“Abbattuto aereo della Cia che trasportava virus aviaria da spruzzare nell’aria”. La notizia choc dei reports del Cremlino riportata da un sito indipendente americano

http://www.retenews24.it/rtn24/cronaca/abbattuto-aereo-cia-trasportava-virus-aviaria-spruzzare-nellaria-notizia-choc-dei-reports-cremlino-riportata-sito-indipendente-americano/

aereo abbattutoA cura di redazione

Piena di dettagli e particolareggiata la notizia apparsa ieri sul canale americanohttp://www.disclose.tv/, riveliamo la verità. A quanto pare un aereo americano sarebbe stato abattuto dai servizi segreti cinesi in quanto contenente un virus altamente tossico per la popolazione. Ecco la traduzione italiana dell’articolo:

“Da reports circolanti al Cremlino si constata che un velivolo del governo Americano, pilotato da agenti della CIA e trasportante un cargo di virus dell’influenza suina “modificati” destinati ad essere spruzzati in aria, è stato abbattuto nei pressi dell’aeroporto cinese di Pudong, a Shangai, da un gruppo di sabotatori che si pensa faccia parte dei soldati israeliti di Mossad, cercando così di prevenire un attacco statunitense su una delle loro basi dislocate nell’Asia centrale, in particolare nello stato del Kyrgyzstan.

Secondo gli articoli della stampa cinese riguardanti questo fatto, nell’aeromobile colpito (Zimbabwean MD-II) appartenente alla Avient Aviation, compagnia collegata alla CIA, il cui volo era operato da un primo ufficiale militare britannico, di nome Andrew Smith e registrato nel regno unito, sono rimasti uccisi 3 agenti americani della CIA e feriti 4 altre persone che hanno confermato di provenire da USA, Indonesia, Belgio e Zimbabwe.

Una nota molto interessante di questo fatto è che, mentre era sottoposto alle cure delle sue ferrite, l’uomo indonesiano ha “confessato” alle forze di polizia segreta cinese di essere un tecnico assunto dalla marina militare statunitense per collaborare alla loro misteriosa “Ricerca Medica Navale” (Naval Medical Research Unit No. 2 -NAMRU-2) effettuata in Indonesia nonostante il primo ministro indonesiano della difesa Juwono Sudarsono ne avesse già precedentemente richiesto la chiusura “in quanto le sue operazioni erano troppo segrete e dunque incompatibili con gli interessi sulla sicurezza dell’Indonesia”.

Ancora più interessante è notare come questa base segreta della marina americana sulle armi biologiche in Indonesia (la nazione con la percentuale più alta al mondo di musulmani) è divenuta una vera e propria sede, grazie al sostegno dell’Istituto Rockfeller, essendo il principale centro per il Programma delle Malattie Virali Americane (VDP) in cui viene effettuata la ricerca epidemiologica e la ricerca in laboratorio sui virus delle febbri emorragiche, encefaliti, e richeziosi  e dove il capo di questo istituto, David Rockfeller, ne ha sempre desiderato una massiccia riduzione nella nostra popolazione mondiale.

Ed all’agenda al momento in corso per cambiare radicalmente il nostro mondo attraverso la morte di massa della sua popolazione, non c’è bisogno di cercare oltre la spiegazione fornita dalle stesse parole di David Rockefeller pronunciate poco prima dell’incontro segreto della Commissione Trilaterale del giugno 1991, quando egli così disse:.

“Siamo grati al The Washington Post, The New York Times, Time Magazine e alle altre grandi produzioni stampa, dei quali i direttori hanno partecipato ai nostri incontri e rispettato le loro promesse di discrezione per quasi 40 anni. Sarebbe stato impossibile per noi sviluppare il nostro piano per il mondo se fossimo stati sottoposti alla luce della pubblicità durante questi anni. Ma adesso il lavoro è molto più sofisticato e pronto per guidarci verso un governo mondiale. La sovranità sovranazionale di una elite intellettuale e di banchieri internazionali è sicuramente preferibile all’auto determinazione degli Stati praticata nei secoli passati.”

Per ciò che riguarda gli aeroplani statunitensi impiegati nella diffusione mondiale del virus influenzale suino mutato, abbiamo maggiori informazioni dalla Cina, come di seguito riportato:

“26 Giugno aeromobili sospetti son stati costretti ad atterrare. Un AN-124 americano ha cambiato il suo segnale di chiamata da civile a militare il quale ha poi innescato un responso dallo IAF riguardo l’ingresso nello spazio aereo pachistano, dunque l’aeroplano fu costretto ad atterrare a Mumbai mentre il secondo fu costretto ad atterrare da jet combattenti nigeriani che riuscirono anche ad arrestare l’equipaggio.

Secondo le notizie, la Cina (China’s People’s Liberation Army Air Force) ha contattato gli ufficiali dell’intelligence indiana e nigeriana circa la presenza di certi aeroplani ucraini operati da americani durante l’accrescente allarme che gli USA stessero diffondendo “agenti biologici” nell’atmosfera terrestre, e qualche ufficiale cinese ha creduto anche che potesse esserci un tentativo di genocidio attraverso il virus dell’influenza suina.

La cosa strana riguardo questi fatti e arresti come anche dell’obbligo di atterraggio immediato degli aerei, è che questi ultimi stavano trasportando sistemi di “smaltimento di scorie” che potevano spruzzare fino a 45000kg di gas da una rete sofisticata di canne che conducono attraverso i bordi d’uscita delle ali e da lì disperdere qualsiasi cosa ci fosse nei serbatoi attraverso il vapore”

I report di questi aeroplani statunitensi sopra l’Ucraina sono stati anch’essi comprovati, come si può leggere di seguito:

“Le autorità della città di Kiev, l’ Ucraina nega qualsiasi spray di “medicine in forma di aerosol” tramite aeroplano sulla città. Questo dopo che è stato denunciato che velivoli leggeri son stati visti volare sulla zona del mercato spruzzando una sostanza aerosol per combattere il virus h1n1 o l’influenza suina.

5 fonti lo confermano e anche i giornali locali di Kiev hanno ricevuto centinaia di chiamate da parte dei residenti e dei venditori che avevano visto gli aeroplani spruzzare una sostanza sospetta. Inoltre fu “consigliato” dalle autorità locali agli uomini d’affari e ai rivenditori locali di rimanere dentro  durante il giorno.

Come se non fosse abbastanza, le autorità governative forzarono le stazioni radio di Kiev di negare gli eventi. Online su forum, siti web e blog furono riportate testimonianze preziose che lo confermano. Ci furono anche testimonianze della presenza di elicotteri che spruzzavano aerosol su Kiev, Lviv, Ternopil e lungo tutta l’Ucraina.

L’effetto più drammatico riguardante lo spray emesso sull’Ucraina di questo virus mutato è il devastante contagio che si è avuto tra la popolazione di queil luogo, come di sotto riportato:

“Quasi 40 000 persone sono state infettate da ieri in Ucraina da ciò che noi ancora chiamiamo “la piaga ucraina” ma I medici hanno recentemente detto che questo è un caso più grave del n1h1 o dell’influenza suina poiché è stato mutato il virus e ciò porta ad una grave infezione ai polmoni, che vengono distrutti e riempiti di sangue.”

Ma la peggior conseguenza di questo virus modificato è che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha adesso annunciato che sta uccidendo in Francia, Norvegia, Brasile, Cina, Giappone, Messico, Ucraina e negli USA con un tasso di mortalità alto a livello pandemico globale riportato a circa 8,000 vittime, con la Cina che ha confermato il contagio di questo virus adesso anche tra i cani.

È importante notare come l’obiettivo dell’aereo Americano abbattuto in Cina fosse una base segreta israeliana che si trovava nella nazione del Kyrgyzstan, luogo in cui Ebrei Ashkenazi (gli ebrei Ashkenazi costituiscono circa l’ 80% degli ebrei nel mondo) si considerano nella loro  ‘patria spirituale’ dopo il loro lungo esilio sotto il comunismo sovietico, e dove gli analisti dell’intelligence russa affermano che gli israeliti sono vicini alla fine della lunga e decennale decodificazione dell’antico manoscritto  Epica di  Manas (che ha mezzo milione di versi ed è 20 volte più lunga dell’Odissea e dell’Iliade messi insieme) che loro credono contenere il più antico monito mondiale fino ai nostri giorni e che (coincidenza??) aderisce con le teorie dell’antico popolo Maya riguardo l’anno 2012 e la fine del mondo..

Quale sia il risultato finale di questi eventi non possiamo saperlo; oltre che constatare l’ovvio, ovvero che le verità di queste cose continueranno ad essere ignorate, perfino denigrate, dalle maggior persone la quale sterminazione è già stata a lungo pianificata da quei mostri ed ora effettuata, e che ancora non hanno idea di quanto sia realmente facile per loro essere controllati dalla propaganda dei loro padroni.

Si può solo sperare che la gente si svegli prima che sia troppo tardi, ma i fatti suggeriscono il contrario”.

Fonte: http://chemicalskyfall.com/cia-operated-aerial-spraying-plane-carrying-mutated-virus-shot-down-in-china/

Fonte originale : http://www.disclose.tv/forum/chemtrail-plane-shot-down-above-china-t68870.html

Il Cile cancella le 5 dighe Enel in Patagonia

Ambiente Con un commento di Caterina Amicucci

Dopo sei anni di lotta, con campagne nazionali e internazionali, il mega-progetto di Endesa, società spagnola controllata dalla multinazionale italiana dell’energia è stato fermato: il governo Bachelet ha rigettato la valutazione d’impatto ambientale relativa all’intervento denominato Hidroaysen, che prevedeva invasi sui fiumi Pascua e Baker.
“Killing Patagonia” -presentato a Roma a fine maggio- è l’ultimo report dell’associazione Re:Common

di redazione – 11 giugno 2014

Il governo cileno ha rigettato la valutazione d’impatto ambientale relativa alle cinque grandi dighe che sarebbero dovute sorgere sui fiumi della patagoni Pascua e Baker. Il progetto del consorzio Hidroaysen, guidato con una quota maggioritaria dalla controllata Enel Endesa, viene di fatto cancellato dopo oltre sei anni di proteste e campagne nazionali e internazionali, cui molte realtà della società civile italiana -tra cui Re:Common, che due settimana fa aveva presentato il rapporto “Killing Patagonia”– hanno partecipato sin dalle prime battute.

