STAMPA ISRAELIANA: RENZI AMICO D’ISRAELE, VEDE IN IRAN “PRINCIPALE PROBLEMA” DELLA REGIONE

articolo antisemita. Sapete che il regime politically correct ha una etichetta per indicare ciò che va represso, condannato e censurato.

Negli ultimi mesi l’Italia si era avvicinata molto all’Iran. Ora bisogna vedere se il nuovo governo vorrà portare avanti il lavoro di Letta e della Bonino, o se ci sarà un cambio di rotta. E’ finita la luna di miele italo-iraniana?

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Articolo di Haaretz. In estrema sintesi: Renzi è visto a Tel Aviv come “uno dei presidenti del consiglio più filoisraeliani”. Potrebbe portare l’Italia “ancora più vicina ad Israele”. Gode “del supporto della piccola comunità ebraica italiana”. Vede nell’Iran il principale problema dell’area. Era “contrario al riconoscimento della Palestina”.

Polonia, la ‘Turchia slava’ della destabilizzazione NATO

FEBBRAIO 22, 2014
 
Andrew Korybko (USA) Oriental Review 21 febbraio 2014
 
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La Polonia, da desiderosa serva degli USA qual è, ha ora ufficialmente assunto il ruolo di ‘Turchia slava’ in relazione all’Ucraina. Proprio come la Turchia è un comodo canale geopolitico per armi, effettivi e materiale di supporto per i terroristi siriani, così anche la Polonia ha iniziato ad adempiere ufficialmente a tale ruolo presso gli omologhi ucraini. Il primo ministro Tusk ha dichiarato il 20 febbraio 2014 che la Polonia già cura gli insorti feriti di Kiev, ed ha effettivamente ordinato all’esercito e al ministero degli interni di preparare gli ospedali per curarne altri. Il viceministro della salute ha confermato che Varsavia è in contatto con i ribelli di Kiev “per pianificare le cure ai feriti ucraini“. Ciò significa che la Polonia ha formalmente esteso segretamente la sua azione diplomatica per quasi 300 miglia nell’Ucraina, e che i suoi servizi d’intelligence ovviamente fanno altro in Ucraina che “aiutare i feriti” (terroristi). Ed è ancora più probabile che l’influenza polacca sia ancora più forte negli oblast di Lvov e Volyn, le regioni al confine con la Polonia, e coincidenza o no, Lvov ha già tentato di dichiarare l’indipendenza. Lo stesso dicasi dell’influenza turca in Siria, al culmine della crisi nel Paese, ricordando il fatto che la Turchia ha anche aiutato i combattenti feriti in quel Paese a riprendersi sul suo territorio. Le somiglianze tra Polonia e Turchia riguardo Ucraina e Siria devono essere esaminate per comprendere chiaramente il metodo del ‘controllo remoto‘ adottato in entrambi i casi.
Prima di tutto, tale strategia è stata definita “discreta assistenza militare statunitense mentre (altri) suonano la tromba“. E’ la nuova strategia di guerra per i teatri in cui gli Stati Uniti, per qualsiasi motivo, sono riluttanti ad impegnarsi direttamente. Si basa sull’uso di alleati/’leader’ regionali quali ascari per promuovere gli obiettivi geopolitici e geostrategici degli Stati Uniti con misure asimmetriche, mentre Washington ruota verso l’Asia, dove si propone di puntare il deterrente convenzionale contro la Cina. Polonia e Turchia sono marionette scelte dagli Stati Uniti nei rispettivi teatri contro gli Stati confinanti (Ucraina e Siria). Almeno, gli Stati Uniti forniscono supporto informativo e addestramento alle unità dell’”opposizione”, mentre Polonia e Turchia si accollano direttamente il compito del loro dispiegamento nelle nazioni vittime. Nel caso dell’Ucraina, gli Stati Uniti per oltre 10 anni hanno usato le ONG per infiltrarsi nel Paese stanziando 5 miliardi di dollari per “aiutare l’Ucraina a (sviluppare istituzioni democratiche)“. IlNational Endowment for Democracy fu fondamentale per spacciare il ‘Kony 2012 dell’Ucraina‘, al fine di propagare la loro psy-op contro Kiev, proprio come ‘Danny il siriano’ fu la versione usata contro Damasco. Ma le similitudini non finiscono qui.
Polonia e Turchia sono membri di confine della NATO, con la Polonia quale “maggiore e più importante Stato in prima linea della NATO per potere militare, politico ed economico.” Questi due Stati geostrategici hanno anche una popolazione schiacciante rispetto ai loro vicini, come così come complessi d’inferiorità nazionali derivanti dalla loro eredità imperiale perduta (la comunità  polacco-lituana e l’impero ottomano). Condividono una lunga frontiera con gli Stati colpiti dalla ‘transizione democratica’, così come importanti legami culturali e politici con quelle società (a seguito dei lasciti imperiali di cui sopra) prima di scatenare le rispettive crisi. Ciò gli fornisce  significativi benefici intangibili sul futuro campo di battaglia, sia nelle attività informative statali che non statali. Polonia e Turchia ospitano anche importanti installazioni militari statunitensi. La Turchia ospita l’US Air Force a Incirlik e un radar della difesa antimissile ad est, mentre la Polonia fornisce all’US Air Force la base di Lask e un avamposto della difesa antimissile nel nord-est, presso Kaliningrad. Riguardo lo sviluppo della missione degli insorti, i fascisti ucraini assumono caratteristiche inquietantemente simili ai jihadisti in Siria. Nel 2011, il tiro casuale dei cecchini (attribuito ai “ribelli”) prendeva di mira i civili a Damasco, proprio come si verifica a Kiev, sparando anche contro un reporter di RT. La richiesta d’indipendenza di Lvov può essere un’imitazione della dichiarazione di autonomia dei curdi in Siria, in quanto entrambe le aree sono al confine dello Stato-fantoccio che deve interferire negli affari del confinante. Similmente, entrambi i gruppi di insorti hanno occupato i posti di controllo alla frontiera con il loro Stato patrono, e tale mossa ovviamente facilita ad Ankara e Varsavia l’invio di armi, mercenari e materiali ai loro ascari sovversivi. Quando i confini non possono essere controllati dagli insorti, ricorrono al saccheggio dei depositi governativi e derubano le armi delle forze governative negli edifici occupati. I combattenti siriani hanno catturato ostaggi e compiuto esecuzioni brutali, e i loro compari ucraini ne hanno seguito l’esempio catturando oltre 60 agenti di polizia a Kiev.
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Quindi chiaramente viene ampiamente dimostrato con tali esempi, che la destabilizzazione di Ucraina e Siria è modellata su un approccio fantasioso. Gli Stati Uniti utilizzano gli Stati ascari dal retaggio imperiale lacerato per portare avanti la strategia del ‘controllo remoto’ contro aree geostrategiche cardine, in cui gli Stati Uniti preferiscono avere una ‘negazione plausibile’ sul loro ruolo, essendo riluttanti ad esserne direttamente coinvolti. Si può anche scorgere una tendenza più ampia in via di sviluppo, l’uso di movimenti ideologici estremisti macro-regionali per sostenere la destabilizzazione a lungo termine. In Medio Oriente, l’Islam estremo è il metodo scelto per attuarla  ed esportarla, mentre in Ucraina sempre più appaiono gruppi di estrema destra (in certi casi, anche neo-nazisti) adottare il ‘ruolo wahhabita’ in Europa. L’Ucraina potrebbe molto probabilmente diventare un campo di addestramento per altri militanti dell’estrema destra europea, o quelli attualmente in Ucraina potrebbero insegnare gli “strumenti del mestiere” al miglior offerente negli  altri Stati europei. Proprio come la Turchia sostiene gli islamisti in Siria, supportandovi i combattenti, la Polonia potrebbe flirtare con i nazionalisti di estrema destra in Ucraina con dichiarazioni di sostegno all’opposizione violenta e la recente decisione di evacuare e aiutare gli insorti feriti (senza contare il coinvolgimento non dichiarato e segreto già in corso). E proprio come gli islamisti sono sfuggiti al controllo dei loro mandanti, mettendo in pericolo l’intero Medio Oriente, permane il rischio che i nazionalisti di estrema destra in Ucraina possano diventare incontrollabili, mettendo in pericolo l’intera Unione europea. Quando si confrontano Polonia e Ucraina su Turchia e Siria, appare chiaro che la primavera araba sia arrivata in Europa.
 
