Processo NoTav: Giù le mani dal Legal Team

legal team

Nel corso del maxi processo che si tiene a Torino nell’aula bunker contro decine di militanti no tav, dopo le pesantissime richieste di pena della Procura della Repubblica, all’udienza del 14 ottobre l’Avvocatura dello Stato ha lanciato un grave attacco contro gli avvocati che difendono il movimento e sono presenti nei luoghi di lotta oltre che nelle aule dei Tribunali.

Così si è espresso il rappresentante dell’Avvocatura dello Stato: “Il cosiddetto legal team era presente sulla scena del 27 giugno e del 3 luglio, questo processo che è vissuto a lungo di immagini filmate, ci ha restituito anche l’immagine degli avvocati difensori ritratti sui luoghi dove si stanno commettendo reati. Per carità, sono situazioni difficili da governare, io non biasimo il fatto di aver prestato l’opera per ragioni onorevoli, per pacificazione, ci può stare tutto. Dico solo che poi viene il momento in cui uno deve scegliere tra la casacca del legal team e la toga perchè indossare entrambe è difficile, c’è un vulnus sulla credibilità del difensore…”


Dal g8 di Genova 2001 alle grandi manifestazioni contro i vertici dei potenti del mondo, alle lotte no tav e no muos gli avvocati in tutta Europa hanno indossato la pettorina del legal team e portato nelle strade il loro appoggio alla libera manifestazione delle proprie idee, secondo il principio che i diritti fondamentali si difendono non solo nelle aule di giustizia ma ovunque vengano attaccati o minacciati.

Proprio con questo spirito è nato il Legal Team Italia, associazione di avvocati democratici che si propone di operare per la difesa del libero esercizion della manifestazione del pensiero e dell’attività politica, sociale e rappresentativa dei cittadini.

Il Lega Team era presente anche nelle giornate in Val Susa, con lo spirito di sempre.

Solo una errata semplificazione ha attribuito all’intero collegio difensivo del maxi processo di Torino l’appartenenza al legal team, visto che solo alcuni dei difensori nel processo fanno parte del Legal Team Italia.

Le gravissime affermazioni del rappresentante dell’Avvocatura dello Stato, per il contesto e per il luogo in cui sono state pronunciate, costituiscono una inaccettabile forma di intimidazione nei confronti di tutti gli avvocati che difendono gli imputati nei processi notav e degli avvocati che svolgono la loro opera nei processi in cui militanti e cittadini vengono ptrocessati per essersi opposti a politiche distruttive del territorio e delle condizioni di vita dei cittadini.

Per questo esprimiamo la più vibrata riprovazione per gli attacchi portati alla libertà di organizzazione degli avvocati e al tentativo di intimidire gli avvocati difensori, minando così le garanzie defensionali dentro e fuori dai processo e ribadiamo la nostra piena solidarietà ai valorosi colleghi di Torino, che si trovano ad operare in condizioni particolarmente difficili e gravose.

Legal Team Italia

Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda*

http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=110917&typeb=0&Il-riorientamento-strategico-della-Nato-dopo-la-guerra-fredda-

Questo saggio di Manlio Dinucci ha fatto da base documentale per il suo intervento al convegno ‘Come uscire dal Patto Atlantico’ (Roma, 11 ottobre 2014)

Redazione
 
venerdì 17 ottobre 2014 10:14

di Manlio Dinucci.

 La Nato, fondata il 4 aprile 1949, comprende durante la guerra fredda sedici paesi: Stati Uniti, Canada, Belgio, Danimarca, Francia, Repubblica federale tedesca, Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Turchia. Attraverso questa alleanza, gli Stati Uniti mantengono il loro dominio sugli alleati europei, usando l’Europa come prima linea nel confronto, anche nucleare, col Patto di Varsavia. Questo, fondato il 14 maggio 1955 (sei anni dopo la Nato), comprende Unione Sovietica, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Repubblica democratica tedesca, Romania, Ungheria, Albania (dal 1955 al 1968).

