DI FEDERICO CAPNIST · 5 MARZO 2014
Una doverosa premessa: non ci si può certo aspettare che il segretario di Stato americano, colui che dirige su indicazioni del Presidente la politica estera di quella che è ancora – piaccia o no – la superpotenza al mondo, cali mestamente le braghe di fronte ad una situazione critica come quella delineatasi negli ultimi giorni in Ucraina. Ci piacerebbero un po’ di buon senso e un po’ di coerenza verso la storia, almeno quella recente, ma si tratta pur sempre del Paese guerrafondaio e uso a risolvere le controversie con l’uso della forza, piuttosto che con la diplomazia. Checché ne dicano i suoi maggiori esponenti. Una volta detto questo, diventa legittimo strabuzzare gli occhi dallo stupore quando sentiamo John Kerry ammonire severamente le altrui ingerenze negli affari interni di Paesi sovrani e, non pago, due giorni dopo rincarare la dose; accusando Mosca di tenere “comportamenti tipici dell’Ottocento” nel momento in cui disloca i suoi soldati in Crimea. Queste dichiarazioni lascerebbero intuire da parte sua un’ignoranza storica clamorosa (cosa che di certo non è) oppure l’ennesimo, consueto tentativo di dipingere la realtà a proprio piacimento, condannando i comportamenti degli altri qualora non graditi e omettendo i propri per quello che sono (cosa che è).
Pensiamo solo ad alcuni casi, dal ‘45 ad oggi, in cui gli Stati Uniti si macchiarono di forti ingerenze e di attacchi militari nei confronti di stati sovrani; per ricordare – a chi ha la memoria corta – come Kerry, Obama (con il suo “lato sbagliato della storia” su cui si sarebbe schierato Putin) e buona parte del mondo occidentale abbiano perso un’ altra, ottima occasione per essere coerenti con sé stessi, oltre che con la storia. Pensiamo alla Palestina, nel ‘48, quando Truman (quello delle due bombe atomiche sui civili giapponesi a guerra pressoché finita) riconobbe per primo il nascente stato ebraico – profondamente iniquo nei confronti degli arabi per le modalità di partizione – e solo per la già allora fortissima influenza della potente comunità ebraica americana. L’Iran, nel ’53, quando il governo di Mossadeq fu rovesciato da un colpo di Stato orchestrato da CIA e servizi segreti britannici, fomentando violente manifestazioni di piazza (vi ricorda qualcosa?) e riportando al potere lo scià, marionetta dell’Occidente. Poi le azioni compiute in Sud America: dai più noti appoggi ai regimi di Pinochet in Cile e a quello di Batista a Cuba, a quelli meno noti come in Guatemala nel ’54, quando la CIA e miliziani locali rovesciarono il governo di Arbenz e le sue riforme agrarie invise alle multinazionali della frutta yankee; e ancora, la repressione della rivoluzione antidittatoriale nella Repubblica Dominicana, il sostegno ai contras in Nicaragua per contrastare il regime Sandinista, passando per l’appoggio ai militari di El Salvador, sempre in nome dell’opportunamente agitato spauracchio comunista.
Il Vietnam e le precedenti intromissioni in Laos e Cambogia. Il Medio Oriente con il continuo, cieco supporto ad Israele e l’intromissione in Libano. La presenza – per quanto meno diffusa – in Africa, e poi l’Europa. Con il sostegno della CIA al regime dei Colonnelli in Grecia e la longa manus della Nato nell’intricata questione di Cipro, senza contare l’opprimente presenza in tutte le posizioni di potere nella gran parte degli altri stati al di qua della cortina di ferro, Italia in primis, con le relative ombre su alcuni dei più terribili fatti di cronaca e le infiltrazioni della CIA nelle più spietate organizzazioni terroristiche. Ma se alcuni di questi casi avessero un senso e volessimo pure, da un lato, dar loro un’attenuante in nome della Guerra Fredda e della rigida logica bipolare che essa comportava – tenendo anche conto di come l’Unione Sovietica non fosse certo un gregge di agnelli – come spiegare tutte le successive operazioni militari compiute in giro per il mondo dal 1989 in poi?
La Prima Guerra del Golfo, gli attacchi alla Somalia, il bombardamento della Serbia, l’invasione dell’Afghanistan, la nuova invasione dell’Iraq, poi la distruzione della Libia e infine quella, per nostra fortuna solo sfiorata, della Siria. Come giustificare la crescente presenza militare americana in tutto il mondo e l’aumento dell’ingerenza nella vita politica di altri paesi, a dispetto del crollo del muro di Berlino? Come spiegare le palesi violazioni dei diritti umani, del diritto internazionale, della pacifica convivenza e del buon senso? In queste tre ampie domande che è legittimo porsi, saltano alla mente armi di distruzione di massa mai esistite, bombardamenti di migliaia di incolpevoli civili, enormi interessi energetici coltivati in maniera spregiudicata, basi militari aumentate a dismisura in tutto il mondo (Italia compresa), rivoluzioni e sommosse fomentate dall’esterno per destabilizzare paesi critici, la creazione del lager di Guantanamo dove Dio solo sa cosa succeda, sodalizi con organizzazioni criminali e terroristiche e tanto altro ancora; senza menzionare le politiche economiche imposte a taluni, talvolta peggiori delle guerre stesse.
Tralasciando i noti aspetti dell’intera vicenda di questi giorni (il governo democraticamente eletto rovesciato da moti di piazza, il riconoscimento subito esteso dall’Occidente al nuovo esecutivo, il rischio per la popolazione russa dell’est del Paese, l’importanza storico-strategica della Crimea, ecc …), in base a cosa la Russia dovrebbe quindi sentirsi in colpa, oggi, nel difendere i suoi confini minacciati di continuo – dai paesi baltici all’Asia centrale passando per la Polonia ed il Vicino Oriente – dalle sempreverdi idee confezionate negli anni da Brzezinski e Kissinger per contenere l’Orso russo? Chi è che attua davvero logiche ottocentesche in spregio alle più comuni norme di diritto internazionale, e che non più tardi dell’estate scorsa era pronto ad attaccare la Siria con un’invenzione, poi smascherata? Mr Kerry, da che pulpito?
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