Il nuovo esecutivo guidato da Michelle Bachelet, subentrato a quello di Sebastian Piñera, che nel 2011 aveva dato un parziale nulla osta all’opera, ha motivato la sua decisione sulla base di una serie di questioni di carattere ambientale non risolte, nonché problematiche legate al reinsediamento delle popolazioni locali.

Il progetto aveva un costo stimato di circa sette miliardi di dollari. Nonostante la stessa Bachelet durante il suo primo mandato presidenziale (2006-2010) avesse mantenuto una posizione alquanto ambigua, se non proprio favorevole, nella campagna elettorale dello scorso autunno si era dichiarata contraria. Che per gli impianti idroelettrici in Patagonia tirasse una brutta aria lo aveva compreso anche Endesa Cile che, secondo quanto riportato dal quotidiano di Santiago El Mercurio, nel suo documento bimestrale agli investitori a fine 2013 aveva depennato le dighe di HidroAysén dalla lista dei progetti prioritari.

Come detto, le mega dighe sarebbero dovute essere cinque. Due sul fiume Baker, uno dei più lunghi della Patagonia cilena con i suoi 170 chilometri, e famoso per l’incredibile color cobalto del primo tratto del suo corso, mentre altre tre avrebbero imbrigliato le acque del Pascua. La quantità di terra inondata sarebbe ammontata a 5.900 ettari.

L’enorme quantità di energia prodotta, 2.750 megawatt sarebbe servita ad alimentare le miniere nel Nord del Paese e avrebbe comportato la realizzazione di una linea di trasmissione composta da 6mila piloni alti 70 metri che avrebbero attraversato otto regioni, 64 comuni, tre parchi nazionali e 12 aree protette.

Secondo Tancredi Tarantino, “la bocciatura di HidroÁysen è una grande vittoria dei movimenti sociali cileni e di chi, come la rete Stop Enel, ha sostenuto questa lotta anche in Italia. Il successo è ancora più evidente se si considera che il governo Bachelet ha annunciato di voler stanziare 650milioni di dollari per nuovi progetti energetici. Ciò vorrà dire nuove dighe e nuovi impatti sulla popolazione locale e sull’ambiente. In Cile il modello energetico non è in discussione, ma in Patagonia le dighe di Enel non si faranno e questo è un risultato storico” ha continuato Tarantino.
“Per l’azienda italiana è una sconfitta sonora, ma la presenza di Enel in America Latina rimane forte. Nel mezzo di proteste sociali represse dalla polizia, Endesa sta ultimando la diga di El Quimbo in Colombia, che inonderà 8mila ettari di terreni fertili, costringendo 1.500 persone ad abbandonare le proprie case. A Bogotà è intervenuta addirittura la Corte Costituzionale in difesa delle comunità indigene e contadine locali. Una situazione preoccupante si registra anche in Guatemala, tra i popoli maya-ixil che si oppongo alla centrale idroelettrica di Palo Viejo e ad altre mega opere finanziate con capitali italiani” ha concluso Tarantino.

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Hidroaysen Game Over
Un commento di Caterina Amicucci


#chaohidroaysen e #patagoniasinrepersas sono stati gli hashtag che hanno segnato sin dalle prime ore della mattina, la giornata del 10 giugno 2014 in Cile. 
Il comitato del governo Bachelet formato dai Ministri della Salute, dell’Energia, delle attività mineraria e dell’agricoltura presieduto dal Ministro dell’Ambiente Paolo Badenier, hanno votato all’unanimità la revoca della licenza ambientale di Hidroaysen,  il megaprogetto idroelettrico che prevedava la costruzione di 5 dighe sui fiumi Baker e Pascua nella Patagonia Cilena ed una linea di trasmissione di 2500 Km per portare l’elettricità alle miniere del nord del paese.  Proprio quella valutazione di impatto ambientale la cui approvazione aveva scatenato, nel 2011,  le dure proteste di piazza che a Santiago erano poi sfociate nel movimento studentesco.

La riunione del comitato, prevista già un anno e mezzo fa,  era stata rimandata  a data da destinarsi durante la campagna elettorale dell’anno scorso. Nonostante il governo Pinera volesse a tutti costi andare avanti  non aveva avuto il coraggio di dare una scossa al progetto conoscendo l’ostilità della larga maggioranza dell’opinione pubblica cilena.  La campagna “Vota sin represas” aveva costretto Michelle Bachelet a prendere una posizione pubblica seppur  timida e cauta.

Già nei giorni scorsi la probabilità che questo fosse l’esito della riunione del comitato chiamato a valutare i 35 ricorsi presentati dalle comunità  locali e dagli oppositori del progetto era considerata molto alta.  Ma nessuno osava crederci, soprattutto gli attivisti della campagna Patagonia Sin Represas che da Santiago a Villa O’Higgins  (alla fine della carretera austral)  da anni si battono per fermare il progetto.   Il comitato ha riscontrato l’assenza di un piano reinsediamento delle famiglie che vivono nell’area  di quello che doveva essere il futuro bacino e di una quantificazione adeguata dell’impatto ambientale.

“I progetti che non considerano tutti gli impatti che generano e che non presentano misure di mitigazione, riparazione e compensazione devono essere respinti” ha concluso il ministro Badenier.

Esattamente quello che per diversi anni la campagna italiana Patagonia senza Dighe ha cercato  di far comprendere ad ENEL, titolare del 51% del progetto dal 2009, quando ha completato l’acquisizione di Endesa. Ma ENEL in questi anni si è costantemente trincerata dietro ad un laconico “facciamo quello che ci chiede il governo cileno”.  Ed è evidente che il governo Cileno non desidera più questo progetto e che la decisione del comitato dei ministri, dietro la patina di tecnicismo confezionata per i media, nasconda una mossa fortemente politica che potrebbe preludere alla revisione  del  “Codigo de Agua”,  la legge varata da Pinochet che ha regalato i diritti di sfruttamento idroelettrico ad Endesa ed ha creato un vero e proprio mercato privato dell’acqua.  Staremo quindi a vedere se la solerzia di ENEL si applica esclusivamente ai governi iperliberisti nei prossimi trenta giorni,  termine entro il quale la multinazionale italiana ed il socio cileno Colbùn hanno diritto ad impugnare la decisione del governo.

Intanto però a Santiago ed in Patagonia oggi è festa grande, per quello che è il più importante successo della società civile degli ultimi anni. Un successo che travalica i confini nazionali, sia per la mobilitazione internazionale  generata dalla campagna Patagonia Sin Represas sia perché come un attivista tempo fa a Coyhaique mi ha detto “Se non riusciamo a salvare la Patagonia non abbiamo speranze di salvare il mondo”.

E invece questa speranza ce la siamo guadagnata. Ciao ciao HidroAysen, bye bye ENEL.

E Silvio andò da Hillary: perché parlate male di me?E Silvio andò da Hillary: perché parlate male di me?

http://www.corriere.it/esteri/14_giugno_11/silvio-berlusconi-hillary-clinton-perche-parlate-male-me-39dfd600-f12a-11e3-affc-25db802dc057.shtml

Nel libro della Clinton, Berlusconi visto dagli Usa. Quando l’ex premier diceva: «L’America non ha un amico migliore di me»

Hillary Clinton e Silvio Berlusconi (Reuters)Hillary Clinton e Silvio Berlusconi (Reuters)

NEW YORK — «Perché dite cose simili sul mio conto? L’America non ha un amico migliore di me». In «Hard Choices» (scelte difficili), il libro di memorie pubblicato ieri negli Stati Uniti, Hillary Clinton racconta che uno dei momenti più imbarazzanti nei quattro anni in cui ha affiancato Barack Obama come segretario di Stato, fu quello di un confronto con Silvio Berlusconi, allora capo del governo italiano, infuriato per la pubblicazione da Wikileaks di alcuni cablogrammi dell’ambasciata Usa in Italia. Siamo nel 2010. In quei messaggi, che dovevano restare riservati, la figura del premier veniva ridicolizzata per le vicende personali, i comportamenti stravaganti, gli scandali finiti sui media. L’ex first lady racconta di un Berlusconi che non contesta i fatti ma si mostra offeso, si sente tradito: «Come fate a dire cose simili? Voi conoscete bene me e io conosco la vostra famiglia». Non c’è neanche tempo di chiedersi se la battuta vuole essere un richiamo alla fama di seduttore di Bill: Hillary racconta di un Silvio che la investe con un diluvio di parole. Racconta perfino, con toni accorati, del suo amore per gli Stati Uniti sbocciato fin da quando il padre lo portava, ancora bambino, a visitare i cimiteri di guerra americani e gli parlava di quei giovani morti per liberare l’Italia.

La Clinton commenta che nei «files» diplomatici non c’era nulla di strano, stante la pessima pubblicità di cui godeva il premier italiano. Ma aggiunge che Berlusconi era molto sensibile ai giudizi su di lui negli Usa e «questo mi creava grande imbarazzo. Eravamo ad Astana, in Kazakhstan, a un vertice Osce. Mi scusai ancora spiegando che quelle cose dovevano restare segrete. Non gli bastò. Mi chiese di andare con lui davanti alle telecamere a riaffermare la grande importanza delle relazioni tra Italia e Stati Uniti. Feci quello che chiedeva: pur con tutti i lati deboli della sua personalità, Berlusconi amava sinceramente l’America. E l’Italia era un alleato chiave nella Nato».

