Ecco la ripresa

600 IMPRESE SOLO A PARMA E DINTORNI – IN ITALIA 60 MILA CESSAZIONI DI ATTIVITA’
e alle risorse che vengono nella terra promessa a lavorare cosa offriamo?? Sarà colpa degli italiani che sono inoccupabili come dice Giovannini

Crisi, in 10 mesi chiuse 600 imprese. Saldo negativo di 200 unità
I dati dell’Osservatorio di Confesercenti. Negli ultimi 10 mesi si sono registrate tra Parma e provincia 682 cessazioni di attività, di cui 213 riguardano il commercio al dettaglio

Redazione ParmaToday28 Novembre 2013

A Parma da gennaio a ottobre più di 600 cessazioni con saldo negativo di circa 200 unità e riguardano in particolare commercio al dettaglio e turismo. C’è invece un segnale positivo: tra settembre ed ottobre con la riapertura di nuove imprese. Non sono rincuoranti gli ultimi dati dell’Osservatorio di Confesercenti: in Italia si registra ancora un forte blocco economico si registrano oltre 60mila chiusure, per un saldo negativo di poco superiore alle 22mila unità. Anche i numeri che riguardano Parma e provincia seguono il trend negativo italiano, con qualche eccezione per quanto riguarda il commercio di automobili, carni, articoli da regalo e per fumatori. Nel nostro territorio da gennaio a ottobre 2013 si sono annoverate oltre  600 cessazioni di attività con un saldo negativo di circa 200 unità.
Sono in negativo quasi tutti i settori ma, in particolare, continua il tracollo del commercio al dettaglio e del turismo. Negli ultimi 10 mesi si sono registrate tra Parma e provincia 682 cessazioni di attività, di cui 213 riguardano il commercio al dettaglio, 150 le imprese di alloggio e somministrazione, 63 ristoranti, 74 bar, 59 esercizi di vendita abbigliamento e calzature e 42 venditori ambulanti, più contenute invece le chiusure di altre attività. Per quanto riguarda le nuove aperture, sono aumentate da settembre a oggi e nel complesso per l’anno 2013 si sono annoverate 435 nuove attività. Il saldo rimane comunque negativo tra attività cessate e nuove imprese aperte.
Nella nostra città i segnali positivi, seppure modesti, riguardano le imprese del commercio al dettaglio di automobili (+2), di carni (+5) e di articoli da regalo e per fumatori (+4).  “L’emorragia di imprese – commenta Corrado Testa di Presidente Confesercenti Parma – non si ferma, anche se si evidenzia qualche piccolo segnale di speranza. Commercio e turismo sono schiacciati dalla crisi dei consumi interni che è il segno distintivo di questa recessione italiana e che – insieme a una deregulation degli orari e dei giorni di apertura delle attività commerciali che non ha eguali in Europa, e che favorisce solo le grandi strutture – sta continuando a distruggere il nostro capitale di piccoli imprenditori. La crisi sta portando a un rapido rinnovamento generazionale: il 40% delle nuove imprese di Commercio e Turismo è giovanile. E’ la dimostrazione della voglia di non arrendersi dei nostri ragazzi che, di fronte a un tasso di disoccupazione dei giovani che macina record su record, scelgono la via dell’auto-impiego. Adesso cerchiamo di tenerli sul mercato, in primo luogo evitando batoste fiscali, a livello nazionale o locale: gli imprenditori sono “taglieggiati” in questo periodo dalla Tares che nella maggior parte dei comuni italiani, è l’ultima “caporetto” dei negozi di vicinato, soprattutto per le attività di somministrazione come Bar, Ristoranti e alimentari in genere.
http://www.parmatoday.it/cronaca/imprese-chiuse-crisi-commercio.html

Modena, analisi Confesercenti: “Dall’inizio dell’anno 617 imprese in meno nei settori commercio, alloggio e pubblici esercizi”
28 nov 2013

“Inarrestabile” così Confesercenti Modena definisce la pesante crisi che ha investito il commercio e il turismo. Nei primi 10 mesi del 2013 sono oltre 60mila le chiusure, registrate a livello nazionale per un saldo negativo di poco superiore alle 22mila unità. Situazione che si rispecchia anche in Emilia Romagna, che rientra tra le prime 10 regioni italiane col maggior numero di imprese cessate. E Modena non fa eccezione. In regione, se raffrontata con le altre realtà territoriali, la nostra provincia occupa i primi posti per numero di attività cessate nel periodo gennaio-ottobre 2013. A fronte di 409 nuove attività imprenditoriali avviate nel commercio e nel turismo si sono registrate 617 cessazioni con un saldo negativo negli ultimi dieci mesi di 208 imprese. Quel che è peggio è che la media di imprese cessate nel modenese è superiore a quella regionale. Unica nota positiva il settore dell’e-commerce che continua a segnare un constante incremento.
“L’emorragia – commenta Confesercenti – non si ferma, anche se qualche piccolo segnale di speranza c’è. Commercio e turismo sono schiacciati dalla crisi dei consumi interni che, insieme a una deregulation degli orari e giorni di apertura delle attività commerciali che favorisce solo le grandi strutture, sta continuando a distruggere il nostro capitale imprenditoriale. La crisi però sta portando anche un rapido rinnovamento generazionale: molte nuove imprese sono avviate da giovani che investono in nuove tecnologie. E’ la dimostrazione della voglia di non arrendersi, soprattutto delle giovani generazioni che, anche a fronte di un tasso di disoccupazione da record, scelgono la via dell’auto-impiego. Fondamentale quindi tenerli sul mercato e agevolarli, così come sostenere tutte le imprese in difficoltà con una politica economica volta a supportare la crescita e i consumi, recuperando risorse con interventi coraggiosi tesi ad abbassare in modo strutturale la spesa pubblica improduttiva. Così come è necessario evitare ulteriori batoste fiscali, sia a livello nazionale che locale”.
Sono i numeri ancora una volta a definire in modo oggettivo la situazione di delle imprese. Lapidari quelli che riguardano il settore del commercio al dettaglio modenese. Male il comparto alimentare e non alimentare. Da gennaio ad ottobre 2013, sul territorio a fronte a 207 nuove aperture sono state ben 370 le cessazioni (di cui 112 solo nel capoluogo) con un saldo complessivo negativo di -163 imprese. Da questi dati poi emerge il perdurare del grave momento vissuto dal settore moda/tessile/abbigliamento: contro le 53 nuove iscritte ci sono 112 cessazioni con un saldo negativo di -59 imprese dall’inizio dell’anno.
Leggermente più positivo, pur contrassegnato da dati negativi risulta essere l’andamento nel settore del turismo, o meglio tra le imprese di alloggio e pubblici esercizi della provincia. 247 le attività cessate (74 nel capoluogo), contro le 202 avviate in questi 10 mesi: il saldo negativo ammonta a -45 unità. Il conto più salato va alla ristorazione che evidenzia 141 attività in meno di fronte a 94 nuove; stabile invece – per ora – il comparto delle attività ricettive: 6 quelle iscritte da gennaio 2013 contro le 5 cessate.
Anche il commercio al dettaglio ambulante risulta sofferente alla crisi. Sul territorio modenese, dall’inizio dell’anno sono state 90 le imprese che hanno cessato l’attività e solo 53 nuovi avviamenti.
L’indagine consegna poi un andamento decisamente positivo per le imprese che operano nel commercio via internet, un trend che riguarda un po’ tutti gli ambiti commerciali. Il settore dell’e-commerce che conta 171 imprese totali, nel corso dei primi dieci mesi dell’anno ha registrato 31 nuove attività, e 16 cessazioni con un saldo positivo di 15 nuove imprese. Si tratta di sistemi innovativi per la commercializzazione dei propri prodotti, che si vanno via affermando e che riguardano soprattutto le nuove generazioni; molto attente ai cambiamenti e propense ad utilizzare modo appropriato la strumentazione tecnologica, avvalendosi anche di modalità innovative tra cui anche i social media.
http://www.sassuolo2000.it/2013/11/28/modena-analisi-confesercenti-dallinizio-dellanno-617-imprese-in-meno-nei-settori-commercio-alloggio-e-pubblici-esercizi/

