ITALIA: IL LAVORO CHE NON C’E’. DISOCCUPAZIONE AI MASSIMI STORICI

estrapolo questo gravissimo dato:

Si può dire, a grandi linee, che su circa 40 milioni di italiani in età lavorativa, ne lavorano solo 22,6 milioni

A qualcuno dei tanto diritto umanisti INTERESSA SAPER COME CAMPA IL 50% DELLA FORZA LAVORO DISOCCUPATA ITALIANA o è disgustoso interessarsi dei connazionali nonché razzista?
A Napolitato e Miss Boldrini interessa?
Se non è chiaro lo ripeto, lo dicono i numeri LA DISOCCUPAZIONE E’ AL 50% Ma si dai chiamiamo “risorse” dall’Africa che qui non sappiamo come rigirarsi dal tanto lavoro che c’è no?

ITALIA: IL LAVORO CHE NON C’E’. DISOCCUPAZIONE AI MASSIMI STORICI

3 giugno 2013

 La crisi economica si ripercuote con violenza sul mercato del lavoro, che fa registrare numeri mai così gravi. La disoccupazione batte nuovi record ed è ormai endemica nel Mezzogiorno e fra i giovani, sono  realmente occupati a tempo pieno solo la metà degli italiani in età lavorativa. Urgono misure di riforma di tutto ciò che possa favorire la creazione non artificiosa di lavoro: il caso dei centri per l’impiego.

 I dati Istat sulla disoccupazione riportano in primo piano quello che è il sintomo più forte della crisi strutturale che l’economia italiana sta attraversando da quasi un quinquennio: il lavoro scarseggia e quel poco che c’è non genera occupazione a causa di un mercato a dir poco inefficace.

 RECORD STORICO

 Nel primo trimestre del 2013 l’Italia ha toccato il suo nuovo record di disoccupazione: l’Istat definisce il dato “massimo storico” da 36 anni. In realtà il dato potrebbe essere il peggiore di sempre (da quando esiste la Repubblica), visto che i livelli attuali sono statisticamente comparabili solo con le serie storiche mensili rilevate dal gennaio 2004 e con quelle trimestrali avviate nel primo trimestre 1977.

 Vediamo i numeri. Il tasso di disoccupazione ufficiale è asceso al 12,8%, rispetto all’11% di 12 mesi prima: nel primo trimestre 2013 si è accentuata la diminuzione su base annua del numero di occupati (-1,8%, pari a -410mila unità). Al calo degli occupati più giovani e dei 35-49enni (rispettivamente -421.000 e -220mila unità) si è contrapposta la crescita degli occupati over 50 (+231mila). Uomini (-2,5%, pari a -329mila unità) e donne (-0,9%, -81mila unità) sono associati nella discesa: la componente femminile di senza lavoro è in aumento per l’ottavo trimestre consecutivo, quella maschile per il sesto. Il Pil, del resto, si contrae da sette trimestri consecutivi.

 Nell’industria è proseguita la flessione dell’occupazione, con un calo tendenziale del -2,5% (-116mila unità) concentrato nelle imprese di media e grande dimensione; si è accentuata la contrazione di occupati nelle costruzioni (-11,4%, pari a -202mila unità). Dopo la tenuta dei trimestri precedenti, l’occupazione si è ridotta anche nel terziario (-0,4%, -60mila unità).

 L’Italia risulta spaccata in due tronconi. Nel Nord i disoccupati toccano il 9,2% (dal 7,6% di un anno fa) e nel Centro salgono all’11,3% (dal 9,6): percentuali tutto sommato in linea con la media dell’Eurozona, visto che secondo l’Eurostat in aprile la disoccupazione si è attestata al 12,2% (dall’11,2% dell’aprile 2012). Peraltro anche in Eurolandia la disoccupazione è ai massimi storici (le rilevazioni partono dal 1995). La vera polveriera occupazionale italiana è il Sud, dove si raggiunge il 20,1% (dal 17,7% di 12 mesi fa) di disoccupati. Non è record storico (nel 1999 la percentuale aveva toccato anche il 20,5%), ma rimane il fatto che un lavoratore meridionale su cinque non riesce a trovare lavoro!

 QUANTI NON LAVORANO E QUANTI LAVORANO

 I numeri assoluti sono ancor più impressionanti: al termine del primo trimestre del 2013 ben 3 milioni 83mila italiani erano in cerca di lavoro, con un aumento di 373mila in dodici mesi. Cifre ingiustificabili in un paese che si ritiene una delle economie più avanzate al mondo.

 I ragazzi che non studiano e non cercano lavoro (Neet, ovvero “not in education, employment or training”: quindi non rientranti ufficialmente fra i disoccupati) sono ormai più di 2,2 milioni secondo l’Istat, il più elevato spreco di capitale umano tra i paesi europei. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni è aumentato dello 0,2% sul mese precedente (+25mila unità): il tasso di inattività è al 36,2%.

