Obama silura Hagel

MERCOLEDÌ 26 NOVEMBRE 2014
di Michele Paris

Il licenziamento del Segretario alla Difesa americano, Chuck Hagel, da parte del presidente Obama ha fatto emergere questa settimana la profonda crisi nella quale continua a dibattersi l’amministrazione democratica sul fronte della politica estera e della “sicurezza nazionale”. L’elenco delle ragioni immediate riportate dalla stampa negli Stati Uniti per il più recente rimpasto di governo, ha visto invariabilmente al primo posto la difficoltà dell’ex senatore repubblicano a connettersi con la Casa Bianca e il potente Consiglio per la Sicurezza Nazionale, nonchè una serie di incomprensioni registrate con i membri più importanti dello stesso staff presidenziale.

Dell’amicizia nata al Senato tra Obama e Hagel non si è vista in ogni caso traccia nella conferenza stampa di lunedì sera per annunciare le dimissioni del numero uno del Pentagono. Quest’ultimo è apparso irrigidito e attento a evitare lo sguardo di un presidente che, nonostante il benservito, ha riempito di inutili elogi l’ex collega e amico.

Secondo i resoconti della stampa, la rimozione di Hagel sarebbe stata “concordata” nel corso di dicussioni avvenute nelle ultime due settimane, durante le quali le tensioni all’interno dell’amministrazione, così come le crescenti contraddizioni, sono esplose in tutta la loro portata.

Da tempo, d’altra parte, Hagel veniva descritto come assente o distaccato quando partecipava alle riunioni dei vertici del governo USA, lasciando intendere sia una certa disconnessione con i veri centri decisionali dell’amministrazione Obama sia una carenza in termini di controllo e fiducia tra i suoi presunti sottoposti, cioè i vertici militari.

La mancanza di esperienza diretta nelle questioni del Pentagono potrebbe avere poi acuito l’incapacità o l’impossibilità da parte di Hagel di penetrare la cerchia di consiglieri e assistenti vari della Casa Bianca sulla quale si basa il processo decisionale di Obama.

Questo conflitto era diventato di dominio pubblico qualche settimana fa, quando Hagel in maniera insolita aveva indirizzato una lettera alla Casa Bianca per criticare il Consiglio per la Sicurezza Nazionale, presieduto dalla fedelissima del presidente, Susan Rice, circa la mancanza di una politica coerente sull’Iraq e, soprattutto, sulla Siria e la sorte del suo presidente, Bashar al-Assad.

I punti su cui Hagel e la Casa Bianca hanno avuto opinioni divergenti potrebbero essere molti altri, dal Medio Oriente all’Ucraina all’Estremo Oriente, anche se la segretezza del processo di avvicendamento al Pentagono rende per il momento difficile un’analisi precisa delle ragioni che l’hanno messo in moto.

Hagel, inoltre, sembrava essere sempre più lontano anche dai militari, forse anche per la sua scarsa combattività, rispetto ai due predecessori, Robert Gates e Leon Panetta, attorno alle questioni del budget. Il bilancio del Pentagono, infatti, pur rimanendo oggettivamente enorme, è stato ridotto in maniera relativamente sensibile, così che le risorse a disposizione faticano a tenere il passo del crescente sforzo militare americano nel pianeta.

La sfiducia dei vertici militari e la freddezza della Casa Bianca nei confronti del segretario alla Difesa erano state così simbolizzate nei mesi scorsi dalla presenza accanto a Hagel, in varie conferenze stampa ed eventi pubblici, del capo di Stato Maggiore, generale Martin Dempsey, sempre più nelle grazie della Casa Bianca, al contrario del suo diretto superiore nominale.

Al di là delle speculazioni o delle attitudini personali del segretario alla Difesa uscente, la chiave della brusca interruzione dell’avventura di Chuck Hagel alla guida del Pentagono dopo nemmeno due anni può essere intravista in due decisioni prese da Obama nelle ultime settimane e che implicano un nuovo aumento dell’impegno militare degli Stati Uniti nei teatri di guerra più caldi del pianeta.

La prima è stata resa nota dal New York Times nel fine settimana e riguarda l’espansione, rispetto a quanto annunciato in precedenza, dei compiti da assegnare al contingente militare USA che rimarrà in Afghanistan dopo il 31 dicembre 2014. La seconda, invece, è il raddoppio del numero dei soldati americani inviati in Iraq nell’ambito dello sforzo per combattere lo Stato Islamico (ISIS).

In sostanza, dunque, l’avvicendamento al Pentagono sembra segnare l’inaugurazione, se possibile, di una svolta caratterizzata ancor più dall’impegno bellico da parte statunitense. Un’interpretazione, questa, confermata da vari interventi di analisti e opinionisti apparsi in questi giorni sui media ufficiali negli Stati Uniti, assieme agli elogi per la rimozione di Hagel accompagnati da giudizi velenosi sull’incompetenza del team Obama, incapace di formulare una politica estera coerente per la promozione dell’imperialismo USA.

In questa prospettiva, è impossibile non ricordare quali fossero le posizioni attribuite a Hagel prima di iniziare un difficoltoso processo di conferma al Senato per la carica di segretario alla Difesa al principio del 2013. Pur non essendo esattamente una “colomba” sulle questioni di politica estera, Hagel poteva essere considerato a tutti gli effetti un “moderato”, se non altro per gli standard della politica americana odierna.

Le sue convinzioni possono perciò avere prodotto le divergenze già ricordate e quel senso di estraneità attribuito a Hagel nei confronti di una Casa Bianca il cui baricentro politico si è invece spostato sempre più verso destra, in buona parte sotto la spinta proprio dell’apparato militare e della sicurezza nazionale.