CAGLIARI: EQUITALIA, QUARANTA LAVORATORI OCCUPANO LA SEDE

ma come! Osano farsi chiamare lavoratori, sono evasori, hanno la partita iva….

28 novembre 2013
Blitz di una quarantina di lavoratori del cosiddetto “popolo delle partite Iva” che questa mattina a Cagliari hanno occupato gli sportelli della sede di Equitalia, in via Asproni. I manifestanti sono entrati all’ interno degli uffici, al momento dell’apertura(…)

Leggi tutto su corriere
http://www.crisitaly.org/notizie/cagliari-equitalia-quaranta-lavoratori-occupano-la-sede/?utm_source=dlvr.it&utm_medium=facebook&utm_campaign=cagliari-equitalia-quaranta-lavoratori-occupano-la-sede

Vogliono portarci verso una Totale Distruzione Monetaria come accadde in Germania

5 settembre 2013 

reichtsbank

http://www.gamerlandia.net/2013/02/02/vogliono-portarci-verso-una-totale-distruzione-monetaria-come-accadde-in-germania/

 Oggi abbiamo la necessità di un aumento del volume di denaro. Ancor più, di sovranità monetaria. Ad ogni modo, il volume di denarodovrebbe esser aumentato fino a quando i livelli dei prezzi delle materie prime, saranno saliti al punto tale da coprire i costi di produzione e lasciare un margine di onesto profitto ai produttori di materie prime: finchè il reddito nazionale non sarà sufficiente nel portare la struttura legittima obbligazionaria privata in sospeso e finchè non si fornisca sufficiente occupazione per quelli che vorranno lavorare. Non solo i “giovani“, come vi stanno martellando l’idea nella testa, ma TUTTI. Indistintamente.

Dopo aver raggiunto tale livello, il flusso di denaro dovrebbe esser aumentato solo come aumenterebbe l’effettiva produzione fisica della ricchezza. Una volta che il livello dei prezzi raggiungerebbe il tetto necessario, ulteriori emissioni di denaro dovrebbero avvenire solo quando aumenterebbe la produzione fisica. Altrimenti, avrà luogo un ulteriore ed indesiderabile aumento dei prezzi.

Il sistema finanziario italiano potrebbe esser regolato entro pochi mesi per raggiungere il prezzo richiesto delle materie prime e per assorbire i disoccupati: TUTTI, ripeto. Non solo i “giovani“.

 Per meglio comprendere, vorrei narrarvi la storia di quel che successe in Germania e di quello che – probabilmente – accadrà in Italia se il popolo italiano non si risveglierà dal torpore mediatico indotto, iniziando a prendere il controllo del sistema monetario che è nelle mani di internazionalisti anti-patriottici.

La prima guerra mondiale finì nel 1918. Il 31 marzo 1919 (poco prima della conferenza di “pace” e della firma del trattato di Versailles), i livelli dei prezzi della Germania erano più alti solo del 117%: non più di quanto non lo fossero prima dell’inizio della Prima guerra mondiale. Questo aumento dei prezzi fu più contenuto rispetto a quanto avvenne negli USA. Il debito pubblico della Germania – a partire dall’inizio della Prima guerra mondiale fino al 31 marzo 1919– ebbe un aumento di 130MLD di Marchi. In termini di dollari, sarebbero circa 30MLD. Gli Stati Uniti aumentarono il proprio debito pubblico per un importo analogo.

 La struttura finanziaria tedesca non si trovava in nessuna condizione per giustificare la distruzione della moneta, se non quella dell’intenzione pianificata con i prestatori di denaro internazionali

 Secondo i termini del Trattato di Versailles, praticamente tutto d’oro della Germania fu portato via, assieme al 75% dei depositi di ferro minerale e miniere. Inoltre, portarono via tutte le sue colonie e circa il 25% di altre proprietà fisiche.

I termini del trattato furono diabolici. In realtà, diretti a distruggere il popolo tedesco. Dal momento della firma del trattato nel giugno 1919 fino agli inizi del 1922, i poteri monetari internazionali che erano controllati dalla Reichsbank e dal governo tedesco, si stavano manipolando per ottenere il controllo della proprietà fisica reale in Germania

 Arrivarono al punto di cambiare drasticamente le leggi bancarie della Germania, in modo tale da poter prendere in prestito dalla Reichsbank importi illimitati ed acquistare la proprietà fisica con la consapevolezza che – successivamente – il prestito avrebbe potuto essere rimborsato con moneta senza valore (vi ricorda qualche cosa, tutto questo? Non è forse quello che sta accadendo attualmente?, ndr)

 Per darvi l’idea del volume di moneta che produssero in Germania, basterà solo osservare quello che accadde al livello dei prezzi. Vorrei ricordare che – durante la guerra – i livelli dei prezzi tedeschi non fu aumentato tanto quanto lo fecero negli Stati Uniti.

Nel 1920 il livello dei prezzi in Germania aumentò del 1500% rispetto al livello prebellico. Nel 1921 raggiunse il 3500% rispetto al livello prebellico. Nel 1922 fu del 147,000% rispetto al livello prebellico e dal 23 ottobre– quando la valuta perse completamente il suo valore – fu del 709MLD% rispetto al livello prebellico.