 Gli occupati, in aprile, erano 22 milioni 596mila (-0,1% su marzo): il tasso di occupazione è ormai crollato al solo 56,0% (solo 56 italiani su 100 tra i 18 e i 64 anni lavorano). Quel che dovrebbe far riflettere è che anche chi ufficialmente risulta occupato sempre più frequentemente di fatto non lavora o lavora parzialmente: impressionano, infatti, i numeri sulla cassa integrazioneNel 2012 sono state autorizzate 1,09 miliardi di ore di cassa (+12,1% sul 2011), equivalenti secondo la Cgil a 522mila posti di lavoro (con una perdita annua di salario media di 8mila euro/lavoratore e corrispondenti ad una perdita di reddito netto per 4,2 miliardi di euro); sono stati coinvolti oltre 2 milioni di lavoratori. Il costo della cassa integrazione per il 2012, il secondo peggior anno dal 1980 (dopo il 2010), è stato di poco superiore ai 5,6 miliardi per lo Stato. Il 2013 si avvia a battere un record anche in questo campo se il trend registrato nei primi quattro mesi dell’anno verrà mantenuto. In aumento anche i part timegli occupati a tempo pieno sono scesi di 645mila unità rispetto al primo trimestre 2012 (-3,4%), per circa la metà dipendenti a tempo indeterminato (-2,8%, -347mila unità); di contro gli occupati a tempo parziale sono cresciuti in misura sostenuta (6,2%, +235mila unità), ma è salito esclusivamente il part time involontario.

 Si può dire, a grandi linee, che su circa 40 milioni di italiani in età lavorativa, ne lavorano solo 22,6 milioni; ma fra questi oltre 500mila posti di lavoro equivalenti sono mantenuti artificialmente in vita (statisticamente) dalle varie forme di cassa integrazione e circa 3,8 milioni di posizioni sono a tempo parziale.In sintesi in Italia lavorano realmente e a tempo pieno solo la metà di coloro che potrebbero! Questi numeri, tra l’altro, dovrebbero generare (nella classe dirigente nazionale) anche serissimi dubbi sulla sostenibilità prospettica del sistema previdenziale, al di là delle proiezioni contabili che danno la previdenza pubblica italiana in equilibrio tendenziale di lungo termine (equilibrio ottenuto grazie all’espediente di riconoscere pensioni neanche di sussistenza ai giovani d’oggi…).

LA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE

Il dato più inaccettabile rispetto ad un contesto generale di per sé molto critico è quello relativo alla disoccupazione giovanile: il 40,5% dei giovani tra i 15 e 24 anni in cerca di occupazione è senza lavoro (il 6% in più rispetto ad un anno prima). Sono ben 656 mila i giovani in cerca di occupazione:  il peggior dato dell’Eurozona dopo Grecia, Spagna e Portogallo (tutti paesi più piccoli, senza un vero sistema industriale e sottoposti all’austerity dei piani di salvataggio Ue/Fmi). Nel Mezzogiorno essere donne e giovani comporta che nel 52,8% dei casi la ricerca di lavoro è infruttuosa.

 L’Italia ha impostato le politiche del lavoro da ben oltre un decennio sulla flessibilizzazione. Oggi scende anche il numero complessivo dei precari, che sono sostanzialmente i lavoratori più giovani: nel primo trimestre 2013 si sono registrati oltre 100mila contratti in meno. La riduzione ha riguardato in particolare i contratti a termine non  rinnovati (69mila lavoratori in meno, -3,1%): in particolare la flessione  interessa, secondo l’Istat, “esclusivamente i giovani fino a 34 anni” e interrompe la precedente dinamica comunque positiva nei contratti a tempo determinato. Scendono del -10,4% i contratti di collaborazione (45mila in meno in un anno), l’altro contratto escogitato dal legislatore per dare flessibilità al mercato del lavoro italiano.

 IL SISTEMA DEL LAVORO E’ DA RIFORMARE

 La dinamica della disoccupazione sta suscitando un diffuso senso critico verso la riforma del lavoro varata nell’estate 2012: la riforma Fornero non è stata in grado di contrastare minimamente l’impatto della crisi economica, prevedendo meccanismi di accesso al lavoro (in particolare per i giovani) rivelatisi alla prova dei fatti poco appetibili per le imprese. La aziende quindi licenziano (o non rinnovano i contratti a termine) quando c’è da ridurre il costo del lavoro, ma non assumono in attesa di verificare come evolverà la crisi economica. Anche se  la congiuntura attuale non è il miglior banco di prova e sebbene siano passati pochi mesi dall’adozione della riforma, appare evidente che la recente riforma non sta funzionando. Tale argomento non può costituire, tuttavia, un paravento a ciò che sta accadendo in Italiala disoccupazione giovanile non l’ha creata il governo Monti né l’ha accentuata la riforma Fornero (peraltro ampiamente modificata dal Parlamento), ma tanti anni di interventi sul mercato del lavoro tesi a precarizzare i nuovi lavoratori e decenni di assenza di una politica di formazione professionale orientata al lavoro.

