Più Pil per tutti

L’Eurostat ha rivisto i criteri per il calcolo del Pil. Da quest’anno saranno inclusi nel reddito nazionale anche le spese private per la ricerca e lo sviluppo ed i proventi di molte attività criminali. Secondo le stime più prudenti, il Pil dovrebbe aumentare statisticamente dell’1-2%, ma altre valutazioni fanno pensare ad un incremento dell’ordine del 10%. Al di là dei problemi etici, questa innovazione metodologica avrà conseguenze rilevanti. Per prima cosa, la rivalutazione farà diminuire artificialmente il rapporto debito-Pil, ad ulteriore riprova della insensatezza di questo ed altri parametri europei. Ma la cosa più inquietante è che da oggi tutti i governi avranno un motivo in più per non perseguire il lavoro nero e l’economia criminale, perché producono reddito e occupazione come qualsiasi altra attività. Anzi, un po’ di delinquenti in più faranno diminuire il tasso di disoccupazione e faciliteranno il rispetto dei famigerati criteri di Maastricht.

Alla fine l’Eurostat, l’ufficio statistico della Commissione Europea, ha dovuto dare ragione a Cetto La Qualunque, il geniale personaggio del politico cialtrone interpretato da Antonio Albanese, secondo il quale la prosperità economica si basa sulle attività irregolari o palesemente criminali.

Dopo una decina di anni di riunioni, gli statistici europei hanno infatti adottato il nuovo manuale di contabilità nazionale, il SEC 2010, che prescrive come calcolare il Pil, che corrisponde più o meno all’imponibile sul modello Unico compilato collettivamente per tutti i cittadini italiani. Il SEC 2010 prevede, tra l’altro, l’inclusione nel Pil di quasi tutta l’economia criminale: prostituzione, contrabbando (escluso quello delle armi), usura e spaccio di droga. Per ora rimangono fuori i furti (anche se è compresa la ricettazione), i sequestri di persona, il pizzo e poco altro. Ma già ora non manca chi osserva argutamente che alcuni furti con destrezza sono veri e propri spettacoli di prestidigitazione; il sequestrato usufruisce comunque di un servizio alberghiero e il pizzo è una forma di assicurazione, talvolta meno onerosa di una normale polizza contro furto e incendio. Comunque i più curiosi potranno trovare tutti i dettagli dell’operazionesul sito; anche l’Istat fornisce qualche ragguaglio qui. Per la cronaca, la stessa revisione prevede che le armi siano considerate un investimento, alla stregua di qualsiasi macchina o capannone. Se fosse solo una bizzarria da statistici, si potrebbe lasciar correre, ma purtroppo queste innovazioni metodologiche rischiano di peggiorare le politiche economiche e le nostre condizioni di vita nei prossimi anni.

Già oggi il Pil include i proventi del lavoro nero applicato a settori legali (soprattutto edilizia, agricoltura e servizi) che da solo ammonta a circa il 17% del reddito complessivo. Fino a ieri l’economia propriamente criminale veniva invece considerata una semplice redistribuzione di ricchezza dai cittadini onesti verso i delinquenti e, come tale, non era ritenuta in grado di creare reddito e occupazione, a differenza delle imprese normali. Ora si osserva pragmaticamente che molte attività criminali sono del tutto assimilabili a normali transazioni economiche. In fondo, sembrano pensare gli statistici, chi compra eroina lo fa volontariamente (almeno all’inizio); parecchi lavori legali sono più pericolosi, precari e mal pagati della prostituzione e il confine tra usura e intermediazione finanziaria regolare è piuttosto labile.

La logica che sta dietro questa “innovazione” è molto semplice: se esiste uno scambio volontario, seppure illegale, vuol dire che si stanno trasferendo beni e servizi ai quali le controparti attribuiscono un valore economico, che si traduce in retribuzioni e profitti per chi li produce e li commercia. Poco importa se in uno scambio criminale le parti sono in una posizione assolutamente asimmetrica: questo avviene anche in quasi tutte le transazioni finanziarie senza alcuno scandalo di statistici ed economisti. E’ una naturale evoluzione del pensiero di Vespasiano, che già 2000 anni fa aveva dimostrato che il denaro “non olet” anche quando proviene da attività poco eleganti. E’ un bel salto logico rispetto al “prodotto materiale” calcolato dagli statistici sovietici, che includeva solo la produzione di oggetti tangibili, ottenuti trasformando le risorse naturali attraverso il duro lavoro (alimenti, vestiti, macchine), ed escludeva perfino i servizi, considerati una sorta di tassa sul valore che veniva creato nelle fabbriche, nei campi e nelle miniere.