In altre parole, gli internazionalisti predatori stamparono marchi privati ​​e li immisero nel flusso di denaro con lo scopo dichiarato di distruggere il sistema monetario della Germania. Tutto ciò, significò la distruzione di tutte le polizze assicurative e di tutte le ipoteche di proprietà reali del popolo tedesco.

 banchieri internazionali (gli stessi di oggi, ndr) si erano già preparati. Ottennero il controllo fisico della proprietà e poterono così pagare i prestiti – molti dei quali furono manipolati attraverso la privata Reichsbank – con i soldi senza valore.

 Quello che successe in Germania fu definito erroneamente INFLAZIONE. Non fu un’inflazione tedesca. Fu una questione d’inflazione di denaro privato, perpetrata da intriganti internazionali. L’inflazione non fu un’inflazione dei soldi del governo. Fu un’inflazione delle banconote private della Reichsbank. I funzionari della Reichsbank – un’istituzione privata – furono responsabili per l’emissione di moneta in volume sufficiente a distruggere l’intera struttura bancaria e rendere senza valore tutto il denaro della Germania.

La stessa cosa accadrà senza dubbio in Italia ed in tutti gli Stati europei, se la gente continuerà a permettere che il sistema monetario venga manipolato da coloro che ne hanno il completo controllo negli ultimi venti anni.

 Ne trarranno profitto proprio come fecero con la Germania, acquisendo il possesso delle proprietà fisiche. Con la distruzione del sistema monetario, cesseranno di esistere anche gli unici diritti per la protezione dell’individuo, della sua proprietà, dei suoi diritti civili e religiosi.

 Chiunque si vorrà erudire e/o indagare sulla distruzione della valuta “tedesca” o della sua rivalutazione francese ed italiana nel 1920,  dovrebbe leggere “Foreign Currency and Exchange Investigation Conducted by Gold and Silver Inquiry of the United States Senate” ai sensi della Risoluzione 469 del 67° Congresso. Questo documento non è più in stampa, ma lo potete trovare in alcune librerie.

Che dire?

Alla fine, studiare la storia vi aprirà gli occhi su molti temi. Questa si ripete perché – chi ne manovra i fili e la gestisce – ha le stesse finalità portate a lungo termine. Svegliatevi e spegnete la TV che manipola i vostri cervelli!

Finiremo come il cavallo quando arrivò il treno a vapore

praticamente la trama del film Soylent green, non a caso commissionato da Club di Roma che è promotore dell’agenda di depopolamento.

di Giorgio Cattaneo – 03/11/2013

Fonte: libreidee                             
 
S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento.