 
Dalla guerra fredda al dopo guerra fredda
Il 9 novembre 1989 avviene il «crollo del Muro di Berlino»: è l’inizio della riunificazione tedesca che si realizza quando, il 3 ottobre 1990, la Repubblica Democratica si dissolve aderendo alla Repubblica Federale di Germania. Il 1° luglio 1991 si dissolve il Patto di Varsavia: i paesi dell’Europa centro-orientale che ne facevano parte non sono ora più alleati dell’Urss. Il 26 dicembre 1991, si dissolve la stessa Unione Sovietica: al posto di un unico Stato se ne formano quindici.
La scomparsa dell’Urss e del suo blocco di alleanze crea, nella regione europea e centro-asiatica, una situazione geopolitica interamente nuova. Contemporaneamente, la disgregazione dell’Urss e la profonda crisi politica ed economica che investe la Russia segnano la fine della superpotenza in grado di rivaleggiare con quella statunitense.
La guerra del Golfo del 1991 è la prima guerra che, nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, Washington non motiva con la necessità di arginare la minacciosa avanzata del comunismo, giustificazione alla base di tutti i precedenti interventi militari statunitensi nel «terzo mondo», dalla guerra di Corea a quella del Vietnam, dall’invasione di Grenada all’operazione contro il Nicaragua. Con questa guerra gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza militare e influenza politica nell’area strategica del Golfo, dove si concentra gran parte delle riserve petrolifere mondiali, e allo stesso tempo lanciano ad avversari, ex-avversari e alleati un inequivocabile messaggio. Esso è contenuto nella National Security Strategy of the United States(Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti), il documento con cui la Casa Bianca enuncia, nell’agosto 1991, la nuova strategia.
«Nonostante l’emergere di nuovi centri di potere – sottolinea il documento a firma del presidente – gli Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali. Nel Golfo abbiamo dimostrato che la leadership americana deve includere la mobilitazione della comunità mondiale per condividere il pericolo e il rischio. Ma la mancanza di altri nell’assumersi il proprio onere non ci scuserebbe. In ultima analisi, siamo responsabili verso i nostri stessi interessi e la nostra stessa coscienza, verso i nostri ideali e la nostra storia, per ciò che facciamo con la potenza in nostro possesso. Negli anni Novanta, così come per gran parte di questo secolo, non esiste alcun sostituto alla leadership americana».
Il nuovo concetto strategico della Nato
Mentre riorientano la propria strategia, gli Stati Uniti premono sulla Nato perché faccia altrettanto. Per loro è della massima urgenza ridefinire non solo la strategia, ma il ruolo stesso dell’Alleanza atlantica. Con la fine della guerra fredda e il dissolvimento del Patto di Varsavia e della stessa Unione Sovietica, viene infatti meno la motivazione della «minaccia sovietica» che ha tenuto finora coesa la Nato sotto l’indiscussa leadership statunitense: vi è quindi il pericolo che gli alleati europei facciano scelte divergenti o addirittura ritengano inutile la Nato nella nuova situazione geopolitica creatasi nella regione europea.
Il 7 novembre 1991 (dopo la prima guerra del Golfo, a cui la Nato ha partecipato non ufficialmente in quanto tale, ma con sue forze e strutture), i capi di stato e di governo dei sedici paesi della Nato, riuniti a Roma nel Consiglio atlantico, varano «Il nuovo concetto strategico dell’Alleanza». «Contrariamente alla predominante minaccia del passato – afferma il documento – i rischi che permangono per la sicurezza dell’Alleanza sono di natura multiforme e multidirezionali, cosa che li rende difficili da prevedere e valutare. Le tensioni potrebbero portare a crisi dannose per la stabilità europea e perfino a conflitti armati, che potrebbero coinvolgere potenze esterne o espandersi sin dentro i paesi della Nato». Di fronte a questi e altri rischi, «la dimensione militare della nostra Alleanza resta un fattore essenziale, ma il fatto nuovo è che sarà più che mai al servizio di un concetto ampio di sicurezza». Definendo il concetto di sicurezza come qualcosa che non è circoscritto all’area nord-atlantica, si comincia a delineare la «Grande Nato».
Il «nuovo modello di difesa» dell’Italia
Tale strategia è fatta propria anche dall’Italia quando, sotto il sesto governo Andreotti, essa partecipa alla guerra del Golfo: i Tornado dell’aeronautica italiana effettuano 226 sortite per complessive 589 ore di volo, bombardando gli obiettivi indicati dal comando statunitense. E’ la prima guerra a cui partecipa la Repubblica italiana, violando l’articolo 11, uno dei principi fondamentali della propria Costituzione.
Subito dopo la guerra del Golfo, durante il settimo governo Andreotti, il ministero della difesa italiano pubblica, nell’ottobre 1991, il rapporto Modello di Difesa / Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni ’90. Il documento riconfigura la collocazione geostrategica dell’Italia, definendola «elemento centrale dell’area geostrategica che si estende unitariamente dallo Stretto di Gibilterra fino al Mar Nero, collegandosi, attraverso Suez, col Mar Rosso, il Corno d’Africa e il Golfo Persico». Considerata la «significativa vulnerabilità strategica dell’Italia» soprattutto per l’approvvigionamento petrolifero, «gli obiettivi permanenti della politica di sicurezza italiana si configurano nella tutela degli interessi nazionali, nell’accezione più vasta di tali termini, ovunque sia necessario», in particolare di quegli interessi che «direttamente incidono sul sistema economico e sullo sviluppo del sistema produttivo, in quanto condizione indispensabile per la conservazione e il progresso dell’attuale assetto politico e sociale della nazione».
Nel 1993 – mentre l’Italia sta partecipando all’operazione militare lanciata dagli Usa in Somalia, e al governo Amato subentra quello Ciampi – lo Stato maggiore della difesa dichiara che «occorre essere pronti a proiettarsi a lungo raggio» per difendere ovunque gli «interessi vitali», al fine di «garantire il progresso e il benessere nazionale mantenendo la disponibilità delle fonti e vie di rifornimento dei prodotti energetici e strategici».
Nel 1995, durante il governo Dini, lo stato maggiore della difesa fa un ulteriore passo avanti, affermando che «la funzione delle forze armate trascende lo stretto ambito militare per assurgere anche a misura dello status e del ruolo del paese nel contesto internazionale».
Nel 1996, durante il governo Prodi, tale concetto viene ulteriormente sviluppato nella 47a sessione del Centro alti studi della difesa. «La politica della difesa – afferma il generale Angioni – diventa uno strumento della politica della sicurezza e, quindi, della politica estera».
Viene in tal modo istituita una nuova politica militare e, contestualmente, una nuova politica estera la quale, usando come strumento la forza militare, viola il principio costituzionale, affermato dall’Articolo 11, che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Questa politica, introdotta attraverso decisioni apparentemente tecniche, viene di fatto istituzionalizzata passando sulla testa di un parlamento che, in stragrande maggioranza, se ne disinteressa o non sa neppure che cosa precisamente stia avvenendo.
La guerra contro la Iugoslavia
Poco tempo dopo essere stato enunciato, il «nuovo concetto strategico» viene messo in pratica nei Balcani. Nel luglio 1992 la Nato lancia la sua prima operazione di «risposta alle crisi», la Maritime Monitor, per imporre l’embargo alla Jugoslavia. Nei Balcani, tra l’ottobre ’92 e il marzo ’99, conduce undici operazioni: Deny Flight, Sharp Guard, Eagle Eye e altre. Il 28 febbraio 1994, durante la Deny Flight in Bosnia, la Nato effettua la prima azione di guerra nella sua storia. Viola così l’art. 5 della sua stessa carta costitutiva, poiché l’azione bellica non è motivata dall’attacco a un membro dell’Alleanza ed è effettuata fuori dalla sua area geografica.
Spento l’incendio in Bosnia (dove il fuoco resta sotto la cenere della divisione in stati etnici), i pompieri di Washington corrono a gettare benzina sul focolaio del Kosovo, dove è in corso da anni una rivendicazione di indipendenza da parte della maggioranza albanese (un milione e 800 mila persone, in confronto a 200 mila serbi, oltre 100 mila rom e goranci). Attraverso canali sotterranei in gran parte gestiti dalla Cia, un fiume di armi e finanziamenti, tra la fine del 1998 e l’inizio del 1999, va ad alimentare l’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo), braccio armato del movimento separatista kosovaro-albanese. Eppure, ancora nei primi mesi del 1998, il Dipartimento di stato Usa, per bocca dell’inviato Gelbart, definisce l’Uck una organizzazione terroristica. Agenti della Cia dichiareranno successivamente di «essere entrati in Kosovo nel 1998 e 1999, in veste di osservatori dell’Osce incaricati di verificare il cessate il fuoco, stabilendo collegamenti con l’Uck e dandogli manuali statunitensi di addestramento militare e consigli su come combattere l’esercito iugoslavo e la polizia serba, telefoni satellitari e apparecchi Gps, così che i comandanti della guerriglia potessero stare in contatto con la Nato e Washington». L’Uck può così scatenare un’offensiva contro le truppe federali e i civili serbi, con centinaia di attentati e rapimenti.
Mentre gli scontri tra le forze iugoslave e quelle dell’Uck provocano vittime da ambo le parti, una potente campagna politico-mediatica prepara l’opinione pubblica internazionale all’intervento della Nato, presentato come l’unico modo per fermare la «pulizia etnica» serba in Kosovo. A tale scopo viene fatta fallire l’opera di mediazione della Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) che, nell’autunno 1998, invia una sua missione in Kosovo con il compito di vagliare le possibilità di pace e fermare la guerra denunciando le violazioni. E’ a questo punto che, alla metà di gennaio 1999, viene fuori a Racak, zona controllata dall’Uck, l’«eccidio» di 45 «civili albanesi»: sono, dimostreranno in seguito i medici legali di una commissione indipendente finlandese, combattenti albanesi vittime negli scontri, non civili indifesi. Dando immediatamente per buona la versione dell’eccidio di civili, il capo della missione Osce, lo statunitense William Walzer (già agente della Cia in Salvador negli anni Ottanta), ritira la missione internazionale. I serbi vengono accusati di «pulizia etnica», nonostante che un rapporto Onu del gennaio 1999 valuti il numero di sfollati, sia albanesi che serbi e rom, in circa 60 mila, e la stessa missione Osce non abbia parlato sino a quel momento, nei suoi rapporti, di pulizia etnica. Vi sono evidentemente degli eccidi, commessi dall’una e dall’altra parte, non però la «pulizia etnica» che serve a motivare l’intervento armato degli Stati Uniti e dei loro alleati.
La guerra, denominata «Operazione forza alleata», inizia il 24 marzo 1999. Mentre gli aerei di Stati Uniti e altri paesi della Nato sganciano le prime bombe sulla Serbia e il Kosovo, il presidente democratico Clinton annuncia: «Alla fine del XX secolo, dopo due guerre mondiali e una guerra fredda, noi e i nostri alleati abbiamo la possibilità di lasciare ai nostri figli un’Europa libera, pacifica e stabile». Determinante, nella guerra, è il ruolo dell’Italia: il governo D’Alema mette il territorio italiano, in particolare gli aeroporti, a completa disposizione delle forze armate degli Stati Uniti e altri paesi, per attuare quello che il presidente del consiglio definisce «il diritto d’ingerenza umanitaria».
Per 78 giorni, decollando soprattutto dalle basi italiane, 1.100 aerei effettuano 38mila sortite, sganciando 23 mila bombe e missili. Il 75 per cento degli aerei e il 90 per cento delle bombe e dei missili vengono forniti dagli Stati Uniti. Statunitense è anche la rete di comunicazione, comando, controllo e intelligence (C3I) attraverso cui vengono condotte le operazioni: «Dei 2.000 obiettivi colpiti in Serbia dagli aerei della Nato – documenta successivamente il Pentagono – 1.999 vengono scelti dall’intelligence statunitense e solo uno dagli europei».
Sistematicamente, i bombardamenti smantellano le strutture e infrastrutture della Serbia e del Kosovo, provocando vittime soprattutto tra i civili. I danni che ne derivano per la salute e l’ambiente sono inquantificabili. Solo dalla raffineria di Pancevo fuoriescono, a causa dei bombardamenti, migliaia di tonnellate di sostanze chimiche altamente tossiche (compresi diossina e mercurio). Altri danni vengono provocati dal massiccio impiego da parte della Nato di proiettili a uranio impoverito, già usati nella guerra del Golfo.
Ai bombardamenti partecipano anche 54 aerei italiani, che compiono 1.378 sortite, attaccando gli obiettivi indicati dal comando statunitense. «Per numero di aerei siamo stati secondi solo agli Usa. … L’Italia è un grande paese e non ci si deve stupire dell’impegno dimostrato in questa guerra», dichiara il presidente del consiglio D’Alema durante la visita compiuta il 10 giugno 1999 alla base di Amendola, sottolineando che, per i piloti che vi hanno partecipato, è stata «una grande esperienza umana e professionale».
Il 10 giugno 1999, le truppe della Federazione iugoslava cominciano a ritirarsi dal Kosovo e la Nato mette fine ai bombardamenti. La risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che assume i contenuti della pace firmata a Kumanovo in Macedonia, «autorizza stati membri e rilevanti organizzazioni internazionali a stabilire la presenza internazionale di sicurezza in Kosovo, come disposto nell’annesso 2.4». L’annesso 2.4 dispone che la presenza internazionale deve avere una «sostanziale partecipazione della Nato» ed essere dispiegata «sotto controllo e comando unificati». A chi spetti il comando lo ha già chiarito il giorno prima il presidente Clinton, sottolineando che l’accordo sul Kosovo prevede «lo spiegamento di una forza internazionale di sicurezza con la Nato come nucleo, il che significa una catena di comando unificata della Nato». «Oggi la Nato affronta la sua nuova missione: quella di governare», commenta The Washington Post.
Finita la guerra, vengono inviati in Kosovo dal «Tribunale per i crimini nella ex Iugoslavia» oltre 60 agenti dell’Fbi statunitense, ma non vengono trovate tracce di eccidi tali da giustificare l’accusa di «pulizia etnica». Il Kosovo, divenuto una sorta di protettorato della Nato, viene di fatto distaccato dalla Federazione Iugoslava. Gli Usa, in aperto disprezzo degli accordi di Kumanovo, costruiscono presso Urosevac, Camp Bondsteel, la più grande base militare statunitense di tutta l’area, destinata a rimanervi per sempre. Contemporaneamente, sotto la copertura della «Forza di pace», l’ex Uck terrorizza ed espelle dal Kosovo oltre 260mila serbi, rom, albanesi «collaborazionisti» ed ebrei.
Il superamento dell’articolo 5 e la conferma della leadership Usa
Mentre è in corso la guerra contro la Iugoslavia, viene convocato a Washington, il 23-25 aprile 1999, il vertice della Nato che ufficializza il «nuovo concetto strategico»: nasce «una nuova Alleanza più grande, più capace e più flessibile, impegnata nella difesa collettiva e capace di intraprendere nuove missioni, tra cui l’attivo impegno nella gestione delle crisi, incluse le operazioni di risposta alle crisi». Da alleanza che, in base all’articolo 5 del trattato del 4 aprile 1949, impegna i paesi membri ad assistere anche con la forza armata il paese membro che sia attaccato nell’area nord-atlantica, essa viene trasformata in alleanza che, in base al nuovo «concetto strategico», impegna i paesi membri anche a «condurre operazioni di risposta alle crisi non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza».
A scanso di equivoci, il presidente democratico Clinton chiarisce che gli alleati nord-atlantici «riaffermano la loro prontezza ad affrontare, in appropriate circostanze, conflitti regionali al di là del territorio dei membri della Nato». Alla domanda di quale sia l’area geografica in cui la Nato è pronta a intervenire, «il Presidente si rifiuta di specificare a quale distanza la Nato intende proiettare la propria forza, dicendo che non è questione di geografia». In altre parole, la Nato intende proiettare la propria forza militare al di fuori dei propri confini non solo in Europa, ma anche in altre regioni.
Ciò che non cambia, nella mutazione genetica della Nato, è la gerarchia all’interno dell’Alleanza. La Casa Bianca dice a chiare lettere che «la Nato, come garante della sicurezza europea, deve svolgere un ruolo dirigente nel promuovere un’Europa più integrata e sicura» e che «noi manterremo in Europa circa 100 mila militari per contribuire alla stabilità regionale, sostenere i nostri vitali legami transatlantici e conservare la leadership degli Stati uniti nella Nato». Dunque, un’Europa stabile sotto la Nato e una Nato stabilmente sotto gli Stati Uniti.