Andrew Korybko è un laureando statunitense presso l’Università Statale di Mosca di Relazioni Internazionali (MGIMO).
 
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Nota: Tre anni di feroce campagna anti-Assad non hanno prodotto nulla, se non danni politici in Turchia. Ora il premier turco Recep Erdogan cerca di bilanciare la sua scarsamente motivata politica verso la Siria per riguadagnare sostegno regionale e pubblico, deterioratisi in particolare per il suo sconsiderato coinvolgimento nella tragedia siriana. L’ultima visita a Teheran ha dimostrato un drastico cambiamento nella retorica e nell’approccio sull’argomento. Così la Turchia ha probabilmente imparato l’amara lezione a non svolgere ruoli alieni in un Paese confinante. Se la  Polonia rivedrà sobriamente il suo orribile ruolo nella crisi ucraina, è ancora un problema aperto …
 
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

LA FIGLIA ADOTTIVA DI W. ALLEN ROMPE IL SILENZIO: SUL NEW YORK TIMES SCRIVE DELLA VIOLENZA SESSUALE DI W.ALLEN SU DI LEI BAMBINA

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‘La figlia adottiva di Woody Allen, Dylan Farrow ,  ha scritto una lettera aperta, sabato scorso, al blog del New York Times, accusando pubblicamente il controverso regista cinematografico per aggressione sessuale nei suoi confronti quando era ragazzina
L’account in prima persona di Farrow, che è apparso  sul blog del reporter Nicholas Kritoff, segna la prima volta in cui Miss Farrow, la figlia dell’attrice Mia Farrow, ha citato direttamente l’abuso sessuale.
Con un dettaglio che viene dalla pancia… Dylan Farrow ha scritto le sue affermazioni su quando alla età di 7 anni, il padre adottivo Allen, la prese per mano per portarla in un attico in penombra, al secondo piano della loro casa.
Mi disse di mettermi a pancia in giu’ e giocare col trenino elettrico di mio fratello. Quindi abuso’ sessualmente di me ’, ha detto Miss Farrow. “Mentre faceva quel che faceva mi parlava, sussurrandomi che ero una brava ragazzina e che quello era il nostro segreto, promettendomi che saremmo andati a Parigi e che sarei stata la protagonista nei suoi film’
>> continua a leggere qui:
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Relazione scandalosa: Dylan Farrow ha accusato suo padre di usare la sua relazione illecita  con la figlia adottiva Soon-Yi (a destra nella foto) per coprire l’abuso fatto su di lei. I due si sposarono nel 1997

Guardate come si comportano in questo canale: AGORA’ la piazza virtuale di Democrazia Popolare attraverso Internet

se ci si autoelegge a giudice supremo della morale ecco cosa succede, sempre, come in ogni dispotismo

POSTED ON 08:26 BY VÀTURU SAYLI

 Guardate come si comportano in questo canale: AGORA’ la piazza virtuale di Democrazia Popolare attraverso Internet
Ho postato questo articolo su Padoan , ove si mettono in evidenza tutte le sue azioni contro i popoli.
Vedete che atteggiamento hanno i PDioti nel mettere la verità davanti a tutti.
Sa Defenza
Vàturu Erriu Onnis Sayli ha condiviso il foto di Sa Defenza.
pensate che Holli Rhenn ha detto che lui (ilPadoan) sa cosa fare per l’italia… è il peggio del peggio dopo Monti… grazie pezzodimerda Renzi!

Il nuovo comandante del cosiddetto Libero esercito Siriano (FSA), Abdul-Ilah al-Bashir è stato addestrato in Israele, secondo le news riportate dal sito Web Al-Ahed News.

Il sito web ha dichiarato che Bashir era a capo dei militari ed era andato a curarsi dall’entità sionista, lo scorso anno, dopo essere stato ferito nel sud della Siria nella regione di Al-Rushid durante gli scontri con l’esercito siriano.
Mentre Bashir è stato ferito, le notizie che vennero diffuse era che Al-Bashir fosse morto e sepolto nella provincia di Daraa, nel tentativo di distrarre l’attenzione dalla sua presenza nei Territori Occupati dove stava ricevendo un addestramento militare.
Bashir ha sostituito l’ex comandante FSA Salim Idris. La FSA ha dichiarato la sostituzione di Idris con Bashir in un comunicato pubblicato online.
Un analista militare ha detto ad Al-Ahed che la nomina di Al-Bashir si è svolta in concomitanza con la sconfitta dei militanti nella regione di Al-Qalmoun e dopo il secondo round dei colloqui di Ginevra-II.
Idriss aveva da tempo affrontato le critiche da parte di militanti sul terreno per non aver raccolto abbastanza aiuti militari per i gruppi armati.
http://fractionsofreality.blogspot.it/2014/02/fonte-tradotto-e-riadattata-da.html