E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.
Tutti gli altri, scrive Massimo Gaggi sul “Corriere della Sera”, troveranno impiego soltanto «negli interstizi della società robotizzata», oppure svolgeranno lavori che le macchine non potranno sostituire, come quelli nel settore sanitario. Una grande massa di cittadini dovrà imparare a vivere in modo più austero: «Un destino al quale, secondo Cowen, è inutile ribellarsi e col quale anche i meno fortunati impareranno a convivere, scoprendo che la frugalità ha anche aspetti positivi», annota Gaggi.
Sarà una società diversa, “iper-meritocratica”, mentre «la memoria del mezzo secolo di rapida crescita, welfare generoso e prosperità, in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale, si appannerà sempre più». L’epoca che abbiamo alle spalle «sarà catalogata come una sorta di incidente della storia, felice ma insostenibile e quindi irripetibile».Fino a ieri, l’opinione prevalente era che le difficoltà che affliggono i paesi industrializzati fossero legate allo strapotere della finanza e a una globalizzazione che ha creato di certo nuove opportunità, ma ha anche provocato un trasferimento di ricchezza senza precedenti dall’Occidente ai paesi emergenti, soprattutto quelli dell’Asia. La nuova economia digitale? E’ vero, taglia i vecchi posti di lavoro, ma aumenta l’efficienza del sistema producendo nuova ricchezza e, quindi, maggiori occasioni di lavoro. In fondo, ragionavano i “tecno-ottimisti”, nel 1790 il 93% degli americani viveva di agricoltura. Duecento anni dopo, nel 1990, la quota dei contadini era scesa al 2%, eppure gli Stati Uniti erano un paese prospero, che aveva raggiunto il pieno impiego. Siamo entrati in una nuova era di “distruzione creativa”, come quando il motore a vapore mandò in pensione il cavallo come mezzo di trasporto e l’economia che gli era cresciuta intorno? La ferrovia alimentò l’industria e un’economia ben più vasta di quella che malpagava i braccianti. Solo che, nell’era digitale, il lavoro è in via di estinzione.Secondo Robert Gordon, della Northwestern University, le tecnologie digitali non creano tanto lavoro quanto le rivoluzioni precedenti – vapore, elettricità, motore a scoppio. E Noah Smith, giovane economista della Michigan University, sostiene che il grande cambiamento riguarda la distribuzione del reddito: «Durante quasi tutta la storia moderna, i due terzi della ricchezza prodotta è servita per pagare i salari mentre il terzo rimanente è andato in dividendi, affitti e altri redditi da capitale». Ma dal 2000 – quindi ben prima della crisi prodotta dal crollo di Wall Street del 2008 – le cose sono cambiate: «La quota del lavoro ha cominciato a calare stabilmente fino ad arrivare al 60%, mentre i redditi da capitale sono cresciuti». La causa? E’ nella tecnologia: «In passato il progresso tecnico ha sempre aumentato le capacità dell’essere umano: un operaio con una motosega è più produttivo di uno che lavora con una sega a mano. Ma quell’era è passata. La nuova rivoluzione, quella dei computer e delle tecnologie digitali, riguarda le funzioni cognitive, non l’estensione delle capacità fisiche. E una volta che le capacità cognitive dell’uomo sono sostituite da una macchina, diventiamo obsoleti come i cavalli».Secondo David Autor, docente del Mit di Boston, sono al riparo dalle macchine solo i mestieri altamente creativi – manager, scienziati, medici, ingegneri e designer – oppure quei lavori manuali che richiedono interazioni, capacità di adattamento e osservazione: preparare un pasto, guidare un camion, pulire una stanza d’albergo. Uno studio della Oxford University svolto su 72 settori produttivi rivela che quasi la metà dei lavori ancora svolti dall’uomo (il 47%) verrà sostituito dalle macchine. Per Autor, alle macchine non c’è scampo: i lavori manuali saranno meno pagati, e questo aumenterà la polarizzazione dei salari e la divaricazione abissale tra ricchi e poveri. Gli economisti progressisti, scrive Gaggi, «non credono che un aumento delle disparità sia alla lunga sostenibile e temono per la tenuta delle democrazie». Mezzo secolo fa, conclude Gaggi, si immaginava un mondo nel quale avremmo lavorato poche ore alla settimana: scontato che le macchine avrebbero sostituito l’uomo, ma per far crescere la produttività a beneficio di tutti. Così non è stato, ed è indispensabile porvi rimedio prima che sia troppo tardi.
S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento. E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.
Tutti gli altri, scrive Massimo Gaggi sul “Corriere della Sera”, troveranno impiego soltanto «negli interstizi della società robotizzata», oppure Tyler Cowensvolgeranno lavori che le macchine non potranno sostituire, come quelli nel settore sanitario. Una grande massa di cittadini dovrà imparare a vivere in modo più austero: «Un destino al quale, secondo Cowen, è inutile ribellarsi e col quale anche i meno fortunati impareranno a convivere, scoprendo che la frugalità ha anche aspetti positivi», annota Gaggi. Sarà una società diversa, “iper-meritocratica”, mentre «la memoria del mezzo secolo di rapida crescita, welfare generoso e prosperità, in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale, si appannerà sempre più». L’epoca che abbiamo alle spalle «sarà catalogata come una sorta di incidente della storia, felice ma insostenibile e quindi irripetibile».
Fino a ieri, l’opinione prevalente era che le difficoltà che affliggono i paesi industrializzati fossero legate allo strapotere della finanza e a una globalizzazione che ha creato di certo nuove opportunità, ma ha anche provocato un trasferimento di ricchezza senza precedenti dall’Occidente ai paesi emergenti, soprattutto quelli dell’Asia. La nuova economia digitale? E’ vero, taglia i vecchi posti di lavoro, ma aumenta l’efficienza del sistema producendo nuova ricchezza e, quindi, maggiori occasioni di lavoro. In fondo, ragionavano i “tecno-ottimisti”, nel 1790 il 93% degli americani viveva di agricoltura. Duecento anni dopo, nel 1990, la quota dei contadini era scesa al 2%, eppure gli Stati Uniti erano un paese prospero, che aveva raggiunto il pieno impiego. Siamo entrati in una nuova era di “distruzione creativa”, come quando il motore a vapore mandò in pensione il cavallo come mezzo di trasporto e l’economia che gli era cresciuta intorno? La ferrovia alimentò l’industria e un’economia ben più vasta di quella che malpagava i braccianti. Solo che, nell’era digitale, il lavoro è in via di estinzione.
Secondo Robert Gordon, della Northwestern University, le tecnologie digitali non creano tanto lavoro quanto le rivoluzioni precedenti – vapore, elettricità, motore a scoppio. E Noah Smith, giovane economista della Michigan University, sostiene che il grande cambiamento riguarda la distribuzione del reddito: «Durante quasi tutta la storia moderna, i due terzi della ricchezza prodotta è servita per pagare i salari mentre il terzo rimanente è andato in dividendi, affitti e altri redditi da capitale». Ma dal 2000 – quindi ben prima della crisi prodotta dal crollo di Wall Street del 2008 – le cose sono cambiate: «La quota del lavoro ha cominciato a calare stabilmente fino ad arrivare al 60%, mentre i redditi da capitale sono cresciuti». La causa? E’ nella tecnologia: «In passato il progresso tecnico ha sempre aumentato le capacità dell’essere umano: un operaio con una motosega è più produttivo di uno che lavora con una sega a mano. Ma quell’era è passata. La nuova rivoluzione, quella dei computer e delle tecnologie digitali, riguarda le funzioni cognitive, non l’estensione delle capacità fisiche. E una volta che le capacità cognitive dell’uomo sono sostituite da una macchina, diventiamo obsoleti come i cavalli».
Secondo David Autor, docente del Mit di Boston, sono al riparo dalle macchine solo i mestieri altamente creativi – manager, scienziati, medici, ingegneri e designer – oppure quei lavori manuali che richiedono interazioni, capacità di adattamento e osservazione: preparare un pasto, guidare un camion, pulire una stanza d’albergo. Uno studio della Oxford University svolto su 72 settori produttivi rivela che quasi la metà dei lavori ancora svolti dall’uomo (il 47%) verrà sostituito dalle macchine. Per Autor, alle macchine non c’è scampo: i lavori manuali saranno meno pagati, e questo aumenterà la polarizzazione dei salari e la divaricazione abissale tra ricchi e poveri. Gli economisti progressisti, scrive Gaggi, «non credono che un aumento delle disparità sia alla lunga sostenibile e temono per la tenuta delle democrazie». Mezzo secolo fa, conclude Gaggi, si immaginava un mondo nel quale avremmo lavorato poche ore alla settimana: scontato che le macchine avrebbero sostituito l’uomo, ma per far crescere la produttività a beneficio di tutti. Così non è stato, ed è indispensabile porvi rimedio prima che sia troppo tardi.
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=46515

La produzione di cibo in Europa potrebbe presto raggiungere il limite

di Andrea Bertaglio – 03/11/2013

 Fonte: Movimento per la Decrescita Felice [scheda fonte]

 Molti Paesi europei potrebbero non essere più in grado di aumentare la quantità di cibo che producono. Il motivo? Molte colture di base sono vicine ai loro limiti fisiologici di crescita. Lo rivela Lester Brown, presidente dell’Earth Watch Institute e analista alimentare di fama internazionale. “In Francia, Germania e Regno Unito, i tre produttori di grano leader nell’Europa occidentale, c’è stato poco aumento dei rendimenti per oltre 10 anni”, avverte Brown: “Altri Paesi raggiungeranno presto i loro limiti per le rese di granaglie”. Un problema che riguarda anche diverse nazioni extra-Ue, rivela Brown. Come India, Corea del sud, Cina e Giappone, dove la produttività dei raccolti di riso non cresce da ben 17 anni.

Dopo decenni di aumenti dei raccolti, i governi non hanno ancora capito che presto si raggiungerà il limite della capacità di produrre cibo. Soprattutto considerando che, entro la metà di questo secolo, il pianeta ospiterà circa tre miliardi di persone in più. A lanciare l’allarme è Lester Brown, ambientalista ed economista statunitense noto al pubblico internazionale per avere, fra le altre cose, fondato il Worldwatch Institute ed avere sviluppato i diversi “Piani B” per salvare il pianeta Terra. “Dal 1950, i raccolti globali sono triplicati, ma quei giorni sono andati”, fa presente Brown: “Tra il 1950 e il 1990, la resa di granaglie nel mondo è aumentata in media del 2,2% all’anno”, rallentando di molto il suo ritmo rispetto ai decenni precedenti.