L’Eurostat stima che in Italia la “valorizzazione” di spaccio, prostituzione e contrabbando, assieme alle spese private per ricerca e sviluppo (che sono un altro oggetto della prossima revisione del Pil), frutti 1 o al massimo 2 punti percentuali in più di Pil. Tuttavia uno studio della Banca d’Italia di qualche anno fa valutava che, prima della crisi, l’intera economia criminale ammontasse a circa il 10% del prodotto nazionale.

Al di là degli aspetti puramente etici e quantitativi, la rivalutazione del Pil pone alcune questioni piuttosto serie. La prima è molto antica e riguarda il modello di sviluppo che abbiamo in mente. Il Pil, infatti, ha finito per diventare una misura della performance economica complessiva di un paese, e quindi anche un metro per valutare l’efficacia delle politiche economiche. Di conseguenza, qualsiasi governo decente cercherà di far aumentare il Pil, nella convinzione che questo migliori le condizioni di vita dei cittadini, e soprattutto degli elettori ai quali deve rispondere periodicamente. Ma i risultati concreti di questo sforzo dipenderanno in modo cruciale dalla composizione del Pil. Quasi tutto va bene se il Pil è formato solo da beni e servizi realmente “utili”, prodotti pagando salari e profitti altrettanto meritori a chi ha contribuito alla loro produzione e distribuzione. Ma se il successo di un governo è decretato da un Pil che dipende, almeno in parte, dal lavoro di spacciatori, prostitute, sfruttatori, ricettatori e scafisti, allora è inevitabile che anche il migliore dei governanti sarà tentato dal tollerare, o addirittura incoraggiare, attività che finiscono per danneggiare i propri cittadini. I contabili nazionali spesso ricordano che sposando la propria domestica si finisce per ridurre il Pil, oggi possono aggiungere che si può rimediare facilmente a questo inconveniente facendola prostituire o mandandola in giro a spacciare droga.

Dei difetti del PIl si sono occupati a lungo i padri della moderna contabilità nazionale, almeno novanta anni fa, e, più di recente, il tema è stato ripreso dagli statistici che costruiscono indicatori come il Pil verde, lo HDI (indice di sviluppo umano), il BLI (indice di una vita migliore), il BES (benessere equo e sostenibile), PIQ (Pil di qualità), la FIL (felicità interna lorda), ecc. Sembra tuttavia, che l’Eurostat non sia al corrente di questo annoso dibattito. E gli abitanti di qualsiasi quartiere periferico, assediato da spacciatori e prostitute, glie ne saranno certamente grati, visto che ora potranno dire di abitare in appartamenti con vista su una fiorente manifattura, con lo stesso orgoglio con cui, negli anni sessanta, gli operai potevano scorgere la loro fabbrica dal balcone.

Si potrà ribattere che molti alimenti e parecchie trasmissioni televisive, il cui valore è già regolarmente contabilizzato nel Pil, fanno più danni del crack, e che le automobili provocano più morti di una guerra tra gang di contrabbandieri. Oppure si potrà osservare che ciascuno è libero di drogarsi o di vendere il proprio corpo, invece che il proprio cervello, al migliore offerente. Ma l’ultima revisione dei metodi di contabilità nazionale va ben oltre queste considerazioni. Il “nuovo” Pil contribuisce a rovesciare definitivamente il rapporto tra ciò che è riconosciuto socialmente utile e ciò che transita sul mercato. In altre parole, invece di misurare la produzione di ciò che è utile, si misura tutto ciò che si vende e si compra, in base al pregiudizio ideologico che tutto ciò che ha un mercato è comunque un “bene” e non può essere mai un “male”. In questo modo si incoraggiano i governi a “lasciar fare” in tutti i campi, senza preoccuparsi troppo di indirizzare l’economia verso le attività più proficue per la collettività e senza tutelare gli operatori più deboli, come le persone sfruttate dai protettori e la manovalanza dello spaccio e del contrabbando.

C’è anche un altro aspetto paradossale nella rivalutazione del PIl. L’inclusione dell’economia criminale, infatti, darà una mano (inaspettata?) ai funzionari di via XX Settembre, sempre alle prese con il rapporto tra deficit e Pil e tra debito pubblico e Pil. Anche 1-2 punti percentuali in più di reddito aiuteranno a rispettare gli assurdi vincoli imposti dal famigerato Fiscal Compact (per altro figlio di una lunga serie di accordi, dal Trattato di Maastricht, al Six Pack e al Two Pack). C’è da scommettere che tutti i governi dei paesi più indebitati hanno accolto come una manna questa innovazione metodologica, e la stessa Commissione Europea e la BCE (entrambe coinvolte nella stesura dei nuovi standard di contabilità nazionale) hanno benevolmente chiuso un occhio su questa scappatoia, che consente di allentare vincoli in cui nessuno crede più veramente senza perdere la faccia.