Ciò appare tanto più significativo e allo stesso tempo inquietante alla luce del fatto che lo stesso Hagel, almeno a detta del giudizio comune, era stato imbarcato nell’amministrazione Obama precisamente per il suo punto di vista sulle questioni internazionali. L’ex senatore del Nebraska, infatti, era stato scelto nonostante su di lui continuassero ad addensarsi le accuse, peraltro al limite dell’assurdo, di “pacifismo” e “anti-sionismo”.

La Casa Bianca sembrava avere accettato insomma una dura battaglia per la sua conferma al Senato proprio per avere all’interno del governo una personalità disposta a sostenere i presunti progetti del presidente per porre fine a uno stato di guerra perenne e produrre una politica estera basata sul dialogo e non sulle armi.

La progressiva divergenza dei punti di vista di Hagel e della Casa Bianca fino alla rottura del rapporto tra il numero uno del Pentagono e il presidente è stata alla fine determinata da fattori oggettivi strettamente legati all’evolversi della crisi irreversibile degli Stati Uniti come forza dominante sullo scacchiere internazionale, che hanno appunto prodotto a loro volta una nuova accelerazione delle politiche belliche di Washington, al di là delle intenzioni reali o presunte di Obama.

Come previsto, l’attenzione dei media si sta ora concentrando sul successore di Hagel alla guida della più formidabile macchina da guerra e di morte del pianeta. I nomi già emersi indicano candidati dalle caratteristiche diametralmente opposte a quelle del segretario uscente, sia per quanto riguarda l’esperienza all’interno del Pentagono sia in merito alle posizioni sull’impegno per la promozione degli interessi americani nel mondo.

Il nome più citato finora è quello dell’ex sottosegretaria alla Difesa, Michèle Flournoy, la quale, per la gioia della galassia “liberal” di Washington fissata con le questioni di genere, potrebbe essere la prima donna della storia a guidare il Pentagono.

Se il New York Times l’ha definita di tendenze “centriste” e sostenitrice di un atteggiamento americano “meno aggressivo” all’estero, la Flournoy ha contribuito alla revisione della strategia difensiva (bellica) americana avvenuta nel 2010, la quale prevedeva una maggiore preparazione dei militari per far fronte a minacce “più complesse”, in altre parole appoggiando un ruolo più incisivo delle forze armate USA per regolare i conflitti creati dall’imperialismo a stelle e strisce.

Michèle Flournoy era stata inoltre una convinta sostenitrice del cosiddetto “surge” deciso da Bush nel 2007, ovvero l’aumento delle truppe di occupazione americane in Iraq, mentre nel 2009 si sarebbe battuta per un numero maggiore di rinforzi da inviare in Afghanistan rispetto a quello stabilito da Obama. Per il Guardian, poi, un’eventuale nomina della Flournoy indicherebbe “una revisione dell’approccio USA nella guerra contro l’ISIS, probabilmente caratterizzato dalla riduzione delle restrizioni esistenti” circa i compiti di combattimento dei soldati americani dispiegati in Iraq.

Tra gli altri papabili alla successione di Hagel indicati dai media USA ci sarebbero infine anche l’ex vice-segretario alla Difesa, Ashton Carter, già responsabile dell’approvvigionamento di armi per il Pentagono, il senatore democratico del Rhode Island ed ex ufficiale dell’esercito, Jack Reed, l’attuale vice-segretario alla Difesa, Robert Work, e il segretario della Marina, Ray Mabus.
http://www.altrenotizie.org/esteri/6275-obama-silura-hagel.html

LIVRE ‘SYRIE’: POURQUOI L’OCCIDENT S’EST TROMPE ?

JVZ pour Syria Committees Website / Avec Le Figaro/ 2014 11 25/

http://www.syria-committees.org/

https://www.facebook.com/syria.committees

http://www.scoop.it/t/pcn-spo

SYRIA - LIVRE Syrie fr pichon (2014 11 25)  FR

La thèse de Frédéric PICHON (*) dans son livre SYRIE (Editions du Rocher) c’est que l’Occident s’est trompé en Syrie. Un autre analyste, le géopoliticien Luc MICHEL, lui développe la thèse inverse, à savoir que « Washington a voulu, planifié et organisé la déstabilisation de la Syrie ». Il se base sur divers rapports de la CIA, publiés en 2005, et sur une connaissance exhaustive des rapports entre islamistes et USA depuis 1945. Il affirme, à la lecture des géopoliticiens comme Georges FRIEDMAN, que « la stratégie du Chaos est le plan B des américains en Syrie ».

 PICHON, lui, accorde le bénéfice du doute aux occidentaux. Quelle est sa thèse ?

 Voici comment son éditeur présente le livre : « Au printemps 2011, la Syrie bascule dans une crise politique qui se mue très vite en une atroce guerre civile. En trois ans, ce conflit a fait 150 000 morts, des millions de réfugiés et causé des dégâts irréversibles au patrimoine culturel. Pourquoi ne pas l’écrire ? Sur le dossier syrien, l’Occident s’est trompé. D’erreurs d’appréciation en déclarations intempestives, les grandes puissances, dont la France, ont donné la pénible impression d’une diplomatie de l’improvisation. Les envolées martiales peinent à cacher l’indigence tragique d’une politique parfois menée par des hommes que la complexité du dossier syrien rebute. Aujourd’hui, la Syrie est un sanctuaire pour le Djihad mondial. Comment en est-on arrivé là ? Cet essai répond en tentant d’analyser les simplifications qui ont coûté si cher à tout un peuple »

 La thèse plait à la droite française, qui oublie que c’est Sarkozy qui a été, comme en Libye, l’une des chevilles ouvrières de l’agression occidentale contre la Syrie.

