Morire di lavoro

blog | 2 aprile, 2013 – 20:44 | Da Monia Benini 

Fra le tante email e i messaggi che ricevo, ce ne sono che proprio non mi sento di lasciare cadere nel silenzio. Quello che segue è uno dei casi che sentivo di dover assolutamente condividere. E’ scritto da Agostino Campagna e merita l’attenzione di tutti noi, perchè non si può morire di lavoro, a causa del lavoro.

Nel caso specifico si parla di Goodyear, ma quanti casi come questo ci sono in Italia? Quante ILVA,quanti petrolchimici, quante Thyssen, quante aziende produttrici di eternit, quante fabbriche della morte hanno ridotto in polvere le esistenze di chi spendeva la propria vita per il lavoro? Non si può. Non si deve essere costretti a scegliere fra morire di fame o morire per il lavoro.

QUESTA LETTERA è DEDICATA A TUTTI I MIEI AMICI MORTI DI TUMORE DENTRO LA GOOD YEAR IN PARTICOLARE AL MIO AMICO ERMANNO.
Ciao sono Agostino ci siamo conosciuti tantissimo tempo fa, io avevo 13 anni e facevo il barista in una stazione di servizio, tu invece già portavi il camion insieme ad un mio cugino e tra un pieno e l’altro venivate a prendere un caffè.Ciò che ricordo era la tua faccia un pò troppo scura e le tue risate che non finivano mai. Passano gli anni e tornato dal servizio militare nel 1970 nel piano boom economico della nostra zona faccio la domanda e vengo assunto alla good year ed è la che ci rincontriamo di nuovo ,tu già operaio nel reparto bambury io apprendista di un reparto qualunque, tu già militante socialista ed impegnato a far nascere il sindacato dentro la nostra fabbrica. Ci passeremo 30 anni insieme ” quanti scioperi e quante assemblee abbiamo fatto insieme” io un pò rompi palle perchè militavo il lotta continua,gruppettari che volevano tutto e subito,poi sono cominciate le delusioni sindacali i padroni sono diventati datori di lavoro. l’accettamento ricattatorio della cassa integrazione,aumento dei carichi di lavoro ecc..piano piano i sogni di essere persone stavano finendo ogni giorno che passava diventavamo oggetti senza più nessun diritto nessun sogno nessuna pretesa di esseri. Fu nel gennaio del 1993 che cominciò a farsi strada nei miei pensieri “IL TUMORE” c’erano state alcune morti sospette e questo mi convinse a fare un esposto alla procura di latina chiedendo se le mosrti erano collegabili con il lavoro che svolgevamo,per dare forza a ciò decisi di iniziare un sciopero della fame che durò 11 giorni,la notte dell’undicesimo giorno collassai 3 volte,fui portato in ospedale e ricoverato,non fu certo la morte che mi sfiorò,che mi fece male,fu soprattutto l’indifferenza degli altri che non capirono ciò che stava accadendo dentro la nostra fabbrica. Ci volle la chiusura della Good year per risvegliare qualche coscienza,incominciai quasi per scherzo a contare chi ci aveva lasciato per il tumore,erano tantissimi,incominciai a girare casa per casa compresa la tua per richiedere la famosa cartella clinica,credimi fu doloroso ascoltare le vedove che avevano perso il marito o le madri il proprio figlio,fui coinvolto dai loro dolori e soprattutto dalla loro domanda “PERCHE’?”.
Quando tu ti ammalasti ti si otturarono le vene dovuto forse alle sostanze che per 30 anni avevi respirato nel reparto mescole,il male ti prendeva un pò alla volta piano piano le tue gambe diventavano sempre più corte fino all’amputazione totale,tu ora stavi su una sedia a rotelle tu cosi combattivo ora eri costretto a chiedere di essere vestito o di essere portato in bagno.
tu colpivi tutti noi con la tua saggezza ironica, riuscivia scherzare anche sul tuo male,ti ricordi quando siamo stati in procura per presentare la denuncia ti venni a prendere a casa per farti salire e scendere dalle macchina ti presi in braccio ridendo molto perchè i tuoi pantaloncini scesero giù,fu soltanto una risata di dolore.Ora sei dentro quella bara troppo lunga per te e mentre ti passo vicino per prendere l’ostia l’accarezzo e torno dietro la colonna perchè volevo guardarti senza essere disturbato. Manchi a tutti Ermanno.

 

Come NON pagare le tasse

di Alberto Medici

12 aprile 2013 

Agli appassionati di finanza, economia, flussi monetari, multinazionali, ecc. consiglio vivamente la visione del documentario che allego sotto: “The tax-free tour” (il giro senza tasse). Con una serie di interviste, condotte in giro per il mondo, viene fatto vedere come le maggiori corporations del mondo (91 fra le prime 100 hanno società nei paradisi fiscali!) riescano ad eludere le tassazioni dei paesi in cui operano e a spostare i profitti dove non vengono tassati per nulla o con percentuali irrisorie.