Il problema dei limiti nella produzione di alimenti, oltre che europeo, è anche e soprattutto asiatico. È ad esempio in India che, negli anni ’70, Lester Brown ha collaborato maggiormente nel tentativo di aumentare le rese di cibo. Nel gigante asiatico, ricorda lo scienziato statunitense, “il livellamento delle rese del frumento è decisamente reale”. Anche perché, puntualizza, “l’India aggiunge 18 milioni di persone all’anno alla sua popolazione”. Un discorso che ovviamente vale anche per la ancor più popolosa e vorace Cina.

In Gran Bretagna, nazione europea che con la Svezia sta cercando più di altri di capire come fronteggiare questo fenomeno, Stuart Knight del National Institute of Agricultural Botany non la pensa allo stesso modo: “I raccolti hanno dei limiti fisiologici, ma pensiamo di essere ben lungi dal raggiungerli”, assicura. Esattamente il contrario di quanto afferma Lester Brown, per cui l’agricoltura tradizionale non può più nemmeno sperare di aumentare la sua produttività.

L’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite (FAO) sembra dare ragione a Knight. Secondo il suo ultimo rapporto trimestrale “Crop Prospects and Food Situation”, infatti, la produzione cerealicola mondiale nel 2013 aumenterà di circa il 7% rispetto allo scorso anno, aumento che porterebbe laproduzione mondiale di cereali al livello record di 2.479 milioni di tonnellate. “Le rese di cereali per ettaro, come qualsiasi processo di crescita biologica, hanno i loro limiti e non possono continuare a salire all’infinito”, insiste però il presidente del Worldwatch Institute, per cui ora il problema rimane invece la scarsità. “Abbiamo vincoli reali per l’acqua, l’erosione del suolo e le rese, a cui si aggiungono quelli dovuti ai cambiamenti climatici”, precisa Brown: “Si tratta di una convergenza che non abbiamo mai affrontato prima”.

Che fare, quindi? Secondo alcuni la soluzione sta nello sviluppo degli Organismi geneticamente modificati (Ogm). Fra chi la pensa così, spiccano il governo britannico, la Bill & Melinda Gates Foundation e l’International Rice Research Institute (Irri) nelle Filippine, che hanno già investito oltre 20 milioni di dollari nell’ingegneria genetica applicata al riso, sempre con la speranza di aumentarne la produzione. Nonostante i massicci sforzi, però, i progressi sono stati fino a questo punto pochi e lenti, e ancora non è chiaro l’effetto che organismi di questo tipo possano avere sulla salute umana.

Per sconfiggere il problema reale della scarsità in un pianeta che si appresta ad ospitare nove miliardi di persone, ciò che si può attuare da subito è ad esempio la riduzione degli sprechi alimentari. Che, soprattutto in Occidente, crescono costantemente nonostante la crisi economica. Prima di trovare modi per aumentare le rese, quindi, c’è chi suggerisce di iniziare a non gettare cibo e risorse inutilmente. Anche perché, stando ai dati FAO, l’attuale produzione globale di alimenti potrebbe permettere di nutrire oltre 12 miliardi di persone.

Datagate: ipocrisia europea ed egemonia USA

di Gaetano Colonna – 03/11/2013

 Fonte: clarissa 

      

Nella storia dei rapporti transatlantici vi sono state numerose pagine percorse da un sottile umorismo, ma nessuna è pari a quanto si sta leggendo e ascoltando in questi giorni sullo “scandalo” Datagate.

Chiunque abbia una pur vaga idea di come l’intelligence rappresenti storicamente una delle basi portanti della potenza delle grandi Nazioni imperialiste dell’Occidente europeo, fin dal Settecento, per la cui strategia navalista era imprescindibile lacostante acquisizione di informazioni tattiche e strategiche su scala planetaria, non può che considerare estremamente ipocrita l’apparente scandalizzarsi delle classi dirigenti europee, dalla Germania, alla Francia, all’Italia.
Nel giugno 1948, proprio quando aveva appena avuto inizio la Guerra Fredda, con l’accordo UKUSA, USA, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda, i cosiddetti “Five Eyes”, mettevano a punto quella vasta rete planetaria di attività spionistiche l’ultima manifestazione della quale sarebbe stata quella rete Echelon di cui si ebbe notizia negli anni Novanta: anche in questo caso si sprecarono articoli sui giornali, inchieste dell’Unione Europea e più o meno tiepide contrizioni da parte di qualche alto ufficiale americano, senza per altro che si sia mai andati a fondo sul da farsi – nonostante fosse già allora risultato evidente il poderoso ruolo della NSAnell’organizzare e gestire lo spionaggio elettronico con una onnipervasività planetaria totale. Quella avrebbe dovuta essere l’occasione ultima per affrontaretempestivamente tutte le implicazioni politiche dell’evidente capacità americana di “intercettare il mondo”.
Il 3 dicembre 1952, il North Atlantic Council, versante politico della NATO, decise la costituzione di un meccanismo permanente di scambio e condivisione di intelligence fra i Paesi occidentali aderanti alla NATO, noto come AC/46, il cui raggio di attività si estendeva anche a non meglio precisate “minacce non-militari”, la cui estendibilità alle tecniche di contro-insurrezione e contro-rivoluzione risulta oggi del tutto ovvia. 

