo sempre più multipolare.

Lo dimostra il peso progressivamente acquistato dagli strumenti di integrazione regionali come il Mercosur, l’Unasur, l’Alba. O la nascita della Celac, l’unione – ispirata e promossa dal defunto presidente venezuelano Hugo Chávez –  di tutti i paesi del continente esclusi Usa e Canada. Todos americanos, ma alcuni più degli altri, o meglio: americanos in modo diverso.

Perché c’è una evidente differenza tra i “portatori di democrazia” e l’ex cortile di casa. I primi americanos sono gli alfieri della religione del liberalcapitalismo mentre i secondi quella religione la hanno subita a suon di colpi di Stato e desapariciones. Lo sa di certo molto bene il presidente nordamericano, la cui prima elezione venne salutata con entusiasmo dal presidente venezuelano Chávez. Ma il capo della Rivoluzione bolivariana dovette tornare rapidamente sul proprio giudizio: non bastava il colore della pelle a cambiare quel modo di essere “americanos”. Nonostante il premio Nobel la realtà fatta di pratiche tutt’altro che pacifiche, ha finito per appannare la figura del presidente Usa. L’apertura a Cuba potrebbe ora fare di Obama  – almeno mediaticamente – il Babbo Natale del 2014 che ha regalato a L’Avana la fine dell’embargo.

A Washington si sono resi conto che Il mondo sta cambiando, che stanno cedendo gli equilibri che avevano fatto degli Usa la potenza dominante del pianeta.

La prospettiva unipolare viene smentita ogni giorno che passa dai successi economici e politici dei Brics. Il rinnovato peso della Russia fa parlare di una nuova guerra fredda, o comunque di un conflitto a bassa tensione scatenato ai confini di Mosca per indebolirne l’influenza nell’Europa Orientale e nel Vicino Oriente.

Ora, tirare fuori Cuba dall’orbita moscovita – per quanto non siamo più nell’era sovietica – è una mossa di una certa finezza: non si tratta di spostare carri armati, ma di archiviare il mito della Cuba ribelle alleata del comunismo e rompere uno schema quasi “mitologico” che andava avanti oggettivamente da troppo tempo.

Obama ha, in realtà, espletato una formalità i cui effetti saranno, per ora, più mediatici che reali. L’embargo verrà tolto solo nel giro di due anni, e solo se i repubblicani, maggioranza sia alla Camera che al Senato e infarciti di anticastristi di professione, lo renderanno possibile. Obama lo sa bene, come sa che i mancati passi avanti nel miglioramento delle relazioni con Cuba potranno comodamente essere imputati al GOP.

Tutto questo mentre la realtà fotografa rapporti non certo idilliaci col resto dell’America latina. Cuba resta un simbolo, ma oggi il cuore della contrapposizione sta in Venezuela: poche settimane fa Camera e Senato Usa hanno votato a favore dell’imposizione di sanzioni contro «persone responsabili di violazioni dei diritti umani nei confronti di manifestanti di opposizione in Venezuela, con l’obiettivo di rafforzare la società civile in Venezuela e per altri fini». Ai funzionari venezuelani potrebbe essere negato il visto e bloccati beni e conti bancari negli Usa. Starà al presidente Obama, lo stesso dell’enfasi su “somos todos americanos”, decidere se dare il benestare alle misure anti-Caracas o se sospenderle.

E mentre il mondo si volta a guardare le rinnovate relazioni tra Usa e Cuba, l’Opec, l’organizzazione dei paesi produttori di petrolio, nella quale hanno un peso determinate i paesi arabi alleati degli Usa, stabilisce di non limitare la produzione facendo crollare il prezzo dell’oro nero e mettendo in gravissime difficoltà l’economia venezuelana, per la gran parte dipendente dall’esportazione petrolifera.

Anche le relazioni con l’Argentina rappresentano la realtà delle relazioni statunitensi coi Paesi latinos non allineati: da anni un giudice nordamericano cerca di mettere in ginocchio Buenos Aires cercando di costringere il governo di Cristina Kirchner al pagamento di bond a tassi da usura in favore dei cosiddetti “fondi avvoltoio” statunitensi.

I leader, passati e presenti, di questi Paesi e quelli di gran parte dell’America Latina riconoscono oggi a Cuba e alla sua rivoluzione il ruolo di custode della resistenza all’Impero. In 55 anni di embargo questa piccola isola ha provveduto a se stessa tra grandi difficoltà e con una severità imposta dal bisogno di restare saldi nel proposito di non cedere alle minacce come alle lusinghe “democratiche”. Oggi più che mai. Ora che i leader di quella rivoluzione sono inevitabilmente vicini alla fine dei loro giorni e che un eventuale vuoto di potere potrebbe trasformare un mito vivente in un paradiso per turisti “americanos”, quelli del “norte”.

Alessia Lai
http://www.ilribelle.com/la-voce-del-ribelle/2014/12/19/obama-a-cuba-regalo-di-natale-col-pacco.html