Ucraina, vi spieghiamo come finirà

Russia e Ucraina: la storia. I rapporti tra Kiev e Mosca sono da sempre caratterizzati da una sorta di legame conflittuale. Il fatto che le antiche tribù slavo-orientali siano state riunite per la prima volta verso la fine del IX secolo in quella che fu chiamata la Rus’ di Kiev fa capire bene l’importanza che ha rivestito l’odierna capitale ucraina nella storia dell’identità nazionale anche russa. I primi elementi di discontinuità all’interno della Rus’ sopraggiunsero nel corso del XIII secolo, quando la parte orientale dello Stato (la futura Russia) fu soggiogata dai tartaro-mongoli, mentre quella occidentale (in seguito, Ucraina) subì l’invasione polacco-lituana. Qui troviamo l’origine di uno dei cardini del nazionalismo ucraino: il carattere europeo di Kiev contro la Mosca asiatica e “barbarica”. Un altro macigno che pesa sui rapporti fra Ucraina e Russia è l’Holodomor, il genocidio ucraino che tra il 1929 al 1933 causò, grazie alle politiche di Stalin, tra 1,5 e 5 milioni di morti. Parallelamente, con l’Urss iniziò un’opera di russificazione linguistica e culturale che Crushev (che era ucraino), nel suo rapporto al ventesimo congresso del Pcus, definirà come “gravi” e “mostruose” violazioni dei principi leninisti sulle nazionalità.
Russia e Ucraina: oggi. I destini dei due paesi continuano a essere profondamente legati. Secondo il censimento del 2001, la minoranza russa in Ucraina costituisce oggi il 17,2% della popolazione del paese. Inoltre in Ucraina il russo rappresenta la madrelingua per più di 14.273.000 cittadini ucraini (29,3% della popolazione totale). Sembra tuttavia che il russo venga usato molto più spesso rispetto al censimento ufficiale, fino a essere parlato a casa da circa il 43–46% della popolazione. In ogni caso, nelle due lingue il 70% circa delle parole sono simili. In generale, l’Ucraina sembra divisa in due macroregioni, orientale ed occidentale, che hanno il fiume Dnepr come frontiera approssimativa. L’est è russofono, industrializzato, tendenzialmente di sinistra, l’ovest è ucrainofono e agricolo, tendenzialmente di centrodestra. A est il ricordo dell’esperienza sovietica è ben presente anche nella toponomastica, laddove invece a ovest la toponomastica sovietica è stata sostituita da una toponomastica
 
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che celebra l’indipendenza dell’Ucraina. Nel cimitero di Lviv è stato addirittura eretto un monumento ai caduti della Divisione SS-Galiziana composta da ucraini. La mappa pubblicata dalWashington Post dimostra che a partire dal 2010 le proteste hanno interessato la parte ucrainofona del paese che ha votato contro Yanukovych, mentre nulla si è mosso nella parte russofona che ha votato per il presidente in carica.
Perché Kiev ha voltato le spalle all’Ue. Il sogno ucraino è quello di raggiungere l’indipendenza energetica da Mosca entro il 2020. Attualmente, le importazioni di gas russo ammontano a circa 40 miliardi di metri cubi all’anno. Kiev spera di scendere a 5 miliardi di metri cubi entro il 2030. Ma non sarà facile. Il debito che lega Kiev a Mosca, o meglio alla grande azienda statale russa Gazprom, ammonta a circa 1,3 miliardi di dollari. Sino al 2019, inoltre, sono validi i contratti stretti nel 2009, che la Russia non ha intenzione di rinegoziare, a meno che l’Ucraina non entri nell’Unione doganale. È per questo che al vertice di Vilnius del 29 novembre scorso, il presidente ucraino Viktor Yanukovych si è rifiutato di siglare l’accordo di associazione con l’Unione europea sospendendo la firma, prevista dopo un anno e mezzo di trattative, soltanto all’ultimo momento. Di fatto, Putin ha fatto un’offerta che non si può rifiutare: ha messo sul piatto 15 miliardi di dollari e lo sconto sul prezzo del gas. Inoltre, la Russia comprerà lentamente titoli di stato ucraino (nel primo periodo sono previsti acquisti per 3 miliardi).
L’importanza geopolitica dell’Ucraina. Il piano geopolitico di Putin è chiaro da sempre: recuperare all’influenza di Mosca lo spazio ex sovietico. L’Unione doganale eurasiatica va esattamente in questo senso. Senza l’Ucraina, tuttavia, questa ambizione resta incompiuta. Di più: poiché la geopolitica non ammette vuoti, c’è la diffusa percezione che avere Kiev fuori dall’orbita russa significherebbe avere l’America sull’uscio di casa. Ha scritto su gazeta.ru il politologo Georgy Bovt: “Al Cremlino si è diffusa la percezione che una volta raggiunta l’integrazione europea la Nato sia dietro l’angolo − nel senso di carrarmati e missili stazionati nei pressi di Belgorod e Kursk, e di unità di difesa missilistica globale. Nemmeno la donna delle pulizie del Cremlino crede alle rassicurazioni di chi afferma che ‘non siano diretti’ contro la Russia. La ‘perdita’ dell’Ucraina è vista dalla classe dirigente come una minaccia all’esistenza stessa della Russia. Non è un’esagerazione. È considerata una minaccia alla quale occorre opporsi con qualsiasi mezzo. E alla quale in casi estremi, in mancanza di altre soluzioni, si deve rispondere con le armi”. E se questo lo sa Putin, lo sanno anche gli americani. È nota la sentenza del politologo trilateralista Zbigniew Brzezinski: “Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero”. Nel suo La grande scacchiera, lo studioso scriveva: “L’indipendenza dell’Ucraina ha privato la Russia della sua posizione dominante sul Mar Nero, dove Odessa costituiva un avamposto strategico per gli scambi con il Mediterraneo e il più vasto mondo. La perdita dell’Ucraina ha avuto anche enormi conseguenze geopolitiche, poiché ha drasticamente limitato le opzioni geostrategiche della Russia. Anche senza i Paesi Baltici e la Polonia, una Russia che avesse conservato il controllo sull’Ucraina poteva ancora cercare di fungere da guida di un impero eurasiatico risoluto, dove Mosca avrebbe dominato i non slavi del Sud e nel Sud-Est dell’Ex Unione Sovietica”.
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Perché le proteste?Indipendentemente dalla funzione oggettiva delle manifestazioni all’interno del quadro politico globale, è assolutamente certo che nella percezione soggettiva dei manifestanti l’Ue o gli Usa non c’entrano nulla con le proteste. Le piazze non si sono riempite dopo la mancata firma dell’accordo con l’Ue, le proteste erano cominciate in sordina già prima. Le bandiere europee ci sono state solo i primi giorni e più che altro per ottenere attenzione dall’occidente. In realtà, la protesta è fondamentalmente anti-Yanukovych. Il presidente ucraino ha portato alle stelle il livello di corruzione nel Paese, contornandosi di nuovi oligarchi e arricchendosi personalmente in modo smodato, in netta controtendenza con il resto della popolazione. A ciò si aggiunga anche il mai sopito sentimento anti-russo di parte della popolazione dell’Ucraina occidentale.
Chi sono i nazionalisti in piazza? L’opposizione istituzionale, guidata da personaggi incapaci quando non da brutte copie in salsa atlantista dello stesso Yanukovych (è il caso della Timoshenko, per esempio) è stata ben presto scalzata dalla protesta di piazza nazionalista. L’informazione occidentale si è molto soffermata sul ruolo di Svoboda, il partito fondato nell’ottobre 1991 con il nome di Partito Social-Nazionalista d’Ucraina (il nome attuale significa invece “Libertà”). Dopo alcuni risultati
 