 Un alleato che un anno dopo, ai tempi della crisi libica, minacciò di lasciare la coalizione che si accingeva ad attaccare il regime di Gheddafi, vietando agli alleati l’uso delle basi militari italiane. Il protagonista anche qui è Berlusconi, l’unico italiano del quale si parla nel libro della Clinton, infuriato per l’atteggiamento del presidente francese Sarkozy che aveva cominciato a bombardare la Libia prima del vertice di Parigi sull’attuazione della risoluzione Onu che autorizzava l’uso della forza contro Gheddafi. Hillary descrive un Berlusconi «caparbio e smanioso di protagonismo quanto Sarkozy che sprizzava indignazione da tutti i pori». Ma che, aggiunge, aveva le sue ragioni: col suo attacco unilaterale Sarkozy aveva fatto infuriare molti alleati. Alla fine il conflitto rientrò e l’operazione venne condotta con la sostanziale guida dei Paesi Nato, ma all’inizio Sarkozy voleva andare avanti da solo. Hillary spiega che Berlusconi vedeva in questo atteggiamento della Francia la violazione di una prassi in base alla quale in caso di intervento Onu la guida delle operazioni veniva affidata alle ex potenze coloniali: la Francia ha coordinato gli interventi in Mali. In Libia doveva toccare all’Italia, ma non fu così. Anche se poi la Clinton riconosce che le sette basi messe a disposizione dal nostro Paese furono essenziali.

Per il resto nelle 600 pagine del libro, Hillary racconta dei suoi innumerevoli viaggi in tutto il mondo e le foto pubblicate la ritraggono con molti leader: Mandela, Putin, San Suu-Kyi. Dell’Italia parla solo in un altro punto, in modo indiretto. Racconta della crisi finanziaria del 2008 e dei tentativi di spingere Angela Merkel a non seguire con troppa severità una politica di austerity che rischiava di costare cara ai Paesi europei più deboli e indebitati come l’Italia. Ma la cancelliera, per la quale la Clinton confessa la sua ammirazione, non mollò.

11 giugno 2014 | 07:39

Dal Muos all’industria degli armamenti, una riflessione

Intervista con il generale Fabio Mini a proposito delle basi militari Usa in Italia, la potenza cinese e il potere dei conglomerati industriali degli armamenti

di Carlo Cefaloni – CittàNuova

L’installazione a Niscemi, in provincia di Caltanissetta, del M.U.O.S. (Mobile User Objective System) è destinata a creare notizia, secondo le leggi prevalenti dell’informazione, solo con la cronaca delle proteste della popolazione. Da tutta la Sicilia movimenti di diversa estrazione e gente comune si danno  appuntamento nel bosco del parco naturale della sughereta del niscemese per manifestare contro la messa in funzione delle potenti antenne del sistema di telecomunicazioni satellitare della marina militare statunitense.  Nonostante la guerra di carte bollate del sindaco Francesco La Rosa davanti alla magistratura amministrativa, la questione sembra chiusa in maniera definitiva con lo studio dell’Istituto superiore di sanità che minimizza i pericoli della salute di un impianto già in funzione dal 1991. «Continueremo a vigilare» è stata la conclusione del governo all’interpellanza di una deputata siciliana, Venerina Padua, che, da medico pediatra, ha sollevato obiezioni confermate da altri esperti accademici.

Non stiamo tuttavia, come ha affermato il generale Fabio Mini in un recente dibattito, davanti ad una questione che si fa gestire ad un messo comunale. Non sarà la notifica di un’ingiunzione municipale a intimorire il comando dell’esercito della superpotenza Usa che governa le sue numerose basi in Italia in conformità ad un trattato siglato nel 1953 che nessuno ha mai messo in dubbio o aggiornato.

Andiamo alle radici della sovranità sul territorio italiano che il caso Muos evidenzia, grazie all’intervista che ci ha concesso lo stesso generale Mini che, come è noto, ha un notevole curriculum perché ha comandato tutti i livelli di unità da combattimento e ha prestato lunghi periodi di servizio negli Stati Uniti, in Cina, nei Balcani e nella Nato. È stato capo di stato maggiore del comando alleato del sud Europa e comandante della forza internazionale di sicurezza in Kosovo. Ora è consigliere scientifico di alcuni centri di ricerca sulla sicurezza e collabora con le riviste e i quotidiani del gruppo «l’Espresso», tra cui il periodico di geopolitica “Limes”. Autore di testi importanti e approfonditi che rivelano una notevole libertà di analisi come  La guerra dopo la guerra (2003), Soldati (2008), Mediterraneo in guerra (2012), La guerra spiegata a… (2013) e Perché siamo così ipocriti sulla guerra (2013). Significativo il fatto che abbia curato la pubblicazione di un testo nel 2005 “Guerra senza limiti” scritto da strateghi militari cinesi che citano non solo Machiavelli ma anche un altro italiano poco conosciuto fuori dall’ambito militare, il teorico del “dominio dell’aria” Giulio Douhet.

È concepibile realisticamente un‘alternativa alle condizioni definite nei trattati del 1953 sulle basi militari statunitensi in Italia ?

«L’alternativa esiste ed è auspicabile perché al mondo non saremo mai pari se non chiediamo il rispetto della nostra dignità. Altrimenti non solo siamo considerati dei servi, ma giudicati anche male come tali.Come Paese, considerando la nostra tradizione e cultura, non siamo secondi a nessuno e ricevere questo trattamento da chi si propone come alleato e pretende lealtà e amicizia è quasi offensivo. L’alternativa è di natura politica e, in questo senso, esiste quando le regole dettate dagli altri non vengono accettate supinamente, ma almeno dopo aver formulato delle domande.  Per molti anni ho lavorato nell’ambito della Nato e con gli stessi americani. Devo dire che essi riconoscono i diritti di dignità e di sovranità quando conoscono e stimano le persone con cui hanno a che fare, altrimenti non fanno neanche finta di porsi il problema. Se tali istanze di elementare amor proprio non emergono nel rapporto, la questione non si pone».

E quali sono le domande da porre?

«Ad esempio, sul perché del posizionamento delle basi o delle antenne. Quali esigenze di sicurezza, non solo Usa ma anche italiane, giustificano tali scelte strategiche. Nessuno in Italia, né al livello politico e, meno che mai, a quello tecnico-militare, ha mai posto una questione così semplice. A questo punto sembra davvero inimmaginabile tornare indietro sul posizionamento delle antenne Muos. Dovremmo spiegare cosa è cambiato negli ultimi 5 anni rispetto al posizionamento della base di tele-comunicazioni presente sullo stesso territorio da oltre 50 anni. La natura del servizio svolto dalle precedenti strutture era di equivalente portata strategica, in relazione ai tempi e alla situazione. E così come non abbiamo fatto domande sulle conseguenze delle esposizioni alle onde elettromagnetiche sulla popolazione o sul rischio che il nostro Paese correva nell’ospitare strutture che riguardavano soltanto gli Stati Uniti. Allo stesso modo, non abbiamo fatto domande sui rischi derivanti dalle nuove strutture del Muos».

Ma non potremmo dire, in generale come lei dimostra nel testo “Mediterraneo in guerra”, che la stessa politica delle basi non si giustifica nel nuovo contesto geopolitico?

Fabio Mini«Senza il crollo del blocco ex sovietico la situazione si sarebbe perpetuata secondo una certa logica della deterrenza destinata a perpetuarsi all’infinito (o meglio all’indefinito) ma con gli eventi del 1989 – 90 sono cambiati tutti i parametri della politica estera, militare, di sicurezza e di difesa. Abbiamo, per un certo verso, minori certezze perché non c’è più una guerra (anche se fredda) apertamente dichiarata tra blocchi contrapposti. Tuttavia, non esiste una manifestazione di ostilità tale da giustificare una posizione ideologica. Come ho messo in evidenza nel dibattito sulla base di Vicenza, oggi non ha senso il mantenimento di un tale avamposto quando gli avamposti si sono ormai spostati ad Est con il consenso dei nuovi governi. Gli Stati uniti hanno portato avanti la politica delle basi con i Paesi che hanno perso la guerra, esercitando perciò quella supremazia sugli sconfitti che si manifesta da sempre, fin dal tempo delle guerre del Peloponneso, in maniera non solo e non tanto punitiva quanto pragmatica e fisiologica»

Si può dire che, nel caso concreto, abbiamo avuto a che fare con una proposta Usa impossibile da rifiutare…

«In realtà non c’è stata neppure una proposta. Gli Stati Uniti hanno ritenuto di poter fare in Italia ciò che hanno voluto. Come sempre. Sul piano formale hanno fatto passare le nuove strutture, come un adeguamento tecnologico delle vecchie. Sul piano sostanziale ci hanno fatto credere che il Muos servirà anche la Nato e la difesa dell’Italia. E come sempre ci abbiamo voluto credere. Come se fossimo gli sconfitti della Seconda guerra mondiale o, peggio, i traditori. Non ci si vuole rendere conto che oggi è cambiato tutto: gli Stati Uniti non sono più i vincitori assoluti, anzi, da 50 anni a questa parte hanno fallito tutte le guerre e hanno riversato la loro aggressività sul piano economico e finanziario come su quello politico. Ma anche in questo caso molto dipende dall’atteggiamento di chi deve subire e non si concede neanche il diritto di porre delle domande. Negli ambiti internazionali viene apprezzato proprio chi pone domande ragionevoli come espressione di sovranità e dignità. Invece, specie in ambito militare, nei rapporti con la Nato noi italiani abbiamo avuto dei rappresentanti costretti a tacere perché privi di guida politica, perché platealmente schierati con gli interessi americani o perché incapaci perfino di capire l’oggetto della discussione per mancanza di preparazione tecnica o di adeguata conoscenza adeguata della lingua inglese. Ad un certo punto, nel 90-91, la Nato, dovendo rispettare il modello decisionale che prevede il consenso unanime di tutti i membri nelle decisioni importanti, ha deciso di adottare il criterio del “silenzio assenso” che si sposa alla perfezione con coloro che restano zitti e, quindi, acconsentono a tutto. Si è trattato di una rivoluzione procedurale importante che ha tolto di mezzo ogni ostacolo e imbarazzo. Così è passato il Muos, l’allargamento della base di Vicenza, lo spostamento del comando navale Usa a Napoli, la ristrutturazione e potenziamento delle altre basi italiane e così via».