La Nato alla conquista dell’Est
Inizia contemporaneamente l’espansione della Nato nel territorio dell’ex Patto di Varsavia e dell’ex Unione Sovietica. Nel 1999 essa ingloba i primi tre paesi dell’ex Patto di Varsavia: Polonia, Repubblica ceca e Ungheria. Quindi, nel 2004, si estende ad altri sette: Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’Urss); Bulgaria, Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia); Slovenia (già parte della Repubblica iugoslava). Al vertice di Bucarest, nell’aprile 2008, viene deciso l’ingresso di Albania (un tempo membro del Patto di Varsavia) e Croazia (già parte della Repubblica iugoslava). Viene inoltre preparato l’ingresso nell’Alleanza dell’ex repubblica iugoslava di Macedonia e di Ucraina e Georgia, già parte dell’Urss. Si afferma infine che continuerà la «politica della porta aperta» per permettere ad altri paesi ancora di entrare un giorno nella Nato.
Gli Stati Uniti riescono così nel loro intento: sovrapporre a un’Europa basata sull’allargamento della Ue un’Europa basata sull’allargamento della Nato. Entrando nella Nato, i paesi dell’Europa orientale, comprese alcune repubbliche dell’ex Urss, vengono a essere più direttamente sotto il controllo degli Stati Uniti che mantengono nell’Alleanza una posizione predominante. Basti pensare che il Comandante supremo alleato in Europa è, per una sorta di diritto ereditario, un generale statunitense nominato dal presidente, e che tutti gli altri comandi chiave sono controllati direttamente dal Pentagono.
Per di più, i nuovi paesi membri devono riconvertire gli armamenti e le infrastrutture militari secondo gli standard Nato: ciò avvantaggia l’industria bellica statunitense, dato che l’acquisto di armi statunitensi viene posto da Washington quale condizione per l’ammissione alla Nato. In tal modo gli Stati uniti si assicurano una serie di strumenti militari ed economici, e quindi politici, per tenere questi paesi in posizione gregaria all’interno della Nato alle dirette dipendenze di Washington. Non solo: poiché Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia, Romania e Bulgaria entrano nella Ue tra il 2004 e il 2007, Washington si assicura notevoli strumenti di pressione all’interno della stessa Unione europea per orientare le sue scelte politiche e strategiche.
La Nato in Afghanistan
La costituzione dell’Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza) viene autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu con la risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001. Suo compito è quello di assistere l’autorità ad interim afghana a Kabul e dintorni. Secondo l’art. VII della Carta delle Nazioni unite, l’impiego delle forze armate messe a disposizione da membri dell’Onu per tali missioni deve essere stabilito dal Consiglio di sicurezza coadiuvato dal Comitato di stato maggiore, composto dai capi di stato maggiore dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Anche se tale comitato non esiste, l’Isaf resta fino all’agosto 2003 una missione Onu, la cui direzione viene affidata in successione a Gran Bretagna, Turchia, Germania e Olanda.
Ma improvvisamente, l’11 agosto 2003, la Nato annuncia di aver «assunto il ruolo di leadership dell’Isaf, forza con mandato Onu». E’ un vero e proprio colpo di mano: nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere la leadership, ossia il comando, dell’Isaf. Solo a cose fatte, nella risoluzione 1659 del 15 febbraio 2006, il Consiglio di sicurezza «riconosce il continuo impegno della Nato nel dirigere l’Isaf».
A guidare la missione, dall’11 agosto 2003, non è più l’Onu ma la Nato: il quartier generale Isaf viene infatti inserito nella catena di comando della Nato, che sceglie di volta in volta i generali da mettere a capo dell’Isaf. Come sottolinea un comunicato del giugno 2006, «la Nato ha assunto il comando e il coordinamento dell’Isaf nell’agosto 2003: questa è la prima missione al di fuori dell’area euro-atlantica nella storia della Nato». E poiché il «comandante supremo alleato» è sempre un generale statunitense, la missione Isaf viene di fatto inserita nella catena di comando del Pentagono. Nella stessa catena di comando sono inseriti i militari italiani assegnati all’Isaf, insieme a elicotteri e aerei, compresi i Tornado.
Il «disegno di ordine e pace» della Nato in Afghanistan ha ben altri scopi di quelli dichiarati: non la liberazione dell’Afghanistan dai talebani, che erano stati addestrati e armati in Pakistan in una operazione concordata con la Cia per conquistare il potere a Kabul, ma l’occupazione dell’Afghanistan, area di primaria importanza strategica per gli Stati Uniti. Lo dimostrano le basi permanenti che hanno qui installato, tra cui quelle aeree di Bagram, Kandahar e Shindand. A queste basi se ne aggiungeranno probabilmente altre nove.
Per capire il perché basta guardare la carta geografica: l’Afghanistan è al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale. In quest’area (nel Golfo e nel Caspio) si trovano le maggiori riserve petrolifere del mondo. Si trovano tre grandi potenze – Cina, Russia e India – la cui forza complessiva sta crescendo e influendo sugli assetti globali. Come aveva avvertito il Pentagono nel rapporto del 30 settembre 2001, «esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse». Da qui la necessità di «pacificare» l’Afghanistan per disporre senza problemi del suo territorio. Ma, impegnati su troppi fronti, gli Usa non ce la fanno. Ecco quindi il coinvolgimento degli alleati Nato sotto paravento Onu, sempre agli ordini di un generale statunitense.
Il sostegno Nato a Israele
Nell’aprile 2001 Israele firma al quartier generale della Nato a Bruxelles l’«accordo di sicurezza», impegnandosi a proteggere le «informazioni classificate» che riceverà nel quadro della cooperazione militare.
Nel luglio 2001 il Pentagono dà il nullaosta per la fornitura a Israele dei primi 1000 kit Jdam, realizzati dalla Boeing in collaborazione con la joint-venture italo-inglese Alenia Marconi Systems: questo nuovo sistema di guida rende «intelligenti» le bombe aeree «stupide» permettendo agli F-16 israeliani di colpire simultaneamente più obiettivi a oltre 50 km di distanza.
Nel giugno 2003 il governo italiano stipula con quello israeliano un memorandum d’intesa per la cooperazione nel settore militare e della difesa, che prevede tra l’altro lo sviluppo congiunto di un nuovo sistema di guerra elettronica.
Nel gennaio 2004 un aereo radar Awacs della Nato atterra per la prima volta a Tel Aviv e il personale israeliano viene addestrato all’uso delle sue tecnologie.
Nel dicembre 2004 viene data notizia che la Germania fornirà a Israele altri due sottomarini Dolphin, che si aggiungeranno ai tre (di cui due regalati) consegnati negli anni ’90. Israele può così potenziare la sua flotta di sottomarini da attacco nucleare, tenuti costantemente in navigazione nel Mediterraneo, Mar Rosso e Golfo Persico.
Nel febbraio 2005 il segretario generale della Nato compie la prima visita ufficiale a Tel Aviv, dove incontra le massime autorità militari israeliane per «espandere la cooperazione militare».
Nel marzo 2005 si svolge nel Mar Rosso la prima esercitazione navale congiunta Israele-Nato: il comando del gruppo navale della «Forza di risposta della Nato» è affidato alla marina italiana che vi partecipa con la fregata Bersagliere.
Nel maggio 2005, dopo essere stato ratificato al senato e alla camera, il memorandum d’intesa italo-israeliano diviene legge: viene così istituzionalizzata la cooperazione tra i ministeri della difesa e le forze armate dei due paesi riguardo l’«importazione, esportazione e transito di materiali militari», l’«organizzazione delle forze armate», la «formazione/addestramento».
Nel maggio 2005 Israele viene ammesso quale membro dell’Assemblea parlamentare della Nato.
Nel giugno 2005 la marina israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Golfo di Taranto.
Nel luglio 2005 truppe israeliane partecipano per la prima volta a una esercitazione Nato «anti-terrorismo», che si svolge in Ucraina.
Nel giugno 2006 una nave da guerra israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Mar Nero allo scopo di «creare una migliore interoperabilità tra la marina israeliana e le forze navali Nato».
Nell’ottobre 2006, Nato e Israele concludono un accordo che stabilisce una più stretta cooperazione israeliana al programma Nato «Dialogo mediterraneo», il cui scopo è «contribuire alla sicurezza e stabilità della regione». In tale quadro, «Nato e Israele si accordano sulle modalità del contributo israeliano all’operazione marittima della Nato Active Endeavour» (Nato/Israel Cooperation, 16 ottobre 2006). Israele viene così premiato dalla Nato per l’attacco e l’invasione del Libano. Le forze navali israeliane, che insieme a quelle aeree e terrestri hanno appena martellato il Libano con migliaia di tonnellate di bombe facendo strage di civili, vengono integrate nella operazione Nato che dovrebbe «combattere il terrorismo nel Mediterraneo». Le stesse forze navali che, bombardando la centrale elettrica di Jiyyeh sulle coste libanesi, hanno provocato una enorme marea nera diffusasi nel Mediterraneo (la cui bonifica verrà a costare centinaia di milioni di dollari), collaborano ora con la Nato per «contribuire alla sicurezza della regione».
Il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell’attacco israeliano a Gaza, la Nato ratifica il «Programma di cooperazione individuale» con Israele. Esso comprende una vasta gamma di campi in cui «Nato e Israele coopereranno pienamente»: controterrorismo, tra cui scambio di informazioni tra i servizi di intelligence; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; aumento delle esercitazioni militari congiunte Nato-Israele; allargamento della cooperazione nella lotta contro la proliferazione nucleare (ignorando che Israele, unica potenza nucleare della regione, ha rifiutato di firmare il Trattato di non-proliferazione).
La Nato «a caccia di pirati» nell’Oceano Indiano
Nell’ottobre 2008, un gruppo navale della Nato, lo Standing Nato Maritime Group 2 (Snmg2) attraversa il Canale di Suez, entrando nell’Oceano Indiano. Ne fanno parte navi da guerra di Italia, Stati uniti, Germania, Gran Bretagna, Grecia e Turchia. Lo Snmg2 è il successore della Standing Naval Force Mediterranean (Stanavformed), la forza navale permanente del Mediterraneo, costituita nel 1992 dalla Nato in base al «nuovo concetto strategico». Questo gruppo navale (il cui comando è assunto a rotazione dai paesi membri) fa parte di una delle tre componenti dello Allied Joint Force Command Naples, il cui comando è permanentemente attribuito a un ammiraglio statunitense, lo stesso che comanda le Forze navali Usa in Europa. L’area in cui opera lo Snmg2 non ha ormai più confini, in quanto esso costituisce una delle unità della «Forza di risposta della Nato», pronta a essere proiettata «per qualsiasi missione in qualsiasi parte del mondo».
Scopo ufficiale della missione dello Snmg2 nell’Oceano Indiano è condurre «operazioni anti-pirateria» lungo le coste della Somalia, scortando i mercantili che trasportano gli aiuti alimentari del World Food Program delle Nazioni Unite. In questo «sforzo umanitario», la Nato «continua a coordinare la sua assistenza con l’operazione Enduring Freedom a guida Usa». Sorge quindi il dubbio che, dietro questa missione Nato, vi sia ben altro. In Somalia, la politica statunitense sta subendo un nuovo scacco: le truppe etiopiche, qui inviate nel 2006 dopo il fallimento del tentativo della Cia di rovesciare le Corti islamiche sostenendo una coalizione «anti-terrorismo» dei signori della guerra, sono state costrette a ritirarsi dalla resistenza somala.
Washington prepara quindi altre operazioni militari per estendere il proprio controllo alla Somalia, provocando altre disastrose conseguenze sociali. Esse sono alla base dello stesso fenomeno della pirateria, nato in seguito alla pesca illegale da parte di flotte straniere e allo scarico di sostanze tossiche nelle acque somale, che hanno rovinato i piccoli pescatori, diversi dei quali sono ricorsi alla pirateria. Nella strategia statunitense e Nato, la Somalia è importante per la sua stessa posizione geografica sulle coste dell’Oceano Indiano. Per controllare quest’area è stata stazionata a Gibuti, all’imboccatura del Mar Rosso, una task force statunitense. L’intervento militare, diretto e indiretto, in questa e altre aree si intensifica ora con la nascita del Comando Africa degli Stati uniti. E’ nella sua «area di responsabilità» che viene inviato il gruppo navale Nato.
Esso ha però anche un’altra missione ufficiale: visitare alcuni paesi del Golfo persico (Kuwait, Bahrain, Qatar ed Emirati arabi uniti), partner Nato nel quadro dell’Iniziativa di cooperazione di Istanbul. Le navi da guerra della Nato vanno così ad aggiungersi alle portaerei e molte altre unità che gli Usa hanno dislocato nel Golfo e nell’Oceano Indiano, in funzione anti-Iran e per condurre, anche con l’aviazione navale, la guerra aerea in Afghanistan.
La guerra contro la Libia
Il 19 marzo 2011 inizia il bombardamento aeronavale della Libia, formalmente «per proteggere i civili». In sette mesi, l’aviazione Usa/Nato effettua 30mila missioni, di cui 10mila di attacco, con impiego di oltre 40mila bombe e missili. Vengono inoltre infiltrate in Libia forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani facilmente camuffabili. Venhono finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e anche gruppi islamici fino a pochi mesi prima definiti terroristi. L’intera operazione,chiarisce l’ambasciatore Usa presso la Nato, viene diretta dagli Stati uniti: prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. Viene così demolito lo stato libico e assassinato lo stesso Gheddafi, attribuendo l’impresa a una«rivoluzione ispiratrice» che gli Usa sono fieri di sostenere, creando «una alleanza senza eguali contro la tirannia e per la libertà».
Se ne vedono presto i risultati. Lo stato unitario comincia a disgregarsi. La Cirenaica – dove si trovano i due terzi del petrolio libico – si autoproclama di fatto indipendente. E vuol essere indipendente anche il Fezzan, dove sono altri importanti giacimenti. Alla Tripolitania restano solo quelli davanti alle coste della capitale. Così le grandi compagnie petrolifere, cui la Libia di Gheddafi concedeva ristretti margini di guadagno, potranno ottenere dai capi locali, l’uno contro l’altro, condizioni ottimali. Intanto il Consiglio di sicurezza dell’Onu estende la sua«missione di appoggio in Libia», complimentandosi per «i positivi sviluppi» che«migliorano le prospettive di un futuro democratico, pacifico e prospero». Non può però evitare di esprimere «preoccupazione» per «le continue detenzioni illegali, torture ed esecuzioni extragiudiziarie». Opera delle milizie armate, alimentate dalla politica del «divide et impera» del nuovo impero. Usate per accendere focolai di guerra in altri paesi, come dimostra il fatto che a Tripoli c’è un campo di addestramento dei «ribelli siriani». In Libia le prime vittime sono gli immigrati dall’Africa subsahariana che, perseguitati, sono costretti a fuggire. Molti, spinti dalla disperazione, tentano la traversata del Mediterraneo verso l’Europa. Quelli che vi perdono la vita sono anch’essi vittime della guerra con cui la Nato ha demolito lo Stato libico.
La guerra contro la Siria
Nell’ottobre 2012 il Consiglio atlantico denuncia «gli atti aggressivi del regime siriano al confine sudorientale della Nato», pronto a far scattare l’articolo 5 cheimpegna ad assistere con la forza armata il paese membro «attaccato», la Turchia. Ma è già in atto il «non-articolo 5» – introdotto durante la guerra alla Iugolavia e applicato contro l’Afghanistan e la Libia – che autorizza operazioni non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza. Eloquenti sono le immagini degli edifici di Damasco e Aleppo devastati con potentissimi esplosivi: opera non di semplici ribelli, ma di professionisti della guerra infiltrati. Circa 200 specialisti delle forze d’élite britanniche Sas e Sbs – riporta il Daily Star – operano in Siria, insieme a unità statunitensi e francesi.