Non possiamo infatti oggi dubitare del fatto che le celebri reti Stay-Behind, in Italia note come “Gladio“, fossero ricomprese nelle competenze dell’AC/46, allo scopo di garantire dapprima la presenza di strutture di resistenza anti-comunista in caso di conflitto con l’Urss e, in una seconda fase, il supporto alle più oscure operazioni delle diverse “strategie della tensione”, realizzate non solo in Italia, ma anche, come minimo, in Germania Occidentale, Francia e Belgio nel corso degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta.
Dopo la fine dell’Unione Sovietica e l’ingresso dei Paesi Est europei vuoi nella NATO vuoi nella UE, si è poi assistito al rafforzamento di uno speciale rapporto, sovente mediante protocolli di accordo diretto, fra gli Usa e Paesi Baltici, Polonia, Ungheria, Romania e Bulgaria, anche in materia di spionaggio, come hanno dimostrato vicende quali le extraordinary renditions, che hanno utilizzato punti d’appoggio in alcuni almeno di quei Paesi, di nuova accessione alla rete occidentale di intelligence governata dagli Usa.
Dal 1971, ma a nostro avviso da ben prima, si era inoltre costituito ilsegretissimo Club di Berna, organismo informale che riuniva con costante periodicità i capi dei servizi segreti e delle polizie occidentali: un club le cui impostazioni strategiche hanno probabilmente svolto un ruolo di tutto rilievo per l’Italia, dato che alcune delle principali operazioni destabilizzanti confluite nella strategia della tensione italiana, come quella dei cosiddetti “manifesti cinesi”, hanno comprovatamente avuto impulso dalle direttive dettate in Europa da quell’organismo.
Nel 1977, dietro impulso dello Stato di Israele, a seguito delle imprese terroristiche che lo avevano avuto come obiettivo negli anni Settanta, si dava vita al cosiddetto “Kilowatt Group”, un accordo assai poco noto, cui partecipano ben 24 Stati, tra i quali numerosi appartenenti all’Unione Europea, oltre a Canada, Norvegia, Svezia, USA, Israele stesso e Sudafrica.
In conseguenza della globalizzazione economico-finanziaria degli anni Novanta, della caduta del sistema comunista sovietico e dell’accrescersi delle difficoltà economico-finanziarie dei sistemi occidentali, nel 1995 prendeva vita l’
Egmont Group of Financial Intelligence Units, che, nel giugno 2002, riuniva la bellezza di 69 agenzie specializzate nella raccolta e nell’analisi di informazioni economico-finanziarie.
Facendo seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, poi, l’Unione Europea ha dato la propria immediata disponibilità a stabilire relazioni permanenti in campo di intelligence ed anti-terrorismo con le corrispondenti strutture Usa, cosa che portò il14 marzo del 2003 alla firma di un inedito accordo fra Unione Europea e NATO relativo proprio allo scambio di informazioni sulla sicurezza, considerato dagli studiosi “prerequisito per lo scambio di intelligence fra le due organizzazioni”.
Nel 2003, come se non bastasse quanto già emerso con il caso Echelon, la NSA tornava ancora alla ribalta della cronaca grazie alle rivelazioni di una funzionaria delGovernment Communications Headquarters (GCHQ), organizzazione britannica “gemellata” con la NSA, che rendeva pubblico un memorandum di quest’ultima organizzazione nel quale si dava dettagliato conto delle attività di spionaggio elettronico sistematicamente svolte dall’agenzia Usa ai danni dei membri del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite.
Tutto ciò senza minimamente tenere conto delle centinaia di accordi bilaterali diretti fra gli Usa, Gran Bretagna, Israele, le maggiori potenze spionistiche oggi, e un gran numero di Paesi europei ed extra-europei. Ragione quest’ultima per cui non desta certo alcuna sopresa la notizia di questi giorni, ripresa da Le MondeDer Spiegel e altri giornali europei, sull’esistenza di un programma di raccolta e condivisione di informazioni, denominato in codice 
Lustre, che avrebbe coinvolto la Francia; cosi come di analoghi programmi di spionaggio israeliani che conterebbero sull’attiva partecipazione di USA, Regno Unito, Svezia e Italia, secondo notizie della Suddeutsche Zeitung.
Del resto è passata assai presto nel dimenticatoio in Italia una delle poche significative performance del governo Monti, il decreto del 24 gennaio 2013grazie al quale le nostre agenzie di intelligence, notoriamente assai poco indipendenti da quelle statunitensi ed israeliane, avrebbero completo accesso a un’enorme mole di dati e informazioni di natura riservata: numerose aziende italiane, tra le quali Telecom e Poste Italiane, avrebbero dato immediata disponibilità, stipulando convenzioni coperte da segreto, a fornire alle nostre agenzie di intelligence questi dati, secondo notizie di stampa mai smentite.
Scrivevano nel giugno scorso i giornalisti di Repubblica che hanno svolto questa inchiesta, per spiegare l’importanza dell’apporto di aziende del genere alle reti di sorveglianza occidentali:

Telecom Italia Sparkle possiede un’infrastruttura fisica strategica: la complessa rete di dorsali in fibra ottica lunga 55.000 km in Europa, 7.000 km nel Mediterraneo, 30.000 km in Sud America, continente collegato con un cavo sottomarino nell’Atlantico di 15.000 km. (…) Ancor più importante è Poste Italiane. Rappresenta un unicum nel panorama nazionale: essendo contemporaneamente agenzia di recapiti, banca, operatore telefonico e assicurativo, ha nella sua pancia la più completa banca dati nazionale. (…) Etra i suoi partner ci sono i servizi segreti americani. Nel 2009 la società guidata dall’ad Massimo Sarmi ha costituito a Roma la European Electronic Crime Task Force, un organismo per il contrasto dei crimini informatici a cui partecipano la Polizia di Stato e lo United State Secret Service, l’agenzia governativa deputata alla sicurezza del presidente degli Stati Uniti. A giugno del 2010, poi, è nato il Global Cyber Security Center, istituto voluto da Poste e creato insieme alla Booz Allen Hamilton, l’azienda dove lavorava Edward Snowden, la spia del datagate”.

Ma il lavoro sui cosiddetti “big data”, i grandi ammassi di informazione ricavabili grazie alle reti elettroniche ed ai social network, assume un’ampiezza tale da coinvolgere persino gli ambiti culturali, come già era avvenuto durante la guerra fredda, quando la Cia fu in grado di mobilitare, spesso senza che ne fossero consapevoli, le maggiori istituzioni culturali occidentali

Lo scorso febbraio, senza che i media vi abbiano prestato l’attenzione che meritava, è comparsa la notizia secondo cui l’Office of the Director of National Intelligence statunitense, la massima autorità nello spionaggio Usa, avrebbefinanziato e coordinato ben 13 università statunitensi, europee e israelianein un progetto di raccolta di informazioni tramite social network rivolta a sviluppare una maggiore capacità di analizzare dati per prevedere i futuri sviluppi sociali a livello globale. 

Nel progetto sono coinvolti centri specializzati come il Center for Collective Intelligence del MIT, e come lo Intelligence Advanced Research Projects Activity (IARPA), “incubatore governativo per la ricerca nell’intelligence”, che si concentra sulla possibilità di “valutare le notizie con maggiore accuratezza e farlo più rapidamente grazie alla capacità di combinare diverse tipologie di dati”.
Come si vede, la questione di fondo è che, nel corso di oltre settant’anni, la potenza egemone dell’Occidente ha costruito con abilità e costanza una rete di vincoli, in materia di intelligence così come di politica estera e militare, trasversale a orientamenti politici e partitici, a istituzioni e settori, tale da costituire ormai una sorta di “Stato permanente” entro i singoli Stati nazionali europei

Per questo è ipocrita affrontare la questione del Datagate senza porre la questione di fondo, vale a dire di come si possa attuare una sovranità politica europea capace di svincolarsi dagli orientamenti globali degli Stati Uniti.

Francia, ragazzo di 21 anni muore dopo scarica pistola Taser della polizia

REUTERS

Due pistole Taser

L’agente voleva calmare il giovane che si trovava nel mezzo di una rissa.
Aperta un’indagine per stabilire
le cause della morte

Tragedia in Francia dopo che un ragazzo di 21 anni è morto ieri mattina dopo aver ricevuto da un agente una scarica di Taser, la pistola elettronica usata dalla polizia. Lo riferisce la procura di Orleans, che ha aperto un’indagine per stabilire le cause della morte del giovane.  