« Une étude visionnaire sur les chimères du printemps arabe et la menace djihadiste » commente le quotidien français : « Analyser les crises internationales sans céder à la dictature de l’émotion, c’est la règle à laquelle s’astreint Frédéric Pichon. Après avoir dressé un tableau complet de la mosaïque des peuples qui résident en Syrie -sunnites, alaouites, chrétiens, Kurdes-, il souligne les chimères du «printemps arabe», les illusions d’un néoconservatisme qui ne dit pas son nom et le refus des Occidentaux de voir combien l’opposition syrienne était gangrenée par le djihadisme. Publié en mai 2014, le livre se clôt par un chapitre intitulé: «De guerre lasse, Assad plutôt que le chaos». Trois mois plus tard, l’Etat islamique d’Irak et du Levant est devenu une réalité, le «Djihadistan», une menace tangible (…) Un opus visionnaire, à méditer pour mieux comprendre l’Orient compliqué. »

 JVZ / SYRIA COMMITTEES WEBSITE

 (*) En savoir plus sur Frédéric Pichon : 

Frédéric Pichon est diplômé d’arabe et docteur en Histoire contemporaine. Ancien élève de l’IEP de Paris, il a vécu à Beyrouth et séjourne régulièrement au Proche-Orient depuis 2002, en particulier en Syrie. Il enseigne la Géopolitique en classes préparatoires. Auteur d’une thèse sur la Syrie, il est chercheur associé à l’Equipe Monde Arabe Méditerranée de l’Université François Rabelais (Tours). Consultant médias pour la crise syrienne et le Moyen-Orient, il intervient régulièrement  sur les sujets en lien avec la géopolitique de la région.

___________________________

http://www.syria-committees.org/

https://www.facebook.com/syria.committees

http://www.scoop.it/t/pcn-spo

SYRIE : LA SITUATION MILITAIRE EN CETTE FIN NOVEMBRE 2014

LM pour Syria Committees Website/

Avec Irib – al-Hadath News – al-Alam – Syria Mubasher – al-Mayadeen TV/ 2014 11 26/

http://www.syria-committees.org/

https://www.facebook.com/syria.committees

http://www.scoop.it/t/pcn-spo

SYRIA - LM situation militaire (2014 11 26) FR

Syrie: voici les dernières évolutions sur les fronys militaires … 

 LA BATAILLE DELA PROVINCE DE QUNEITRA A REPRIS

 L’implication d’Israël pour aider les miliciens armés djihadistes contre l’armée arabe syrienne s’y révèle. Dès le premier jour de la bataille, baptisée « Victoire de Dieu et conquête prochaine », les positions aussi bien civiles que militaires du gouvernement syrien ont fait l’objet d’un pilonnage à l’artillerie dans les deux localités de Khan-Arnabiyyé et de Ba’ath.

Ce bombardement s’est fait simultanément, et s’est poursuivi pendant plusieurs heures sans relâche. Ce qui montre que ses auteurs possèdent les cartes militaires (satellites ?) des zones bombardées ainsi que des capacités de feu importantes. Ce qui en principe n’est pas le cas des djihadistes, et laisse deviner que les Israéliens ont contribué au bombardement, selon le site d’information libanais al-Hadath News.

 Des observateurs sont persuadés aussi que l’entité sioniste a permis aux groupuscules armés de se concentrer dans les régions frontalières au Golan occupé , d’autant que la coopération entre Israël et les milices de l’ASL sur place n’est plus un secret. Il y est question d’une trentaine de milices qui travaillent de concert, dont à leur tête le Front al-Nosra, la branche d’Al-Qaïda en Syrie, Jaïch al-Islam (une milice pro saoudienne dirigée par Zahrane Allouche), Ahrar el-Cham, Ajnad al-Cham, etc…

 Sur le terrain, selon al-Hadath News, la situation ne semble pas à l’avantage de l’armée arabe syrienne, quoiqu’elle soit parvenue à absorber les effets du pilonnage violent.

 Jeudi dernier, la chaîne de télévision iranienne arabophone al-Alam a indiqué que l’armée syrienne a fait avorter une tentative d’infiltration des miliciens dans plusieurs régions de Quneitra et tué de nombreux djihadistes dont le chef des Ajnad al-Cham. Elle a aussi bombardé les régions de déploiements des djihadistes ( Masshara, Brika, Hamidiyyé) et nié toute avancée des djihadistes.

 La bataille de Quneitra se répercute aussi sur la Ghouta occidentale, à l’ouest de Damas. Les djihadistes ont lancé une attaque contre l’autoroute as-Salam qui relie les deux régions et qui constitue une voie d’approvisionnement de l’armée syrienne.

 GHOUTA ORIENTALE: DES DJIHADISTES LIBANAIS Y COMBATTENT 

 Dans la Ghouta orientale, il est question de la mort de deux chefs de milices, dont le chef de la brigade dite « Légion du Rahmane » ainsi que de 9 de ses hommes non loin de la localité de Hazza, dans une attaque de l’armée arabe syrienne. Certains djihadistes sont des Libanais, assure al-Alam. Alors que se poursuit l’opération menée par l’armée dans toutes les régions de la Ghouta: Jober, Douma, Zmelka,  et Zibdine.

 QALAMOUNE: UNE EMBUSCADE

 A Qalamoune, l’armée arabe syrienne et le Hezbollah ont fait  exploser une série d’engins piégés au passage de djihadistes du Front al Nosra, dans le jurd de Ra’s al-Maara à l’ouest et il y est question de plusieurs dizaines de tués et blessés.