Anche in questo caso, una misura statistica inappropriata rischia di favorire politiche sbagliate. Se qualche delinquente libero in più consente di rispettare senza fatica i vincoli europei, allora qualsiasi governo non può che tollerare il lavoro nero e la criminalità più o meno organizzata. Le cose andrebbero in modo molto diverso se, ad esempio, deficit e debito pubblico fossero misurati rispetto alle entrate del debitore, che nel caso specifico è lo Stato. C’è almeno un buon motivo per farlo: in mancanza di una banca centrale che, in caso di necessità, possa assorbire debito pubblico in scadenza, quest’ultimo può essere rimborsato e remunerato solo attingendo alle entrate fiscali, mentre aggredire il Pil (ossia le entrate nette di tutti i cittadini) comporterebbe espropri inimmaginabili perfino in un regime sovietico. Non a caso, qualsiasi banca concede prestiti in base alle entrate personali del richiedente e non a quelle dei suoi parenti e amici. Un’altra ottima ragione per usare le entrate fiscali al posto del Pil è che i dati di bilancio sono (quasi) inoppugnabili, mentre il Pil è soggetto a perturbazioni metodologiche come quella del SEC 2010 e ad errori statistici, tanto è vero che può essere rivisto per tre anni di seguito.

Ma il motivo principale per commisurare deficit e debito alle entrate dello Stato è che ciò incoraggerebbe comportamenti virtuosi da parte dei governi. In particolare, mentre il confronto di queste variabili col Pil induce a chiudere più di un occhio sull’evasione e sull’elusione fiscale, che hanno invece pochi effetti sul Pil, il rapporto tra debito ed entrate può essere facilmente migliorato aumentando l’efficienza del fisco. Per lo stesso motivo, una accorta gestione del patrimonio pubblico risulterebbe preferibile alla svendita dei beni dello Stato, perché quest’ultima soluzione ridurrebbe in modo permanente il flusso delle entrate fiscali. Verrebbe rivalutata anche la fornitura diretta di servizi pubblici, che produce entrate aggiuntive e risulta dunque preferibile all’outsourcing, che è uno dei responsabili del dissesto delle finanze pubbliche. Forse verrebbe meno anche la regola assurda che limita la dinamica della spesa pubblica (non del solo deficit) per i paesi con deficit eccessivo, nella misura in cui la spesa aggiuntiva sia interamente finanziata da imposte e tariffe pubbliche. Insomma il semplice cambiamento del denominatore di un indice statistico ci permetterebbe di vivere in un mondo migliore, con più servizi, più beni pubblici e meno criminalità. Ma evidentemente alla Commissione Europea e nel suo ufficio statistico non sono di quest’avviso.

Oltre tutto, osservando il rapporto tra debito pubblico ed entrate fiscali si scoprono anche parecchie cose interessanti. Per esempio, un paese spesso preso a modello, come gli USA, quest’anno farà registrare un debito che è 3,2 volte le sue entrate fiscali, anche se è poco superiore a quello del Pil. Ovviamente può permetterselo perché la FED, a differenza della BCE, è pronta a monetizzare il debito americano senza bisogno di inasprire la pressione fiscale sui cittadini. Lo stesso vale per il Giappone, che convive abbastanza tranquillamente con un debito che è pari a quasi 2 volte e mezza il suo Pil e circa a 7 volte le sue entrate fiscali.

Guardando al rapporto tra debito ed entrate fiscali, in Europa solo la Grecia e l’Irlanda sono in condizioni peggiori di USA e Giappone, mentre paesi come l’Italia e il Portogallo, pur registrando un rapporto debito-Pil superiore agli USA, possono vantare un confronto molto più favorevole in termini di entrate fiscali. Il rapporto con le entrate, invece che col Pil, fa anche apparire molto meno preoccupante la posizione debitoria dell’Italia, che stacca la Germania di circa il 78% in termini di rapporto debito-Pil, ma solo del 66% in termini di entrate. Lo stesso vale per Belgio, Francia e perfino per la vituperata Grecia. Nel caso austriaco, la posizione rispetto alle entrate è addirittura migliore di quella della Germania. Tre paesi presi spesso come testimonial del successo delle politiche di austerity, come Spagna, Irlanda e Regno Unito, escono fuori molto ridimensionati dall’esame del rapporto tra debito e entrate: la Spagna non si discosta troppo dalla posizione italiana e l’Irlanda sembrerebbe messa molto peggio. Non a caso, anche il Regno Unito dispone di una banca centrale autonoma, in grado di garantire il debito sovrano senza pesare direttamente sulle tasche dei contribuenti.

In conclusione, forse è bene che i cittadini comincino ad occuparsi anche di statistica prima che la statistica si occupi di loro.

Civil Servant
Fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/
27.05.2014

Europee 2014: gli italiani preferiscono il partito delle Banche

Se l’Italia è l’unico Paese europeo al di là della Germania dove le forze euroscettiche non sono riuscite a ottenere dei risultati incoraggianti il motivo è uno solo: in Italia, le istanze contrarie a questa Europa che ci ha messo in ginocchio, sono affidate a forze ed esponenti politici incapaci.