 Il ragazzo si stava battendo in strada con il cugino a La Fertè-Saint-Aubin, nel dipartimento del Loiret, quando una decina di gendarmi è intervenuta. Il poliziotto lo avrebbe colpito con la pistola elettronica per cercare di riportare alla calma uno dei due.  

 L’autopsia sul corpo della vittima sarà effettuata domani all’istituto medico-legale di Tours, nel dipartimento Indre-et-Loire. «L’inchiesta dovrà stabilire se c’è un legame di casualità diretta tra l’uso del Taser e la morte. Per il momento, non confermiamo né escludiamo nulla», ha detto Franck Rastoul, procuratore della Repubblica di Orleans. 

 «Il Taser è stato utilizzato in condizioni normali, in un contesto di violenza», ha precisato il procuratore di Orleans, precisando che ci sono «elementi di testimonianza» allo studio degli inquirenti. «Per il momento – ha spiegato ancora Rastoul – l’agente non sembra avere nessuna colpa». Gli inquirenti intendono anche analizzare il Taser per «stabilire le condizioni precise di utilizzo».  

 Ad agosto un altro ragazzo, Israel Hernandez-Llach, di origine colombiana ma da alcuni anni trasferitosi a Miami, in Florida, è morto dopo che alcuni agenti lo hanno bloccato e colpito al torace con il taser. Il ragazzo si era dato alla fuga dalla polizia che voleva fermarlo per alcuni graffiti sul muro di un fast food abbandonato a Miami Beach.  

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Verso la Bancarotta: Saccomanni e la Ripresa (Che ci sarà nel 2014. ma non doveva essere nel terzo trimestre 2 013?)

4 novembre 2013

 Di FunnyKing

 imgres 1              Verso la Bancarotta: Saccomanni e la Ripresa (Che ci sarà              nel 2014... ma non doveva essere nel terzo trimestre              2013?)

(solo un leggerissimo spostamento di date…)

 Oggi va in scena l’ennesima pagliacciata italiana con il “duello” Istat-Saccomanni, però il buon Saccomanni è stato più volte intervistato sulla “luce in fondo al tunnel” e oooops ha cominciato a spostare l’asticella, la ripresa ci sarà fra la fine 2013 e il 2014 (cioè 18 mesi di lasco?), con un impetuosa ascesa del PIL di ben lo 0,7% (per l’Istat, Saccomanni scommette in +1,1%) nel 2014.

 Tanto per fare due conti a BOTTE di 0,7% l’anno ci vorranno 2 anni e 6 mesi per tornare a fine 2012, e circa 40 anni (non scherzo) per tornare al 2001.

 Uao ma che fantastica prospettiva.

 Intanto si scopre che in tutta Europa, Spagna compresa una qualche ripresa nella produzione industriale c’è tranne che in un singolo paese, quello che ha il magico dono della stabilità del trio Leptas, Sakkomannis e Alfanopulos.

 Signore e signori, sapete di cosa non tiene conto ne l’Istat (il che è naturale) ne Saccomanni (il che è malafede)?

 Che banalmente per un ripresa ci vogliono le industrie, i professionisti ed anche i migliori operai magari quelli specializzati. Basta dare una occhiata alla frontiera, a Chiasso per capire che razza di esodo di massa è in corso.

 A proposito ma la luce in fondo al tunnel non doveva esserci nella seconda metà del 2013?

 Articolo introduttivo : Monti

 Secondo articolo introduttivo: Letta-Berlusconi-Monti

 Terzo articolo introduttivo: Letta-Monti-Alfano

 http://www.rischiocalcolato.it/2013/11/verso-la-bancarotta-saccomanni-e-la-ripresa-che-ci-sara-nel-2014-ma-non-doveva-essere-nel-terzo-trimestre-2013.html

Ecco Hyperloop il super-trasporto del futuro

Uno schema del progetto

 

Un sistema di trasporto capace di superare i 1200 km all’ora di velocità, sicuro, meno costoso di una TAV, autosufficiente a livello energetico? L’idea di Elon Musk diventa progetto

andrea bertaglio

Un sistema di trasporto capace di superare i 1200 km all’ora di velocità, sicuro, meno costoso da realizzare di una tipica linea ad alta velocità, autosufficiente a livello energetico, e perché no, anche resistente ai terremoti? Sembra una storia di fantascienza, ma presto potrebbe non essere così. Soprattutto ora che la californiana JumpStartFund, una delle più note piattaforme di crowdfunding e crowsourcing, ha annunciato il nome della nuova società di cui si è fatta promotrice, e che avrà l’ambizioso compito di sviluppare Hyperloop, l’idea futuristica di Elon Musk, imprenditore già noto per aver creato il sistema di servizi finanziari PayPal ed aziende come Space X e Tesla Motors.  

 Hyperloop Transportation Technologies Inc.: sarà questo il nome dell’azienda che, con JumpStartFund, si occuperà di un progetto che promette soluzioni ultraveloci sotto i 1.500 km in alternativa alle autostrade e ai “lenti e costosi TAV”, per dirla con lo stesso Musk. Un’iniziativa che si preannuncia rivoluzionaria, ma che non ha più nulla a che fare con l’ideatore originario, tende a precisare JumpStartFund. E che, grazie alla collaborazione di istituzioni come l’Università della California (Ucla) e aziende come Ansys (che ne ha valutato la fattibilità generale) e GloCal Network Corporation (per aree-chiave come quella manifatturiera e dell’approvvigionamento dei materiali), comincerà fin da subito il proprio percorso evolutivo. Il tutto sotto la direzione di un ingegnere italiano, Marco Villa, e della sua collega Patricia Galloway. 

 Ma che cos’è questo Hyperloop? Praticamente un sistema in grado di “sparare” delle capsule di alluminio contenenti 40 passeggeri l’una sulla tratta San Francisco – Los Angeles. La linea, formata da una coppia di tubi di acciaio (uno per ogni direzione), sollevati a 6 metri da terra e posti su piloni di cemento distanti 30 metri l’uno dall’altro, seguirebbe quella della Interstate 5 (I-5), la principale autostrada della costa occidentale degli Usa, che scorre parallelamente alla costa pacifica e che collega appunto le due metropoli californiane.  