La forza d’urto è costituita da una raccogliticcia armata di gruppi islamici (fino a poco prima bollati da Washington come terroristi) provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri paesi. Nel gruppo di Abu Omar al-Chechen – riferisce l’inviato del Guardian ad Aleppo – gli ordini vengono dati in arabo, ma devono essere tradotti in ceceno, tagico, turco, dialetto saudita, urdu, francese e altre lingue. Forniti di passaporti falsi (specialità Cia), i combattenti affluiscono nelle province turche di Adana e Hatai, confinante con la Siria, dove la Cia ha aperto centri di formazione militare. Le armi arrivano soprattutto via Arabia Saudita e Qatar che, come in Libia, fornisce anche forze speciali.
Il comando delle operazioni è a bordo di navi Nato nel porto di Alessandretta. Intanto, sul monte Cassius a ridosso della Siria, la Nato sta costruendo una nuova base di spionaggio elettronico, che si aggiunge a quella radar di Kisecik e a quella aerea di Incirlik. A Istanbul è stato aperto un centro di propaganda dove dissidenti siriani, formati dal Dipartimento di stato Usa, confezionano le notizie e i video che vengono diffusi tramite reti satellitari. La guerra Nato contro la Siria è dunque già in atto, con la motivazione ufficiale di aiutare il paese a liberarsi dal regime di Assad. Come in Libia, si è infilato un cuneo nelle fratture interne per far crollare lo stato, strumentalizzando la tragedia delle popolazioni travolte.
Lo scopo è lo stesso: Siria, Iran e Iraq hanno firmato nel luglio 2011 un accordo per un gasdotto che, entro il 2016, dovrebbe collegare il giacimento iraniano di South Pars, il maggiore del mondo, alla Siria e quindi al Mediterraneo. La Siria, dove è stato scoperto un altro grosso giacimento presso Homs, può divenire un hub di corridoi energetici alternativi a quelli attraverso la Turchia e altri percorsi, controllati dalle compagnie statunitensi ed europee. Per questo si vuole colpire e occupare.
Le armi nucleari Usa/Nato in Europa
Gli Stati uniti, mentre sono impegnati a Ginevra a denuclearizzare l’Iran, nuclearizzano l’Europa potenziando le armi mantenute in Germania, Italia, Belgio, Olanda e Turchia. Sono circa 200 bombe B-61, che si aggiungono alle oltre 500 testate nucleari francesi e britanniche pronte al lancio. Secondo una stima al ribasso, in Italia ve ne sono 70-90, stoccate ad Aviano e Ghedi-Torre. Ma ce ne potrebbero essere di più, anche in altri siti. Tantomeno si conosce quante armi nucleari sono a bordo delle unità della Sesta flotta e altre navi da guerra che approdano nei nostri porti. Quello che ufficialmente si sa è che ora le B-61 vengono trasformate da bombe a caduta libera in bombe «intelligenti» che, grazie a un sistema di guida satellitare e laser, potranno essere sganciate a grande distanza dall’obiettivo. Le nuove bombe nucleari B61-12 a guida di precisione, il cui costo è previsto in 8-12 miliardi di dollari per 400-500 bombe, avranno una potenza media di 50 kiloton (circa quattro volte la bomba di Hiroshima).
Altri aspetti, emersi da una audizione della sottocommissione del Congresso sulle forze strategiche (29 ottobre), gettano una luce ancora più inquietante sull’intera faccenda. Washington ribadisce che «la Nato resterà una alleanza nucleare» e che, «anche se la Nato si accordasse con la Russia per una riduzione delle armi nucleari in Europa, avremmo sempre l’esigenza di completare il programma della B61-12». La nuova arma sostituirà le cinque varianti dell’attuale B61, compresa la bomba penetrante anti-bunker B61-11 da 400 kiloton, e la maxi-bomba B83 da 1200 kiloton. In altre parole, avrà la stessa capacità distruttiva di queste bombe più potenti.
Allo stesso tempo la B61-12 «sarà integrata col caccia F-35 Joint Strike Fighter», fatto doppiamente importante perché «l’F-35 è destinato a divenire l’unico caccia a duplice capacità nucleare e convenzionale delle forze aeree degli Stati uniti e di molti paesi alleati». Quella che arriverà tra non molto in Italia e in altri paesi europei, non è dunque una semplice versione ammodernata della B-61, ma un’arma polivalente che svolgerà la funzione di più bombe, comprese quelle progettate per «decapitare» il paese nemico, distruggendo i bunker dei centri di comando e altre strutture sotterranee in un first strike nucleare. Poiché le bombe anti-bunker non sono oggi schierate in Europa, l’introduzione della B61-12, che svolge anche la loro funzione, potenzia la capacità offensiva delle forze nucleari Usa/Nato in Europa.
I piloti italiani – che vengono addestrati all’uso delle B-61 con i caccia Tornado, come è stato fatto nell’esercitazione «Steadfast Noon» svoltasi ad Aviano e Ghedi nella seconda metà di ottobre, saranno tra non molto addestrati all’attacco nucleare con gli F-35 armati con le B61-12. In tal modo l’Italia viola il Trattato di non-proliferazione che la impegna a «non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi direttamente o indirettamente». E gli Stati uniti lo violano perché si sono impegnati a«non trasferire a chicchessia armi nucleari né il controllo su tali armi».
Il nuovo confronto militare Ovest-Est
Mosca si oppone allo «scudo antimissile», che permetterebbe agli Usa di lanciare un first strike nucleare sapendo di poter neutralizzare la ritorsione. È contraria all’ulteriore espansione della Nato ad est e al piano Usa/Nato di demolire la Siria e l’Iran nel quadro di una strategia che mira alla regione Asia/Pacifico. Tutto questo viene visto a Mosca come un tentativo di acquisire un netto vantaggio strategico sulla Russia (oltre che sulla Cina). Sono solo «vecchi stereotipi della guerra fredda», come sostiene il presidente Obama? Non si direbbe, visto il programma annunciato dalla Nato nel 2013. Esso prevede «più ambiziose e frequenti esercitazioni militari» a ridosso della Russia. Tra queste la «Brilliant Arrow», effettuata in Norvegia con cacciabombardieri Nato (anche italiani) a duplice capacità convenzionale e nucleare; la «Steadfast Jazz», con lo spiegamento di cacciabombardieri Nato in Polonia, Lituania e Lettonia, al confine russo; la «Brilliant Mariner», effettuata da navi da guerra Nato nel Mare del Nord e nel Mar Baltico.
Gli Usa e gli alleati Nato stanno accrescendo la pressione militare sulla Russia la quale, ovviamente, non si limita a quella che Obama definisce «retorica anti-americana». Dopo che gli Usa hanno deciso di installare uno «scudo» missilistico anche sull’isola di Guam nel Pacifico occidentale, il Comando delle forze strategiche russe ha annunciato che sta costruendo un nuovo missile da 100 tonnellate «in grado di superare qualsiasi sistema di difesa missilistica». Ed è già in navigazione il primo sottomarino nucleare della nuova classe Borey, lungo 170 m, capace di scendere a 450 m di profondità, armato di 16 missili Bulava con raggio di 9mila km e 10 testate nucleari multiple indipendenti, in grado di manovrare per evitare i missili intercettori.
Su questo e altro i media europei, in particolare quelli italiani campioni di disinformazione, praticamente tacciono. Così la stragrande maggioranza ha l’impressione che la guerra minacci solo regioni «turbolente», come il Medio Oriente e il Nordafrica, senza accorgersi che la «pacifica» Europa sta divenendo di nuovo, sulla scia della strategia Usa, la prima linea di un confronto militare non meno pericoloso di quello della guerra fredda.
L’operazione Nato in Ucraina
L’operazione condotta dalla Nato in Ucraina inizia quando nel 1991, dopo il Patto di Varsavia, si disgrega anche l’Unione Sovietica di cui essa faceva parte. Gli Stati Uniti e gli alleati europei si muovono subito per trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione geopolitica. L’Ucraina – il cui territorio di oltre 600mila kmfa da cuscinetto tra Nato e Russia ed è attraversato dai corridoi energetici tra Russia e Ue – non entra nella Nato, come hanno fatto altri paesi dell’ex Urss ed ex Patto di Varsavia. Entra però a far parte del «Consiglio di cooperazione nord-atlantica» e, nel 1994, della «Partnership per la pace», contribuendo alle operazioni di «peacekeeping» nei Balcani.
Nel 2002 viene adottato il «Piano di azione Nato-Ucraina» e il presidente Kuchma annuncia l’intenzione di aderire alla Nato. Nel 2005, sulla scia della «rivoluzione arancione», il presidente Yushchenko viene invitato al summit Nato a Bruxelles. Subito dopo viene lanciato un «dialogo intensificato sull’aspirazione dell’Ucraina a divenire membro della Nato» e nel 2008 il summit di Bucarest dà luce verde al suo ingresso. Nel 2009 Kiev firma un accordo che permette il transito terrestre in Ucraina di rifornimenti per le forze Nato in Afghanistan. Ormai l’adesione alla Nato sembra certa ma, nel 2010, il neoeletto presidente Yanukovych annuncia che, pur continuando la cooperazione, l’adesione alla Nato non è nell’agenda del suo governo.
Nel frattempo però la Nato è riuscita a tessere una rete di legami all’interno delle forze armate ucraine. Alti ufficiali partecipano da anni a corsi del Nato Defense College a Roma e a Oberammergau (Germania), su temi riguardanti l’integrazione delle forze armate ucraine con quelle Nato. Nello stesso quadro si inserisce l’istituzione, presso l’Accademia militare ucraina, di una nuova «facoltà multinazionale» con docenti Nato. Notevolmente sviluppata anche la cooperazione tecnico-scientifica nel campo degli armamenti per facilitare, attraverso una maggiore interoperabilità, la partecipazione delle forze armate ucraine a «operazioni congiunte per la pace» a guida Nato.
Inoltre, dato che «molti ucraini mancano di informazioni sul ruolo e gli scopi dell’Alleanza e conservano nella propria mente sorpassati stereotipi della guerra fredda», la Nato istituisce a Kiev un Centro di informazione che organizza incontri e seminari e anche visite di «rappresentanti della società civile» al quartier generale di Bruxelles.
E poiché non esiste solo ciò che si vede, è evidente che la Nato ha una rete di collegamenti negli ambienti militari e civili molto più estesa di quella che appare. Lo conferma il tono di comando con cui il segretario generale della Nato si rivolge il 20 febbraio alle forze armate ucraine, avvertendole di «restare neutrali», pena «gravi conseguenze negative per le nostre relazioni». La Nato si sente ormai sicura di poter compiere un altro passo nella sua espansione ad Est, inglobando l’Ucraina o una sua parte, mentre continua la sua campagna contro «i sorpassati stereotipi della guerra fredda».
Questa strategia viene confermata dalla riunione dei ministri Nato della difesa, svoltasi il 26-27 febbraio 2014 al quartier generale di Bruxelles. Primo punto all’ordine del giorno l’Ucraina, con la quale – sottolineano i ministri nella loro dichiarazione – la Nato ha una «distintiva partnership» nel cui quadro continua ad «assisterla per la realizzazione delle riforme». Prioritaria «la cooperazione militare» (grimaldello con cui la Nato è penetrata in Ucraina). I ministri «lodano le forze armate ucraine per non essere intervenute nella crisi politica» (lasciando così mano libera ai gruppi armati) e ribadiscono che per «la sicurezza euro-atlantica» è fondamentale una «Ucraina stabile» (ossia stabilmente sotto la Nato).
I ministri trattano quindi il tema centrale della Connected Forces Initiative, la quale prevede una intensificazione dell’addestramento e delle esercitazioni che, unitamente all’uso di tecnologie militari sempre più avanzate, permetterà alla Nato di mantenere un’alta «prontezza operativa ed efficacia nel combattimento». Per verificare la preparazione, si svolgerà nel 2015 una delle maggiori esercitazioni Nato «dal vivo», con la partecipazione di forze terrestri, marittime e aeree di tutta l’Alleanza. La prima di una serie, che l’Italia si è offerta di ospitare.
Viene allo stesso tempo potenziata la «Forza di risposta della Nato» che, composta da unità terrestri, aeree e marittime fornite e rotazione dagli alleati, è pronta ad essere proiettata in qualsiasi momento in qualsiasi teatro bellico. Nell’addestramento dei suoi 13mila uomini, svolge un ruolo chiave il nuovo quartier generale delle Forze per le operazioni speciali che, situato in Belgio, è comandato dal vice-ammiraglio statunitense Sean Pybus dei Navy SEALs.
La preparazione di queste forze rientra nel nuovo concetto strategico adottato dall’Alleanza, sulla scia del riorientamento strategico statunitense. Per spiegarlo meglio interviene a Bruxelles il segretario alla difesa Chuck Hagel, che ha da poco annunciato un ridimensionamento delle forze terrestri Usa da 520mila e circa 450mila militari. Ma, mentre riduce le truppe, il Pentagono accresce le forze speciali da 66mila a 70mila, con uno stanziamento aggiuntivo di 26 miliardi di dollari per l’addestramento. Gli Usa, spiega Hagel, «non intendono più essere coinvolti in grandi e prolungate operazioni di stabilità oltremare, sulla scala di quelle dell’Iraq e l’Afghanistan». È il nuovo modo di fare la guerra, condotta in modo coperto attraverso forze speciali infiltrate, droni armati, gruppi (anche esterni) finanziati e armati per destabilizzare il paese, che preparano il terreno all’attacco condotto da forze aeree e navali.
Il ruolo dell’Italia nella Nato
«Amore per il popolo italiano»: lo dichiara il presidente Obama nel febbraio 2013, ricevendo alla Casa Bianca il presidente Napolitano. Perché tanto amore? Il popolo italiano «accoglie e ospita le nostre truppe sul proprio suolo». Accoglienza molto apprezzata dal Pentagono, che possiede in Italia (secondo i dati ufficiali 2012) 1485 edifici, con una superficie di 942mila m2, cui se ne aggiungono 996 in affitto o concessione. Sono distribuiti in 37 siti principali (basi e altre strutture militari) e 22 minori. Nel giro di un anno, i militari Usa di stanza in Italia sono aumentati di oltre 1500, superando i 10mila. Compresi i dipendenti civili, il personale del Pentagono in Italia ammonta a circa 14mila unità.
Alle strutture militari Usa si aggiungono quelle Nato, sempre sotto comando Usa: come il Comando interforze, col suo nuovo quartier generale di Lago Patria (Napoli). «Ospitando» alcune delle più importanti strutture militari, l’Italia svolge un ruolo cardine nella strategia Usa/Nato che, dopo la guerra alla Libia, non solo mira alla Siria e all’Iran ma va oltre, spostando il suo centro focale verso la regione Asia/Pacifico per fronteggiare la Cina in ascesa.
Il Comando della forza congiunta alleata a Napoli (Jfc Naples) è tenuto ufficialmente in «standby», ossia pronto in qualsiasi momento a entrare in guerra. Il nuovo quartier generale a Lago Patria, costruito per uno staff di oltre 2mila militari ed espandibile per «la futura crescita della Nato», è in piena attività. Avamposto delle operaziont militari del Jfc Naples è la Turchia, dove la Nato ha oltre venti basi aeree, navali e di spionaggio elettronico. A queste è stato aggiunto uno dei più importanti comandi Nato: il Landcom, responsabile di tutte le forze terrestri dei 28 paesi membri, attivato a Izmir (Smirne). Lo spostamento del comando delle forze terrestri dall’Europa alla Turchia – a ridosso del Medio Oriente (in particolare Siria e Iran) e del Caspio – indica che, nei piani Usa/Nato, si prevede l’impiego anche di forze terrestri, soprattutto europee, in quest’area di primaria importanza strategica.
Il Jfc Naples è agli ordini di un ammiraglio statunitense, che è allo stesso tempo comandante della Forza congiunta alleata a Napoli, delle Forze navali Usa in Europa e delle Forze navali del Comando Africa. Un gioco strategico delle tre carte, che permette al Pentagono di mantenere sempre il comando. E l’Europa? Essa è importante per gli Usa geograficamente, chiarisce il Comandante supremo alleato: le basi in Europa non sono residui «bastioni della guerra fredda», ma «basi operative avanzate» che permettono agli Usa di sostenere sia il Comando Africa che il Comando centrale nella cui area rientra il Medio Oriente. Sono quindi essenziali per «la sicurezza del 21° secolo», garantita da una «potente e capace alleanza» diretta dagli Usa, che possiede «24mila aerei da combattimento, 800 navi militari oceaniche, 50 aerei radar Awacs».
Una alleanza (questo non lo dice) la cui spesa militare ammonta a oltre 1000 miliardi di dollari annui, equivalenti al 57% del totale mondiale. A fare da locomotiva della spesa militare mondiale, salita nel 2012 a 1753 miliardi di dollari, sono ancora gli Stati uniti, con 682 miliardi, equivalenti a circa il 40% del totale mondiale. Quella italiana (documenta il Sipri) ammonta su base annua a circa 34 miliardi di dollari, pari a 26 miliardi di euro. Il che equivale a 70 milioni di euro al giorno, spesi con denaro pubblico in forze armate, armi e missioni militari all’estero. Per mantenere sempre pronti alla guerra i comandi, come quello di Napoli, città con un numero record di disoccupati, tenuti in «standby» nella vana attesa di un posto di lavoro.