In Olanda, ad esempio, i profitti da proprietà intellettuale non sono tassati che ad un misero 1-2% (la cifra esatta non è nota, si fanno trattative riservate con l’amministrazione fiscale), per cui esistono interi palazzi di “email-company“, compagnie fantasma che hanno una email, un indirizzo fisico, magari anche un numero di telefono (a cui risponderà una segreteria o magari anche una persona in carne ed ossa, con l’inoltro delle chiamate si può far rispondere in qualunque parte del mondo una chiamata “apparentemente terminata” in Olanda), ma di fatto sono assolutamente scatole vuote. Scatole vuote che però fanno enormi profitti, drenandoli da quelli delle compagnie a cui appartengono, dove sarebbero tassate molto di più. Ma la cosa più divertente è che si può far passare per proprietà intellettuale qualsiasi cosa. Uno pensa: la tipica proprietà intellettuale è il software; ma se io faccio scarpe oppure ho una catena di ristoranti, che c’azzecca (per dirla alla Di Pietro) con la proprietà intellettuale?

Errore! Si vede che non lavorate in una delle quattro grandi società di consulenza, le big four (McKinsey, Ernst&Young, Deloitte e KPMG) dove l’unico limite è la fantasia. Sì perchè ad esempio la Starbucks, la famosa catena di coffee-bar, come potrebbe dirottare i suoi utili in Olanda, se non con la proprietà intellettuale? Il caffè/cappuccino sono

1.    prodotti nel paese dove si trova il bar;

2.    pagati nel paese dove si trova il bar;

3.    consumati nel paese dove si trova il bar.

Se esiste un principio di località della fiscalità, questo dovrebbe essere il caso meno “eludibile“. E invece… invece la Starbucks si è inventata un prodotto: un “Frappuccino“, misto fra frappè e cappuccino, e i diritti derivanti da questa “invenzione” li ha passati ad una società (ovviamente controllata al 100%) che, guarda caso, sta in Olanda. E la catena Starbucks in UK sono 15 anni di fila che in quel paese è in perdita.

Divertentissima la scenetta della commissione parlamentare inglese che, chiamati all’esame i rappresentanti delle multinazionali, li maltratta (e loro, buoni, si lasciano maltrattare, ovvio) per i loro comportamenti antisociali (=che eludono le tasse). Con Google, Amazon e Starbucks in prima fila, la “maestrina” che li riprende, e irride i loro maldestri tentativi di giustificare i loro comportamenti. Addirittura alla fine, di fronte alla specifica domanda: “Siete d’accordo che rientra fra i doveri verso la comunità di una società quello di pagare le tasse?” e tutti rispondono: “Sì, certo“, e continuando: “… e che queste tasse vanno pagate nei paesi dove si opera?“, mentre i rappresentanti di Amazon e Starbucks rispondono a testa bassa “Sì, certo“, quello di Google ci prova: “I profitti vanno tassati nei paesi dove l’attività che ha generato quei profitti si è tenuta…” e la commissaria, senza lasciarlo finire, lo interrompe ridendo: “Sì, alle Bermuda!!!!” (la sede di Google) con la risata generale della sala e l’omino Google che si zittisce e se potesse si sotterrerebbe.

Insomma, un documentario illuminante, per noi che siamo costretti a pagare tutto, anche di più del necessario, se il fatturato e il porfitto della nostra attività, in questi momenti di crisi, non rientra nei parametri degli studi di settore (caso unico al mondo: per dimostrare che NON evadi, che sei innocente, l’onere della prova sta a te: ma che discorsi sono? Come faccio a provare che NON ho evaso, se il mercato è in calo e il giro d’affari è diminuito?)

PS: per i più bravi, c’è anche un gioco online per vedere se avete la stoffa del consulente: scegliete una multinazionale, e spostate, in base ai diversi tipi di utili e di tassazioni, le operations e le attività in giro per il mondo. Impegnatevi però: in tempo di crisi lavorativa, se siete bravi non è detto che non vi assumano in una società di consulenza d’alto bordo. Il gioco si trova qui.

Stampa Libera

 

Cambiare i paradigmi dell’educazione e ripensare il sistema scolastico con Ken Robinson

di Luigi Filippo Palazzini Finetti

 Oggi giorno si sente continuamente riecheggiare, nei nostri media, la litania straziante degli infiniti travagli e tentativi di autodistruzione messi in scena dalla gestione scriteriata della pubblica istruzione. Il mantra recita, non certo senza un fondamento di verità, che il problema cogente è la mancanza di fondi pubblici da destinare alle istituzioni scolastiche in generale e alla scuola pubblica in particolare. Sicuramente la cattiva direzione delle risorse e l’effettiva mancanza delle stesse hanno un ruolo determinante nel processo dissolutivo in atto nel settore educativo, ma non ci convince affatto la tesi che solo di questo si tratti. Quali sono realmente oggi le problematiche della pedagogia e del suo metodo? Urge una riconsiderazione generale ed una critica sistematica dell’intero processo educativo e dei modelli cui esso si ispira. A questo proposito abbiamo pensato di riproporre, l’ancor troppo in-audita lectio magistralis del professor Ken Robinson, riportandone i tratti salienti della ben nota conferenza del 2010 “changing education paradigms”, nella quale Sir Ken Robinson ci parla del pensiero divergente e della necessità di ripensare il sistema scolastico. Ken Robinson esordisce con l’enunciazione del problema fondamentale, mettendo a nudo in poche battute l’inadeguatezza del sistema educativo contemporaneo:

 

«Molti paesi nel mondo stanno riformando il sistema educativo, per due motivi. Il primo è di carattere economico: come facciamo a educare i nostri studenti e a trovare il loro posto nelle economie del ventunesimo secolo? Ma come si fa a fare questo, se non sappiamo neanche come sarà l’economia, tra due settimane? Il secondo motivo è di carattere culturale. Come facciamo a educare i nostri studenti in modo che abbiano un senso d’identità, in modo da mantenere viva la comunità, e trasmettere un patrimonio culturale, mentre siamo parte di un processo di globalizzazione? Il problema è che si sta cercando di risolvere questi due quesiti, facendo quello che si faceva in passato: alienando milioni di ragazzi che non vedono motivi validi nell’andare a scuola. Quando noi andavamo a scuola, crescevamo con l’idea che se uno lavorava sodo e bene, poi poteva andare all’università, e trovare un buon lavoro; i ragazzi di oggi non credono più a questo modello, e non si sbagliano del tutto. È vero che è meglio avere una laurea, ma questo non garantisce il fatto di trovare un lavoro, specialmente se il percorso per raggiungerlo ti porta a marginalizzare le cose che tu pensi siano importanti. Si parla così di “alzare gli standard”, tutti parlano di “alzare gli standard”, del resto perché bisognerebbe abbassarli?»

 Dopo aver individuato il problema, che pur di natura strettamente pedagogica, viene immediatamente ricollocato entro un più ampio quadro sociologico, Ken Robinson continua con l’esplicitazione dell’ontogenesi storica del problema, individuandone le radici nella sostanziale trasformazione socio-culturale degli ultimi due secoli e mezzo e la successiva perdita di coerenza relazionale tra la formulazione del sistema pedagogico di stampo illuministico-protoindustriale —a suo avviso ancora in uso—  e la società contemporanea della globalizzazione.

 

«Il punto è che il nostro sistema educativo è stato progettato e pensato per un’epoca diversa, è stato sviluppato nella cultura intellettuale dell’illuminismo, e nelle circostanze economiche della prima rivoluzione industriale. Prima del XVIII° secolo non c’erano sistemi di educazione pubblica, al massimo si poteva essere istruiti dai Gesuiti se uno, fortunatamente, aveva i soldi. L’idea di un’educazione pubblica, pagata attraverso le tasse, obbligatoria per tutti e gratuita per chi la riceve, è stata un’idea rivoluzionaria, e molti erano contrari ad essa, dicendo che non era possibile per i figli delle classi lavoratrici beneficiarne, ritenendoli geneticamente incapaci di leggere e scrivere; quindi, perché spendere tempo, su quest’utopia? Si tratta di considerazioni che alla base hanno un’idea precisa della struttura sociale piramidale delle capacità. Il sistema d’istruzione sviluppatosi è stato guidato da un imperativo economico di quell’epoca, e da un modello cognitivo, quello dell’Illuminismo, secondo cui l’intelligenza è basata sul ragionamento deduttivo e sulla conoscenza dei classici, sviluppando così un’abilità ‘di tipo accademico’. E questo è nei ‘geni’ dell’istruzione pubblica, che divide le persone in due tipi di profili: l’accademico e il non accademico, l’intelligente e il non intelligente. La conseguenza è che molte persone brillanti pensano di non esserlo affatto, perché sono state giudicate attraverso questa specifica visione della mente e dell’intelligenza»

 

Il suo giudizio critico su questo tipo d’impostazione paradigmatica risulta, come si evince, tendenzialmente negativo se viene ad essere tradizionalmente reiterato qua talis, senza le necessarie revisioni, in quanto basato su un concetto esclusivista di intelligenza «accademica», legata al padroneggiamento dei classici, e  foriero di problemi psicologici e sociali di vario tipo.

 «A mio avviso questo modello ha causato kaos nella vita di mote persone, per alcuni ha funzionato bene, ma per molti altri no. Coloro che non ne hanno beneficiato hanno sofferto di una malattia che rappresenta la peste moderna: i disturbi dell’attenzione

 La pars construens della critica al paradigma educativo prende ora avvio dalla riabilitazione del momento creativo implicito nell’esperienza artistica, la quale è essenzialmente legata ad un godimento estetico profondo e vivificante, che sembra richiamare, mutatis mutandis, l’Eros platonico, passione fondamentale per l’adepto avviatosi sul cammino della conoscenza. L’esperienza estetica è antitetica alla passività anestetica, che nell’acuta analogia di Ken Robinson è assimilata al meccanicismo robotico del modello di produzione industriale, poco stimolante e funzionalmente tendente al conformismo e allo standard.