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irrisori, il partito è balzato agli onori delle cronache per il 10,4% dei consensi ottenuto alle elezioni parlamentari ucraine del 2012, per un totale di 38 seggi in Parlamento. Pur avendo contrastato fortemente la “rivoluzione arancione” del 2004, Svoboda presenta oggi un chiaro orientamento filo-occidentalista, fino a chiedere l’entrata nella Nato dell’Ucraina. Il dato saliente, tuttavia, è che Svoboda è ben lungi dal monopolizzare la protesta dei nazionalisti, dai quali viene anzi bollata come un partito vecchio e incline – almeno nei suoi vertici – al compromesso. L’anima della protesta nazionale è invece Pravy Sektor (“Settore di destra”). Il quotidiano britannico The Guardian ha intervistato Andriy Tarasenko, uno dei leader del movimento, che ha dichiarato: “Unirsi con l’Europa sarebbe la morte dell’Ucraina. Europa significa la morte dello Stato-nazione e la morte del cristianesimo. Noi vogliamo un’Ucraina per gli ucraini, gestita da ucraini, e non serva gli interessi degli altri”. Tarasenko ha aggiunto che l’obiettivo del gruppo è una “rivoluzione nazionale” che si tradurrebbe in una “democrazia nazionale” con nessuna delle trappole del “liberalismo totalitario” che l’Ue rappresenta. Anche Ihor Zahrebelnyj, membro del movimento nazionalista ucraino Tryzub che poi ha dato vita a Pravy Sektor, ha spiegato – proprio al Primato Nazionale – che “i nazionalisti ucraini non possono, in nessun caso, sostenere il regime criminale Yanukovych. Tuttavia è altrettanto impossibile sostenere l’opposizione. Questo è il motivo per cui alcuni movimenti nazionalisti hanno deciso di sostenere le proteste, ma cercando di dare una svolta diversa rispetto a quella auspicata dalla maggioranza dell’opposizione […]. Per quanto riguarda l’approccio geopolitico, stiamo cercando di convincere i manifestanti che l’asse con l’Ue deve essere messa da parte puntando ad un progetto puramente nazionalista. Riteniamo comunque l’attuale opposizione liberale come un male minore e la consideriamo come un alleato temporaneo”. Non è casuale, comunque, che il Dipartimento di Stato statunitense abbia chiaramente preso le difese dell’opposizione, aggiungendo però che “le azioni aggressive dei membri del gruppo di estrema destra Pravy Sektor non sono accettabili”.
Chi ha ragione? Soggettivamente è facile solidarizzare con la protesta nazionalista: le ragioni storiche e politiche dei manifestanti sono più che valide. In piazza ci sono tanti patrioti onesti, a reprimerli c’è un governo corrotto e mafioso. La politica, tuttavia, si basa sulla distinzione fra l’empatia soggettiva e ciò che invece è oggettivo, ovvero ciò che riguarda la realtà nella sua globalità. Ora, su questo livello dell’analisi, la funzione della protesta appare chiara. L’anelito a una sovranità nazionale piena, non appaltata a potenze esterne – siano esse la Russia o l’Ue/Usa – è certo condivisibile ma come opzione politica reale sembra un po’ superficiale. Come abbiamo visto, né Washington né Mosca riescono a concepire un’Ucraina davvero indipendente e si adoperano concretamente affinché non sia tale. Ora come ora, malgrado i lodevoli propositi di terzietà, i ribelli rischiano fortissimamente di essere funzionali alle trame atlantiste. Del resto lo slogan “Ucraina agli ucraini” vuol dire poco, posto che anche se Kiev fosse governata dai nazionalisti dovrebbe pur avere una politica estera, una strategia energetica, una visione commerciale e militare. Per la sua storia, per la sua composizione etnoculturale, per la sua posizione geografica, l’Ucraina è destinata a confrontarsi con la Russia. Può esserne vassalla, prospettiva che legittimamente non piace agli ucraini. Può essere alleata alla pari. Oppure può esserne nemica, finendo fatalmente nelle braccia degli avversari di Mosca. E qui entra in gioco un’altra domanda: quanto i nostri interessi coincidono con quelli della Russia? Il che equivale a interrogare il fenomeno Putin. Ora, Valdimir Putin è un leader cinico, che sa fare il gioco sporco, che persegue gli interessi russi e non certo valori “universali” o ideali di giustizia. Combatte per sé, non per noi. Non verrà a salvarci quando avremo bisogno di lui. Se, quindi, una certa fascinazione putinista lascia il tempo che trova, è tuttavia vero che Putin rappresenta la maggiore novità geopolitica dalla caduta del Muro di Berlino in poi. La sua funzione strategica è oggettiva, indiscutibile (Siria docet): egli, oggi, rappresenta l’unica speranza per la creazione di un mondo multipolare. L’interesse che egli acquista ai nostri occhi non è dovuto all’ordine che egli porta all’interno ma al disordine che porta all’esterno. A questo disordine, che poi è solo la creazione di un ordine diverso, l’Ucraina e l’Europa possono decidere se partecipare da serve o da protagoniste.

Indiano massacra anziano a colpi di roncola e lo brucia vivo nel camino

la vittima era un uomo, anziano. Nella scala valori del politically correct quindi manco è un umano. Pure le donne non possono esigere giustizia se a commettere un abuso su di loro è una persona non italiana. La strana eguaglianza che discrimina.

Frosinone, 24 febbraio 2014 – Due colpi di roncola, uno alla nuca, uno un po’ più su. Ma l’uomo respirava ancora. Così ha attizzato il fuoco e l’ha gettato tra le fiamme. È morto per asfissia Aldo Santodonato, il 68enne pensionato di Ceccano trovato senza vita martedì pomeriggio, intorno alle 16, in un’azienda agricola situata in via Cese, nel centro fabraterno, a pochi chilometri dal capoluogo. Quello che inizialmente sembrava un incidente era in realtà un omicidio efferato. L’hanno scoperto i Carabinieri dopo due giorni e due notti di indagini serrate e l’ha confessato giovedì pomeriggio, dopo un pressante interrogatorio durato quattro ore, lo stesso Singh Angrej, il 34enne indiano, vedovo e con un figlio, da anni al lavoro nell’azienda agricola in questione, fermato dai Carabinieri per omicidio. L’uomo ora si trova in carcere e nelle prossime ore sarà davanti al Gip, come da richiesta del Pm Alessandro Di Cicco, per un nuovo interrogatorio, mirato a chiarire gli aspetti ancora oscuri del suo racconto e quindi a convalidare, nel caso, l’arresto. Il movente? Rimane incerto. Ma sul posto sono stati trovati numerosi gratta e vinci a testimoniare la passione per il gioco dell’indiano che potrebbero far pensare anche a motivazioni economiche.

http://www.ilmessaggero.it/FROSINONE/ceccano_omicidio_racconto_assassino/notizie/534364.sht

Nomina del “nuovo” Ministro delle Infrastrutture

http://www.marcoscibona.it/home/?p=407

Auspicavamo che la “ventata di novità” che il Presidente del Consiglio Incaricato diceva di voler attuare, iniziasse proprio dalla scelta del nuovo Ministro delle Infrastrutture da cui dipende, tra l’altro, la realizzazione del TAV Torino-Lione.