Siamo rimasti, quindi, una piattaforma aereo navale per la guerra…

«È stata finora la configurazione migliore per una penisola nel Mediterraneo come base operativa e logistica, pensiamo alla sede ideale assicurata in Sardegna per la manutenzione dei sommergibili a propulsione nucleare e lo stoccaggio di armi e munizioni. Altre basi situate in Grecia e Turchia erano molto più problematiche ed esposte a pericoli. Inoltre, in Italia le basi statunitensi non sono mai state veramente contestate dalla popolazione. Non c’è mai stata una crisi simile a quella di Okinawa che da anni contesta aspramente la presenza americana o una crisi simile a quella spagnola o delle Filippine che, addirittura, fecero chiudere le basi stranere. Di fatto, sono cresciuti movimenti contrari alle basi in Sardegna quando gli americani avevano già deciso di andarsene via.

Oggi il costo delle basi è un problema serio, perché gli americani avrebbero la convenienza a chiuderle quasi tutte ma trovano Paesi che si oppongono perché piccole realtà locali vivono sull’indotto dell’attività delle basi militari. Nel vicentino, ad esempio, la presenza americana non è vitale per l’economia locale, ma fa comodo ai pochi operatori inseriti nel circuito logistico della caserma Ederle che ormai ha solo la funzione di dare ospitalità e sicurezza alle famiglie di militari che sarebbero meglio predisposti operativamente spostando la sede nell’Est dell’Europa».

Eppure la base è stata estesa nonostante una certa opposizione popolare…

«Anche quando esistono, tali manifestazioni di dissenso sono scoordinate perché il problema delle basi è delle nazioni che le ospitano e non degli americani. L’Italia con i suoi governi non ha mai sollevato obiezioni, anzi ha rassicurato i vertici statunitensi. Ha poco senso la manifestazione della popolazione locale contro gli Usa che legittimamente possono dire: “Rivolgetevi al vostro governo”».

Non le sembra che, nonostante tutto, tali basi militari rimangano anche perché sono un presidio, nel disordine globale, contro nuovi possibili conflitti? Come interpretare, ad esempio, la crescita, anche di potenza bellica, della nuova potenza cinese?

«La minaccia di un intervento cinese è uguale a zero. Si agitano cose che non esistono. Studio la politica cinese da 30 anni e sempre più mi convinco che la loro formidabile crescita economica non ha bisogno di esercitare la forza per cambiare gli equilibri mondiali. L’uso dello strumento bellico in Europa o altrove è fuori dai loro piani. In continuità con la loro antica cultura, i vertici cinesi vogliono essere l’ago della bilancia, non il piatto. Preferiscono segnalare la mancanza dell’equilibrio che qualcun altro dovrà rimettere in sesto. Ormai la Cina dei conglomerati, di Stato e privati, esprime un potere economico di primo livello sui mercati finanziari e nel settore delle grandi infrastrutture. Emblematica la loro strategia di presenza nel continente africano. E in tema di minacce, sento di poter dire che assolutamente neanche la Russia esprime un pericolo militare reale».

In tale quadro, quindi, come si giustifica la stazione satellitare di Niscemi?

«Il Muos ha una valenza strategica globale che nessuna altra base statunitense in Italia possiede, perché è uno dei quattro siti mondiali che permettono il controllo delle operazioni terrestri, aeronavali e satellitari a distanza. Ma si tratta di qualcosa che va oltre lo strumento necessario alla movimentazione delle truppe di terra, di aria e di mare. Il Muos è il pilastro nel controllo di tutto il sistema delle comunicazioni in generale, dei traffici mercantili assicurati dalle navi e dagli aerei civili. Lo strumento militare esprime solo una minima parte della potenza di un Paese che è costituito dal controllo delle informazioni».

Introdotta l’analisi del contesto generale, arriviamo alla domanda fondamentale: perché il Muos è stato messo proprio in Sicilia?

«Certamente il Muos si poteva costruire da un’altra parte, ma il costo sarebbe lievitato di qualche milione di dollari, un’inezia per il bilancio della difesa statunitense, e l’amministrazione pubblica italiana non ha espresso alcuna obiezione, tanto più che l’operazione è rientrata in un adeguamento tecnologico di un impianto già presente da anni e quindi in linea con il trattato vigente sulle basi. Resta comprensibile il timore degli abitanti del posto per eventuali attacchi provenienti non da altri Stati, non esistono realtà statuali in grado di minacciare le basi Usa, ma da organizzazioni terroristiche. Gli “stati canaglia” sono tutte invenzioni che cambiano a seconda delle strategie».

In che senso?

«Basta osservare i movimenti degli interessi delle grandi industrie, con l’esercito dei loro mercenari, basta vedere il loro spostamento geografico per aspettarsi il deflagrare di nuovi conflitti nelle aree interessate con il sorgere di formazioni terroristiche che legittimano nuovi interventi militari».

Alla radice non è stato decisivo il nuovo concetto di difesa che è stato acquisito anche in Italia senza un vero dibattito, e cioè la necessità per i nostri eserciti di intervenire in ogni luogo dove gli interessi comuni vengono minacciati?

«Se ci consideriamo parte di un’alleanza, l’interesse comune deve essere perseguito con il concorso di tutti. Ma questo non è il nostro caso perché da oltre 60 anni, nel complesso, Nato o meno, i Paesi stanno perseguendo gli interessi di una sola parte, e cioè degli Usa, con evidenti conseguenze sulla sovranità degli altri Stati ai quali va l’onere di dover inventare continuamente delle giustificazioni per sempre nuove avventure. Con una visione più equilibrata degli interessi comuni, Bush non avrebbe compiuto le operazioni in Iraq e in Afghanistan nel modo che conosciamo e che ha provocato nuove e persistenti instabilità. Dobbiamo rivedere il significato stesso di interesse nazionale e internazionale di sicurezza e stabilità, che non può coincidere con nuove guerre e nuove instabilità. Non è affatto semplice e risolutivo cambiare un sistema che si conosce con un nuovo assetto che si ignora del tutto. Bisognava pensarci due volte prima di passare da Mubarak ai “Fratelli musulmani” che hanno una strategia di egemonia su tutto il mondo arabo. E così si può dire per tutta la strategia orientata a rimuovere gli autocrati laici, come il caso della Siria, senza avere l’alternativa di un’opposizione altrettanto laica e con il rischio dello sfascio e sofferenze indicibili per la popolazione civile. Lo stesso sta avvenendo in Libia».

Proprio parlando di interessi nazionali e strategie belliche, non è paradossale che l’Italia abbia partecipato alle operazioni di combattimento in Libia senza che l’opinione pubblica, tranne poche testate giornalistiche come Città Nuova, avvertisse la partecipazione del Paese ad una guerra che ha visto gli stessi nostri vertici militari molto dubbiosi?

«Sembra, in effetti, prevalere l’idea di una nostra pretesa estraneità ad eventi che ci vedono coinvolti direttamente, quasi fossimo dei testimoni inconsapevoli e invece siamo partecipi di questa fase di instabilità di un pianeta che non ha trovato il suo equilibrio. L’intervento nei singoli conflitti locali sta provocando una serie di ferite che stanno dissanguando il mondo senza operare cambiamenti duraturi».

Ma negli Usa non esiste un filone di pensiero critico nei confronti dell’attuale strategia globale?

«Esiste certamente una parte orientata a cambiare il tipo di intervento nel mondo riducendo le spese militari essenzialmente per contenere e risparmiare sui costi. Allo stesso tempo emerge anche una posizione critica che chiede di rivedere lo strumento militare nel complesso di una visione politica alternativa. È del tutto evidente che una posizione del genere, anche quando è sostenuta dal presidente degli Usa, deve scontrarsi con i poteri prevalenti delle grandi industrie. Si tratta di enormi conglomerati che non obbediscono più a nessuno. Si può dire che non hanno più un Paese di riferimento».

Mose: “Cacciari, soldi per salvare Venezia Calcio”. Lui: “Sindaco fa anche questo”

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/06/11/mose-cacciari-voleva-300mila-euro-per-salvare-la-squadra-di-calcio-di-venezia/1023103/

A dirlo è il presidente indagato del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati. Il politico, dice, “chiese anche di aiutare un’azienda per un cantiere da 10 milioni”. Cacciari: “Io ho chiesto decine di interventi, non favori, sulle situazioni di crisi in città. E sanno che sono incorruttibile”

Massimo Cacciari
Con Massimo Cacciari nacque un “consorzio bis” e anche l’ex sindaco – che non è indagato – chiese favori su favori ai “burattinai” del Mose, Giovanni Mazzacurati e Piergiorgio Baita, che nei mesi scorsi l’hanno raccontato agli inquirenti. Oltre a Enrico Letta, l’altro nome eccellente del centrosinistra, emerso nei verbali d’interrogatorio è quello di Massimo Cacciari. E c’è un personaggio che unisce i due – Letta e Cacciari – nel racconto di Mazzacurati e Baita: parliamo diRoberto Pravatà, ex vice direttore generale del consorzio, l’uomo che raccolse il memoriale su Letta. È lo stesso Pravatà che, secondo Baita, gestisce la nascita di un “consorzio bis” su input di Cacciari.

Il consorzio bis
“Thetis – dice Baita ai pm – è una società che ha sempre fatto bilancio con trasferimenti dal Consorzio. Ma non ha creato niente, purtroppo, li ha spesi tutti, in Cina…”. All’inizio Cacciari – diceBaita – chiede di inserire in Thetis un suo uomo di fiducia: “La società nasce perché era l’unico tavolo dove per esempio, con Cacciari, Mazzacurati aveva un dialogo, perché Paruzzo era l’uomo che Cacciari aveva chiesto di mettere a Thetis, ed era l’unico…”. Su Paruzzo, tra Cacciari e Mazzacurati, si creano anche forti tensioni: “C’è stato un momento di scontro molto violento con Cacciari quando c’è stata la questione delle alternative. La persona che teneva i contatti era Paruzzo”. “Questo quando l’ha voluto Cacciari?”, chiede il pm. “Quando è nata Thetis”, risponde Baita.