 

«Pensiamo un attimo all’arte, la vittima principale di questa mentalità: le arti si focalizzano su quella che viene definita un’esperienza estetica, ossia quell’esperienza in cui tutti i tuoi sensi stanno operando al massimo, in cui tu sei presente nel momento, in cui tu stai ragionando su questa eccitante esperienza che stai vivendo, quando sei totalmente vivo. Anestetico è invece quando spegni i tuoi sensi e perdi il contatto con ciò che sta succedendo: molti farmaci producono questo risultato. Ebbene, stiamo facendo vivere i nostri figli la loro istruzione da anestetizzati. Penso che dovremmo fare l’esatto opposto, non dovremmo metterli a dormire, bensì dovremmo svegliarli, ma il modello che abbiamo è plasmato sugli interessi dell’industrializzazione e sull’immagine di questa. Vi dò qualche esempio: la scuola è organizzata sul modello di una linea di fabbrica: ci sono campane che suonano, spazi divisi per sesso, i bagni, esperti specializzati in diverse materie e gli studenti sono divisi in gruppi basati sull’età. Perché lo facciamo? Perché crediamo che la cosa più importante che i ragazzi hanno in comune sia la loro età. Beh, io conosco molti ragazzi che sono più bravi dei loro compagni in certe materie, o in certi momenti della giornata, o vanno meglio in piccoli gruppi che in grandi gruppi, o semplicemente da soli. Se sei interessato ad un modello educativo non puoi partire dal modello di linea di produzione: è un modello che prevede una crescita standardizzata e conformizzata, come si vede dal crescere dell’utilizzo di test e curricula ‘standard’. Io propongo di andare esattamente nella direzione opposta: questo è quello che per me significa cambiare il paradigma.»

 

Risulta così completamente esplicitata la tesi dell’inadeguatezza del modello educativo corrente ispirato alla produzione industriale, ora è compito del professore continuare a tracciare la sua linea pedagogica alternativa argomentandola proprio a partire dal ribaltamento del modello criticato, e, a tale pro, egli ricorre alle acquisizioni della psicologia cognitivista sperimentale contemporanea:

 «C’è uno studio sul pensiero divergenteil pensiero divergente non è la stessa cosa della creatività. Io definisco la creatività come il processo che genera idee originali che hanno un valore, il pensiero divergente è comunque una capacità essenziale per la creatività: è l’abilità di vedere molteplici risposte ad una medesima domanda. Ci sono dei modi per misurare tutto questo. Ad esempio un test che chiede quanti modi ci sono per utilizzare un fermaglio per la carta. La gente ‘normale’ trova dieci o quindici modi diversi per usarlo. Coloro che utilizzano un pensiero divergente possono trovare addirittura 200 risposte (lo fanno ad esempio chiedendosi: “può essere che il fermaglio per la carta sia alto dieci m e fatto di schiuma di gomma?”). Insomma, non deve essere un fermaglio come lo intendiamo normalmente. Questo test è stato fatto a 1500 persone ed è riportato in un libro che s’intitola breakpoint and beyond ,nel sistema di valutazione di questo libro, se sei sopra un certo valore sei considerato un “genio del pensiero divergente”. La mia domanda è: quante delle persone testate hanno superato questo limite? Preciso che le persone sottoposte al test erano bambini della scuola materna. Ebbene, la percentuale era del 98%! Poiché era uno studio a lungo termine hanno ritestato gli stessi bambini 5 anni dopo, tra gli 8 e i 10 anni e poi di nuovo tra i 13 e i 15 anni. Beh, di solito cominci che non sei molto bravo e poi, crescendo, migliori; invece in questo caso è accaduto esattamente il contrario! Questo studio dimostra quindi due cose, la prima è che tutti abbiamo questa capacità innata e che nella maggior parte dei casi si deteriora. A questi bambini succedono molte cose in dieci anni, ma la cosa principale è: che vanno a scuola! E a scuola gli viene detto che c’è una risposta sola, che si trova alla fine del libro. E che non devono guardare! E tantomeno copiare, perché copiare significa imbrogliare. Invece, fuori dalla scuola, questa è chiamata collaborazione. Ciò accade, non perché gli insegnanti lo vogliono, ma perché è parte del ‘DNA del sistema scolastico’.»

 Il focus, come si è ormai capito, è tutto incentrato sulla riabilitazione sistematica e programmatica della creatività, intesa da Ken Robinson come momento educativo e formativo fondamentale dell’antropopoiesi, ossia del farsi dell’uomo tramite la tradizione delle proprie elaborazioni culturali. Quest’auspicata creatività è stimolata sicuramente dall’interazione dialogica implicita nella capacità cooperativa propria del lavoro di gruppo e dell’aggregazione spontanea basata sulla direttiva dell’interesse comune a specifici ambiti di studio e di ricerca, e, in linea generale, sulla progressiva interconnessione delle idee e delle persone. Si tratta quindi di avvalorare un tipo di pensiero, il pensiero divergente, che cresce con lo svilupparsi delle possibilità di connessioni e di combinazioni sempre maggiori, è un tipo di pensiero combinatorio.  Un’ulteriore campana, anche in ambito pedagogico che rintocca contro l’atomizzazione individualistica ed esclusivistica, e a favore della relazionalità comunitaria come fonte innanzitutto di conoscenza.