 KOBANE: CAPTURE D’UN EMIR DU DA’ESH

 Dans la ville kurde de Aïn al-Arab (Kobané) , les combattants kurdes des Unités de protection du peuple kurde (du PYD) ont capturé un émir de Da’esh connu sous le pseudonyme de Abou et son garde du corps, dans une embuscade au cours de laquelle certains de ses djihadistes ont été tués, selon al-Mayadeen TV ( chaine panarabe)  

 RAQQA: VOITURE PIEGEE ET DESERTIONS

 Dans la ville de Raqqa fief de la milice djihadiste  Da’esh (Etat Islamique), une voiture piégée a explosé devant l’un de ses sièges dans la nuit de jeudi à vendredi. Selon l’agence turque d’Anatolie, l’explosion, dont les flammes ont été vues de loin, visait un bâtiment confisqué à l’université privée al-Ittihad

 Dans la revendication de l’attaque par  les « brigades des libres de Raqqa », il est indiqué que le bâtiment abritait les djihadistes immigrés de Daesh et les membres de leurs familles. Il y est question de plusieurs dizaines de tués et de blessés, dont les deux gardes d’une banque, et de nombreuses voitures incendiées. L’attentat s’inscrit dans le cadre de la riposte à la tentative de liquidation du chef de cette milice Abou Issa et à l’exécution de six de ses membres, selon Anatolie.

 Par ailleurs,  selon l’AFP, plusieurs djihadistes étrangers, qui avaient rejoint les rangs de Da’esh, ont été arrêtés ou exécutés pour avoir tenté de faire défection, ont affirmé vendredi des militants à l’AFP. D’après eux et l’OSDH (l’officine barbouzarde de propagande des Services secrets britanniques MI5 et MI6) , les “déserteurs potentiels” sont généralement des jeunes venus de pays non-arabes, ayant regretté leur engagement dans les rangs du groupe extrémiste qui sème la terreur sur les territoires sous son contrôle en Syrie et en Irak.

  Jeudi, un jihadiste de 19 ans , “vraisemblablement tchétchène”, a été arrêté par l’EI dans un centre téléphonique à Raqa, bastion de l’EI dans le nord syrien, après une communication avec sa famille à l’étranger, selon l’OSDH. “Des jihadistes l’ont battu et ont confisqué ses affaires. Son traducteur a raconté à ses amis qu’il avait parlé avec sa famille des moyens de rentrer au pays”, a indiqué l’OSDH. De son côté, Naël Moustapha, un militant de Raqqa utilisant un pseudonyme, a évoqué un autre cas.”J’ai rencontré un jeune jihadiste allemand de Hambourg de 19 ans qui visiblement regrettait son expérience avec l’EI”, a-t-il déclaré à l’AFP via internet. Les jihadistes “l’ont senti et quand il a décidé de partir (…) ils l’ont envoyé au front”, a-t-il poursuivi. “Le lendemain, j’ai entendu dire qu’il était mort, abattu d’une balle dans le dos”.

  Selon ce militant, qui n’était pas en mesure de donner de chiffres sur le nombre de “déserteurs”, “de nombreux djihadistes, la plupart de l’Europe de l’ouest, ont fui quand les frappes de la coalition contre l’EI ont commencé en septembre”. “Certains ont réussi” à fuir, mais l’EI a rapidement “repris la situation en main”, a précisé le militant, expliquant que l’EI “considère en effet que le serment d’allégeance est sacré et inaliénable”.

 NOBOL/AL ZAHRA: L’AIDE STRATEGIQUE DES KURDES DU PYD A L’ARMEE ARABE SYRIENNE

 Les hélicoptères de l’armée syrienne ont largué ce mardi des parachutages d’armes et de munitions sur les cités chiites de Nobol et Al Zahra, objets d’une violente offensive des terroristes de Da’ech et d’Al Nosra. Des parachutages d’armes et de munitions ont été largués à destination des centaines de chiites de ces deux villes, assiégées depuis près deux ans par les terroristes d’Al Nosra. Ces deux cités se trouvent dans la banlieue d’Alep. Selon la chaine “Syria Mubasher” qui rapporte cette information, les forces volontaires kurdes, quelques 17.000 , bien entraînées et prêtes aux combats, auraient reçu ces armes et munitions.

 Un fait inédit, les kurdes syriens de Hassaka ont allumé de grands feux pour aider les hélicoptères de l’armée nationale syrienne à retrouver leur chemin et larguer dûment leurs parachutages ! En effet l’opération de l’armée nationale s’est effectuée en parfaite coopération avec les kurdes, puisque ce sont les combattants kurdes syriens qui ont réussi à collecter une partie de ces armes avant de les transférer via des points de passage sûrs vers Nobol et Al Zahra.

 Ces deux cités sont situées sur une autoroute donnant accès à la Turquie. La chute de ces deux zones permettraient aux djihadistes de se tailler une nouvelle voie d’approvisionnement d’armes et de terroristes en provenance de la Turquie.

 L’ARMEE ARABE SYRIENNE AUX PORTES DE RAQQA ?

 Au milieu de la vaste campagne médiatique qui s’est focalisé sur le nucléaire iranien,

un événement étonnant en termes militaires est en train de se passer : l’armée arabe syrienne continue de progresser dans la banlieue ouest de Hassaka et elle s’approche de Raqqa, “centre du califat da’echiste”! 

 A Ghouta-est , l’armée a pris le contrôle de Zaydin d’où les terroristes se sont retirés. cette progression s’est évidemment soldée par un lourd de bilan de pertes infligées aux terroristes. A Hassaka, les forces syriennes avancent sur la route Abyaz. les troupes syriennes se sont déployées près du terminal pétrolier Abyaz à Hassaka, terminal qui est lié à la raffinerie de Homs. Cette progression place en effet les forces de l’armée à quelques kilomètres de la plus grande base de Da’ech sur les hauteurs de Abdel Aziz dans la banlieue ouest de Hassaka. Cette zone donne directement accès à Raqqa. L’armée syrienne a également pris pour cible les repaires des terroristes dans le nord de Lattaquié.