L’imprenditore racconta l’evoluzione della società: “Thetis nasce per azione del gruppo Eni, un’intesa tra l’Eni e il Comune di Venezia. Poi l’Eni, stanca di spendere soldi, ha detto che se ne andava”. E anche in quest’occasione , racconta BaitaCacciari interviene su Mazzacurati; “Ha chiamato Mazzacurati e gli ha detto di comprare le azioni dell’Eni in Thetis. E così il Consorzio entra in Thetis, sostituendosi all’Eni, nel 2003. Operazione che ha seguito Pravatà. Da quel momento Thetis è stato il consorzio bis, sottratto ai consorziati”. È quindi Pravatà l’uomo che gestisce l’operazione indicata da Cacciari. E non si tratta dell’unica operazione che l’ex sindaco ha proposto a Mazzacurati e Baita.

Rapporti politici
Mazzacurati, descrivendo le sue relazioni con il mondo della politica, spiega ai pm: “Ho avuto rapporto con Cacciari”. L’ex sindaco di Venezia chiese a Mazzacurati di aiutare un imprenditore: “Mentre era sindaco mi ha chiesto di aiutare un’impresa che si chiamava Marinese, che veniva da quella che è una grossa impresa che si chiamava Guaraldo”. La Guaraldo, che è della famigliaMarinese, è effettivamente una grande impresa che spazia dall’edilizia ai parcheggi pubblici. È stata molto attiva anche nel periodo in cui Cacciari era sindaco. E in un’occasione Lorenzo Marinese minacciò di far causa proprio al comune di Venezia mentre un progetto, che non dipendeva più dal municipio veneziano, iniziava ad arrancare: “Gli daremo tutto il supporto possibile e immaginabile. Purtroppo il progetto Cel-Ana non dipende più da atti del Comune, ma è legato a vicende che non possiamo controllare. Mi riferisco ad esempio ai ricorsi in sede giudiziaria.

La società sportiva
“Lì non possiamo proprio fare niente. Ma cercheremo comunque di dargli una mano”. Una mano per l’imprenditore d’origine siciliana, nella versione di Mazzacurati, Cacciari la chiese anche al dominus dell’affare Mose. E per ben altro: “Poi Cacciari mi ha chiesto una sponsorizzazione di 300 mila euro per la squadra di calcio, però, insomma, una roba così”. Marinese è infatti il patron della squadra di calcio del Venezia.

La versione di Cacciari
Contattato da ilfattoquotidiano.it, l’ex sindaco di Venezia spiega di avere chiesto “molto spesso interventi e non favori” al Consorzio, come ad altre aziende e anche a grandi società (Eni) per aiutare “imprese in difficoltà ed evitare licenziamenti”. Per sanare, quindi, situazioni di crisi: “Un sindaco chiede quotidianamente decine e decine di interventi, e lo chiede a chi ne ha disponibilità. Non l’ho fatto 2, 3,4 volte, ma decine di volte al giorno e per cose che ritenevo utili per la città”. Cacciari, però, ricorda che le sue richieste di intervento “sortivano pochissimo effetto o niente”. Perché? “Sapevano di non potere ottenere nulla dal sottoscritto perché non funzionava la logica del do ut des. O ritenevano utile in sé quello che richiedevo o altrimenti non lo facevano”. Colpisce che le dichiarazioni riferite da Mazzacurati sul Venezia Calcio e la Guaraldo riguardino entrambe l’imprenditore Lorenzo Marinese. “Quando venni rieletto sindaco – spiega Cacciari – Marinese aveva acquisito la maggioranza della squadra. Il fallimento avrebbe travolto anche la sua società”. Parla anche del rapporto di “grande franchezza” con Mazzacurati, che ha incontrato “decine di volte. Sapeva la mia posizione sul Mose e sapeva – precisa – che sono, come ero, incorruttibile. Gli dicevo: ‘Se può fare qualcosa lo faccia, se non può fare niente, niente’”. Non è preoccupato dalle indagini sul Mose? “Ma che, scherza?”.

Da Il Fatto Quotidiano di mercoledì 11 giugno 2014

Aggiornato da Redazione Web alle 12.05

Il Muos nuoce gravemente all’aeroporto di Comiso

Comunicato Coordinamento regionale dei Comitati No MUOS

Oggi si intitola l’aeroporto di Comiso a Pio La Torre. Questo nome evoca non solo una stagione di lotta alla mafia pagata con la vita da molti dei suoi protagonisti, ma anche una stagione di lotta per la pace e contro la guerra che vide proprio nella base missilistica di Comiso (oggi aeroporto civile), il cuore di una mobilitazione che varcò i confini della Sicilia e dell’Italia. A soli 19 km da Comiso è Niscemi ad essere diventata centro di una nuova grande lotta contro scelte che continuano a condannare la Sicilia al ruolo di portaerei super armata al centro del Mediterraneo. Evocare e ricordare Pio La Torre non può voler dire rivendicare la stagione di lotta contro i missili a Comiso e oggi avallare la costruzione del MUOS a Niscemi, con tutte le sue conseguenze: danni all’ambiente e alla salute, sprechi, favori alla mafia, repressione per chi si oppone, criminalizzazione del dissenso. La lotta degli anni ottanta a Comiso è la stessa di quella odierna a Niscemi.

Da anni il movimento che si oppone al MUOS di Niscemi denuncia l’incompatibilità tra l’installazione della Marina militare degli Stati Uniti e l’aeroporto di Comiso.

Infatti, la potenza del fascio di microoonde del Muos è in grado di provocare, anche a distanza di decine di km, gravi interferenze nella strumentazione di bordo degli aerei. I rischi di interferenza riguardano il traffico aereo della zona circostante il sito del Muos nel raggio di 70 km. In questa area rientrano ben tre aereoporti: a soli 19 Km, il nuovo scalo di Comiso; a 52 Km, l’aeroporto militare di Sigonella e, a 62 Km, l’ aeroporto civile di Fontanarossa (CT). Si consideri, inoltre, che il raggio di puntamento del MUOS di Niscemi – rispetto alle altre tre stazioni terrestri ubicate in Virginia (USA), Hawaii e Australia – ha un angolo tra i 7 e i 14 gradi, proiettandosi, praticamente, in modo orizzontale verso i Monti Iblei.

L’irraggiamento a distanza ravvicinata di un aereo militare può, inoltre, provocare conseguenze disastrose: le interferenze generate dalle antenne del Muos possono innescare accidentalmente gli ordigni trasportati.

Nel 2004 i comandi spaziali in Virginia e California avevano deciso di installare il MUOS in Sicilia, e precisamente all’interno della base USA di Sigonella. Ma nel 2006 uno studio commissionato dalla Marina militare USA a due importanti aziende private (AGI – Analytical Graphics Inc. di Exton, Pennsylvenia e Maxim System di San Diego, California), sull’impatto delle onde elettromagnetiche generate dalle antenne, consigliò di spostarlo da quella base. Nell’elaborazione del loro modello di verifica dei rischi d’irradiazione elettromagnetica sui sistemi d’arma, munizioni, propellenti ed esplosivi ospitati, appurarono che le fortissime emissioni elettromagnetiche potevano avviare la detonazione degli ordigni.

Il 24 giugno 2013 il prof. Marcello D’Amore, già ordinario di Elettrotecnica presso la facoltà d’Ingegneria civile e industriale dell’università “La Sapienza” di Roma, e responsabile di progetti finanziati da ENEL, Trenitalia e Alenia Aeronautica, nominato perito dal TAR di Palermo per verificare gli effetti elettromagnetici del MUOS, nel procedimento avviato dal Ministero della Difesa contro l’atto di revoca delle autorizzazioni ai lavori del MUOS firmato dalla Regione siciliana il 30 marzo 2013, ha – tra le altre cose – valutato la pericolosità del sistema, scrivendo in conclusione: “Il campo elettromagnetico irradiato dalle antenne del MUOS può produrre effetti biologici sulle persone esposte; interferenze in apparecchiature elettroniche, strutture aeroportuali e aeromobili…”.

Per questi motivi, una volta entrato in funzione il Muos (ed è questione di pochi mesi), l’utilizzo di questo ampio spazio aereo (70 km) fa correre seri rischi per ogni tipo di aeromobile, ed in particolare l’aeroporto di Comiso si viene a trovare nella posizione più esposta.

Bisogna scegliere: o ridimensionare il traffico aereo della Sicilia Sud-Orientale, oppure impedire, a titolo precauzionale, che il MUOS possa entrare in funzione. Una misura che si rende necessaria e che riteniamo utile ad un ripensamento radicale di questa scelta di militarizzazione del territorio Siciliano, scelta di morte, contenente molti rischi per la popolazione e l’ambiente, del tutto incompatibile con le necessità reali della popolazione e la sua vocazione alla pace.

Coordinamento Regionale dei Comitati No MUOS

Mafia, appalti, TAV: la Procura di Torino non vuole che nel maxi processo entrino le prove

notav.info
post — 11 giugno 2014 at 00:59

BpiERdtCMAEiOfjProcura di Torino e Governo oggi graniticamente insieme contro l’acquisizione di documenti che provano infiltrazioni e frequentazioni mafiose in aziende coinvolte negli appalti TAV Torino-Lione.

Le difese degli imputati in udienza hanno annunciato il deposito di una relazione del nucleo investigativo dei Carabinieri del 19 dicembre 2011, parte del cd processo ‘Minotauro’, che dimostra:

  • -che Bruno Iariamembro della ‘ndrangheta e capo del c.d. “locale” di Cuorgnè, è stato dipendente della ditta valsusina Italcoge S.p.A., quella la cui ruspa sfondò il cancello della centrale idroelettrica il 27 giugno 2011 a Chiomonte, difesa e scortata dalle forze dell’ordine. Per i feticisti, il simbolino Italcoge si vede nella foto qui sotto, sulla ruspa, dietro ai fari.

ruspa

La relazione dei c.c. dimostra anche

  • -i rapporti tra Italcoge S.p.A. e Iaria Giovanni, padre di Bruno ed altro membro della ‘ndrangheta.
  • le frequentazioni tra membri della ‘ndrangheta e la società Martina (altra azienda valsusina coinvolta negli appalti TAV Torino-Lione), in particolare la presenza di uno dei soci ad una riunione dell’anno 2007 a casa di Iaria Giovanni.