 Secondo noi di Economy2050 una seria riforma del lavoro (che in Italia non è stata fatta) deve toccare quantomeno i punti della formazione scolastica professionale e del raccordo formazione/mondo del lavoro, degli ammortizzatori sociali (sostegno al reddito e formazione/riqualificazione continua) e del sistema di collocamento (in particolare pubblico). Formazione, avviamento al lavoro e ammortizzatori socialisettori vitali per il buon funzionamento del mercato del lavoro, ma in Italia controllati e sviliti dal peso dell’inefficienza pubblica e di fatto oggi fattori di distruzione di opportunità di lavoro.

 Peraltro, per creare lavoro è imprescindibile che il sistema produttivo cresca, ovvero sia competitivo ed efficiente: la riforma del lavoro dovrebbe accompagnarsi urgentemente ad una ridefinizione complessiva dei rapporti fra impresa e lavoratore, basata sul concetto di produttività, ma anche sul principio della condivisione di responsabilità e benefici fra imprenditore e lavoratore nella gestione aziendale. Se il sistema produttivo nazionale non riprende forza (e rapidamente), a chi si applicheranno le nuove regole sul mercato del lavoro?

 Un ulteriore aspetto non può essere sottovalutato: finora in Italia si è provato a riformare tutto sul lavoro (peraltro non riuscendoci), ma partendo dal postulato le casse pubbliche non hanno le risorse per favorire la riduzione del cuneo fiscale sul costo del lavoro. Tale impostazione poteva avere una sua logica durante il periodo del governo tecnico, esecutivo creato dal nulla dai partiti per mettere in sicurezza i conti pubblici con manovre talmente indigeste (ma necessarie) che nessuna parte politica ne ha voluto assumere la responsabilità diretta (pur votando le nuove tasse in Parlamento). Ma oggi il governo politico in carica ha il dovere categorico di ridurre da subito le tasse sul lavoro in misura significativa, magari stornando risorse da altri capitoli di spesa pubblica meno essenziali nell’immediato o aumentando l’imposizione fiscale su determinate fasce della popolazione (tenendo ben presente che il carico fiscale per almeno i tre quarti degli italiani è oggi difficilmente espandibile). Unici vincoli al reperimento della copertura per la riduzione della tassazione sul lavoro: il tetto al deficit pubblico e l’impossibilità di aumentare la pressione fiscale complessiva.

 GLI INDIRIZZI DEL NUOVO GOVERNO

 Va dato atto al governo Letta che sin dall’insediamento ha posto l’argomento del lavoro in cima alla sua azione politica, in particolare chiedendo ai partner europei che il prossimo Consiglio Ue di fine giugno sia incentrato sul tema della disoccupazione (in particolare giovanile) dilagante in tutto il continente. E, probabilmente, nel prossimo vertice europeo verranno definite nuove misure di contrasto e destinate risorse comunitarie per ridurre la disoccupazione.

 Fatto sta che l’Italia deve risolvere i problemi interni che la affliggono da decenni con le proprie forze.

 Un esempio: i centri per l’impiego (Cpi) pubblici. Nella recente bozza di bilancio l’Ue ha destinato 6 miliardi di euro (spalmati su 7 anni) alle iniziative per rilanciare l’occupazione: il piano Youth Guarantee ha l’obiettivo di aumentare l’occupabilità dei giovani fino a 26 anni puntando su tutti gli strumenti possibili, dal recupero scolastico alla formazione, alla mobilità, all’apprendistatoCirca 400 milioni è la quota di competenza italiana: poca roba per un serio piano di rilancio dell’occupazione, ma l’Italia rischia di non riuscire ad utilizzare proficuamente neanche tali risorse. Infatti i contributi dovrebbero transitare attraverso i 529 centri per l’impiego provinciali, che (mediamente) non funzionano pur impiegando circa 6.600 operatori (erano 10mila cinque anni fa): oggi solo il 19% dei disoccupati si rivolge a un Cpi e solo il 2,7% dei lavoratori dipendenti ha trovato il lavoro attuale tramite un Cpi.

 Come faranno i Cpi a garantire ai giovani fino a 26 anni (per l’Italia probabilmente l’età sarà estesa fino a 29-30 anni) un’offerta “qualitativamente valida di lavoro, di proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio” entro 4 mesi dall’uscita dal sistema di istruzione o dalla perdita di un impiego (visto che non l’hanno mai fatto)?Per l’Italia, in sostanza, allo stato attuale il rispetto delle condizioni operative contenute nel piano Youth Guarantee sembra una chimera. A meno che non si proceda ad un’ennesima riforma (cosa che il governo ha annunciato di voler fare a brevissimo) dei centri per l’impiego: ma per rendere efficienti gli uffici (peraltro  oggi non dipendenti direttamente dallo Stato) o per aggirare ai limiti di assunzione di personale pubblico imposti dalla spending review?

 

 

ITALIA: IL LAVORO CHE NON C’E’. DISOCCUPAZIONE AI MASSIMI STORICIultima modifica: 2013-08-19T08:44:00+02:00da davi-luciano
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