 Les combats entre l’armée et Da’ech sont de plus en plus violents, de plus en plus nombreux. Ils se poursuivent dans les villages du sud et de l’est alors que les hélicoptères de l’armée arabe syrienne continuent à frapper les positions de Da’ech dans la banlieue de Al Houl et de Tal Hamis, toutes deux situées près des frontières irakiennes. Les sources britanniques confirment la mort de deux djihadistes britanniques ces derniers jours à Kobani : les deux, à en croire le Daily Telegraph étaient originaires de Londres.

 LM / SYRIA COMMITTEES WEBSITE

___________________________

http://www.syria-committees.org/

https://www.facebook.com/syria.committees

http://www.scoop.it/t/pcn-spo

Chi consiglia prodotti finanziari è pagato da chi li fa

eh già. E non è considerato conflitto di interessi. Quando gli affari riguardano la finanza è solo tutto in deroga. Con il beneplacito della “società civile”

24/11/2014

Chi ha un codice deontologico non può essere pagato da chi fa i prodotti. I consulenti finanziari sì
 
La vicenda dei “regali” ai pediatri che prescrivevano latte in polvere ha giustamente suscitato l’indignazione popolare. Il fatto che ci siano di mezzo i bambini ha fatto da cassa di risonanza, ma il problema sottostante è evidente e la lezione dovrebbe essere studiata anche in altri campi, in primis nella consulenza finanziaria.
Se un paziente si rivolge a un medico per sapere quale sia la terapia migliore per la sua patologia, il paziente non vuole avere il minimo dubbio che il medico possa consigliare un certo farmaco solo perché riceve da quella specifica casa farmaceutica un “kick-back”. Per fugare qualsiasi dubbio, la deontologia professionale proibisce qualunque forma di pagamento, in moneta o in natura, dalla casa farmaceutica al medico.
 
Il medico è il “consulente” del paziente e il suo consiglio non può essere viziato da relazioni economiche con le case farmaceutiche. Il principio è chiarissimo e dovrebbe applicarsi a tutti i professionisti che svolgono attività di consulenza, qualunque sia l’oggetto. Un architetto non dovrebbe farsi pagare dalle ditte che forniscono il cemento per la costruzione del palazzo. L’avvocato non dovrebbe farsi pagare dai periti che sceglie.
 
Ho usato il condizionale perché il principio deontologico è applicato a macchia di leopardo. Nel settore del risparmio e degli intermediari finanziari a cui i risparmiatori si rivolgono per ricevere consulenza, ad esempio, il principio non si applica. In Italia, la quasi totalità dei clienti ha firmato con la propria banca un contratto di consulenza. La banca consiglia prodotti d’investimento al proprio cliente e riceve dai “produttori” che confezionano tali prodotti (sgr, assicurazioni, emittenti) delle somme in denaro, le cosiddette “retrocessioni”.  Le somme pagate dai produttori ai consulenti finanziari sono proporzionali alle quantità vendute, al prezzo di vendita e al tempo di detenzione del prodotto stesso nel portafoglio del cliente. Se il consulente non vende più il prodotto o ne consiglia un altro, niente più retrocessioni.
 
Tutto questo flusso di pagamenti è assolutamente legale e regolamentato da contratti tra i “produttori” e le “banche”. Con il recepimento della Mifid (la direttiva europea sui servizi di investimento) nel 2007-2008 si vietarono alcune tipologie di pagamenti dai produttori e distributori. Ad esempio, si vietò alle società di gestione del risparmio (sgr, se preferite) o alle banche che esercitavano servizi di gestione individuale (le cosiddette gestioni patrimoniali) di percepire retrocessioni sui fondi comuni che venivano acquistati al loro interno.
 
Per il collocamento diretto dei fondi comuni, invece, le retrocessioni dalle sgr alle banche non furono vietate. In questo caso, l’unica regola che la regolamentazione attuale impone è che sia tutto «trasparente». Esiste un documento predisposto dal produttore, il cosiddetto Kiid, che il cliente dovrebbe ricevere dal consulente all’atto della sottoscrizione e dove viene informato dal “produttore” dell’esistenza delle retrocessioni con una frase del tipo: «Le spese sostenute sono utilizzate per coprire i costi di gestione del fondo e i costi legati alla distribuzione e alla commercializzazione dello stesso».
 
La trasparenza formale è salva. Il produttore e la Banca hanno assolto al loro dovere di informare il cliente. Banca d’Italia e Consob hanno la coscienza a posto. Alzi la mano chi tra voi sa cosa sia il Kiid. E soprattutto alzi la mano chi tra voi ha un fondo in portafoglio e sa qual è la commissione di gestione che sta pagando, quanto il proprio consulente sta guadagnando consigliando quel particolare prodotto o un altro che ha sullo scaffale. Non vergognatevi se non conoscete la risposta. Se mi chiedessero di leggere le mie analisi del sangue non saprei spiccicar parola, eppure sono molto più trasparenti di un Kiid: c’è anche l’asterisco di fianco ai valori fuori norma.
 
Non è, d’altro canto, compito del consumatore interpretare il prospetto di un fondo o un esame diagnostico e men che meno essere in grado di confrontare l’efficacia di un medicinale rispetto a un altro. Per questo esiste l’ordine professionale dei medici e dovrebbe esistere l’ordine dei consulenti finanziari. Se un professionista vuole fare il consulente, deve essere disponibile a troncare qualsiasi rapporto economico con i “produttori”. Il conseguente conflitto d’interessi rischierebbe di minare la credibilità dei suoi consigli.
 
Un motivo dietro questo peculiare trattamento della consulenza finanziaria sta nel fatto che si tratta di una professione giovanissima, soprattutto se confrontata con quella del medico o dell’avvocato. Basti pensare che gli operatori finanziari che oggi svolgono veramente un’attività di consulenza si chiamano ancora “promotori” e che la prima direttiva europea che riconosce esplicitamente il ruolo della consulenza finanziaria come un vero e proprio servizio di investimento è di meno di dieci anni fa.
 