Si tratta insomma delle due società, Italcoge e Martina, aggiudicatarie dell’appalto di Lyon Turin Ferroviaire per la recinzione del cantiere della Maddalena a Chiomonte e che lì hanno operato il 27.6.2011 e 3.7.2011 fianco a fianco con le forze dell’ordine.

Un elemento rilevante per il processo e per conoscere le motivazioni degli oppositori al TAV, visto che – lo ha detto il Prof. Marco Revelli sentito all’udienza di oggi – proprio il carattere di lotta alla mafia è uno dei collanti del Movimento. E infatti la richiesta di produzione documentale delle difese degli imputati era scattata durante l’audizione dello storico.

Il professore aveva appena finito di dichiarare che il mattino del 27 giugno 2011 al cancello della centrale i manifestanti no tav, mentre si opponevano allo sgombero, urlavano “mafia – mafia” all’indirizzo della ruspa. La ruspa gialla che avrebbe abbattuto il cancello e si sarebbe fatta strada sino al piazzale dell’azienda vitivinicola. La ruspa scortata e difesa dalle forze dell’ordine – “embedded“, l’ha definita Revelli.

Revelli aveva ricordato al microfono che la cosa lo aveva stupito. Che lui era lì, sul posto, in quei momenti, vedeva la scena e si chiedeva perchè gli altri no tav urlassero “mafia-mafia“. Che la cosa gli faceva specie, perché il ministro di allora Maroni diceva che in quei giorni lo scontro era tra “ordine e disordine”.

Se la gente urlava “mafia” all’indirizzo dei mezzi delle ditte che stavano per sgomberare l’area della Libera Repubblica della Maddalena, chi era uno e chi era l’altro?

Revelli aveva chiesto il perchè di “mafia – mafia“, e quelli a fianco gli avevano risposto che da tempo, da decenni, in Valsusa c’erano infiltrazioni mafiose, che alcune ditte erano chiacchierate, che loro soci o dirigenti avevano riportato – lo diceva la cronaca giornalistica – condanne per turbativa d’asta, corruzione e altro. E che c’era il forte sospetto che la ‘ndrangheta avesse rapporti con alcune di queste ditte.

Ma la Procura di Torino oggi in udienza ha chiesto che il Tribunale non ammettesse la produzione: per i PM, le infiltrazioni mafiose – ammesso che esistano” -, non hanno nulla a che vedere con la questione TAV e con il maxi processo. E devono restare fuori.

Si è opposto alla produzione anche il fallimento della ditta Italcoge S.p.A.

E, come se non bastasse, si è opposto anche il Governo: pure i ministeri della Difesa, dell’Interno e dell’Economia hanno chiesto che il documento non fosse acquisito.

Il Tribunale di Torino -che nei due anni di questo processo ha sistematicamente respinto le richieste dei difensori degli imputati – anche questa volta, trincerandosi dietro questioni formali, ha fatto come richiesto da PM e Governo e così il documento per ora non entra.

Dunque procura, governo (e tribunale, avallando l’opposizione) non vogliono che si parli di infiltrazioni mafiose – “ammesso che esistano” – in questo processo.

Ma cosa li spaventa tanto?

Non vogliono che si dica che la mafia in Valle di Susa esiste, da quarant’anni? Non vogliono che emerga pubblicamente, anche in aula, che tra le motivazioni dell’opposizione al TAV c’è anche questo, lo sforzo di invertire la rotta, tener fuori dalla cosa pubblica le cosche mafiose?

Sembra la stessa irriducibile contrarietà, già dimostrata tante volte, a fare entrare nel processo la questione di merito di fondo: non volere che si dica e che provi che il TAV è inutile, che è un progetto vecchio e superato, che i traffici merci Italia-Francia sono inesistenti. Perché?

Questo processo, per come è stato impostato sin dall’inizio dalla Procura (con adesione totale del collegio giudicante), è e deve rimanere asetticoplastificatoprecotto: hai tirato un sasso – resistenza e violenza a pubblico ufficiale. E via il più veloce possibile verso la sentenza di condanna, non mi interessa perché lo hai fatto, non influisce sulla condotta e tantomeno sulla pena.

Per le difese, il maxiprocesso no tav è stato impostato come qualcosa d’altro: confronto (forzato, ovviamente…)nel merito, nell’arena giudiziaria, il perché, se un sasso è stato tirato, lo si è tirato. Una difesa nel processo: quel tipo di difesa di cui Caselli denunciava la scomparsa nelle aule di ‘giustizia’, sostituita dalla difesa dal processo, e che però alla prova dei fatti, lo stesso Caselli e i suoi sostituti si sono rifiutati di affrontare. Per le difese il maxi processo era un processo che doveva dare spazio alle motivazioni storiche e sociali di fondo dei manifestanti e degli imputati delle due storiche giornate del 27 giugno e del 3 luglio 2011: l’opposizione ad un’opera inutile, devastante per l’ambiente, mancante dei requisiti strutturali per farla perché progetto vecchio di 20 anni, in cui avrebbero lavorato le solite grandi aziende, con attribuzioni sospette di appalti, e con la sinistra presenza in Valsusa della ‘ndrangheta.

Perciò la produzione di quel documento per gli imputati era importante e l’opposizione alla produzione è una questione molto seria, grave, preoccupante…e in una certa misura incomprensibile, sia dal punto di vista storico e sociale che da quello giuridico.

Per la storia basta pensare alle presenze, confermate, della mafia nei cantieri TAV della Roma – Napoli. Alle innumerevoli informative sulla realtà della presenza di camorra e ‘ndrangheta negli appalti e subappalti dell’alta velocità ferroviaria, addirittura i chiamiamoli gridi di allarme della commissione di inchiesta parlamentare del 2011 che allerta sul rischio di infiltrazioni mafiose negli eventuali cantieri della Torino-Lione. E allora, se una comunità di migliaia di persone si oppone ad un’opera pubblica anche perché teme, con fondamento, che i soldi pubblici possano finire in mano ad associazioni criminali, commette un reato? E l’opposizione popolare alle mafie dove finisce? La lasciamo soltanto alla Sicilia, alla Calabria, alla Campania? La lasciamo soltanto ai Peppino Impastato a Cinisi nel 1978, oppure ispirati ad esperienze come la sua, la vogliamo anche al Nord nel 2011 e nel 2014? La mafia esiste solo al Sud e in Lombardia?

Vogliamo ricordarlo, che sono stati i No Tav ad accorgersi che per anni LTF ha utilizzato il C.U.P. sbagliato(codice unico progetto per tracciare a scopo antimafia le transazioni negli appalti pubblici), quello del progetto di una diversa linea ferroviaria? Vogliamo ricordarlo che sono stati i No Tav ad accorgersi che nella sciagurata legge di ratifica dell’Accordo Italia-Francia del 2012 si prevede che gli appalti del TAV Torino-Lione sianoassegnati con la legge francese, che non ha leggi antimafia? 

Due coincidenze?

E’ preoccupante che di una questione così grave – rapporti tra ‘ndrangheta e società operanti sul cantiere TAV della Maddalena – non si possa parlare nel giardinetto della bella, falsissima e cortese Torino.

(D’altronde, perché stupirsi? E’ la Torino dove evidentemente i grandi appalti per le grandi opere pubbliche sono sempre tutti OK, nessuna corruzione, nessun particolare scandalo, nessuna indagine dirompente. E dove quando anche eventualmente qualcosa succede – pensiamo alla sentenza di primo grado penale che nel 2011 condannò per turbativa d’asta l’allora direttore generale e direttore costruzioni di LTF sull’appalto del cunicolo esplorativo TAV di Venaus -, non c’è nessun magistrato che convoca conferenze stampa. Quelle sono riservate agli arresti degli antagonisti o dei no tav).

Ma non lo si comprende, il rifiuto, neanche pensando alle dinamiche più propriamente processuali, per quanto possano valere a questo punto: il PM non ha anche il dovere, secondo il codice di procedura penale, di cercare elementi a favore degli imputati? E se un no tav si oppone all’avanzata di un mezzo di cantiere di una ditta che è sulla bocca di molti per le frequentazioni con membri di associazioni criminali, commette davvero un reato? E se giuridicamente lo commette, non è forse un reato meno grave di altri analoghi, perché commettendolo quell’imputato ha tentato di salvaguardare beni comuni da interessi…meno comuni?

Ma in questo maxiprocesso – che dal punto di vista delle garanzie e dei diritti degli imputati è un miniprocesso –tutto è anomalo. Benvenuti nella giustizia no tav, benvenuti a Torino.

Gian Carlo Taselli

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Torino. Un sabato ricco di mobilitazioni

Aggressioni e arresti. Un periodo caldo che porta in piazza centinaia di persone.

di Tobia Imperato

Sabato 31 maggio, mezzanotte passata, ultima corsa del metro, direzione Collegno. Il giovane Andrea P. si sta recando al Metzcal squat, una delle case occupate della cintura torinese. Nel vagone ci sono altri quattro ragazzi e due ragazzine, giovanissimi, quattro di loro sono minorenni e gli altri due poco di più.

Non sono ragazzi comuni, sono neonazisti. Cresciuti nell’odio per il diverso, nel mito della violenza gratuita, della sopraffazione del più debole. Andrea no, è un ragazzo sano che crede in valori diversi, nel dover lottare per una società più giusta, contro il razzismo e la xenofobia, dalla parte dei più deboli, per la difesa della terra. Ha il cosiddetto look dell’antagonista, sfoggia tatuaggi e spillette, tra cui una No Tav.