 Conclude dunque il professor Ken Robinson, con un’energica esortazione al cambiamento:

 «1- Dobbiamo iniziare a pensare diversamente a proposito delle capacità umane.

 2-     Dobbiamo uscire da questo tradizionale modello che divide accademico-non accademico, astratto, teoretico, vocazionale… E vederlo per quello che è, ovvero, una leggenda. Poi, dobbiamo riconoscere che il miglior apprendimento avviene in gruppi e che la collaborazione è un elemento fondamentale della crescita e se atomizziamo le persone, le separiamo, le giudichiamo singolarmente, creiamo una sorta di disgiunzione tra loro e il loro ambiente naturale di apprendimento.

 Il terzo punto, è un punto cruciale e riguarda la cultura delle nostre scuole, intesa come abitudini delle istituzioni e degli habitat che occupano:

 3-     Bisogna considerare il contesto sociale, politico, economico e culturale in cui esse operano, e poi valutarle.»

 Cerchiamo ora di riflettere per un istante su quanto ci vien suggerito dalla critica di Ken Robinson e dalla sua accalorata esortazione ad un rapido cambiamento di rotta.  Il sistema educativo va riadattato alla nuova situazione sociale che si è creata, infatti non può andar più bene un metodo di apprendimento soggettivo che non tenga conto del progressivo aumento della capacità d’interconnessione delle idee, tipico del nostro tempo tecnologicamente ad alto interscambio comunicativo. Il sentiero privilegiato per il raggiungimento di questo scopo è il lavoro di squadra, il teamwork , in cui le singole individualità conoscitive si riconoscono in un gruppo per il quale provano senso di appartenenza; l’identità personale ne esce rafforzata e non alienata, si imparano allo stesso tempo la materia e il metodo, i contenuti e il modo di appropriarsi di quei contenuti, si a pprende come apprendere e come insegnare, come aiutare e come farsi aiutare. In questa dinamica dialogica la conoscenza si genera nel campo trascendentale di un’esperienza estetica profonda, e progetta l’individuo nel tessuto allargato dei legami immediati con l’altro e col mondo, mettendolo continuamente a confronto e sottoponendolo immediatamente alla critica altrui. Attraverso questo processo l’ideazione viene stimolata nella forma di pensiero divergente, interconnettivo, capace di dare molteplici soluzioni al problema, in quanto capace di ribaltare il problema o porlo su nuove basi; è un sincero slancio filosofico che spinge a questo continuo ribaltamento: laddove non vi sia amore per il sapere, ma apatia o un esperienza «anestetica», la caduta verso il puro e dogmatico dottrinalismo è a un passo, accompagnata dalla boria dell’intellettuale erudito e infarcito di un pedante apprendimento mnemonico e nozionistico de i classici, ripresi troppo spesso in maniera acritica da questa o da quella tradizione.

 Il lavoro di gruppo, per Ken Robinson, deve, inoltre, essere orientato a partire da interessi realmente condivisi dai partecipanti e non imposti loro coattamente, poiché ancora una volta il principio ‘erotico’ dell’interesse è foriero di conoscenza reciproca e di collaborazione sentita. La compartecipazione sinergica a uno scopo comune stimola poi la solidarietà che, meglio dell’antagonismo, può portare ad una reale soluzione dei problemi, che sono tali in quanto condivisi o in quanto comprensibili dagli altri. A nostro avviso non si dà, infatti, un problema che sia propriamente tale se non è condiviso e comunicato tra diversi soggetti. Ad esempio quando diciamo: -“ ho un problema!”- esso comincia il suo cammino generativo nel momento in cui viene esternato, comunicato, tramandato e, di conseguenza, trova le sue possibilità di soluzione nelle menti pensanti dei diversi soggetti che recepiscono ed elaborano il suddetto problema (o l’immagine che di esso ha ciascuno dei fruitori). Questo rende, inoltre, i problemi uno dei fattori di scambio più comuni nell’elaborazione sociale dei significati culturali.