 La velocità di crociera prevista? Ben 1.223 chilometri all’ora. Ma non è tutto: queste incredibili velocità, impensabili senza un enorme dispendio di energia (prodotta da chissà quali fonti), potrebbero essere raggiunte senza impattare eccessivamente sull’ambiente, promettono i progettisti. Il sistema, infatti, è pensato per essere autosufficiente in quanto dotato di pannelli solari installati sulla parte superiore dei tubi per la loro intera percorrenza, mentre l’accelerazione progressiva delle capsule è gestita da magneti presenti sul fondo dei tubi. Inoltre, la ridotta pressione atmosferica all’interno di questi tubi (circa 1/6 della pressione atmosferica presente su Marte) ridurrebbe la resistenza al movimento di 1000 volte. 

 In realtà, costruire un’infrastruttura di oltre 600 km che prevede centinaia di piloni di cemento e acciaio un impatto sull’ambiente e sul paesaggio lo avrebbe eccome. L’importante è limitare i danni, se così si può dire. Per farlo, una delle più importanti collaborazioni di cui si stano avvalendo JumpStartFund e Hyperloop Transportation Technologies è appunto quello dell’Ucla, università fra le più prestigiose del mondo con sede a Los Angeles. “Il nostro primo compito sarà quello di supervisionare ciascuna fase del progetto ed assicurarci che l’interazione fra di esse avvenga nel migliore dei modi, minimizzando i costi e massimizzando il risultato”, afferma Hitoshi Abe, rettore della facoltà di Architettura e Urbanistica di Ucla: “Come succede nel caso di tutte le innovazioni su vasta scala, non è tanto la tecnologia in sé che conta, quanto l’impatto che la stessa avrà sulle città e sulla gente, e su come questi cambiamenti si ripercuoteranno sugli spazi urbani”. 

 In effetti, l’approvazione di una tale opera da parte delle comunità locali è a dir poco fondamentale. Ma stando alle previsioni di successo dei finanziamenti dal basso di JumpStartFund, la situazione potrebbe avere un risvolto positivo per l’opera. “A riprova dell’enorme interesse generato dal progetto, JumpStartFund è stata inondata di richieste da parte di membri della comunità che vogliono entrare a farne parte”, assicura l’azienda, che sul suo portale rende disponibili tutti gli sviluppi e le informazioni a riguardo. “Il solo fatto che eccellenze come Ucla, Ansys e GloCal abbiano accettato di avviare una partnership con noi, oltre a tutti i talenti che si sono fatti avanti a partire dalla comunità, è davvero sensazionale”, ha dichiarato Dirk Ahlborn, AD e fondatore di JumpStartFund: “È grandioso sapere che il nostro concetto di comunità al servizio delle idee funziona davvero”. 

 Al di là degli impatti ambientali da ridurre al minimo, però, quest’opera avveniristica potrebbe costare ben più di quanto il suo ideatore abbia mai ammesso. Se le prime stime parlavano di soli sei miliardi di dollari (circa 54 milioni per la costruzione delle capsule e 5,4 miliardi per i tubi e il sistema di propulsione) c’è infatti chi scommette che non potrebbe essere così, visti i costi a volte esorbitanti sostenuti in tutto il mondo per le grandi opere. “La raccolta fondi non è ancora ufficialmente iniziata, e la cifra finale del progetto è ancora da stabilire”, puntualizza Enzo Mazzeo di JumpStartFund: “Ma negli Usa è già capitato che si siano raggiunte anche cifre molto importanti con il metodo del crowdfunding, in America ormai molto diffuso”.  

 La prima risorsa sembra dunque l’ottimismo, presso le due aziende californiane: “Sono pienamente cosciente degli ostacoli che abbiamo di fronte, ma il feedback che abbiamo ricevuto finora mi rende parecchio ottimista e non vedo l’ora di cominciare a mettermi al lavoro ed osservare progressi significativi”, afferma Marco Villa. Secondo l’ingegnere italiano, responsabile di un progetto che potrebbe stravolgere l’intero settore dei trasporti, le esperienze fatte soltanto nelle ultime settimane sono già memorabili. “Abbiamo avuto il privilegio di interagire con numerosi individui e organizzazioni dotati di grande talento, che hanno condiviso in pieno l’eccitazione e l’attitudine positiva che circonda questo progetto”, afferma Villa: “Una volta che l’elenco di questi collaboratori sarà reso pubblico, sono sicuro che la gente ne rimarrà soddisfatta”. 

Congedo a 50 anni con l’85% dello stipendio e pensione piena: bufera sui militari

http://www.today.it/rassegna/scivolo-oro-congedo-pensione-militari.html

Uno scivolo d’oro per i militari fa discutere: dai 50 anni in poi si potrebbe conservare l’85 per cento dello stipendio senza lavorare più nemmeno un solo giorno, con tanto di pensione piena

Corriere Della Sera 3 Novembre 2013

Un vecchio ufficiale che vuole restare anonimo. E che rivela dati sorprendenti. La riforma delle forze armate? La pagheranno tutta i normali cittadini.

Intervistato dal Corriere della Sera, l’ufficiale dice. “Mi dica lei se in un Paese di esodati e precari possiamo portare avanti un testo del genere: è uno scivolo d’oro, come diavolo si fa a spiegarlo alla gente?”.

Già, perché la riforma voluta da Giampaolo Di Paola, allora ministro del governo Monti, prevede 35mila uomini in meno in dodici anni nelle forze armate. Meno uomini, armi migliori e usate meglio, la ricetta sarebbe questa. Ma la realtà è chequasi tutto resta a carico della spesa pubblica e quindi delle nostre tasche, tramite tre canali: il passaggio del personale ad altro ministero, il prepensionamento e, soprattutto, l’«esenzione dal servizio».

Attenzione, in questa formula, esenzione dal servizio, è racchiuso quello che per l’anziano ufficiale è il vero scandalo.

Scrive il Corriere della Sera:

Dai 50 anni in poi (dieci anni prima del congedo) si può entrare in un magico limbo, lo «scivolo d’oro» appunto, grazie al quale si conserva l’ottantacinque per cento dello stipendio senza lavorare più nemmeno un solo giorno, con tanto di pensione piena; non è esclusa neppure la facoltà di fare altri lavori (il reddito non si cumula). Questo bonus decennale per le forze armate in (libera) uscita verrà inserito nel codice dell’ordinamento militare a meno che Camera e Senato non si mettano di traverso in modo plateale.

Nessuno ne parla, il comma stava passando senza essere notato.

Gian Piero Scanu, capogruppo pd in commissione Difesa. “Quando ho visto quella norma, ho fatto tre salti sulla sedia! Così com’è non passerà. Non è un articolo di legge, è una provocazione”. Più cauto Domenico Rossi, ex generale e adesso deputato di Scelta civica: “Però, ci pensi, è la via d’uscita della generazione delle missioni, i cinquantenni di adesso avevano 35 anni in Kosovo. Non è che si possono mandar via così”.

Una cosa è certa: lo “scivolo d’oro” della riforma può fare imbestialire i comuni cittadini.