È sufficiente a scatenare la bestia che dorme nelle loro menti malate. Lo circondano, lo insultano, lo aggrediscono, lo accoltellano, lo lasciano per terra con un polmone perforato fuggendo alla prima fermata. Ma il sistema di videosorveglianza fa scattare l’allarme e trovano la polizia ad attenderli all’uscita. Andrea viene subito ricoverato in ospedale. Per fortuna la ferita non è grave.

sniarischiosa

Lunedì 2 è subito convocata un’assemblea antifascista nei locali di Radio Black Out, assemblea molto partecipata che si sposterà presso il Rabèl squat di via Riberi, appena rioccupato dopo il recente sgombero (sarà nuovamente sgomberato la mattina seguente, dopo la retata degli attivisti anitsfratto). Vengono decise due iniziative una per il mercoledì successivo, presidio nel tardo pomeriggio in piazza Castello, e un corteo il sabato mattina nel quartiere di Santa Rita.

Il presidio conterà la presenza di circa trecento persone, presenza nutrita che indurrà i partecipanti a muoversi in corteo per via Po fino a raggiungere Palazzo Nuovo dove si terrà un’assemblea nell’aula magna.

Sabato 7 al mattino l’appuntamento è in piazza Santa Rita. Si è scelto questo quartiere perché è infestato dalla presenza di un locale, dal nome dannunziano Uscocchia, espressione di CasaPound. Non si sa se gli accoltellatori appartengano a questo entourage ma sicuramente sono portatori degli stessi virus, degli stessi ideali infetti che andrebbero estirpati per sempre dalla vita sociale.

Il corteo, di circa quattrocento persone, si snoda per il mercato di corso Sebastopoli spiegando alla gente quello che è successo, per poi concludersi al parco Rignon – luogo frequentato dai giovani della zona – dove si tiene un dibattito a microfoni aperti, in cui intervengono anche alcuni vicini di casa di Uscocchia lamentando il clima di sopraffazione instaurato da questi loschi figuri. Significativa l’adesione alla manifestazione dell’Anpi provinciale, una volta tanto – invece di tenere banco a Caselli e al Pd – anche loro si occupano di antifascismo.

Nel pomeriggio altro corteo per altri motivi. L’appuntamento è in via Revello alla vecchia sede del centro sociale Gabrio, attivissimo nelle occupazioni abitative e nella lotta contro la cementificazione e cantierizzazione del borgo San Paolo. Il Comune di Torino – per motivi di mera speculazione edilizia – ha recentemente abbattuto il vecchio stabilimento della ex fabbrica automobilistica torinese Diatto, splendido esemplare di archeologia industriale della città (occupato da un comitato cittadino per impedirne lo scempio e poi sgomberato), per aprire un cantiere che in seguito verrà abbandonato diventando sorgente di polveri che si spargono per il quartiere in spregio alla salute dei residenti. Lo stesso avviene la vecchia Westinghouse, nei pressi delle vecchie carceri Nuove, dove sorgerà un supermercato. Per il momento tutto è fermo, non si sa nulla, nemmeno se l’area è stata bonificata dall’amianto o se le fibre cancerogene continuano impunemente a vagare per il borgo. Le associazioni dei comitati cittadini non hanno ricevuto risposte dal Comune. L’importante è non disturbare i manovratori del partito degli affari, cioè il Pd.

Il corteo, composto da circa trecento manifestanti, attraverserà questi luoghi facendo opera di controinformazione.

Infine, altro appuntamento preserale al capolinea del 3, presso il carcere della Vallette, presidio in solidarietà agli arrestati del 3 giugno (per le mobilitazioni contro gli sfratti). Dei dieci arrestati solo uno è alle Vallette, gli altri sono stati dispersi in vari carceri (Alessandria, Ravenna, Aosta, Biella, Cuneo, Asti, Vercelli). In compenso sono stati trasferiti qui per il processo Chiara e Claudio, due dei quattro No Tav imputati con l’accusa assurda di terrorismo e coinvolti anche in questa nuova inchiesta (carcere per Claudio e domiciliari per Chiara). Il Dap questa volta non ha voluto correre rischi. Evidentemente i trasferimenti sono funzionali a evitare proteste interne e manifestazioni davanti alle Vallette, come era successo all’epoca della retata No Tav nel 2012 ordinata dall’allora procuratore capo Caselli. La manovra di isolamento non è riuscita, sabato c’è stata una presenza solidale in ogni carcere. Al presidio torinese si sono presentati un centinaio di solidali sorvegliati da ingenti forze dell’ordine. Era l’ultimo appuntamento della giornata, probabilmente non tutti ce l’hanno fatta a reggere fino alla fine e quindi c’è stata meno partecipazione di quanta ci si sarebbe aspettato in occasione di un’operazione così pesante portata avanti dalla procura, con 11 ordini di custodia in carcere e 6 domiciliari e misure varie su un totale di 111 indagati.

Comunque i presenti si sono fatti sentire, valicando con la musica le inferriate, esprimendo la vicinanza del movimento di fuori agli arrestati.

Una prima manifestazione improvvisata di protesta si era tenuta la sera stessa del 3 giugno intorno all’asilo occupato, duecento persone sfidando la pioggia battente hanno percorso le strade del quartiere. È in programma per sabato prossimo un corteo di solidarietà che si snoderà per la Barriera di Milano, dove si sono difese le occupazioni abitative a causa delle quali ci sono stati gli arresti, alle ore 15 in piazza Crispi.

T.I. 10.06.14

PIL o GDP le attività criminali diventano un valore

In questi tempi di crisi e austerity, di opposizione sempre più forte alle burocrazie, l’Europa gioca la carta della revisione delle modalità del calcolo del PIL. E vissero tutti più felici e contenti?

di Davide Amerio

del PIL (Prodotto Interno Lordo) chiamato in inglese GDP (Gross Domestic Product) più o meno ne hanno sentito parlare tutti, specialmente in questi ultimi anni da quando la presenza  dell’Unione Europea è entrata così pesantemente nelle nostre vite.

Primo dei meccanismi studiati nelle scuole di economia come misuratore della ricchezza di una nazione oggi è il tormento quotidiano con cui si misurano i famigerati parametri europei: il rapporto deficit – Pil (il noto 3% da non superare) e il rapporto debito – Pil (l’altrettanto noto 60% quale limite oltre il quale un paese è considerto a rischio default).

Nell’economia classica il Pil ha significato sempre “benessere”: più Pil indica più ricchezza, maggiore ricchezza porta a più benessere. Questa equazione prescindeva da come la ricchezza veniva effettivamente distribuita o i modi in cui era creata (impatto ambientale, sociale, etc. etc.). Motivo per cui molti studiosi, governi, politici, hanno deciso di studiare possibili alternative al Pil cercando di definire un misuratore che risponda meglio al concetto di benessere dell’individuo. Ne sono un esempio  indicatori come il Pil verde, lo HDI (indice di sviluppo umano), il BLI (indice di una vita migliore), il BES (benessere equo e sostenibile), PIQ (Pil di qualità), la FIL (felicità interna lorda).

Nulla di tutto questo preoccupa Eurostat (l’Istituto di Statistica Europeo) e nemmeno l’Istat che dal prossimo 3 ottobre applicherà le nuove norme (Esa 2010) per calcolare il Pil. Le nuove disposizioni contemplano alcuni aspetti interessanti e altri quantomeno inquietanti.

Alla prima categoria appartiene lo spostamento degli impieghi in Ricerca e Sviluppo dalla casella delle spese (quindi calcolate come passività) a quella degli investimenti. Stessa sorte toccherà anche alle spese militari per nuove armi, alle merci lavorate all’estero e alle polizze assicurative.

Alla seconda invece attiene l’inserimento di stime che riguardano quasi tutta l’economia criminale: prostituzione, contrabbando (escluso quello delle armi), usura e spaccio di droga.

Si andrà quindi a creare una situazione a dir poco paradossale. In primo luogo queste nuove modalità di calcolo produrranno un valore di Pil più alto rispetto a quello attuale e sarà gioco facile dei governi (in particolare il nostro) vantarsi di una crescita senza aver fatto nulla di meritevole ma godendo di un “trucco” contabile. Quale sia il beneficio in termini numerici di questo “aiutino” è oggetto di dibattito controverso.

A detta degli eurocrati questo aggiustamento consentirà di riallineare il valore del Pil dei diversi paesi europei e un più facile calcolo dei parametri. Altri suggeriscono un raffronto più reale con l’America che considera i suoi cospicui investimenti in termini di R&S come voce attiva e darà impulso a tutti quei paesi che dedicano risorse economiche alla tecnologia e alla innovazione.

Certamente l’aumento del Pil produrrà un automatico miglioramento dei parametri di valutazione dello stato di salute economico dei paesi membri. Anzi, alcuni ipotizzano che questi miglioramenti produrranno sul mercato benefici nella percezione del rischio paese con conseguenti  vantaggi dei livelli di indebitamento. Considerazione alquanto opinabile: i “mercati” dovrebbero essere abbastanza preparati da conoscere la reale situazione che, di fatto, non cambia a parte i numeri che vengono modificati con un “barbatrucco”; ma la storia delle valutazioni delle agenzie di Rating ci lascia sovente perplessi e non ci stupiremmo se stessero al gioco.

Mi domando se invece non si cerchi subdolamente di modificare la percezione dei cittadini (l’indice di fiducia) facendo apparire dei miglioramenti che dovrebbero stimolare i consumi, di conseguenza la domanda di beni e quindi la ripresa tanto agognata e soffocata nella morsa dell’austerity. Ciò mi pare discutibile in assenza di una politica di stimolo della liquidità di denaro circolante che la BCE si guarda bene dall’attuare.

L’inserimento poi delle attività criminali in modo così palese e sfrontato pone seri interrogativi “morali” su come debba essere considerata la ricchezza. Il Pil ha per sua natura una connotazione positiva: presuppone un legame con la produzione di ricchezza lecita ad appannaggio di tutti. E’ vero che da anni discutiamo se tornare ad aprire le case chiuse e la legalizzazione di alcune sostanze stupefacenti, e questo comporterebbe certo un beneficio per lo Stato, ma altra questione è considerare queste attività di “scambio” utili e desiderabili.