 Infine, come ci suggerisce Ken Robinson nel terzo punto conclusivo, la scuola, come ambiente educativo, non può essere scollegata dal contesto all’interno del quale è collocata. Questo perché l’educazione trascende le mura scolastiche, e l’istituzione di una scuola pubblica è solo, hic et nunc, il quadro privilegiato dell’educazione dei cittadini! Come ci insegnano i greci, la paideia è qualcosa di molto più esteso e la tradizione culturale passa anche attraverso canali di comunicazione sociale esterni alla dimensione pedagogica, ma sempre interni alla dimensione comunitaria. Questo significa che i nostri problemi extrascolastici (lavoro in nero, precariato, industria del divertimento e del consumo che va dalla Tv ai videogiochi alla corsa all’ultimo modello, all’ultimo aggiornamento, all’ultimo social network, agli sballi delle discoteche, ecc. ecc..)  si riversano su qu elli scolastici (incapacità discorsiva, disgrafia, problemi di concentrazione, problemi a relazionarsi, incostanza negli impegni ecc..). Uno dei pregi dell’approccio di Ken Robinson al problema, che non esito a definire a suo modo olistico, è proprio che ci fa rendere conto che tutti ne siamo in qualche modo colpiti. Il punto è, allora, lavorare a delle soluzioni per invertire la tendenza. E se ci lavoriamo tutt’insieme, saremo più in grado di sfaccettare ed interfacciare il problema e di trovarne delle soluzioni. Il lavoro di squadra va oggi, dunque, espropriato alla sfera privata e riportato nella dimensione pubblica, a partire dalle scuole.

 fonte: Corretta Informazione


http://www.oltrelacoltre.com/?p=16151

 

“Carne di cani e gatti nei cibi confezionati”. L’allarme della Coldiretti sul cibo olandese

sabato 13 aprile 2013

 Carne di cane e gatto nei cibi confezionati. L’allarme parte dalla Coldiretti e ne parla oggi Libero, nell’ambito della richiesta di controlli su 62mila tonnellate di carne importate dal’Olanda:

L’inchiesta è scattata nell’ambito dei controlli sul caso della carne equina spacciata come carne di manzo che ha coinvolto la Findus, l’Ikea, la Nestlè e che è diventata una piaga continentale. Sono sedici i Paesi coinvolti, quattro quelli che indagano: per ora sono stati arrestati solo i tre dirigenti della Farmbox Meats Ltd, aLlandre, nel Galles.Ma con quest’altro allarme partito dall’Olanda ora lo scandalo ha fatto un salto di qualità.

A rivelare che dietro quella dicitura burocratica – «carne non identificata», per l’appunto – potrebbero celarsi cani e gatti è stata la Coldiretti:

 

…che chiede immediati controlli sulle oltre 62mila tonnellate di carne che l’Olanda ha esportato nel 2012 in Italia. «La decisione dell’autorità arriva dopo l’allarme della Bbc sulla presenza di carne non identificata in cibi da asporto» sottolinea Coldiretti «e soprattutto dopo le voci, non ancora confermate, sull’uso di carne di cane e gatto morti proveniente dalla Spagna e rivenduta in Olanda e forse usata, oltre che per la preparazione di prodotti per l’alimentazione animale, anche per la preparazione di piatti a base di carne macinata come polpette. È uno scandalo senza precedenti, di fronte al quale l’Europa mostra la sua inadeguatezza, e che ha evidenziato la presenza di un giro vorticoso di partite di carne che si spostano da un capo all’altro dell’Europa attraverso intermediazioni poco trasparenti».

 

Fonte: giornalettismo.com 

http://www.nocensura.com/2013/04/carne-di-cani-e-gatti-nei-cibi.html

 

Draghi a Cipro: “Piu’ rispetto per Banca Centrale”. Vietato indagare sui banchieri

ma pensavate che il popolo fosse sovrano? No, lo ribadisce DRAGHI. LE BANCHE SONO SOVRANE.

Volete che la banca centrale sia sotto controllo del parlamento come intende fare Orban? Pericolo deriva autoritaria….dicono i banchieri e loro sostenitori

 Draghi a Cipro: “Piu’ rispetto per Banca Centrale”. Vietato indagare sui banchieri

 Il presidente della Bce, Mario Draghi, ha scritto al presidente di Cipro, Nicos Anastasiades chiedendogli di lasciar lavorare in pace il Governatore della banca centrale, Panicos Demetriades. Lo rivelano fonti ben informate, mentre la Bce preferisce non commentare.

 “C’e’ una lettera – spiegano le fonti – che chiede meno pressioni e piu’ rispetto per l’indipendenza della banca centrale di Cipro”.

Demetriades e’ finito nel bel mezzo della tempesta dopo il collasso del sistema bancario cipriota e la richiesta di un salvataggio internazionale. Una commissione parlamentare a Cipro sta indagando sulle responsabilita’ della crisi finanziaria cipriota e l’azione di Demetriades e’ ne l mirino degli inquirenti. Anastasiades oggi ha detto che scrivera’ a Draghi per spiegargli che l’inchiesta non vuol dire che il governo stia cercando di silurare Demetriades.

 

I Saggi hanno partorito. Ora tocca ai partiti di regime

di: R.

info@rinascita.eu

In quel teatro dell’assurdo che si chiama orma “Italia”, tra un conflitto tra Renzi e i bersaniani, tra un braccio di ferro tra Maroni e i bossiani e tra le grida del M5Stelle, i Saggi hanno partorito il loro documento di “indirizzo”.

Con l’immediato elogio del Gran Commis Quirinalizio per il loro “spirito collaborativo” che i partiti dovrebbero mutuare.

A cinquanta giorni dalle elezioni, ergo, è tutto in alto mare. La melina impera e nulla sarà fatto prima di vedere l’intronizzazione del nuovo capo dello Stato.