La conferma del Ministro Lupi dà la certezza che il Presidente del Consiglio Incaricato non solo non ha alcuna intenzione di innovare, ma intende consolidare lo status quo confermando in uno dei ministeri chiave proprio colui che, relativamente al TAV, si è contraddistinto per le sue affermazioni non veritiere e distorcenti la realtà, aspetto di una gravità inaudita se pensiamo che il TAV vale almeno 30 miliardi di euro di denari pubblici.

Ricordiamo il grave fatto del 23 ottobre scorso, quando il Ministro Lupi, rispondendo ad un’interrogazione del M5S alla Camera a proposito dell’inizio dei lavori per la realizzazione del Tunnel geognostico di Chiomonte senza aver effettuato alcuna gara di appalto, come riportato dagli organi di stampa dichiarava che “Si è appena conclusa con l’archiviazione un’indagine dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato al riguardo”.

Le affermazioni non veritiere del Ministro erano smentite proprio dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che, con una la lettera Prot 0049177 del 24/10/2013, indirizzata al un legale del Movimento No Tav, affermava testualmente “Si comunica che nella sua adunanza del 17 ottobre 2013 l’Autorità ha esaminato la documentazione in oggetto. In tale occasione l’Autorità ha valutato i fatti denunciati e ha ritenuto di trasmettere la documentazione acquisita agli atti all’Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici per la valutazione degli eventuali profili di competenza”: altro che archiviazione!

Cosa dire di un Ministro che rilascia dichiarazioni ufficiali palesemente non conformi alla realtà, che sono solo la parte più palese della totale opacità con cui il Ministro ha sempre gestito la questione TAV? Ma cosa potremmo dire del Presidente del Consiglio Incaricato che ha confermato tale Ministro?
La conferma del dicastero a Lupi la dice lunga su come l’Innovatore Renzi abbia intenzione di dare un segno di cambiamento alla Politica del Belpaese.
Auguri a tutti gli italiani.

Marco Scibona – Senatore M5S Piemonte

TROPPI “SPINELLI” A SINISTRA di Spartaco A. Puttini

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23 febbraio. Quante possibilità ha Renzi di sbattere la testa contro il muro dell’euro(pa)? Altissime. Nel frattempo la sinistra si va divaricando in modo sempre più netto tra due linee, tra chi (come Renzi) si illude di poter evitare l’abisso con “più Europa”, e chi ritiene (come noi) che il primo passo per la salvezza del Paese e del popolo lavoratore sia l’uscita unilaterale della gabbia eurista e la riconquista della sovranità nazionale.
 
«La crisi ha mostrato il vero volto del processo d’integrazione europeo. A dispetto di tanta pubblicità, oggi la Ue non gode di grande reputazione presso i popoli europei. Quando si parla di Europa occorre evitare i facili equivoci. L’Unione europea non è infatti l’Europa, ma una sua parte e l’Eurozona è, a sua volta, una parte della Ue. Ciononostante nel linguaggio corrente i termini sono interscambiabili.
 
Il processo di integrazione europeo si è ammantato di nobili ideali e anche di qualche utopia, rincorrendo il sogno federale degli Stati Uniti d’Europa ma realizzando l’incubo sovranazionale della Ue, cioè dell’Europa degli Stati Uniti.
 
Europa degli Stati Uniti sia nel senso che ad integrarsi sono stati i paesi di quella parte d’Europa soggetta all’egemonia Usa (significativo che l’allargamento dell’Ue ad est avvenga parallelamente all’espansione ad est della Nato), sia nel senso che la costruzione dell’unione avviene sotto la tutela americana, all’insegna dell’accettazione piena della reazione neoliberista già in voga nel mondo anglosassone e, in definitiva, come ulteriore tappa del processo di mondializzazione1.
 
Nicola Acocella ha recentemente sottolineato come l’accelerazione che vive il processo di integrazione europeo tra gli anni ’80 e gli anni ’90 avvenga in un clima segnato dall’affermazione del modello neoliberista sulla base dell’obiettivo di completare la costruzione di un mercato unico dei beni, dei capitali, delle persone2. Il processo si configura nei fatti sintonizzato alla reazione globale neoliberista, con la sua proposta di finanziarizzazione e libera circolazione dei capitali senza controllo, con la sua richiesta di stato minimo e privatizzazione, con il suo porre l’accento sull’autonomia del mercato e la lotta all’inflazione anziché sullo sviluppo orientato dalla mano pubblica e sulla lotta alla disoccupazione.
 
La spinta ad una maggiore integrazione dell’Europa occidentale, con il salto dalla Comunità all’Unione, avviene proprio in questa temperie, dal vertice di Lussemburgo che sancisce la firma dell’Atto unico europeo nel 1986, a Maastricht. L’intelaiatura e lo spirito della Ue sono caratterizzati e segnati dallo stigma reazionario. La credenza nella capacità di autoregolazione dei mercati e l’ostilità verso l’intervento pubblico spiegano in certa misura la scelta di introdurre una moneta unica soggetta ad un’istituzione bancaria centralizzata e conservatrice ossessionata dalla lotta all’inflazione e spiegano anche “l’incompiutezza istituzionale” in cui versa la Ue. Senza il complemento di altre istituzioni che sovraintendano ad una politica fiscale comune si riteneva scontato che sarebbe stato l’input della politica monetarista a disciplinare l’attività economica dei vari paesi e a far convergere le economie dell’Eurozona. Acocella rileva come “Ciò introduce una tendenza deflazionistica che successivamente accentuerà e prolungherà gli effetti della crisi economica iniziata nel 2007”3. Del resto, a sottolineare ulteriormente che una politica di compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori era insita nell’impostazione che l’integrazione si era data era la stessa Commissione europea, che già nel 1990 indicava la strada maestra: “si è progressivamente affermato il convincimento che le divergenze economiche reali che si manifestano in squilibri esterni vanno affrontate di norma con misure di aggiustamento interno, piuttosto che con riallineamenti, cioè con un aggiustamento esterno”4. Vale a dire che già alla vigilia di Maastricht la Commissione aveva indicato come gli squilibri di competitività interni all’area della moneta unica non dovessero essere affrontati tramite la leva della svalutazione monetaria (che avrebbe invalidato il principio del cambio fisso su cui l’area stessa veniva costituita) ma tramite la svalutazione interna dei salari. Del resto, l’area valutaria a cambi fissi prima e la moneta unica dopo sono state volute a tutto pro del capitale e della sua possibilità di circolare liberamente senza pagare il pegno delle possibili svalutazioni. In proposito scriveva Padoa Schioppa in tempi non sospetti: “l’euro assume un significato speciale perché porta la creazione di un mercato alla sua conseguenza ultima, che è l’introduzione di una moneta unica”5.
 