Incapaci nel senso più politico del termine. Non si tratta solo di incapacità nella comunicazione, e non si può ovviamente additare alla sola complicità dell’informazione con i poteri forti nel nostro Paese, pur evidente, la motivazione principale di non essere riusciti a far capire, o almeno percepire, all’opinione pubblica, la necessità, sopratutto a livello europeo, di scegliere dei partiti che potessero almeno tentare di cambiare le carte in tavola. Il punto è che un partito politico vero, cioè preparato e attendibile, sulle posizioni contrarie a questa Europa e all’Euro, in Italia non c’è.

Ben oltre l’exploit di Marine Le Pen in Francia e quello degli anti-Ue in Gran Bretagna, infatti, anche negli altri Paesi europei come Spagna e Grecia si sono imposte, e con numeri finalmente interessanti, forze politiche di chiara matrice euroscettica: il numero dei seggi per esponenti contrari alla situazione attuale è triplicato. E persino in Germania, dove ve ne sarebbe apparentemente minore motivo, è riuscito a ottenere un discreto risultato il partito contrario all’Europa delle Banche. Solo da noi ha aumentato i consensi il partito guidato da uno dei personaggi politici più insulsi e vacui degli ultimi decenni. Un partito, il Pd, ormai espressione diretta delle politiche eterodirette dall’Europa finanziaria e usuraia. Da noi, come solo in Germania, appunto, ha vinto un partito già al governo: come se stesse governando bene, come se le cose stessero andando per il verso giusto. Come dire: agli italiani la situazione va bene e premiano perciò anche in Europa chi li sta già guidando a casa propria. Oppure pensano che veramente il Pd possa invertire la rotta attuale del declino inesorabile.

Il “Renzie’s Show” (copyright Crozza) ha avuto successo sia per l’atavica inclinazione degli italiani nel cadere trappola di illusioni di vario tipo sia per l’assoluta inadeguatezza delle forze politiche a esso teoricamente contrarie. Ma se per Berlusconi era chiaramente difficile ottenere numeri di un certo rispetto, e se per la Lega era addirittura impossibile anche solo sperarlo, il vero perdente assoluto nella dinamica interna è ovviamente il MoVimento 5 Stelle di Beppe Grillo.

Si dirà (e lo diranno a più non posso, vedrete): è possibile considerare perdente un partito che ottiene oltre il 20% dei voti di chi si è recato alle urne?

La risposta è semplice, logica: sì, un partito che si crede e veicola come “rivoluzionario”, come appunto quello di Grillo, in una occasione storica favorevole come questa, per via del sentire comune sull’Europa nel nostro Paese e in tutto il vecchio continente, avrebbe dovuto sfondare. E invece viene ridimensionato rispetto alle elezioni Politiche precedenti e addirittura doppiato dal Partito Democratico: è la fotografia di una sconfitta totale.

Ancora di più per il motivo, squisitamente elettorale, che era proprio all’interno del Pd che Grillo puntava a rastrellare voti per la sua causa. Il rifiuto alla Le Pen di qualche mese addietro, che gli aveva teso la mano nella crociata continentale euroscettica, andava letto esattamente in questa ottica: Grillo non poté aderire al richiamo della leader del Front National proprio perché puntava a prendere voti dalla pancia del Pd. La “manovra” ha avuto effetti del tutto irrilevanti, con una duplice aggravante, anzi triplice.

In primo luogo non si è riusciti nell’intento e si ha anzi perso dieci punti percentuali rispetto alle elezioni Politiche precedenti del febbraio 2013. In secondo luogo si è ottenuto di rafforzare ancora di più il partito che ci porterà al collasso economico seguendo i diktat dell’Europa (ce ne accorgeremo a brevissimo). E in terzo luogo, cosa forse ancora più importante soprattutto in chiave di medio e lungo termine, si è perduta (speriamo solo temporaneamente) la possibilità di veder nascere e andare avanti un Partito Politico – del quale non c’è traccia, beninteso – che veramente potesse (e possa) riuscire a impostare un discorso serio in merito all’Europa, all’Euro, e al rapporto dell’Italia con essi.

Non si tratta di dare addosso a Grillo in questa fase dove pure è semplicissimo, come peraltro faranno quasi tutti. Le nostre posizioni in merito sono note da anni e anni ormai: la critica che facciamo e che abbiamo sempre fatto relativamente al MoVimento 5 Stelle è squisitamente analitica e politica. E sul solco di quella critica costruttiva, almeno così l’abbiamo sempre intesa (si prega nel caso di leggere cosa abbiamo scritto in tal senso in ogni circostanza, su questo giornale) si situa l’amara considerazione del momento.