La relazione riprende il saggio pubblicato nel volume ‘SE DICI GUERRA.. Basi militari, tecnologie e profitti’ (A cura di G. Piccin e con i contributi di G. Alioti, G. Casarrubea, R. De Simone, T. Di Francesco, M. Dinucci, A. Mazzeo, A. Pascolini), Kappa Vu Edizioni, Udine, 2014.

Hagel: le forze armate russe sono alle porte della Nato

http://italian.irib.ir/notizie/mondo/item/170813

irib

Giovedì, 16 Ottobre 2014 12:44

Hagel: le forze armate russe sono alle porte della Nato

WASHINGTON – Il segretario alla difesa statunitense Chuck Hagel ha esortato i militari americani di essere preparati al fatto che si possa “avere a che fare” con l’esercito russo moderno e pronto al combattimento, il quale, secondo Hagel, “è alle soglie della Nato”.

 Hagel ha evidenziato ciò osservando che i compiti dell’esercito americano diventeranno più variegati e complessi. Attualmente nella zone della responsabilità del Comando del Pacifico degli Usa ci sono 80 mila soldati, nella zona del Comando centrale ce ne sono 40 mila. Altri 28 mila militari sono in servizio in Europa. Diverse migliaia sono schierati in Africa e Sud America.

Il figlio dell’ambulante morto al Caat: “Non è colpa dei manifestanti”. Polemica sui soccorsi

http://www.nuovasocieta.it/cronaca/il-figlio-dellambulante-morto-al-caat-non-e-colpa-dei-manifestanti/

NuovaSocietà

Il figlio dell’ambulante morto al Caat: “Non è colpa dei manifestanti”. Polemica sui soccorsi
ottobre 16 2014
Stefano De Cesare ha 22 anni. È il figlio di Giuseppe, l’ambulante di 49 anni ucciso da un infarto al Caat di Grugliasco. Ed è proprio il 22enne, mentre sui giornali e sedi politiche rimbalza la tesi che l’ambulante sia morto d’infarto a causa del litigio con i manifestanti, a togliere ogni dubbio. «Si è trattata di una tragica fatalità – dice – non credo che le persone con cui ha discusso sianop responsabili della sua morte. Non ce l’ho con loro. È stata solo una fatalità».

Stefano lavorava col padre al banco di ortufrutta di famiglia in corso Cincinnati a Torino, che un tempo era del nonno. «Siamo una famiglia storica di mercatali, racconta Barbara, sorella di Giuseppe – ci conoscono un po’ dappertutto». Anche per questo ai mercati generali i colleghi di Giuseppe osserveranno un minuto di raccoglimento. Intanto Stefano, che vive a Givoletto con la sua famiglia parla ancora del padre «Papà era un grande lavoratore e ci mancherà tanto», conclude. Parole di cordoglio per Giuseppe De Cesare anche dal sito di riferimento del network antagonista piemontese, infoaut. «Alla famiglia e ai conoscenti della persona che è venuta a mancare, va tutto il nostro cordoglio e la nostra vicinanza per la perdita di una persona cara» scrivono in un editoriale.

Mentre a poche ore dalla morte di Giuseppe De Cesare è polemica sui soccorsi. Il 49enne poteva salvarsi se sul posto ci fosse stato un presidio sanitario? È la domanda che si pongono in molti e in particolare i Si Cobas. Infatti, nonostante la forte presenza delle forze dell’ordine non c’erano ambulanze anche se c’erano già stati dei tafferugli e già un lavoratore aveva avuto un malore.

Non solo. Come fa notare Francesco La Torraca dei Si Cobas, «Al centro del Caat non c’è neanche un presidio sanitario».
Sotto accusa anche l’intervento dell’ambulanza che sarebbe arrivata, secondo i testimoni, ascoltati anche dalla polizia che indaga sugli scontri, con 45 minuti di ritardo. «Non capiamo perché, nonostante la manifestazione in corso e le forze dell’ordine in assetto militare, non ci fosse neppure un’ambulanza. Quella che ha soccorso il povero ambulante è arrivata dopo 45 minuti…»
Ma quest’affermazione viene contestata dal 118 che dal suo ufficio stampa fa sapere che l’ambulanza sarebbe invece arrivata dopo 15 minuti di cui 9 di tragitto.
Tornando alla manifestazione, i Cobas sostengono che i militanti dei centri sociali, finiti sul banco degli imputati sia per Stefano Esposito del Pd e Maurizio Marrone di FdI.
Invece La Torraca, punta l’indice verso la polizia «La scorsa notte le forze dell’ordine hanno difeso l’illegalità».
Per quanto riguarda invece i militanti dei centri sociali, La Torraca spiega: «Sono rimasti in disparte, anche perché non ci interessava che diventasse il loro sciopero. La tensione è scoppiata quando è uscito un camion ad alta velocità nonostante lo sciopero. Ma gli antagonisti erano dietro e stavano tranquilli, i protagonisti della manifestazione sono stati i lavoratori. Non ci fossero stati gli antagonisti – conclude – sarebbe successa la stessa cosa se non peggio».

Collaudato il sistema Muos

Dalla base Scott Air Force in Illinois è stato possibile attraverso due palmari collegarsi ad un C-17 della USAF, in volo sull’Oceano Pacifico e da lì comunicare con l’equipaggio e dare indicazioni sul piano di volo.

di Daniela Giuffrida

Apprendiamo da un documento pubblicato dalla “airforce-technology.com” un sito americano per i professionisti nell’ambito dell’industria aeronautica mondiale”  che, nei giorni scorsi, i signori della General Dynamics C4 Systems hanno dimostrato la capacità del loro PRC-155, un palmarino in uso alle forze militari AMERICANE di combinarsi con le capacità ricetrasmittenti del MUOS e , attraverso questo, collegarsi ad un aereo in volo, le prove sono avvenute per conto della US Air Force (USAF).