In attesa del successore di Napolitano, si badi bene, tutto viene tuttora amministrato dai “Moralizzatori” di Monti, ancora alla guida di Palazzo Chigi. “Moralizzatori” che, se volessero, potrebbero ben mettere in pratica due o tre misure urgenti, se al parlamento fosse stato dato il normale via ad operare (cosa che si è debitamente evitata per coprire le manovre dei partiti di regime interessati sia a trovare un “solido” equilibrio tra loro e sia ad impedire che il Movimento di Grillo possa loro arrecare altri danni).

Mettendo il M5 Stelle all’angolino, nei fatti, sia Bersani, che Berlusconi, che Monti, sperano di riuscire ad erodere, giorno dopo giorno, il consenso da questo ottenuto per riportare il fenomeno di protesta ad uno stato di “governabilità”. E cioè di smussarlo, rettificarlo, eroderlo, appannarlo.

In fondo anche il compitino dei “Saggi” è stato questo. Produrre, cioè, un vademecum di “misure urgenti” per togliere frecce dall’arco dei 5 Stelle e riporle nelle faretre della triplice Pd-Pdl-Scelta Civica.

Compitino svolto con alacre attenzione.

Un dossier che va da misure urgenti per gli esodati, a leggi per la crescita, riduzione delle tasse, cigs in deroga, referendum (però confermativi), revisione del patto di stabilità (interno), legge elettorale, (con le varie tesi: alla tedesca, alla spagnola, alla francese), riforma del Parlamento, mantenimento del finanziamento di partiti e, per la giustizia, pene alternative, conflitto di interessi, durata dei processi e limite alle intercettazioni.

Poi la ciliegina sulla torta, o meglio, la boutade (suggerita da Napolitano): “forme di prestito oneroso ai privati” delle opere d’arte museali. Per far cassa.

Certo per un lavoro copia-incolla come questo (dai mille e più programmi di partito in circolazione) occorreva proprio fermare tutte le istituzioni.

In realtà anche il consulto di questi “Saggi” era parte della strategia della melina presidenziale.

Perdendo un po’ di tempo il Quirinale ha permesso ai soliti noti di pilotare l’Italia e, soprattutto, di trovare l’accordo sul suo successore, destinato a vigilare sulla barca nazionale perché non dirotti da Bruxelles e dal porto bancario in cui scaricare gli ultimi denari frutto d’usura rapinati ai cittadini.

Un altro mesetto al… Vespro.

 

12 Aprile 2013

http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=20328&utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+Rinascita-Tutti+%28Rinascita+-+Tutti%29

 

Le ragioni della crisi nella penisola coreana

aprile 13, 2013

Aleksandr Vorontsov, Strategic Culture Foundation, 12.04.2013

Cresce la tensione nella penisola coreana. Pyongyang ha deciso di chiudere il complesso industriale di Kaesong, un’area industriale mista con la Corea del Sud, e ha suggerito che le ambasciate straniere siano evacuate dalla Repubblica popolare democratica di Corea per motivi di sicurezza.  Più significativa, in questa serie di passi, è stata la decisione del Plenum del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori della Corea, svoltosi nel marzo 2013, riguardo la conferma giuridica dello status di potenza nucleare della Corea democratica e la decisione della Suprema Assemblea Popolare della Corea democratica “di rafforzare ulteriormente lo status di Paese in possesso di armi nucleari a fini di auto-difesa”. La maggior parte dei media, mentre dipinge un quadro vivido della militanza della Corea democratica, non cerca di capire le ragioni per cui il conflitto sul suolo coreano, oggi, abbia un’escalation così drammatica. Quando ci provano, di solito accusano Pyongyang di essere la causa di tutti i mali, sottolineando che dopo il terzo test nucleare della Corea democratica, si è attivato l’“incubo”. Di conseguenza, sorge la pressante necessità di esaminare le reali cause alla base di ciò che viene comunemente indicato come il “problema coreano”.

In breve, la causa iniziale è il nodo irrisolto della Guerra di Corea (1950-1953). Quest’anno è il 60.mo anniversario della fine della guerra e un accordo di pace tra i suoi protagonisti non è ancora stato firmato, vi è solo un accordo di armistizio (possibilmente solo sulla carta in questi giorni), quindi solo una temporanea cessazione delle ostilità, in altre parole. Ancora più importante, non vi sono relazioni diplomatiche tra le principali parti in conflitto, gli Stati Uniti e la Corea democratica.