Soprattutto a livello europeo, e dunque prettamente strategico su temi fondanti di politica internazionale e di macroeconomia, cioè, sinteticamente, di Europa e moneta sovrana, il MoVimento 5 Stelle non ha lo straccio di una analisi degna di tale nome, e dunque figuriamoci la possibilità di concepire un programma politico da cercare di veicolare. Se a questo aggiungiamo il tiro al bersaglio fatto da stampa e televisioni del nostro Paese, il risultato non poteva che essere quello che è stato.

Tra gli sterili, e per molti, “preoccupanti”, proclami di Grillo e le illusioni di Renzi, gli italiani, al solito, hanno preferito lasciarsi prendere ancora in giro dalla politica tradizionale. Come se la storia non avesse insegnato nulla.

La corsa alle elezioni Politiche, in Italia, adesso non ha più senso: il Partito Democratico non ha motivo di andare alle urne. Il 40% e oltre ottenuto a queste europee è un risultato che non si era quasi mai verificato dal dopoguerra in poi. Il Pd ora ha praticamente mano libera. Renzi ha mano libera (sia internamente sia in Parlamento). E la userà per le manovre draconiane che serviranno per rispettare il Mes e il Fiscal Compact che incombono. Altro che 80 euro al mese. Incamerato il voto europeo, adesso verrà la volta della vera faccia dell’era Renzi. Gli altri partiti della vecchia politica sono fortemente malandati e non ci pensano un solo istante a minacciare nuove elezioni. Non lo faranno prima di aver avuto il tempo di stringere nuove alleanze di antica memoria in grado di garantirgli, ancora una volta, e sempre allo stesso modo, di mettere insieme un blocco con qualche speranza di percentuali rilevanti.

L’onda di Grillo è drasticamente ridimensionata, come se la speranza e l’indignazione che a febbraio 2013 gli aveva conferito quasi un terzo dei voti si fosse trasformata nella constatazione che nel MoVimento 5 Stelle manca soprattutto la Politica (questa volta con la P maiuscola) e anche – chi è addetto ai lavori lo sa – dei professionisti della comunicazione che possano portarla avanti davanti alle telecamere, dietro ai microfoni e attraverso le tastiere. Non basta, non può bastare la “buona volontà” e la “faccia pulita” dei grillini, politici o informatori che siano, per sopperire alla mancanza di professionalità nell’uno e nell’altro ambito.

Al MoVimento di Grillo servono analisti e giornalisti (sì, professionisti della comunicazione) e un pensiero Politico (sì, ancora una volta con la P maiuscola) da comunicare alla gente. E un veicolo (o più veicoli) degni e professionali per portarlo avanti. Non basta più – non sono mai bastati e non potevano bastare – persone semplicemente motivate e blogger in pigiama. Serve un progetto politico e chi possa veicolarlo alle persone in modo chiaro ed efficace. Alle arringhe e agli attacchi gli italiani preferiscono le illusioni. Almeno il 40% di chi è andato a votare.

Valerio Lo Monaco
http://www.ilribelle.com/la-voce-del-ribelle/2014/5/27/europee-2014-gli-italiani-preferiscono-il-partito-delle-banc.html
27.05.2014

Londra, un milione di nuovi poveri in coda per il cibo

La riforma del welfare britannico lascia sul campo un milione di nuovi poveri. E’ il quadro di un’Inghilterra affamata quello dai Trussel Trust, la piu grande banca del cibo del paese. Secondo l’ultimo rapporto dell’organizzazione benefica, piu di 900.000 persone si sono rivolte a loro nell’ultimo anno, facendo registrare un aumento record nell’utenza, pari al 163%. Una situazione inquietante, causata in gran parte dal taglio dei benefit assistenziali e condannata da 600 leader di religioni diverse, che hanno inviato una lettera al governo chiedendo un’azione immediata per risolvere il problema. Nello stesso tempo una coalizione anti-povertà formata da decine di organizzazioni umanitarie, Trussel Trust compresa, afferma che la Gran Bretagna sta violando la legge sui diritti umani, in particolare il diritto delle persone a poter provvedere al proprio nutrimento. Una presa di posizione durissima che riflette il risultato, altrettanto duro, del rapporto del Trussell sull’uso delle sanzioni imposte dal governo al sistema Chris Moulddei benefit, scrive Enrica Orsini sul “Giornale”, in un servizio ripreso da “Vox Populi”. Metà dei nuovi poveri britannici si sono rivolti alle banche del cibo tra il 2013 e il 2014: «L’hanno fatto perchè i loro sostegni assistenziali sono stati cancellati o sono giunti in ritardo». Otto banche caritative su dieci rilevano la stessa situazione. «In totale, 913.138 persone si sono rivolte almeno per tre giorni al Trussell Trust, contro le 346.992 dello scorso anno». Tra le cause più frequenti, oltre alla riforma del welfare, «l’aumento del costo della vita, i salari troppo bassi e la disoccupazione: i nuovi poveri fanno quindi salire a 4.700.000 il numero delle persone che non riescono ad alimentarsi».