Più passa il tempo, però, e meno vale la motivazione dell’inesperienza. In primo luogo, ci sono realtà che stanno sperimentando con successo la vera consulenza e ci sono già private bank che ai loro clienti propongono, con coraggio e senza badare troppo al profitto di breve, le proprie gestioni patrimoniali personalizzate, che sono immuni per legge dal rischio di conflitto d’interessi).   In secondo luogo, la nuova regolamentazione europea, la cosiddetta Mifid 2, chiarisce che la consulenza finanziaria indipendente può essere remunerata solo ed esclusivamente dai clienti. Una forma di consulenza non indipendente potrebbe ancora essere prevista per chi promuove esclusivamente i propri prodotti, cioè per quegli intermediari finanziari che prevedono un modello, integrato verticalmente, di produzione-distribuzione. Un po’ come accade quando si va in un mobilificio e ci si avvale della consulenza dei dipendenti per arredare la propria cucina o il proprio salotto con i prodotti del mobilificio. In questo caso, il cliente è assolutamente consapevole che il consiglio si concretizzerà nella proposta di vendita dei propri mobili.
 
Purtroppo, però, siamo in Italia e quello che dobbiamo scongiurare è che il recepimento della Mifid 2 avvenga “all’italiana”, magari con lo stesso consulente che nello stesso posto di lavoro  -la banca – possa mettersi una volta la giacchetta del consulente indipendente e un’altra volta quella del consulente che non lo è.
 
Un appello quindi a Banca d’Italia e Consob: non inventiamoci la distinzione tra consulenza indipendente e consulenza non-indipendente. Per il cliente la distinzione non ha senso. Se un professionista fa il consulente finanziario o una banca vuole svolgere il servizio di consulenza finanziaria, il cliente deve avere la certezza strutturale di ricevere un consiglio scevro da qualsiasi conflitto d’interesse. Questo si ottiene azzerando tutti i rapporti economici tra produttori e consulenti. Ovviamente, se una banca decide di offrire solo un servizio di collocamento ai propri clienti, potrà ricevere dal produttore una parte delle commissioni di collocamento esplicitamente previste dal prospetto e pagate direttamente dal cliente (come accade con le emissioni obbligazionarie) ma mai e poi mai potrà ricevere nel continuo una commissione legata al mantenimento del cliente.
 
In Europa c’è già un esempio ed è l’Inghilterra. La Fsa, l’autorità di regolamentazione, ha deciso che per la consulenza finanziaria dal 2013 devono valere gli stessi principi di qualunque altra attività professionale. Grazie a questa mossa sembra che le commissioni di gestione sui fondi comuni commercializzati in Inghilterra si siano miracolosamente dimezzate nel giro di pochi mesi. Per le banche, soprattutto, sappiamo che farsi pagare dai clienti sarà difficile: dovranno dimostrare di creare valore per i loro clienti. Ma il passaggio all’unica forma di trasparenza che ha senso, quella creata dall’assenza strutturale di conflitti d’interesse, è cruciale per la sopravvivenza delle nostre banche nel lungo periodo. Che futuro può avere un business se i suoi clienti quando varcano la porta del negozio, al posto di fermarsi a guardare il bancone della merce, scappano via il più in fretta possibile per evitare di farsi rifilare una fregatura? Vogliamo che la telefonata del promotore sia accolta in famiglia allo stesso modo di quella del call centre che chiama a ora di cena per proporre un nuovo e rivoluzionario piano tariffario?

Riforme, Moody’s: “Successo partiti populisti frena ambizioni Francia e Italia”

accidenti, l’agenzia di rating, una delle tante voci della finanza è “preoccupata” dai populismi….sicuramente è interessata solo al bene della società…..senza secondi fini, chi più dell’Italia che ha un governo non eletto da tre anni sa cosa vuol dire detestare il popolo e quindi i populismi???

Per l’agenzia di rating gli esecutivi di Roma e Parigi potrebbero essere a ridurre ampiezza e profondità delle riforme. Mentre secondo il Financial Times la scarsa partecipazione al voto regionale e il successo della Lega Nord “sollevano interrogativi sul reale sostegno agli sforzi del governo di trasformare la politica italiana”

di F. Q. | 25 novembre 2014
 
Il “crescente successo” di partiti populisti, antieuropei e contrari alle riforme “potrebbe spingere i partiti al governo a ridurre l’ampiezza, la profondità e la velocità delle riforme e delrisanamento di bilancio”. Lo sostiene Moody’s nel suo Outlook 2015, in un paragrafo in cui si sofferma particolarmente su Italia e Francia, i cui governi “hanno già ridimensionato le proprie ambizioni”. Una tendenza che non sarà certo frenata dall’ultimo risultato elettorale, che ha imposto Matteo Salvini come possibile leader del centrodestra. Proprio mentre, sempre secondo l’agenzia di rating, “i governi della periferia dell’Eurozona hanno fatto molto, ma i piani di consolidamento di bilancio e riforme restano incompleti, specialmente in Italia”. Il verdetto di Moody’s arriva peraltro a poche ore dall’uscita, sul Financial Times, di un articolo che sottolinea proprio i rischi per le riforme derivanti dalla scarsapartecipazione al voto e dalla ripresa della Lega Nord. Fattori che “indicano una crescente insoddisfazione degli elettori italiani nei confronti dei piani di riforma del premier Matteo Renzi“, si legge nel commento di James Politi. Secondo il quale, nonostante la “agevole” vittoria del Pd, “i risultati sollevano domande importanti sul reale sostegno agli sforzi del governo di trasformare la politica italiana”.
 