Questa modalità attribuisce un valore positivo (o non negativo) ad attività che, teoricamente, dovrebbero essere perseguite dalla Stato: usura, spaccio, prostituzione. Senza dimenticare che essendo per natura perseguibili dalla giustizia sono fonte di guadagni oscurati e conseguente evasione fiscale.

In un paese come il nostro dove l’indice morale (se ne esiste uno) rasenta da tempo quota zero, quali conseguenze può avere il considerare atti criminali come una “ricchezza” del Pil? Qual’è sarà la volontà di azione dei governi contro queste attività se esse potranno essere utili nel vantare un miglior saggio del prodotto interno? Consentire di guadagnare prestigio nel mostrare un Pil in crescita ma frutto di attività che agiscono contro il benessere e la serenità dei cittadini ha davvero senso? Non sarà questo uno stimolo a chiudere gli occhi verso crimini e criminali che, in fondo in fondo, si potrà ben dire agiscono nell’interesse nazionale?

Forse siamo all’alba di una nuova frontiera scientifica creata da questa Europa dei burocrati: la statistica paradossale!

D.A. 07.06.14

Fonti :  http://temi.repubblica.it/micromega-online/piu-pil-per-tutti/

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04/18/crescita-per-renzi-arriva-la-carta-dei-nuovi-parametri-di-bilancio-vale-l1-2-di-pil/957042/

http://www.unita.it/italia/e-ora-nel-calcolo-del-pil-entrano-br-droga-prostituzione-e-contrabbando-1.570651

http://www.ilgiornale.it/news/interni/ue-rivede-calcolo-pil-litalia-pi-ricca-decreto-983347.html

La strategia di Obama: separare la Russia dall’Europa

di G. Colonna 07 Giugno 2014

Nei giorni immediatamente precedenti la celebrazione dei settant’anni dallo sbarco alleato in Normandia, la Casa Bianca ha assunto delle posizioni ufficiali sulla situazione nell’Est europeo che meriterebbero molta maggiore attenzione di quella che l’Europa, concentrata sui risultati elettorali e sulla perdurante crisi economica, gli ha riservato.
Il 3 giugno scorso, infatti, è stata ufficialmente lanciata la European Reassurance Initiative, con la quale il presidente americano ha richiesto al Congresso degli Stati Uniti un miliardo di dollari, da iscrivere nel bilancio della difesa statunitense 2015 tra le Overseas Contingency Operations (OCO), per finanziare una serie di misure di carattere militare che il governo Usa intende adottare. Intensificazione, utilizzando a rotazione truppe americane, di addestramento ed esercitazioni congiunte nel territorio degli alleati europei di più recente accessione; pianificazioni congiunte con gli stessi Paesi, per accrescere la loro capacità di programmazione di quelle attività; potenziamento delle capacità di risposta degli Usa a supporto della NATO, mediante la predisposizione di strutture di pre-posizionamento di equipaggiamenti e truppe; aumento della partecipazione della flotta Usa alle attività NATO, per potenziarne la presenza nel Mar Baltico e nel Mar Nero; crescita della capacità di Paesi “stretti alleati” ex-sovietici, come Georgia, Moldova e Ucraina, di collaborare con gli Stati Uniti e la NATO, e di sviluppare le proprie forze di difesa.
La Casa Bianca ha contestualmente presentato una sorta di riepilogo delle attività svolte dalle forze militari nordamericane negli ultimi mesi in relazione alla crisi ucraina. Schieramento di circa 600 uomini della 173a brigata paracadutisti in addestramento con Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, come primo passo per ulteriori esercitazioni che avranno luogo nei prossimi mesi, oltre a quelle già svolte nel corso di questi mesi, come la Steadfast Javelin 1, attuata da oltre 6000 uomini della Nato in Estonia, a maggio; dislocamento a rotazione di alcune unità navali statunitensi (USS Donald Cook; USS Taylor; USS Vella Gulf; USS Truxtun) nel Mar Nero, per attività di pattugliamento e addestramento con Romania, Georgia, Turchia; aumento del numero di marines Usa in Romania, sempre destinati al teatro del Mar Nero; sviluppo della collaborazione con l’aviazione polacca, con il dislocamento di ulteriori F-16 e di tre C-130J, velivoli militari da trasporto; supporto alla sorveglianza aerea da parte della NATO e dell’Ucraina; aumento da quattro a dieci dei cacciabombardieri F-15C già dislocati in Lituania.
Particolarmente significativa, inoltre, la decisione americana di incrementare il sistema missilistico Aegis nel teatro europeo, mediante lo spiegamento di quattro incrociatori dotati di questo sistema d’arma ai quali si aggiungono altri due Aegis, questa volta basati a terra, in Romania (2015) e Polonia (2018), il tutto coordinato da una base radar in Turchia. Questo sistema integrato di combattimento fa parte dello schema di graduale costruzione del cosiddetto sistema di difesa anti-missile balistico europeo, che la Russia ha sempre considerato come una grave minaccia alla propria sicurezza: la già ricordata USS Donald Cook è una delle unità destinate a farne parte. Non a caso, proprio nei confronti di questa unità un velivolo militare russo, unicamente dotato di sistemi elettronici, avrebbe operato un’azione di disturbo che sembra abbia neutralizzato il sistema Aegis della fregata statunitense, con effetti a quanto pare demoralizzanti sui ventisette marinai americani a bordo.
La Casa Bianca ricorda infine la collaborazione rafforzata della NATO con l’Ucraina, decisa lo scorso 5 marzo, con un potenziato collegamento con le autorità civili e militari ucraine, il rafforzamento della capacità militare del Paese e gli sforzi congiunti per includere l’Ucraina nei progetti multinazionali di addestramento.
Rendendo pubblica l’European Reassurance Initiative, insieme a questa lunga serie di attività militari, gli Stati Uniti dimostrano di avere assunto una decisione che va ben oltre la questione ucraina. Infatti, il presidente Obama dà di questi atti una lettura molto più ampia, esprimendo una vera e propria linea strategica: creare una linea di demarcazione politico-militare lungo i confini occidentali e meridionali della Russia, inglobando sotto l’ombrello della Nato, o includendo in accordi di collaborazione militare diretta con gli Usa, i Paesi dell’est Europa un tempo parte dell’Urss (Ucraina, Moldavia e Georgia) o membri del patto di Varsavia, come Romania, Polonia, Paesi Baltici, Bulgaria.
Questa decisione indica un approccio assai più radicale di quanto non abbia confusamente cercato di fare l’Unione Europea lo scorso autunno, tentando di accelerare in Ucraina una decisione pro o contro la Russia: oggi sembra anzi che questa mossa europea, subito apparsa immotivatamente precipitosa, non abbia fatto altro in realtà che preparare il terreno alla nuova impostazione statunitense, la cui importanza non può in alcun modo essere sottovalutata.
La radicalità della linea americana, del resto, è stata confermata dal discorso che il presidente Obama ha pronunciato due giorni dopo, il 5 giugno, a Varsavia, in occasione di un altro importante anniversario, il venticinquesimo della caduta del regime comunista in Polonia. La riaffermazione del legame privilegiato degli Usa con questo Paese, nella tradizione della politica estera britannica nel continente; l’abile ripresa dell’affermazione di Giovanni Paolo II, “non può esservi alcuna Europa senza una Polonia indipendente”; l’esaltazione del modello politico economico sociale della democrazia occidentale – sono argomentazioni servite di premessa, a nostro avviso, per un durissimo attacco lanciato in modo estremamente diretto contro la Russia.
” I giorni degli imperi e delle sfere di influenza sono finiti. Alle nazioni più grandi non è permesso intimidire le piccole, o imporre la loro volontà con la canna di un fucile o con uomini mascherati che prendono il controllo di edifici. Né legittimare la sottrazione di un territorio confinante con un tratto di penna. Non accetteremo l’occupazione russa della Crimea o la sua violazione della sovranità dell’Ucraina. Le nostre libere nazioni rimarranno saldamente unite, in modo che ulteriori provocazioni della Russia significheranno soltanto maggior isolamento e maggiori costi per la Russia. Perché, dopo avere investito tanto sangue e risorse per riunire l’Europa, dovremmo permettere che le oscure tattiche del XX secolo definiscano anche il nuovo secolo?”.
Sono certo affermazioni che rientrano nella tradizione del wilsonismo americano: e proprio come quelle non tengono minimamente conto dell’evidente contraddizione con la politica di un impero come quello americano che anche nel XXI secolo ha generato guerre per difendere una sfera di influenza mondiale alla quale gli Usa non sembrano voler rinunciare. Ma quello che oggi più interessa rilevare è l’espressa volontà nordamericana di contrapporre un’Europa unita alla Russia, attraverso l’inglobamento dei Paesi est europei nella sfera di influenza atlantica di cui gli Usa sono egemoni.
Resta questo il punto fondamentale sul quale l’Unione Europea avrebbe dovuto seriamente interrogarsi, mentre le nostre classi dirigenti sembrano invece aver scelto di seguire supinamente gli Usa, senza aver mai dato vita ad alcun serio dibattito. Non è difficile indovinare allora quello che dovrà fare la Russia, una volta che l’Occidente gli si opponga nuovamente con la Nato schierata lungo i suoi confini: cercare di trovare in una relazione privilegiata con la Cina, pur gravida di serissime incognite, una minima base di sicurezza a tutela dei propri interessi strategici.
Costringere a questo allineamento con la Cina la Russia pare essere la decisione lucidamente assunta da Obama: tanto più significativo per il fatto che per gli Stati Uniti d’America il vero problema dei decenni a venire è l’Asia. Qualunque siano le ragioni ideologiche o geopolitiche sottese a questa interpretazione dell’avvenire, l’Europa non ha invece alcun interesse a gettare nelle braccia della Cina la Russia, negandole la possibilità di una possibile futura integrazione che pure cultura, economia e politica imporrebbero. Santificare questa frattura con la Russia, gestendo secondo le indicazioni di Obama la crisi ucraina, è un errore epocale dell’Europa.
http://clarissa.it/editoriale_n1923/La-strategia-di-Obama-separare-la-Russia-dall-Europa