ALTA FINANZA: IN ATTESA DELLA TERZA CRISI

Data: Martedì, 24 settembre
Mentre il sistema bancario italiano assiste ad una crescita del 22% delle cosiddette “sofferenze” (i debiti che i clienti non riescono a ripagare), arrivando al record di 128 miliardi di euro e ad una previsione di 19mila posti di lavoro in meno nel settore – per l’alta finanza internazionale nulla sembra cambiato.
Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS), un istituto internazionale con sede a Basilea, la quota di crediti ad alto rischio concessi dalle banche di tutto il mondo rappresenterebbe oggi ben il 45% del totale, con una crescita di trenta punti percentuale rispetto al minimo registrato durante la crisi e di ben dieci punti rispetto a prima dello scoppio della crisi stessa: una crisi che, nei soli Stati Uniti, ha cancellato otto milioni di posti di lavoro e miliardi di dollari di risparmi.

Mentre i cittadini dell’intero occidente sono alle prese con i duri sacrifici imposti dall'”austerità”, con la crescita della disoccupazione e con una crescente pressione fiscale, l’alta finanza internazionale ha continuato a produrre enormi dividendi, stabilendo un record dopo l’altro: basta citare il caso di Wall Street, che nel 2011 ha distribuito alle società finanziarie e del credito la somma più alta di tutti i tempi, 60 miliardi di dollari di utili. Secondo Snl Financial, una società di analisi americana, il reddito medio dei banchieri è aumentato del 22 per cento, ed anche in questo caso sono stati raggiunti record personali non da poco: John Stumpf, per esempio, amministratore delegato di Wells Fargo, è in cima alla classifica con 23 milioni di dollari di guadagno, un bel progresso rispetto ai 12 milioni di dollari che aveva incassato nel 2007, l’ultimo anno del boom.

Come nulla fosse accaduto, senza che nessun gruppo dirigente occidentale sembri preoccuparsene, sono tornati a crescere anche i complessi strumenti finanziari che sono stati il principale strumento della speculazione sui subprime (i mutui concessi a persone non in grado di ripagarli): solo nella prima metà del 2013, infatti, a livello mondiale sono stati venduti dalle grandi banche e società finanziarie internazionali 424 miliardi di dollari in asset backed security (Abs), uno degli strumenti il cui ruolo nella “democratizzazione del debito” è ben nota a chi ha analizzato i meccanismi che hanno innescato la crisi finanziaria.

Tutto ciò avviene nonostante in questi anni si siano moltiplicate le prove, anche in sede legale, della condotta spregiudicata, per non dire truffaldina, delle grandi società finanziarie: ci limitiamo a ricordare il caso più recente, i 920 milioni di multa che JPMorgan, una delle prime cinque aziende mondiali del settore finanziario, ha accettato di pagare per chiudere, con ammissione di colpa, la vicenda delle speculazioni sui derivati con le quali due trader della sua filiale di Londra avevano coperto le perdite della società sulle operazioni in derivati. Il fatto che una grande società come JPMorgan accetti senza colpo ferire una simile condanna, riconoscendo responsabilità ed errori, fa chiaramente comprendere che la questione non è, come ha affermato Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan, di voler essere considerata “la banca migliore” dai regolatori oltreché da clienti e azionisti: non ha importanza sborsare cifre così ingenti, in un momento in cui i profitti lievitano senza difficoltà, non ha importanza che qualche funzionario o qualche dirigente venga allontanto, quel che conta è evitare che venga messo in discussione il sistema che continua a garantire profitti tanto elevati alla speculazione finanziaria.
Le grandi multe salvano Wall Street e la City londinese dal rischio di una “rivoluzione” nel rapporto fra politica ed economica che costringerebbe questi operatori a cambiare metodi e strumenti di lavoro.

I miliardi di dollari con cui le banche sono state soccorse da tutti i governi occidentali, seguendo il principio del “troppo grandi per fallire”, hanno permesso all’alta finanza internazionale di procedere indisturbata nelle proprie strategie di creazione e distribuzione del debito, strangolando l’economia reale attraverso le politiche restrittive degli Stati e favorendo l’accumularsi della ricchezza di chi possiede capitali e liquidità.
Questo è stato possibile grazie all’intreccio sempre più inestricabile fra potere dei partiti e potere della finanza, bene descritto recentemente dall’economista americano James Kwak, che scrive: “La deregolamentazione della finanza ha conquistato consensi a Washington perché gli interessi delle grandi aziende dominavano il Partito repubblicano, mentre i democratici non volevano turbare Wall Street per non precludersi ricchi finanziamenti. I banchieri e gli immobiliaristi volevano vendere case a tutti i costi. I lobbisti avevano ormai agganci potenti nel governo. E tutti erano contenti della crescita”.

Sono queste le forze che continuano a dominare l’economia e la politica occidentale, nonostante abbiano dato tremenda prova di sé, travolgendo nella speculazione miliardi di ricchezza costruita onestamente con il lavoro e le capacità di impresa. Qualche settimana fa, per fare un esempio, Rick Rieder, un alto dirigente della maggiore società di gestione finanziaria al mondo, Blackrock, di cui ci siamo spesso occupati, dava questa lezione a La Repubblica: “Guardate cosa è successo qui in America: fino a quando non si è cominciato a rifinanziare direttamente le banche, con iniezioni di capitale dirette, aumenti di capitale sottoscritti dallo Stato, prestiti straordinari (che peraltro sono stati già restituiti con tutti gli interessi), fino ad allora non si riusciva ad impostare una ripresa strutturale. Per fortuna, mentre la Federal Reserve garantiva il quantitative easing [la “produzione” di dollari forniti al sistema bancario a condizione politiche] ed i bassi tassi di interesse, il Tesoro con un’insperata forma di coordinamento avviava tutte le misure che dicevo. Il risultato è stato il consolidamento del settore bancario che non ha fatto mancare le risorse al settore industriale. Finito il credit crunch, la stretta creditizia, è finita la crisi”. Ora che l’Italia ha “un governo ragionevole”, prosegue il dirigente, Blackrock è tornata ad investire in titoli di Stato italiani.

Questa dunque la ricetta che i grandi finanzieri Usa hanno imposto a livello mondiale, finanziare le banche con il denaro dei cittadini, affinché le stesse continuino a sviluppare le proprie speculazioni, giacché, come ben sappiamo, anche delle enormi somme che la Bce ha pompato nel sistema bancario europeo ben poco è arrivato alle piccole e medie imprese, alle famiglie, al terzo settore – vale a dire all’economia reale che permetterebbe di vivere onestamente a milioni di cittadini europei.

G. Colonna
Fonte: www.clarissa.it
Link: http://www.clarissa.it/editoriale_n1910/Alta-finanza-in-attesa-della-terza-crisi
23.09.2013

ALTA FINANZA: IN ATTESA DELLA TERZA CRISIultima modifica: 2013-09-27T09:03:22+02:00da davi-luciano
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