Cifre definite «scioccanti, nella Gran Bretagna del ventunesimo secolo» da Chris Mould, direttore dell’organizzazione. Ed è solo la vetta dell’iceberg: questi numeri, aggiunge Mould, non includono «chi si rivolge ad altre organizzazioni in città dove non sono presenti le nostre banche del cibo, e non può tener conto di tutti i soggetti che si vergognano troppo per chiedere il nostro aiuto», senza contare «il largo numero di utenti che provano a far fronte al problema semplicemente mangiando di meno e acquistando cibo scadente». Nel rapporto, l’organizzazione sostiene che l’aumento della richiesta è presente in tutte le organizzazioni. Per Rachel Reeves, ministro-ombra laburista per lavoro e pensioni, «le banche del cibo sono divenute il simbolo vergognoso del fallimento del governo di David Cameron nella lotta all’aumento del costo della vita». Serve «un’azione urgente per azzerare un sistema sbagliato, in cui i ritardi e le cancellazioni nell’assegnazione dei benefit hanno portato a questa situazione».

Fonte: www.libreidee.org
27.05.2014

La democrazia del fracking. Polonia, Romania, Inghilterra, un documentario di Lech Kowalski

Il fracking sempre di più dimostra, se ancora ve ne fosse bisogno, la sudditanza della politica alle multinazionali. Silenzio dei media e violenza di Stato contro le rivolte popolari. Polonia, Romania, Inghilterra, tre casi a confronto in un documentario di Lech Kowalski.

di Massimo Bonato

Il gas di scisto non è più una delle tante opzioni in Europa, ma una realtà. L’esplorazione è in corso in diversi paesi europei e vaste aree sono già state designate per essere sottoposte ad eventuali processi di fratturazione. Processi che utilizzeranno grandi masse di acque a discapito delle falde acquifere, sfruttate prima e inquinate poi, ma anche a discapito di centri abitati e vaste aree riccamente coltivabili rese inservibili.

Vi sono aree in cui il fracking viene imposto da multinazionali con le quali i governi e i media sono conniventi. È il caso di Zurawlow, in una Polonia in cui per i canali ufficiali i cittadini sarebbero d’accordo all’80% con esplorazioni, perforazioni ed estrazioni, ma si tacciono le rivolte e le opposizioni popolari. È il caso di Pungesti, in Romania, dove le esplorazioni della Chevron vengono fatte a pochi metri dalle abitazioni senza aver chiesto alcun permesso, senza che i sindaci dei paesi vengano neanche messi al corrente di che cosa sta accadendo. Ma avviene anche nella urbana Inghilterra, a Balcombe, in cui gli abitanti si chiedono a chi andranno a chiedere conto quando, a forza di cambiare nome, le società interessate si saranno moltiplicate e atomizzate senza che vi sia rinvenibile un responsabile, dove chi ha mezzi e coraggio per portare una società in tribunale vede i documenti secretati, senza possibilità di divulgazione; ma soprattutto nessuno sa che il progetto fracking di perforazione prevede 1000 pozzi che richiederanno lo sfruttamento di 5 ettari di terra a pozzo e l’abbattimento di circa 100.000 alberi!

Lech Kowalski, per la produzione di Odile Allard – sottotitoli in italiano Francesco Giannatiempo – ha realizzato un documentario di ca. 30 mn su queste realtà: a Zurawlow, Polonia; a Balcombe, Regno Unito; e a Pungesti, Romania. Realtà al confronto delle quali lo Stato oppone disinformazione, Polizia, violenza e silenzio dei media.

qui il documentario di Lech Kowalski sottotitolato in italiano

Processo ai No Tav. “Una coltre di gas” sui manifestanti inermi

 Continua la trafila di testimoni a difesa che ribadiscono le ragioni dei dimostranti e l’attacco violento e premeditato della polizia a una manifestazione iniziata pacificamente.
di Fabrizio Salmoni

Sparavano a tutto quello che si muoveva – ricorda il teste – Ho visto sparare dritto addosso a un fotografo. I proiettili di gas arrivavano anche dagli elicotteri...” Queste le parole diEnrico Semprini, un solidale venuto da Modena per manifestare contro lo sgombero del 27 Giugno e contro il Tav. Era una “coltre di gas” il terreno della Val Clarea quel 3 Luglio 2011 e quasi non si riusciva ad avvicinarsi alle reti. E’ una descrizione che rende l’idea della violenza messa in campo dalla Questura quel giorno.

modena2-300k

I lacrimogeni venivano sparati direttamente sulla gente” ribadisce Baldassare Marceca, all’epoca vicepresidente della Comunità Montana.