Oggi è sotto gli occhi di tutti il fallimento del modello neoliberista così come lo sono le divergenze crescenti all’interno dell’Eurozona. Assistiamo ad una dinamica segnata da crescenti squilibri a causa dell’aumento del divario tra i paesi centrali dell’Eurozona e quelli periferici e semiperiferici da un lato, e tra le classi sociali, con una netta tendenza alla proletarizzazione da parte di fasce crescenti del ceto medio, dall’altro. Di fronte all’eurocrisi in corso ciascuno può toccare con mano come le ricette di austerità della Commissione europea e della BCE portino a un crescente immiserimento delle classi popolari e ad una brutale regressione dei diritti del lavoro in tutta la Ue, prospettando la formazione di masse di working poor, lavoratori poveri che non riescono a campare del proprio lavoro cui si sommano, nella disgrazia sociale imperante, quote rilevanti di disoccupati.
 
Ma questo non basta: occorre avere presente il quadro che nelle righe precedenti è stato didascalicamente abbozzato per comprendere che il problema posto dalle attuali politiche promosse dalla Ue risiede nello stesso DNA del processo di integrazione, che è, per così dire, nel manico.
L’unione monetaria (UEM)
 
La libera circolazione dei capitali e la costruzione di uno spazio economico integrato richiedevano, per ragioni di stabilità dei cambi, la moneta unica e la devoluzione, da parte degli stati europei, di quote di sovranità in ambito monetario ed economico. La funesta scelta dell’euro appare una conseguenza della scelta a monte di costruire uno spazio integrato a misura di capitale che fosse un ramo della Triade dei paesi capitalistici avanzati. Bisogna in proposito elogiare Padoa Schioppa per la sua schiettezza: “[…] la decisione di completare il mercato unico con una moneta unica prese origine dal riconoscimento di due fatti. In primo luogo, si riconobbe che l’ordine di un mercato unico non poteva essere mantenuto senza stabilità macroeconomica; in secondo luogo, che la stabilità nel suo insieme non poteva essere raggiunta in modo duraturo se ciascun paese continuava ad agire in modo indipendente”6. Di conseguenza: “Nel governo dell’economia la creazione del mercato unico europeo ha imposto allo Stato nazionale una drastica limitazione della sovranità, cioè del suo diritto illimitato e della sua capacità di prendere decisioni autonome”7.
 
Come nella più classica storia dell’imperialismo si verifica così, tramite il processo di integrazione, l’attacco alla sovranità, dapprima in ambito economico, e poi in altri ambiti; fino alla costruzione della piramide che vuole al vertice il diritto comunitario cui in subordine devono essere relegate le costituzioni dei paesi membri. L’attacco alla sovranità è l’attacco agli spazi di democrazia che il movimento operaio si è conquistato nel corso del Novecento tramite dure lotte. Nelle parole di Padoa Schioppa la questione posta dalla democrazia agli imperativi delle forze del capitalismo monopolistico che dirigono il mercato viene liquidata così: “Una concordanza completa e sistematica delle politiche macroeconomiche condotte da gruppi di governi sovrani risulta estremamente difficile per una molteplicità di ragioni. Ciascun governo risponde, in ultima analisi, al proprio elettorato: vi sono assai scarse probabilità … che gli elettori di paesi diversi votino per le stesse politiche nel medesimo tempo […] per evitare conseguenze negative, occorre rafforzare il coordinamento delle politiche in modo indiretto, cioè attraverso l’istituzionalizzazione o l’organizzazione di un mercato europeo dei capitali”8.
 
L’eterogeneità dei paesi che compongono l’Eurozona in presenza di una politica liberale deregolata e del cambio fisso contribuiscono a delineare un centro, costituito essenzialmente dal grande capitale monopolistico tedesco, e delle aree periferiche e semiperiferiche, costituite dai paesi meno sviluppati. Ripropone cioè all’interno dell’Unione europea monetaria (UEM) la dialettica centro-periferia tipica delle relazioni tra i paesi imperialisti e le loro vittime sacrificali dei paesi in via di sviluppo.
 
La politica europea si configura così come volta a trasferire ricchezze dai salari alle rendite, dalle classi popolari lavoratrici e medie alle oligarchie alto-borghesi, dai paesi periferici e semiperiferici al centro tedesco. Il cambio fisso consente ai capitali del centro di affluire alla periferia, dove i più alti tassi d’interesse garantiscono una maggiore remunerazione, senza incorrere nel rischio della svalutazione. Parimenti, la politica di pesante deflazione salariale seguita dalla Germania dopo le riforme del mercato del lavoro attuate dai socialdemocratici all’inizio degli anni 2000 le consente di impostare una politica di feroce concorrenza sui prezzi di costo dei suoi prodotti che la portano a sottrarre quote crescenti di mercato ai suoi partner comunitari. Si delinea così un modello tedesco trainato dalle esportazioni che accumula surplus strutturali nei confronti dei suoi partner europei, che importano dalla Germania (anche grazie alla domanda drogata dall’afflusso di capitali) più di quanto possano esportarvi (altro effetto della politica di deflazione salariale inaugurata dalla socialdemocrazia tedesca). I paesi periferici non possono reagire svalutando la moneta, agganciati come sono al cambio fisso dell’euro-marco, e i prodotti tedeschi non subiscono rivalutazione alcuna per lo stesso meccanismo. In breve i paesi del sud, i PIGS, ingrassano il centro tedesco, e sono spinti ad accumulare deficit strutturali nei suoi confronti9.
 
La loro situazione peggiora sempre più, a causa degli attacchi speculativi dovuti alla loro manifesta fragilità, evidenziata dall’inclinazione assunta dalla bilancia dei pagamenti. La crisi da debito estero, contratto principalmente dal settore privato, diventa debito pubblico e spiega il differenziale tra i tassi d’interesse dei titoli di Stato di questi paesi nei confronti dei bund tedeschi, perché gli investitori li ritengono a rischio insolvenza, e tale rischio se lo fanno ovviamente pagare profumatamente, alimentando il debito.
 
I PIGS si trovano di fronte due scelte, non solo a causa delle politiche di austerità imposte loro dalla tecnocrazia europea ma per lo stesso meccanismo insito nell’unione monetaria. Non potendo svalutare la moneta i paesi in deficit sono spinti a svalutare il lavoro, cioè ad operare una drastica deflazione salariale inseguendo la Germania sul suo stesso terreno. Ma è una corsa al massacro, che implica il crollo della domanda interna e la contrazione del Pil (con possibile esplosione della quota di debito sul Pil). Nella fase successiva l’onda della recessione, ormai inevitabile, si abbatte sulla Ue lambendo la stessa Germania, i cui clienti vanno in affanno e riducono la quota di importazione di prodotti tedeschi. Ma i paesi periferici e semiperiferici sono a questo punto sostanzialmente piegati e le loro imprese subiscono una svalutazione reale che li pone in balìa di acquisizioni a basso costo. La desertificazione seguente produce quella che è stata definita una “mezzogiornificazione”10 delle aree deboli dell’Eurozona che, a quel punto, non possono che offrire le loro braccia, sempre a basso costo, s’intende.
 