Quindi, attraverso un PRC-155 posto presso la base Scott Air Force (AFB), in Illinois sono entrati in “connettività” con altro PRC-155 posto su un C-17 della USAF in volo aereo sopra l’Oceano Pacifico.

“Durante la manifestazione i PRC-155, attrezzati per connettersi col MUOS, situati in aereo e sul terreno hanno permesso agli osservatori USAF di parlare con l’ equipaggio del C-17, di  scambiare dati e di monitorare lo stato di volo del velivolo utilizzando il sistema di comunicazione satellitare MUOS.

Il Presidente della General Dynamics C4 Sistems, Chris Marzilli ha detto: “Gli osservatori Air Force hanno sperimentato la chiarezza vocale del cellulare, come durante le conversazioni con l’equipaggio di volo e realizzato la potente nuova funzionalità di dati voce che questa combinazione di comunicazioni, rappresenta.”

Pare inoltre che, attraverso il palmare, sia stato possibile dal centro di comando apportare modifiche alla rotta di volo, comunicandola direttamente al pilota ed equipaggio, visto che il “manpack PRC-155″ oltre che essere l’unica radio disponibile all’esercito americano che si colleghi alla rete MUOS, permette la visualizzazione delle informazioni sul display della cabina di guida e tutti i dati del computer di volo del velivolo.

Ancora “propaganda” americana:

“I dati – si legge sul documento della Airforce-technology – del computer di volo del velivolo  viaggiavano in modo sicuro dalla radio PRC-155, sopra il satellite MUOS e giù per un’altra radio in centrale operativa, consentendo al personale USAF di guardare volo del velivolo sulla loro missione display di monitoraggio / workstation di stato.

La radio PRC-155 è il primo a consegnare la voce sicura e la connettività dati utilizzando il sistema MUOS da terra ed a bordo degli aeromobili in volo nelle regioni polari.

Prodotto da Lockheed Martin, il MUOS offre comunicazioni vocali smartphone di qualità con capacità di trasmissione dati 10 volte superiore alla capacità dei sistemi  di comunicazione satellitare di ultima generazione. “

Bene, funziona,  il Muos  funziona e adesso che lo sappiamo, possiamo tranquillizzare i siciliani, i nostri ospiti  “cortesi e cleaner-beaches (pulisci spiagge)” sapranno guidare i loro mezzi aerei, navali e sottomarini verso i paesi che decideranno ed utilizzali come meglio vorranno. Dalla base militare di Sigonella  con un bel palmarino PRC-155 interagendo col Muos di Niscemi, potranno mandare un bel drone a salutare dall’alto i tanti  gitanti di Halloween, festosamente accolti  alla base stessa il prossimo 28 novembre, anzi sarà da stimolo per altri enti ed altre proloco, ad intensificare queste visite fuori porta, anche per festeggiare le altre stagioni e non solo l’autunno.

D.G. 17.10.14

Ebola, AIDS Manufactured By Western Pharmaceuticals, US DoD? – Il più importante quotidiano liberiano: “Ebola e AIDS creati in laboratorio”

Una notizia ovviamente CENSURATA dai nostri media che merita di essere divulgata, è che il più importante quotidiano liberiano, il Daily Obserber, ha pubblicato un articolo firmato dal dottor Cyril Broderick, professore di patologia vegetale molto stimato a Monrovia, che ipotizza, argomentando con cura, che EBOLA e AIDS sarebbero stati CREATI IN LABORATORIO DAGLI USA, precisamente “armi biologiche da testare sugli africani, per ridurre la popolazione”.

Dopo l’articolo originale, vi proponiamo l’articolo, tradotto in italiano tramite Google traduttore. La traduzione ovviamente non è impeccabile.

Redazione Informatitalia

Scientists allege deadly diseases such as Ebola and AIDS are bio weapons being tested on Africans. Other reports have linked the Ebola virus outbreak to an attempt to reduce Africa’s population. Liberia happens to be the continents’s fastest growing population.

Ebola, AIDS Manufactured By Western Pharmaceuticals, US DoD?

Tue, 09/09/2014 – 09:59 admin
Scientists Allege
By: 
Dr. Cyril Broderick, Professor of Plant Pathology

Dear World Citizens:

I have read a number of articles from your Internet outreach as well as articles from other sources about the casualties in Liberia and other West African countries about the human devastation caused by the Ebola virus. About a week ago, I read an article published in the Internet news summary publication of the Friends of Liberia that said that there was an agreement that the initiation of the Ebola outbreak in West Africa was due to the contact of a two-year old child with bats that had flown in from the Congo. That report made me disconcerted with the reporting about Ebola, and it stimulated a response to the “Friends of Liberia,” saying that African people are not ignorant and gullible, as is being implicated. A response from Dr. Verlon Stone said that the article was not theirs, and that “Friends of Liberia” was simply providing a service. He then asked if he could publish my letter in their Internet forum. I gave my permission, but I have not seen it published. Because of the widespread loss of life, fear, physiological trauma, and despair among Liberians and other West African citizens, it is incumbent that I make a contribution to the resolution of this devastating situation, which may continue to recur, if it is not properly and adequately confronted. I will address the situation in five (5) points:
 
1.    EBOLA IS A GENETICALLY MODIFIED ORGANISM (GMO)
 
Horowitz (1998) was deliberate and unambiguous when he explained the threat of new diseases in his text, Emerging Viruses: AIDS and Ebola – Nature, Accident or Intentional. In his interview with Dr. Robert Strecker in Chapter 7, the discussion, in the early 1970s, made it obvious that the war was between countries that hosted the KGB and the CIA, and the ‘manufacture’ of ‘AIDS-Like Viruses’ was clearly directed at the other. In passing during the Interview, mention was made of Fort Detrick, “the Ebola Building,” and ‘a lot of problems with strange illnesses’ in “Frederick [Maryland].” By Chapter 12 in his text, he had confirmed the existence of an American Military-Medical-Industry that conducts biological weapons tests under the guise of administering vaccinations to control diseases and improve the health of “black Africans overseas.” The book is an excellent text, and all leaders plus anyone who has interest in science, health, people, and intrigue should study it. I am amazed that African leaders are making no acknowledgements or reference to these documents.
 
2.  EBOLA HAS A TERRIBLE HISTORY, AND TESTING HAS BEEN SECRETLY TAKING PLACE IN AFRICA
 
I am now reading The Hot Zone, a novel, by Richard Preston (copyrighted 1989 and 1994); it is heart-rending. The prolific and prominent writer, Steven King, is quoted as saying that the book is “One of the most horrifying things I have ever read. What a remarkable piece of work.” As a New York Times bestseller, The Hot Zone is presented as “A terrifying true story.” Terrifying, yes, because the pathological description of what was found in animals killed by the Ebola virus is what the virus has been doing to citizens of Guinea, Sierra Leone and Liberia in its most recent outbreak: Ebola virus destroys peoples’ internal organs and the body deteriorates rapidly after death. It softens and the tissues turn into jelly, even if it is refrigerated to keep it cold. Spontaneous liquefaction is what happens to the body of people killed by the Ebola virus! The author noted in Point 1, Dr. Horowitz, chides The Hot Zone for writing to be politically correct; I understand because his book makes every effort to be very factual. The 1976 Ebola incident in Zaire, during President Mobutu Sese Seko, was the introduction of the GMO Ebola to Africa.
 
3.    SITES AROUND AFRICA, AND IN WEST AFRICA, HAVE OVER THE YEARS BEEN SET UP FOR TESTING EMERGING DISEASES, ESPECIALLY EBOLA
 
The World Health Organization (WHO) and several other UN Agencies have been implicated in selecting and enticing African countries to participate in the testing events, promoting vaccinations, but pursuing various testing regiments. The August 2, 2014 article, West Africa: What are US Biological Warfare Researchers Doing in the Ebola Zone? by Jon Rappoport of Global Research pinpoints the problem that is facing African governments. 
 
Obvious in this and other reports are, among others: 
 
(a) The US Army Medical Research Institute of Infectious Diseases (USAMRIID), a well-known centre for bio-war research, located at Fort Detrick, Maryland; 
 
(b) Tulane University, in New Orleans, USA, winner of research grants, including a grant of more than $7 million the National Institute of Health (NIH) to fund research with the Lassa viral hemorrhagic fever; 
 
(c) the US Center for Disease Control (CDC); 
 
(d) Doctors Without Borders (also known by its French name, Medicins Sans Frontiers); 
 
(e) Tekmira, a Canadian pharmaceutical company;  
 
(f) The UK’s GlaxoSmithKline; and 
 
(g) the Kenema Government Hospital in Kenema, Sierra Leone. 
 
Reports narrate stories of the US Department of Defense (DoD) funding Ebola trials on humans, trials which started just weeks before the Ebola outbreak in Guinea and Sierra Leone. The reports continue and state that the DoD gave a contract worth $140 million dollars to Tekmira, a Canadian pharmaceutical company, to conduct Ebola research. This research work involved injecting and infusing healthy humans with the deadly Ebola virus. Hence, the DoD is listed as a collaborator in a “First in Human” Ebola clinical trial (NCT02041715, which started in January 2014 shortly before an Ebola epidemic was declared in West Africa in March. Disturbingly, many reports also conclude that the US government has a viral fever bioterrorism research laboratory in Kenema, a town at the epicentre of the Ebola outbreak in West Africa. The only relevant positive and ethical olive-branch seen in all of my reading is that Theguardian.com reported, “The US government funding of Ebola trials on healthy humans comes amid warnings by top scientists in Harvard and Yale that such virus experiments risk triggering a worldwide pandemic.” That threat still persists.
 
4.    THE NEED FOR LEGAL ACTION TO OBTAIN REDRESS FOR DAMAGES INCURRED DUE TO THE PERPETUATION OF INJUSTICE IN THE DEATH, INJURY AND TRAUMA IMPOSED ON LIBERIANS AND OTHER AFRICANS BY THE EBOLA AND OTHER DISEASE AGENTS. 
 
The U. S., Canada, France, and the U. K. are all implicated in the detestable and devilish deeds that these Ebola tests are. There is the need to pursue criminal and civil redress for damages, and African countries and people should secure legal representation to seek damages from these countries, some corporations, and the United Nations. Evidence seems abundant against Tulane University, and suits should start there. Yoichi Shimatsu’s article, The Ebola Breakout Coincided with UN Vaccine Campaigns, as published on August 18, 2014, in the Liberty Beacon.
 
5.   AFRICAN LEADERS AND AFRICAN COUNTRIES NEED TO TAKE THE LEAD IN DEFENDING BABIES, CHILDREN, AFRICAN WOMEN, AFRICAN MEN, AND THE ELDERLY. THESE CITIZENS DO NOT DESERVE TO BE USED AS GUINEA PIGS! 
 
Africa must not relegate the Continent to become the locality for disposal and the deposition of hazardous chemicals, dangerous drugs, and chemical or biological agents of emerging diseases. There is urgent need for affirmative action in protecting the less affluent of poorer countries, especially African citizens, whose countries are not as scientifically and industrially endowed as the United States and most Western countries, sources of most viral or bacterial GMOs that are strategically designed as biological weapons. It is most disturbing that the U. S. Government has been operating a viral hemorrhagic fever bioterrorism research laboratory in Sierra Leone. Are there others? Wherever they exist, it is time to terminate them. If any other sites exist, it is advisable to follow the delayed but essential step: Sierra Leone closed the US bioweapons lab and stopped Tulane University for further testing.
 