Ma ce n’è anche per il 27 Giugno: è Giuliana Pognant che produce fotografie scattate da lei stessa dalla strada dell’Avanà in cui si capisce chiaramente la successione degli eventi: subito gas e immediata fuga dei manifestanti che non reagiscono. Rinaudo tenta di opporsi perchè “il 27 Giugno non è nel capitolato del teste” ma ormai è fatta e le fotografie acquisite.

Il quadro è ormai chiaro da tempo: in entrambe le giornate c’è stato un attacco sproporzionato alla situazione su gente inerme che ha inevitabilmente reagito con energia mettendo quasi in crisi il dispositivo di sicurezza predisposto con più di duemila agenti di tutte le armi, mezzi a terra e in aria. Quel che si dice: mai stuzzicare l’orso che dorme. E’ la reazione della gente che è sotto processo, è la versione di partiti, media asserviti e Questura ad essere contraddetta.

giudice2-300k

Rimangono ancora una quarantina di testimoni da ascoltare poi, presumibilmente a settembre la sentenza che se non farà giustizia, come probabile, farà senz’altro la storia dei giorni dell’alta marea della protesta popolare.

Prossima udienza il 3 Giugno, quasi sovrapposta alla seconda udienza del processo per terrorismo prevista il 6 Giugno. Un affollamento di processi contro i No Tav che non accenna a diradarsi.

(F.S. 27.5.2014)

 

Dopo Avigliana anche Susa è No Tav….

di Valsusa Report

Arriva appena passata la mezzanotte, Susa è No Tav. Uno scarto di pochi voti, una decina, vince Sandro Plano che passa dalla guida della ex Comunità Montana a primo cittadino della Città di Susa. Sandro Plano prende 361 voti. Il sindaco uscente Gemma Amprino 327.

plano2

I primi tre seggi vanno subito a Plano, che in periferia proprio dove dovrà sorgere la contestatissima stazione internazionale stravince, inizia da lì il successo che dopo Avigliana, l’altra città della Val di Susa, consegna la preferenza all’opposizione del supertreno.

La lista No Tav di centrosinistra di Plano ha vinto con 1906 voti, contro i 1898 di Gemma Amprino del centrodestra, favorevole all’alta velocità. Non sono bastati mesi e giornate di convincimento sul lavoro utile del cantiere geognostico della Maddalena, della stazione internazionale e del nuovo autoporto, i segusini preferiscono respirare aria pulita.

plano3

La notizia della vittoria nella sala delle scuole medie di Piazza Savoia, fa scoppiare un boato, i carabinieri e finanzieri presenti si girano preoccupati.

Forse, già precedentemente allarmati dalla vecchia amministrazione, per paventati problemi di ordine pubblico, si capisce subito che il frastuono è il segno di vittoria, inutile il loro intervento nei seggi del centro città.

VR (26/05/14)

Révélation sur le Lyon Turin : la Commission européenne recommande de réactiver la ligne existante pour les marchandises

http://www.reporterre.net/spip.php?article5858

Reporterre

ANDREA BAROLINI (REPORTERRE) – jeudi 15 mai 2014 

Mercredi 14 mai, à Turin, les opposants au projet de LGV entre Lyon et Turin ont révélé un document de la Commission européenne qui bouleverse l’économie du projet. Il recommande la réactivation de la ligne existante pour faire passer les marchandises. La rationalité économique du projet, déjà plus qu’incertaine, s’en trouve encore affaiblie.


Personne n’en a encore parlé en France, et ce sont les opposants italiens au Lyon-Turin qui ont déterré l’information : un document officiel signé par Laurens Jan Brinkhorst, le coordinateur du projet pour la Commission Européenne. SonRapport annuel d’activité 2012-2013 pour le Projet Prioritaire 6 contient une information qui bouleverse les données du problème.

Après avoir réaffirmé l’importance du grand projet PP6 (l’immense axe ferroviaire qui devrait amener de Lyon à la frontière ukrainienne, en passant par Trieste, Divača, Ljubljana et Budapest, et dont fait partie le Lyon-Turin), l’ancien homme politique néerlandais se concentre sur les travaux de l’organisme dénommé« Plateforme du corridor Lyon-Turin (PCLT) ».


– Laurens Jan Brinkhorst –

Celui-ci comprend Brinkhorst lui-même pour la Commission européenne, les autorités nationales, régionales et locales des deux Etats concernés, les directeurs et les opérateurs de chemin de fer, le promoteur du chantier LTF(Lyon Turin Ferroviaire), l’Observatoire, et les organisations représentant les intérêts de l’industrie et des futurs utilisateurs. Son but : « Réunir toutes les parties concernées par le calendrier et la gestion de cette importante infrastructure de transport afin de planifier, coordonner et superviser les actions à entreprendre sur le corridor Lyon-Turin dans les années à venir ».