Non solo: il quotidiano finanziario, che dopo un’iniziale apertura di credito nei confronti di Renzi nel corso dell’anno ha cambiato opinione e espresso giudizi molto duri sulle “ricette” del premier per far ripartire il Paese, ritiene che il sostegno degli italiani verso l’esecutivo “stia iniziando a svanire a causa della persistente debolezza economica e dei grandi scontri tra il governo e sindacati contrari alla riforma del lavoro proposta da Renzi”.
 
Tornando all’analisi di Moody’s, la società sottolinea che la situazione di Roma e Parigi minaccia la crescita futura e lascia i Paesi più vulnerabili ai mercati. E questo a dispetto del sostegno già messo in campo dalla Bce e quello promesso da Mario Draghi, che è tornato a confermare la possibilità di acquistare titoli di Stato per sostenere la debole ripresa. Cosa che negli ultimi giorni ha spinto le Borse e determinato un calo del differenziale direndimento tra i Btp italiani con scadenza a dieci anni e gli equivalenti tedeschi (in gergo spread). Nonostante le mosse dell’Eurotower, scrive l’agenzia, “l’Italia è uno dei Paesi dell’Eurozona più esposti” a un potenziale cambiamento nei flussi finanziari, “dato un fabbisogno lordo di finanziamento del debito stimato a circa il 29% del Pil nel 2015″. Come dire che se gli investitori internazionali cambiassero idea sull’appetibilità del debito italiano le cose potrebbero cambiare molto rapidamente. Quanto alla Spagna, con il suo 20% di fabbisogno lordo è anch’essa “vulnerabile”, ma meno del nostro Paese.
 
Intanto anche l’Ocse, nell’Economic outlook diffuso proprio martedì, lancia un nuovo allarme sul livello di indebitamentoitaliano, parlando di “vulnerabilità significativa” e evidenziano che “non appena la crescita sarà migliorata occorrerà incanalare le maggiori entrate fiscali nella riduzione del deficit”. Le previsioni dell’organizzazione, in linea con quelle della Commissione Uedanno il nostro debito 2015 al 132,8% del Prodotto interno lordo. Ma l’organizzazione parigina non prefigura alcuna inversione di rotta per l’anno successivo: nel 2016, anzi, la zavorra del debito toccherà il 133,5% del Pil, pur rimanendo “sostenibile nel medio termine”. L’aumento, ha precisato il capo economista Catherine Mann, è fortemente legato alla debolezza della crescita: se il denominatore non sale non c’è modo di uscire dalla trappola.
 
E proprio sulla ripresa del Pil italiano la stessa Moody’s ha espresso due settimane fa forti dubbi, spiegando che il 2015 non sarà necessariamente il primo anno di ripresa dopo 13 trimestri di recessione: nello scenario più negativo la nostra economia potrebbe contrarsi ancora dello 0,5 per cento. Proprio perché “l’effetto delle riforme sarà positivo ma graduale” e ci saranno bisogno di tempo per vederne i benefici, soprattutto sul fronte dell’occupazione e dei consumi.
 
di F. Q. | 25 novembre 2014

Festa 5 stelle a San Didero

movi

Sabato 29 novembre ore 18.00

presso il salone polivalente di San Didero (TO).

(all’incrocio tra le Strade Provinciali n° 203 e n° 204).

Il Gruppo MoVimento 5 Stelle Valsusa

organizza una cena condivisa

I partecipanti sono invitati a portare qualcosa da mangiare da condividere

insieme.

Sarà un’occasione di convivialità e svago, ma anche di incontro con gli

eletti 5 Stelle in Parlamento, in Regione e nei Consigli Comunali,

un’opportunità per fare domande, proposte e scambiare idee con gli eletti

e con gli attivisti dei gruppi locali.

Interverranno:

Marco Scibona e Alberto Airola cittadini al Senato;

Laura Castelli e Ivan Della Valle cittadini alla Camera;

Stefania Batzella, Francesca Frediani e Federico Valetti cittadini in

Consiglio Regionale Piemonte

alcuni amministratori locali.

L’evento, finanziato esclusivamente attraverso liberi contributi, si pone

l’obiettivo “Rifiuti Zero”, pertanto si raccomanda di portare anche piatti,

posate e bicchieri da casa.

Vi aspettiamo numerosi!

Istat, i grandi gruppi esteri fuggono dall’Italia. Posti di lavoro giù del 10%

Secondo l’istituto di statistica rispetto al 2011 è cresciuto il numero complessivo delle imprese ma dal 2008 al 2012 ci sono meno big straniere (-5,7%) e diminuiscono gli occupati
I grandi imprenditori stranieri stanno fuggendo dall’Italia. In cinque anni, dal 2008 al 2012, i big esteri sono diminuiti del 5,7 per cento. Una riduzione che si traduce in meno posti di lavoro, che sono calati del 10,7 per cento. È la fotografia dell’Istat sui gruppi di impresa in Italia che crescono in numero ma non in termini di occupati. Più di 90mila gruppi con oltre 206mila imprese attive e 5,6 milioni di addetti. E mentre è cresciuto il numero delle aziende rispetto al 2011 (+1,5%), non si è avuto alcun beneficio sul numero dei posti di lavoro, diminuiti dello 0,9 per cento. Dando uno sguardo generale, più della metà degli addetti lavora in gruppi con più di 500 dipendenti. Infatti, pur essendo queste aziende solo l’1,5% occupano più di 3 milioni di addetti, il 57% del totale.

Secondo l’Istat cresce il numero complessivo delle imprese, quindi, ma ci sono meno big sul territorio italiano. Rispetto al 2011, il numero di gruppi con più di 500 addetti si riduce dello 0,1% in termini numerici e dell’1,2% in termini di addetti. Ma l’andamento negativo dei grandi gruppi che operano in Italia emerge con più chiarezza se si considera un intervallo temporale più ampio: rispetto al 2008 il numero dei gruppi con almeno 500 addetti sono diminuiti del 2 per cento. Un cambiamento che ha portato una riduzione del 4% degli addetti.