La seconda scelta consiste nell’emigrazione massiccia di manodopera verso le aree economicamente più dinamiche per riequilibrare le tendenze divaricanti. Una scelta insita nell’afflato degli europeisti a garantire la libera circolazione delle persone, oltre che delle merci e dei capitali, e tipica della dinamica di alta mobilità dei fattori produttivi propria di un’area valutaria ottimale. Ma, ovviamente, le grandi disparità di lingua, cultura etc., che intercorrono tra i paesi europei rendono poco praticabile questa opzione su larga scala, almeno per il momento. Ma il punto è un altro: l’emigrazione massiccia comporta sempre una sconfitta e un dramma per chi se ne va e anche per la propria comunità, mentre la mezzogiornificazione spinge intere nazioni nel terzo mondo, a dispetto dei fiumi di parole spesi da certa stampa in onore al cosmopolitismo, che è sempre borghese e non deve essere confuso con l’internazionalismo.
 
Il fatto è che in un’unione monetaria, in presenza di shock asimmetrici, il paese che si trova ad accumulare deficit deve garantire un’alta flessibilità e un’alta mobilità della forza lavoro. Quindi chi accetta l’euro si trova giocoforza ad accettare la flessibilità, la deflazione salariale, l’emigrazione. Punto.
Rompere la gabbia
 
In definitiva, essendo la reazione liberista insita all’Unione europea, ed essendo l’euro strumento principe dell’impoverimento dei popoli europei e della nuova gerarchizzazione tra i paesi europei, occorre prendere atto che la gabbia va rotta. E’ una sfida vitale. Il “più Europa” è il mantra delle forze che propongono, comunque ammantate, una politica antipopolare di destra.
 
La sinistra-destra (cioè le forze politiche che si presentano come di sinistra o centrosinistra ma che fanno politiche di destra) pensano di uscire dal rebus con il motto “più Europa”, cioè andando a rotta di collo verso lo stato sovranazionale europeo, delegando ulteriori poteri ad un governo centrale, che per sua natura sarà tecnocratico, visto come la Ue si è venuta costituendo. Chi parla di un’altra Europa è chiamato a chiarire di quale Europa parla. Se parla di un’altra Ue, cioè di una Ue riformata in senso sociale e democratico, sbaglia di grosso e insegue una pericolosa utopia. Non esiste infatti nessun popolo europeo dal quale possa emanare la sovranità, si tratterebbe semplicemente di aumentare di qualche briciola insignificante i poteri dell’europarlamento e mettere un po’ di belletto al processo di integrazione, così come esso è.
 
Aggiustamenti minimi non mi paiono credibili. Innanzitutto perché manca la volontà cooperativa, se ci fosse stata la Germania non avrebbe mai fatto una politica mercantilista così feroce. Quanto all’ipotesi di una redistribuzione di risorse, anche se lo volesse, Berlino probabilmente non potrebbe accollarsi i costi necessari ad operare un così massiccio trasferimento di capitali verso le periferie. Occorre considerare che non si tratta solo di sussidiare la Grecia, ma l’Italia e la Spagna, vale a dire la terza e la quarta economia dell’eurozona! Un costo che la Germania dovrebbe accollarsi per il 70%!11 La Germania è, al solito, abbastanza forte per mettere sotto l’Europa ma non abbastanza per domarla e gestirla. Apparentemente tale soluzione può apparire sempre meglio della situazione attuale, nella quale l’Italia è creditore netto all’interno della Ue(!) e l’interruzione dei trasferimenti di capitali dal centro ha scoperto la realtà dei deficit strutturali accumulati dai PIGS. Ma nei fatti tale politica presupporrebbe un rafforzamento del processo che porta i PIGS a divenire dipendenti e subordinati, mano a mano che il grande capitale tedesco penetra nei loro tessuti socio-produttivi. Ad ogni modo è questa un’ipotesi puramente teorica. Come quella di una reflazione dei salari da parte della Germania. La mancanza di spirito cooperativo taglia la testa ai tanti “se”.
 
A sinistra c’è chi vede la lotta per un’altra Europa come possibile solo nella sua dimensione transnazionale, con lotte compiute su scala Ue. Non ho la fantasia per immaginare lo svilupparsi di un simile processo e del suo sbocco. Per quanto posti di fronte alla stessa sfida i popoli europei vivono in condizioni analoghe ma diverse. E percepiscono molto le loro diversità. La loro appartenenza è quella alle comunità nazionali di riferimento, non ad un’impalpabile ed evanescente società europea, piaccia o meno. Il loro arsenale è depositato nella caserma dello Stato nazionale.
 
Come ha notato Samir Amin le condizioni per implementare le politiche che servono per uscire dalla crisi “non saranno mai raggiunte contemporaneamente in tutta l’Unione europea. Questo miracolo non accadrà. Occorrerà quindi accettare di cominciare là dove è possibile, in uno o più paesi. Rimango convinto che il processo avviato non tarderebbe a divenire valanga”12.
 
Gran parte della sinistra radicale ha, al riguardo, una visione distorta del problema, quando non ambigua. E’ il caso della Linke, che al suo ultimo congresso si è dichiarata contraria all’austerità ma non all’euro, come se i due aspetti potessero essere disgiunti, o della stessa Syriza, che ritiene possibile avviare delle trattative con Bruxelles, non si sa bene per finire dove.
 
La proposta formulata da più parti di presentare e sostenere alle prossime elezioni europee una lista che candidi il leader di Syriza, Tsipras, alla guida della Commissione appare caratterizzata da un profilo troppo debole rispetto alla sfida che si trova di fronte. Non affrontare il nodo costituito dall’euro e non tirare le necessarie conseguenze dalla natura e dall’esito del processo di integrazione europeo ipoteca a mio giudizio le più vaste potenzialità che un’iniziativa della sinistra di classe avrebbe potuto produrre se si fosse posizionata con parole d’ordine più coraggiose e con una postura più radicale. Il pericolo che può manifestarsi è quello di imbrigliare una volta di più le forze di sinistra in un cartello elettorale in cui le forze trainanti si basano su un’analisi approssimativa e non aderente ai bisogni popolari e formulano una proposta politica inefficace e fuorviante. Il tentativo di cavalcare questa tigre da parte di Barbara Spinelli, figlia di Altiero, il visionario di Ventotene, e compagna del già più volte citato eurotecnocrate Padoa Schioppa, rappresenta un indubbio peggiorativo, in questo senso. Vorrebbe impelagare la sinistra, che può essere un potenziale serbatoio per la costruzione di una proposta politica lucidamente ostile all’Eurozona e al progetto Ue, fino ad annullarla nel recinto, ben presidiato, di un’ipotetica Europa “altra”, che non corrisponde alla realtà dei fatti e che si pone comunque sullo scivoloso terreno sovranazionale ed eurozonista. Le ipotesi riformiste dei sei generali senza esercito sono destinate a coprire con una foglia di fico le vergogne della Ue, destino di tutte le suggestioni federaliste e terzaforziste coltivate sino ad ora. Sono ipotesi destinate alla compatibilità con il sistema di comando del grande capitale nel vecchio continente. Coloro che a sinistra hanno maturato visioni più mature del problema e formulano aperte critiche all’impostazione della sinistra europea, come buona parte dei comunisti, riusciranno a far sentire la propria voce e a caratterizzarsi in senso diverso rispetto a quello prevalente della lista nella quale hanno deciso di confluire? Sulle prime pare difficile. Colpisce che la componente comunista del Prc appaia incline a favorire ogni aggregazione che non sia l’unità dei comunisti e che su questo punto non riesca a vedere più in là di Ferrero, ed è decisamente poco. Troppo poco.
 