Des réunions dont rien ne filtre

Brinkhorst indique que cet organisme s’est déjà réuni trois fois : à Bruxelles en 2011, à Chambéry en 2012, et à nouveau à Bruxelles le 22 janvier 2013.« Personne ne sait ce qu’ils se sont dit”, dit à Reporterre Paolo Prieri, du mouvement Presidio Europa, qui s’oppose au projet. “Aucun document a été publié après les rencontres. J’ai déjà demandé à l’Union Européenne d’avoir accès à ces informations, mais je n’ai pas eu de réponse ».

Or, le document révèle que dans la troisième de ces réunions, les participants« sont convenus de la nécessité de réactiver la ligne existante pour qu’elle devienne l’axe ferroviaire principal pour le transport des marchandises entre la France et l’Italie » (p. 11). Il s’agit d’un choix qui change les objectifs prévus pour le projet, puisque le transport de fret est l’un des piliers du Lyon-Turin.

- Le rapport à télécharger :

PDF - 2.1 Mo

Pourquoi cette évolution ? Parce que, poursuit le coordinateur, « le point de vue partagé est l’impossibilité politique de proposer la construction d’une nouvelle ligne sans avoir entrepris tous les efforts possibles pour rétablir la ligne existante comme artère principale de transport après les travaux d’élargissement du tunnel ferroviaire Fréjus/Mont Cenis ».

La ligne actuelle entre Lyon et Turin, qui traverse les Alpes par le tunnel du Frejus, a été en effet rénovée récemment, en France comme en Italie. Le profil du tunnel a été élargi et les installations électriques ont été modernisées, y compris les outils pour la communication et la signalisation. « Le coordinateur continuera en conséquence à soutenir les efforts des deux Etats membres, notamment au travers du travail du groupe de haut niveau sur la ligne historique ».

En outre, Brinkhorst explique que le financement promis jusqu’ici par la Commission européenne pour effectuer les études n’ont pas encore été versés à cause des lourds retards accumulés, surtout du coté italien : « En décembre 2008 la Commission européenne a décidé de réserver 671,8 millions d’euros pour les études et les travaux sur le tronçon commun italien-français pour la période 2007-2013. Le paiement effectif de ces fonds dépend de la capacité des deux bénéficiaires à respecter les échéances du projet indiquées dans leur soumission ».

Bruxelles a en effet « effectué un examen à mi-parcours de l’ensemble des décisions de cofinancement », en constatant « des retards importants par rapport aux prévisions indiquées dans la décision de cofinancement de Lyon-Turin. Des conditions ont donc été formulées pour étendre la période d’admissibilité jusqu’à la fin 2015 afin d’utiliser le budget alloué (conclusion d’un nouveau traité, approbation de l’avant-projet par les deux pays, et début des travaux à La Maddalena) ».

Mais pour l’instant la « taupe » (un gigantesque excavateur mécanique, d’un diamètre de six mètres et demi, qui a été amené au début du mois d’août en Val de Suse et qui doit creuser le tunnel d’exploration et d’accès de La Maddalena, près de Chiomonte) marque le pas.


– Le tunnelier du Lyon-Turin –

« Seulement 641 mètres sur les 7 451 prévus ont été pour l’instant creusés. Cela veut dire que la taupe a bougé de 2,5 mètres par jour, contre les 10 prévus. Bien que le rythme soit censé doubler, seule la moitié du tunnel sera achevée au 31 décembre 2015 », expliquent les opposants dans un communiqué.

Ce retard important risque de faire perdre les financements européens : si les conditions ne seront pas remplies, l’UE pourra refuser le financement. Lequel a d’ailleurs déjà été lourdement coupé par rapport aux prévisions initiales. Dans une décision du 5 mars 2013, la Commission Européenne a révisé le montant du concours financier, en indiquant la chiffre de 395,2 millions € : 176,2 pour la France, 219 pour l’Italie. Soit une baisse de 41% par rapport à l’apport prévu en 2008.

L’économie du projet a par ailleurs été vivement critiqué en France par la Cour des comptes.

Même Brinkhorst ne paraît pas optimiste. Dans son document, il conclut que« les événements pendant la période de référence ont, une fois encore, montré les difficultés considérables que représentent les tronçons transfrontaliers pour les gouvernements des Etats membres concernés. Ces tronçons représentent une charge financière élevée tout en ayant une priorité politique moindre que les projets nationaux. Ils demandent également la coopération de deux pays qui ont souvent des priorités divergentes et ne disposent pas d’une structure préexistante de coopération ».


Source : Andrea Barolini pour Reporterre.

Photos :
. chapô Alpes France 3
. Laurens Jan Brinkhorst : Apco
. tunnelier : Mobilicites

Lire aussi : L’incroyable gaspillage du projet ferroviaire Lyon-Turin.