The world must be alarmed. All Africans, Americans, Europeans, Middle Easterners, Asians, and people from every conclave on Earth should be astonished. African people, notably citizens more particularly of Liberia, Guinea and Sierra Leone are victimized and are dying every day. Listen to the people who distrust the hospitals, who cannot shake hands, hug their relatives and friends. Innocent people are dying, and they need our help. The countries are poor and cannot afford the whole lot of personal protection equipment (PPE) that the situation requires. The threat is real, and it is larger than a few African countries. The challenge is global, and we request assistance from everywhere, including China, Japan, Australia, India, Germany, Italy, and even kind-hearted people in the U.S., France, the U.K., Russia, Korea, Saudi Arabia, and anywhere else whose desire is to help. The situation is bleaker than we on the outside can imagine, and we must provide assistance however we can. To ensure a future that has less of this kind of drama, it is important that we now demand that our leaders and governments be honest, transparent, fair, and productively engaged. They must answer to the people. Please stand up to stop Ebola testing and the spread of this dastardly disease.
 
Thank you very much.
Sincerely,

Dr. Cyril E. Broderick, Sr.
About the Author:
Dr. Broderick is a former professor of Plant Pathology at the University of Liberia’s College of Agriculture and Forestry.  He is also the former Observer Farmer in the 1980s.  It was from this column in our newspaper, the Daily Observer, that Firestone spotted him and offered him the position of Director of Research in the late 1980s.  In addition, he is a scientist, who has taught for many years at the Agricultural College of the University of Delaware.
TRADUZIONE

Gli scienziati sostengono malattie mortali come Ebola e l’AIDS sono armi bio essere testati sugli africani. Altri rapporti hanno collegato l’epidemia di virus Ebola a un tentativo di ridurre la popolazione dell’Africa. Liberia sembra essere più veloce crescente popolazione continenti.
Ebola, AIDS Prodotto Da Pharmaceuticals Occidentali, US DoD?
Tue, 2014/09/09 – 09:59 amministratore
Gli scienziati sostengono
By:
Il dottor Cyril Broderick, professore di patologia vegetale

Cari cittadini del mondo:
Ho letto una serie di articoli dal tuo outreach Internet, nonché gli articoli da altre fonti circa le perdite in Liberia e in altri paesi dell’Africa occidentale circa la devastazione umana causata dal virus Ebola. Circa una settimana fa, ho letto un articolo pubblicato sulla pubblicazione sommaria notizia internet degli Amici della Liberia che ha detto che vi era un accordo che l’inizio della epidemia di Ebola in Africa occidentale è dovuto al contatto di due anni di età bambino con i pipistrelli che avevano volato in dal Congo. Tale relazione mi ha fatto sconcertato con la segnalazione su Ebola, e ha stimolato una risposta agli “Amici della Liberia,” dicendo che gli africani non sono ignoranti e creduloni, come viene implicato. Una risposta da Dr. Verlon Stone ha detto che l’articolo non era la loro, e che “Amici della Liberia” è stato semplicemente fornendo un servizio. Ha poi chiesto se poteva pubblicare la mia lettera nel loro forum Internet. Ho dato il mio permesso, ma io non l’ho visto pubblicato. A causa della diffusa perdita della vita, paura, traumi fisiologici, e disperazione tra i liberiani e altri cittadini dell’Africa occidentale, è doveroso che io faccio un contributo alla risoluzione di questa situazione devastante, che può continuare a ripresentarsi, se non è adeguatamente e adeguatamente affrontato. Mi affrontare la situazione in cinque (5) punti:
1 Ebola è un organismo geneticamente modificato (OGM)
Horowitz (1998) è stata deliberata e inequivocabile quando ha spiegato la minaccia di nuove malattie nel suo testo, Virus emergenti: AIDS e Ebola – Natura, incidenti o intenzionali. Nella sua intervista con il Dr. Robert Strecker nel capitolo 7, la discussione, nei primi anni 1970, ha reso evidente che la guerra era tra i paesi che hanno ospitato il KGB e la CIA, e la ‘produzione’ di ‘AIDS-come i virus’ era chiaramente orientata all’altra.Passando Durante l’intervista, si è parlato di Fort Detrick, “il Palazzo Ebola,” e ‘un sacco di problemi con malattie strane “in” Frederick [Maryland]. “Dal capitolo 12 del suo testo, aveva confermato l’esistenza di un militare-medico-industria americana che conduce i test di armi biologiche con il pretesto di amministrare vaccinazioni per controllare le malattie e migliorare la salute di “africani neri all’estero.” Il libro è un testo eccellente, e tutti i leader più chiunque abbia interesse per la scienza, la salute, la gente, e l’intrigo dovrebbero studiarlo. Sono stupito che i leader africani stanno facendo nessun riconoscimenti o riferimenti a questi documenti.
2 EBOLA ha una storia terribile, e TEST è stato segretamente che si svolgono in AFRICA
Ora sto leggendo The Hot Zone, un romanzo, da Richard Preston (copyright 1989 e il 1994); è strazianti. Lo scrittore prolifico e prominente, Steven King, è citato come dicendo che il libro è “Una delle cose più orribili che abbia mai letto. Quello che una notevole parte di lavoro. “Come un bestseller del New York Times, The Hot Zone è presentato come” Una storia vera terrificante. “Terrificante, sì, perché la descrizione patologica di ciò che è stato trovato in animali uccisi dal virus Ebola è ciò che il virus ha fatto ai cittadini della Guinea, Sierra Leone e la Liberia nel suo focolaio più recente: virus Ebola distrugge gli organi interni delle persone e il corpo si deteriora rapidamente dopo la morte. Si ammorbidisce e tessuti trasformano in gelatina, anche se viene refrigerato per mantenerlo freddo. Liquefazione spontanea è ciò che accade al corpo di persone uccise dal virus Ebola! L’autore indicato nel punto 1, il Dr. Horowitz, rimprovera zona calda per la scrittura di essere politicamente corretto; Capisco perché il suo libro fa ogni sforzo per essere molto fattuale. Il 1976 Ebola incidente in Zaire, durante Presidente Mobutu Sese Seko, è stata l’introduzione degli OGM Ebola in Africa.
3. siti intorno AFRICA, E IN AFRICA OCCIDENTALE, HANNO CORSO DEGLI ANNI stato istituito per i test MALATTIE EMERGENTI, SOPRATTUTTO EBOLA
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e diverse altre agenzie delle Nazioni Unite sono stati implicati nella selezione e paesi africani allettanti per partecipare agli eventi di prova, promuovendo le vaccinazioni, ma perseguendo vari reggimenti di test. Il 2 agosto, 2014 articolo, Africa Occidentale: Cosa US Biological Warfare ricercatori facendo nella zona Ebola? da Jon Rappoport di Global Research individua il problema che sta affrontando i governi africani.
Evidente in questa e altre relazioni sono, tra gli altri:
(A) La US Army Medical Research Institute di Malattie Infettive (USAMRIID), un noto centro per la ricerca bio-guerra, che si trova a Fort Detrick, nel Maryland;
(B) la Tulane University, a New Orleans, Stati Uniti d’America, vincitore di assegni di ricerca, tra cui una sovvenzione di oltre 7000 mila dollari il National Institute of Health (NIH) per finanziare la ricerca con la febbre emorragica virale Lassa;
(C) il Centro statunitense per il Controllo delle Malattie (CDC);
(D) Medici Senza Frontiere (conosciuto anche con il nome francese, Medici Senza Frontiere);
(E) Tekmira, una società farmaceutica canadese;
(F) GlaxoSmithKline del Regno Unito; e
(G) il Kenema governo Hospital di Kenema, Sierra Leone.
Rapporti raccontano storie del Dipartimento della Difesa (DoD) finanziano studi Ebola sull’uomo, studi iniziati poche settimane prima dello scoppio di Ebola in Guinea e Sierra Leone. I rapporti continuano e dichiarare che il DoD ha dato un contratto del valore di 140 milioni dollari di dollari per Tekmira, una società farmaceutica canadese, per condurre una ricerca Ebola. Questo lavoro di ricerca ha coinvolto l’iniezione e infusione di esseri umani sani con il virus Ebola mortale. Quindi, il DoD è elencato come collaboratore in uno studio clinico “First in Human” Ebola (NCT02041715, iniziato nel gennaio 2014 poco prima di una epidemia di Ebola è stata dichiarata in Africa occidentale a marzo. Inquietante, molte relazioni concludono inoltre che il governo degli Stati Uniti dispone di un laboratorio di ricerca virale febbre bioterrorismo in Kenema, una città l’epicentro del focolaio di Ebola in Africa occidentale. L’unico ramoscello d’ulivo positivo ed etico pertinente visto in tutta la mia lettura è che Theguardian.com riferito, “Il finanziamento del governo degli Stati Uniti della sperimentazione sull’uomo sano Ebola viene in mezzo avvertimenti di scienziati di Harvard e Yale che tali esperimenti virus rischio innescando una pandemia in tutto il mondo. “Quella minaccia persiste.
4 LA NECESSITÀ DI UN’AZIONE LEGALE intende ottenere il risarcimento danni derivanti alla perpetuazione dell’ingiustizia nel MORTE, LESIONI E TRAUMA IMPOSTE liberiani ED ALTRI AFRICANI DEL Ebola e da altri agenti patogeni.
Gli Stati Uniti, Canada, Francia, e Regno Unito sono tutti implicati negli atti detestabili e diabolici che questi test sono Ebola. Vi è la necessità di perseguire un risarcimento penale e civile per danni, ed i paesi africani e le persone dovrebbero garantire la rappresentanza legale per chiedere i danni da questi paesi, alcune aziende e le Nazioni Unite. Prove sembra abbondante contro Tulane University, e si adatta dovrebbe cominciare da lì. Articolo di Yoichi Shimatsu, Il Ebola Breakout ha coinciso con il vaccino campagne delle Nazioni Unite, pubblicato il 18 agosto 2014, nella Liberty Beacon.
5. leader africani ei paesi africani hanno bisogno di prendere l’iniziativa di NEONATI Difendere, BAMBINI, donne africane, uomini africani, e gli anziani. Questi cittadini non meritano di essere utilizzato come CAVIE!
L’Africa non deve relegare il continente a diventare la località per lo smaltimento e la deposizione di sostanze chimiche pericolose, droghe pericolose, e agenti chimici o biologici delle malattie emergenti. Vi è urgente necessità di azioni positive per proteggere i meno abbienti dei paesi più poveri, in particolare cittadini africani, di cui i paesi non sono scientificamente e industrialmente dotato come gli Stati Uniti e la maggior parte dei paesi occidentali, le fonti di maggior parte degli OGM virali o batteriche che sono strategicamente progettati come armi biologiche. E ‘più inquietante che il governo degli Stati Uniti ha operato una febbre emorragica virale laboratorio di ricerca bioterrorismo in Sierra Leone. Ci sono altri? Dovunque esistono, è il momento di terminare loro. Se esistono altri siti, si consiglia di seguire il passo in ritardo ma essenziale: la Sierra Leone ha chiuso il laboratorio statunitense armi biologiche e si fermò Tulane University per ulteriori test.
Il mondo deve essere allarmato. Tutti gli africani, americani, europei, mediorientali, asiatici e persone provenienti da ogni conclave sulla Terra dovrebbe essere stupito. Popoli africani, in particolare i cittadini più in particolare della Liberia, Guinea e Sierra Leone sono vittime e muoiono ogni giorno. Ascoltare le persone che diffidano gli ospedali, che non può scuotere le mani, abbracciare i loro parenti e amici. Persone innocenti stanno morendo, e hanno bisogno del nostro aiuto. I paesi sono poveri e non possono permettersi l’intero lotto di dispositivi di protezione individuale (DPI) che la situazione richiede. La minaccia è reale, ed è più grande di alcuni paesi africani. La sfida è globale, e chiediamo assistenza da tutto il mondo, tra cui Cina, Giappone, Australia, India, Germania, Italia, e anche le persone di buon cuore negli Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Russia, Corea, Arabia Saudita, e in qualsiasi altro luogo il cui desiderio è quello di aiutare. La situazione è più tetro di quello che all’esterno può immaginare, e noi dobbiamo fornire assistenza per quanto possibile. Per garantire un futuro che ha meno di questo tipo di dramma, è importante che noi ora chiediamo che i nostri leader e governi siano onesti, trasparenti, eque e produttivamente impegnati. Essi devono rispondere alle persone. Si prega di alzarsi di interrompere le prove Ebola e la diffusione di questa malattia vile.