In particolare, mentre i gruppi a controllo italiano si riducono in termini di numerosità dello 0,1% e in termini di addetti dell’1%, quelli a controllo estero rispettivamente del 5,7% e del 10,7%. Il numero di imprese attive residenti appartenenti ai grandi gruppi subisce in media un calo del 21% (21,2% per i gruppi a controllo italiano e -20,2% per i gruppi a controllo estero). Rispetto alla tipologia delle imprese, in generale il 75,5% dei gruppi ha una struttura elementare costituita da una o due imprese attive, mentre quelli con strutture più articolate (più di 10 imprese residenti) sono la minoranza ma rivestono un ruolo decisivo dal punto di vista dell’occupazione, con quasi due milioni di addetti.

In media, i gruppi di impresa hanno una struttura organizzativa semplice, svolgono poco meno di due attività diverse e sono presenti in una sola regione. Anche se il 10,4% dei gruppi con almeno una impresa attiva residente è controllato da un soggetto non residente, sono quindi filiali di multinazionali estere e occupano il 22,9% degli addetti. Il settore dell’intermediazione monetaria e finanziaria mostra, in termini occupazionali, una presenza rilevante di società di capitali appartenenti a gruppi (87,8%); seguono il settore dell’industria (57,2%) e degli altri servizi (54,4%).

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/11/24/istat-i-grandi-gruppi-esteri-fuggono-dallitalia-posti-10/1230707/

SCANDALOSO: eliminano lo “stabilimento di produzione” sparisce dalle etichette!

Da anni le associazioni per i diritti e la tutela dei cittadini chiedono MAGGIORE TRASPARENZA sui prodotti alimentari, ma grazie all’Europa andremo nella direzione opposta: dalle etichette infatti SPARIRA’ LO STABILIMENTO DI PRODUZIONE!!! Ecco l’ennesima porcata del sistema…

Staff nocensura.com
– – –
Rischio sicurezza, a breve via stabilimento di origine dalle etichette
Stabilimento di origine: sempre più vicina la data in cui sarà tolto dalle etichette. Appello al Governo perché lo impedisca. Cosa si farà in caso di intossicazione da botulino?
Rischio sicurezza, a breve via stabilimento di origine dalle etichette  

Il 14 dicembre 2014 entrerà in vigore la nuova normativa europea in materia di etichettamento dei prodotti e, di conseguenza, anche nel nostro Paese non sarà più indicato nella etichetta di un prodotto la sede dello stabilimento di produzione o confezionamento. in realtà questo tipo di informazione, attualmente è presente sono in Italia, in quanto essa non é mai stata prevista dal legislatore europeo. Fu il governo italiano a introdurla chiedendo e ottenendo il nulla osta della Commissione europea  per ragioni di sicurezza; conoscere, infatti, la sede dello stabilimento  di confezionamento del prodotto consente alle autorità di controllo di risalire con immediatezza all’impresa e all’impianto da cui il vizio di sicurezza é scaturito e attivare facilmente  le azioni correttive utili a mitigare il rischio per la salute pubblica in caso di allerta alimentare coem potrebbe accadere  in una conserva vegetale contaminata dalla tossina del botulino.

Il regolamento UE 1169/2011 ha confermato la possibilità per gli Stati membri di aggiungere prescrizioni nazionali ulteriori, da applicarsi sui prodotti commercializzati sui loro territori (reg. citato, capitolo 6), ma, a pochi giorni dalla sua entrata in vigore il governo italiano non ha espresso la sua volonta in merito all’obbligatorietà di indicazione dello stabilimento di origine di ciascun prodotto.

Nle mesi scorsi i siti Il Fatto alimentare e Io leggo l’etichetta hanno promosso una petizione popolare raccogliendo 16mila firme, che hanno indotto il deputato Giuseppe L’Abbate del Movimento 5 Stelle, a presentere un’interrogazione rivolta al Governo e discussa pochi giorni fa, ma la risposta del governo è stata del tutto insoddisfacente, anche perché sembra che abbia manifestato la volontà di non mantenere la scritta attraverso una nota informativa diffusa alle associazioni delle varie categorie produttive lo scorso luglio e mai resa effettivamente pubblica.

Fonte: net1news.org
http://www.nocensura.com/2014/11/scandaloso-eliminano-lo-stabilimento-di.html

Emilia Romagna: la nipote di Prodi entra in consiglio regionale

«Personalmente sono molto soddisfatta soprattutto del voto in città a Reggio Emilia perché è una risorsa politica». Questo il primo commento di Silvia Prodi, nipote dell’ex premier Romano, eletta in Consiglio regionale. La Prodi, 39 anni, sarà uno dei quattro esponenti Pd di Reggio Emilia a Bologna. È figlia di Quintilio, il fratello di Romano, è ingegnere nucleare, dipendente di una società che gestisce progetti internazionali.
 
«Mio zio Romano? No oggi non l’ho sentito. Sa qui a Reggio c’è la festa del patrono (San Prospero, ndr) e c’è un po’ di confusione», ha dichiarato in un colloquio con l’agenzia Dire. Ora per lei si spalancano le porte dell’Assemblea legislativa di viale Aldo Moro: ha conquistato il seggio con 4.792 preferenze, ultima dei quattro eletti del Pd locale. E in effetti dice che dalle sue parti le elezioni sono andate bene. «Il dato relativo sul territorio è buono perché i candidati si sono decisamente spesi, ma l’affluenza è sicuramente il primo punto su cui ragionare».
 
In provincia di Reggio Emilia infatti il 64,01% degli elettori ha optato per il non voto e l’affluenza si è attestata al 35,99%. Numeri su cui Silvia Prodi commenta: «Da qua in poi si lavora sulla partecipazione».