Occorre dissipare le illusioni circa questa costruzione europea, ci sono già stati troppi sognatori e troppi venditori di fumo in questa storia. Con una battuta potremmo dire troppi “spinelli”.
 
Per rompere l’offensiva reazionaria, di cui la Ue e l’euro sono elementi cardinali, occorre uscire dalla moneta unica e provocarne la deflagrazione, recuperando pienamente la sovranità nazionale negli ambiti economici nei quali questa è stata sottratta. Per dare una spada a quelle classi popolari che sono state disarmate dalla reazione liberista in questi decenni. L’uscita non sanerebbe certo tutti i mali, come qualsiasi altra scelta del resto. Ma appare come una mossa sempre più obbligata, i cui possibili costi vanno commisurati con la certezza della dissoluzione e di una grandissima depressione che ci sprofonderebbe nel Terzo mondo. La svalutazione, specie se opportunamente gestita, è comunque meglio di una depressione senza fine.
 
Vi è una forte corrente euroscettica nell’opinione pubblica. Potenzialmente rappresenta un grimaldello per rompere la gabbia, e non solo un terreno di possibile coltura di minacce reazionarie. Ma questo dipenderà concretamente dalla capacità che i comunisti e la sinistra di classe avranno di posizionarsi strategicamente nella battaglia, ben oltre il limite consentito da queste elezioni europee, per indicare un’uscita da sinistra dall’euro e dalla Ue e avviare un processo di accumulazione di forze e fuoriuscita dalla minorità. Non posso fare a meno di notare che i partiti comunisti avevano sempre combattuto il processo di integrazione europeo, almeno fino a che non hanno iniziato la loro mutazione genetica (si vedano gli esempi del Pci e del Pcf)13. Il sogno federalista europeo era appannaggio dei repubblicani, dei liberali, del polo laico. Non per caso. La destra liberista ha due opzioni: restare nell’euro o uscirne a modo suo, scaricando i costi sul proletariato. La sinistra di classe ne ha solo una: uscire a modo suo, con una netta svolta nella politica economica e sociale a favore delle classi popolari e con la riappropriazione della sovranità nazionale alienata, conditio sine qua non per dare corpo ad una politica macroeconomica ed industriale completamente diversa da quella che ci ha condotto a questo punto (svolta che restando nella Ue sarebbe impossibile).
 
Nell’appello di Spinelli per Tsipras si sostiene che “gli Stati da soli non sono in grado di esercitare sovranità, a meno di chiudere le frontiere, far finta che l’economia-mondo non esista, impoverirsi sempre più. Solo attraverso l’Europa gli europei possono ridivenire padroni di sé”.
 
Sono tesi che fanno acqua da tutte le parti. Innanzitutto è questa Europa che ha impoverito e impoverisce gli europei e non può essere altrimenti, dato i meccanismi insiti in un’unione monetaria, come abbiamo già accennato. Secondariamente andrebbe tenuto conto che i paesi europei che non hanno adottato l’euro, già prima della crisi, hanno realizzato una crescita superiore a quella media dell’eurozona. Sfugge infine perché un paese sovrano dovrebbe chiudersi all’economia-mondo: al di fuori della Ue sono tutte autarchie? O il senso del rilievo è che per la Spinelli non bisogna toccare la libera circolazione dei capitali? Al contrario, come hanno sostenuto numerosi economisti, un’uscita dall’unione monetaria e una successiva svalutazione, i cui effetti possono essere attutiti con l’indicizzazione dei salari ed altre misure a tutela delle classi popolari, rilancerebbero a breve la crescita. Di fatto, poi, se si ha l’obiettivo di una riscrittura dei trattati è, per forza di cose, dalla dimensione nazionale che bisogna partire, dal confronto e dal concerto tra gli Stati. A volte si ha l’impressione che i sei sostenitori di Tsipras non sappiano con esattezza di cosa stanno parlando.
 
Chi, invece, ritiene che nell’attuale situazione internazionale non sia proponibile per l’Italia un’uscita unilaterale ed addita, meritoriamente, l’esempio dell’integrazione cooperativa latinoamericana dell’ALBA dovrebbe tener conto che anche in quel contesto il processo è partito dalla riaffermazione della sovranità di un paese che era fino ad allora tenuto al guinzaglio (il Venezuela) e che il progetto è stato reso possibile dalla cooperazione di governi che avevano un comune intendimento di fronte alle stesse sfide. L’ipotesi di una svolta politica di tale portata in tutti i PIGS appare improbabile ed ignora i riflessi che sul quadro politico interno dei vari paesi ha la legge dello sviluppo diseguale del capitalismo. Appare più probabile l’affermazione di un blocco euroscettico in un singolo paese. Se questo paese fosse l’Italia, avrebbe la massa critica sufficiente (nonostante tutto) per innescare una reazione a catena nella periferia dell’Eurozona; come affermano numerosi osservatori transalpini per la stessa Francia sarebbe un problema restare legata al carro tedesco con l’Italia fuori dall’euro.
 
Vi è un’area di forze e soggettività che a sinistra e da sinistra ha colto la necessità di uscire dall’euro e dalla Ue. Ma occorre tirare le fila e capire che qualsiasi politica economica che rompa con l’austerità e il liberismo non è possibile nel perimetro dell’eurozona e della Ue.
 
Come diceva Mao: “abbandoniamo le illusioni, prepariamoci alla lotta”.»
 
* Fonte: Gramsci Oggi

Uganda, presidente firma legge contro omosessualita’: Meglio poveri che immorali

ora come sarò tacciato? Di razzismo od omofobia?

Lunedì, 24 Febbraio 2014 14:25

Entebbe – Il presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, ha firmato la legge anti gay, nonstante la pressione esercitata da Paesi occidentali.

La firma del documento è avvenuta durante una cerimonia nella residenza ufficiale del presidente a Entebbe, a 40 chilometri dalla capitale Kampala, ed è stata accolta dall’applauso dei funzionari del governo. La nuova legge prevede una pena di 14 anni di carcere per le persone condannate per la prima volta e l’ergastolo per la “omosessualità aggravata”. Quest’ultimo reato riguarda casi di persone condannate più volte per rapporti omosessuali tra adulti consenzienti, nonché i responsabili di atti sessuali con minorenni, disabili o persone infettate dal virus Hiv. Alcuni Paesi europei avevano minacciato di tagliare gli aiuti per l’Uganda e il presidente Usa Barack Obama aveva chiesto a Museveni di non firmare la legge, affermando che la normativa complicherebbe le relazioni tra con Washington.

http://italian.irib.ir/notizie/mondo/item/154901-uganda,-presidente-firma-legge-contro-omosessualita-meglio-poveri-che-immorali