Grazie mille.
Cordiali saluti,

Il dottor Cyril E. Broderick, Sr.

Chi l’Autore:
Il dottor Broderick è un ex professore di Patologia Vegetale presso l’Università di Liberia di Facoltà di Agraria e Forestali. Egli è anche l’ex Osservatore Farmer nel 1980. Fu da questa colonna nel nostro giornale, il Daily Observer, che Firestone lo vide e gli offrì la carica di direttore della ricerca alla fine del 1980. Inoltre, egli è uno scienziato, che ha insegnato per molti anni presso l’Agricultural College della University of Delaware.
http://informatitalia.blogspot.it

http://terrarealtime.blogspot.it/2014/10/il-piu-importante-quotidiano-liberiano.html#more

TORNA LA CRISI E METTE ALLA PROVA TUTTI I RIMEDI ESCOGITATI DALLA DIRIGENZA EUROPEA. CHI PAGHERÀ SE NON FUNZIONANO?

di Antonio de Martini
16 ottobre 2014

Di Corriere della Collera

I potentati economico finanziari anglo-americani hanno nuovamente attaccato la fortezza Europa.
L’obbiettivo è colpire la BCE.
E con essa l’Euro, l’unica valuta in grado di piegare il dollaro.

Abbiamo nel post precedente l’illustrazione dell’andamento del PIL dei 17/18 paesi dell’Eurozona e dei 27/28 membri della UE.
La Grecia e Cipro, sono loro il pretesto, stanno faticosamente uscendo dalla crisi, proseguono la cura ( pessima) che li fa soffrire, ma nessuno può dire che si trovino in condizioni peggiori di tre anni fa, molti rimborsi sono stati fatti e tutti puntualmente.
Hanno attaccato ugualmente, incuranti di contraddirsi, insofferenti a qualsiasi cosa che non sia il loro profitto immediato. Arroganti, ma con una variante: questa volta hanno intralciato la costruzione della leadership Obamiana ( su Irak-Siria e su Ebola) e il governo USA ha dovuto prendere le distanze andando in soccorso degli alleati europei : la Federal Reserve che voleva rallentare fino a smettere i finanziamenti a tasso zero, li ha riconfermati, offrendo liquidità aggiuntiva illimitata.

Più interessante la reazione europea, se ci sarà.

Ricordiamo tutti che durante la scorsa crisi del 2009-2010-2011 i membri dell’Eurogruppo ( il sinodo dei ministri economici UE) dopo infinite doglie partorirono la decisione di costituire un FONDO SALVA STATI cui l’Italia si impegnò a contribuire con ottanta miliardi di euro. Riassume il SOLE24ORE:

<!–Quanto pesano sull’Italia i salvataggi europei – Il Sole 24 ORE
http://www.ilsole24ore.com/…/quanto-pesano-italia-salvataggi-europei-064120.s&#8230;
07/mar/2014 – Se i prestiti verranno ripagati in toto, l’Italia potrebbe anche guadagnarci, perché i tassi pagati dai fondi salva stati (che hanno una tripla A) …

A noi basterà porre una sola domanda cui qualcuno dovrà pur rispondere: i vari fondi salva stati, di stabilità ecc. Cosa hanno fatto per impedire questo nuovo attacco a freddo?
Abbiamo sottoscritto settecento miliardi di cui ottanta già versati. Una massa di manovra capace di punire gli speculatori.
Come stiamo impiegando questi fondi? Li stiamo impiegando?
Puniremo gli speculatori e interverremo sui mercati ” saltando” le banche o saremo paghi di essercela cavata ?
Dalle risposte a queste domande – e solo da queste – dipenderà la credibilità delle istituzioni europee.
http://www.rischiocalcolato.it/2014/10/torna-la-crisi-e-mette-alla-prova-tutti-i-rimedi-escogitati-dalla-dirigenza-europea-chi-paghera-se-non-funzionano-di-antonio-de-martini.html

Meno Male che Hollande è Nostro Alleato, Spread Francese in Decollo Verticale

16 ottobre 2014

Ahhhh… meno male che abbiamo uno Statista di razza come Hollande alleato nella potente guerra contro i cattivi tedeschi.

E infatti:

Schermata 2014 10 16 alle 13.10.36 650x520 Meno Male che Hollande è Nostro Alleato, Spread Francese in Decollo Verticale

Ah, nota a margine.

Lo Spread tra Italia e Spagna si è allargato da 20 a 32 bps massimi da un triennio.

Schermata 2014 10 16 alle 13.09.44 Meno Male che Hollande è Nostro Alleato, Spread Francese in Decollo VerticaleSchermata 2014 10 16 alle 13.10.08 Meno Male che Hollande è Nostro Alleato, Spread Francese in Decollo Verticale

Indennizzo vittime, la Commissione UE ha deferito l’Italia alla Corte di giustizia

16 ottobre –

La Commissione europea ha deferito l’Italia alla Corte di giustizia dell’Unione europea per inadeguata attuazione delle norme comunitarie sull’indennizzo delle vittime di reato, terzo passaggio della procedura di infrazione. Secondo il diritto comunitario, tutti gli Stati membri sono tenuti a provvedere che il sistema di indennizzo nazionale “garantisca un indennizzo equo e adeguato delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori”.
La legislazione italiana, si spiega dalla Commissione, contempla invece l’indennizzo delle vittime solo in relazione ad alcuni reati intenzionali violenti, quali il terrorismo e la criminalità organizzata, non a tutti. L’indennizzo “dovrebbe essere possibile tanto nelle situazioni nazionali quanto in quelle transfrontaliere, a prescindere dal Paese di residenza della vittima e indipendentemente dallo Stato membro in cui il reato è stato commesso”.
http://www.imolaoggi.it/2014/10/16/indennizzo-vittime-la-commissione-ue-ha-deferito-litalia-alla-corte-di-giustizia/

POUTINE A BELGRADE : « PRESIDENT DE RUSSIE, SAUVE LA SERBIE DE L’OCCUPATION DE L’OTAN ! »

BL pour PCN-INFO/

Avec RIA Novosti – PCN-SPO – lucmichel.net/ 2014 10 16/

http://www.scoop.it/t/pcn-spo

https://www.facebook.com/PCN.NCP.press.office PIH - BL poutine à belgrade (2014 10 17) FR 1

« Pour la Serbie la Russie est une grande amie de longue date et Belgrade ne remettra pas en question ses principes moraux par le biais d’une attitude négative à l’égard de la Russie. Nous n’avons pas de choix et nous ne pouvons pas agir autrement »

– Timislav Nikolic, président de Serbie.

  « Président de Russie, sauve la Serbie de l’occupation de l’OTAN ! »

C’est avec de telles banderoles que Belgrade accueillait le dirigeant russe …

 La visite de Vladimir Poutine a lieu à l’occasion de la libération il y a 70 ans de la capitale serbe des troupes hitlériennes. Les pourparlers du chef de l’Etat russe avec la direction de Serbie tournaient autour du problème du Kosovo, des perspectives du gazoduc South Stream, de la protection de l’information secrète et de la coopération technique et militaire.

 ANCRER LES INTERETS RUSSES AU COEUR DE L’EUROPE :

UNE VISITE QUI DERANGE LES OCCIDENTAUX 

Vladimir Poutine est arrivé à Belgrade ce jeudi en début d’après-midi pour une visite symbolique visant à ancrer les intérêts russes au coeur de l’Europe, dans un contexte de vive tension entre Moscou et l’Occident en raison de la crise ukrainienne.

 M. Poutine, dont la visite coïncide avec le 70e anniversaire de la libération de Belgrade de l’occupation nazie, a été accueilli à l’aéroport par son homologue, Tomislav Nikolic. L’autoroute reliant l’aéroport au centre-ville était pavoisée de drapeaux russes et serbes et des mesures strictes de sécurité ont été imposées en ville. Les deux présidents déposeront des gerbes au cimetière où reposent des soldats russes tombés durant la 2e guerre mondiale.

 Après des entretiens avec M. Nikolic et la signature de plusieurs accords bilatéraux, M. Poutine, dont la dernière visite à Belgrade remonte à 2011, s’est entretenu avec le Premier ministre serbe, Aleksandar Vucic.

 Il a assisté ensuite à un grand défilé militaire, vers 13H30 GMT, le premier organisé dans la capitale serbe depuis 1985, et a pris la parole devant la foule. Plus de 3.000 militaires serbes, de même que des unités de blindés et de l’aviation, participeront à ce défilé, ainsi que des invités venus spécialement de Russie, le groupe d’acrobatie Strizhi de l’armée de l’air russe.

 VV Poutine se rendra ensuite à Milan, où il doit rencontrer son homologue ukrainien Petro Porochenko et de hauts responsables européens en marge du sommet ASEM (Dialogue Asie-Europe) qui réunira des dirigeants de l’UE et plusieurs pays asiatiques les 16 et 17 octobre.

PIH - BL poutine à belgrade (2014 10 17) FR 2

 LA RUSSIE SOUTIEN BELGRADE SUR LE KOSSOVO.

BELGRADE NE SUIT PAS BRUXELLES SUR LES SANCTIONS.

 La Serbie n’a pas l’intention de transiger avec ses principes moraux, en changeant d’attitude envers la Russie. C’est ce qu’a déclaré le président de la République de Serbie Tomislav Nikolic, en recevant à Belgrade son homologue russe Vladimir Poutine. D’après M. Nikolic, les Serbes apprécient hautement le soutien de Moscou en matière de préservation de l’intégralité territoriale et de l’indépendance de leur pays, surtout concernant le problème du Kosovo.

 Vladimir Poutine a pour sa part confirmé la position de la Russie sur la question du Kosovo.

« La Russie occupe une position de principe. Elle repose sur notre amitié et notre affinité, mais aussi sur le droit international et l’équité. Cette position là ne se prête à aucun correctif. Nous continuerons de soutenir la Serbie. La Russie ne marchande pas son amitié. »

 Tomislav Nikolic a de son côté qualifié de précieux le soutien en la matière que la Russie accorde à la Serbie. “Votre soutien à la sauvegarde de l’intégrité territoriale et de l’indépendance de la Serbie est précieux pour nous, surtout pour ce qui est du Kosovo”, a ajouté le leader serbe.

 L’UNION ECONOMIQUE EURASIATIQUE RIVALE DE L’UE :

BELGRADE REGARDE AUSSI VERS MOSCOU

 Bien entendu, Moscou et Belgrade sont aussi des pays partenaires en économie. Dans ce domaine les rapports sont dynamiques, a remarqué Vladimir Poutine. « Les échanges économiques et commerciaux entre la Russie et la Serbie connaissent un essor. Le chiffre d’affaire augmente considérablement, suivant nos données – de près de17 %. Les rythmes sont bons, les investissements croissent. Nous avons à diversifier nos contacts, nos liens économiques – y compris en matière d’industrie de hautes technologies. Pour la Serbie le moment est à présent très favorable pour occuper une niche digne sur le marché russe. »

 A l’issue des pourparlers les parties ont noté que l’amitié de deux pays est passée par plus d’une épreuve. Ainsi, Belgrade n’a pas cédé à la pression de Bruxelles et n’a pas appuyé – et n’appuiera jamais, a remarqué le Premier ministre serbe – aucunes sanctions contre la Russie. Vladimir Poutine a à son tour promis que les investissements russes en Serbie vont pour le moins doubler prochainement pour atteindre 10 milliards de dollars.

 L’UE fait décidément fausse route dans son bras de fer avec Moscou, qui ne profite qu’aux Américains …

 BL

_____________________________

http://www.scoop.it/t/pcn-spo

https://www.facebook.com/PCN.NCP.press.office