La natura anomala di una situazione come questa appare ovvia. Pyongyang ha più volte suggerito che questo sorprendente anacronismo della guerra fredda venisse rimosso, ma invano: Washington si rifiuta ostinatamente sia di normalizzare le relazioni intergovernative sia di sostituire l’accordo di armistizio con un documento fondamentale che stabilisca una pace duratura nella penisola. In effetti, gli Stati Uniti dimostrano di avere “intenzioni ostili”, come vengono definite a Pyongyang; non a parole, ma con i fatti, una convivenza pacifica con la Repubblica Popolare Democratica di Corea non figura nei piani statunitensi. Piuttosto, cercano di eliminarla. Questo è il motivo per cui vi è un predeterminato stato di conflitto permanente nella penisola coreana, uno sviluppo ciclico della situazione di crisi acutizzata dalla relativa “remissione” e viceversa. Le azioni dell’occidente riguardo la Corea democratica appaiono come viziate dal comma-22. Gli appelli a sospendere il programma nucleare, evitando così la violazione dei principi del regime di non proliferazione delle armi di distruzione di massa, sono spesso utilizzati per coprire la realizzazione di un programma segreto: il cambiamento di regime nella Corea democratica…

Di conseguenza, nei casi in cui Pyongyang sceglie il modello contrattuale delle relazioni con la comunità internazionale ed è pronta ad accettare compromessi reciproci riguardanti le  preoccupazioni (sulla non-proliferazione), l’occidente non vede ciò come una decisione indipendente dei nordcoreani, ma come una dimostrazione di debolezza, un trionfo della sua politica di pressioni. Seguendo tale logica, Washington e i suoi alleati sono non hanno fretta di valutare le misure prese da Pyongyang in base al merito, utilizzandole ai fini di una cooperazione costruttiva e di un modo per far avanzare la soluzione della questione nucleare nella penisola coreana, ma piuttosto per agire completamente all’opposto. Sulla base della falsa idea che la Corea democratica abbia cominciato a fare concessioni sotto pressioni esterne, l’occidente ritiene necessario aumentare queste pressioni al fine di mettere alle strette il suo avversario. E ogni volta questa politica duplice, fallisce. Convinta dalle vere intenzioni dei suoi partner, Pyongyang, con l’intenzione di collaborare, ma in nessun modo di capitolare, smette di giocare al gioco altrui e si adopera per rafforzare la sua capacità di difesa nazionale. Di conseguenza, invece delle ulteriori concessioni, che ci si aspettava e del crollo tanto atteso della Corea democratica, l’occidente riceve in risposta nuovi test missilistici e nucleari.

La cronologia della crisi attuale è ben nota. Il lancio riuscito di un satellite nordcoreano del 12 dicembre 2012. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sceglie la forma più dura di risposta, sotto forma della risoluzione 2087 (22.01.2013), al contrario di un’occasione simile nell’aprile 2012, quando il Consiglio di Sicurezza si limitò a una dichiarazione del suo presidente. La Corea democratica, fortemente in disaccordo con tale decisione, così come con la logica statunitense, secondo cui “i suoi lanci non riguardano i satelliti, ma missili balistici a lungo raggio”, annunciava che “i colloqui a sei e la dichiarazione congiunta del 19 settembre non esistono più”. Come “segno di protesta”, Pyongyang ha effettuato il suo terzo test nucleare il 12 febbraio 2013, dopo aver sottolineato, in una dichiarazione del Ministero degli Esteri, che ci sono stati “più di 2.000 test nucleari e 9.000 lanci di satelliti” ne l mondo, “ma il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non ha mai approvato una risoluzione che vieta i test nucleari o i lanci di satelliti”. In risposta, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la Risoluzione 2094, il 7 marzo 2013, imponendo le sanzioni più severe che la Corea democratica abbia mai subito negli ultimi decenni.

Qual è stato il motivo per il rapido peggioramento del confronto nel 2013? Ci sono molte ragioni.  Tra le principali, gli avversari di Pyongyang di solito citano i seguenti: le palesi inesperienza, immaturità e avventurismo del giovane leader della Corea democratica, il desiderio d’intimidire Seoul, costringendola a credere che le armi nucleari vengono schierate, la Corea democratica ha drasticamente alterato l’equilibrio militare nella penisola a suo favore, ottenendo l’immunità dalle azioni del Sud, ed è ora in grado d’intimidire e di effettuare impunemente “provocazioni militari” contro la Repubblica di Corea. Tali atteggiamenti sono ormai diffusi e di conseguenza sono supportati dall’opinione pubblica sudcoreana. Nella comunità politica e tra gli esperti degli USA, sono aumentate notevolmente le richieste per impegnarsi in un cambiamento immediato e decisivo della politica in favore dell’adozione di misure volte a forzare il cambio di regime nell a Corea democratica, aumentando drammaticamente la pressione esterna, così come l’isolamento e l’incoraggiamento dell’opposizione interna. A livello ufficiale, l’idea di colpire il livello di vita della popolazione della Corea democratica, tra le altre cose, è stato discusso apertamente. I sostenitori di questo tipo di azioni preferiscono non notare che i test nucleari della Corea democratica, a cavallo del 2012-2013, sono stati in larga misura una risposta alla riluttanza dell’occidente ad aprire un dialogo costruttivo con Pyongyang.

Ricorderete che, dopo che la Corea democratica aveva annunciato il suo ritiro dai colloqui a sei, nell’aprile 2009, i cinque membri rimanenti avevano dichiarato che trovare un modo per convincere Pyongyang a tornare ai colloqui era una priorità. Ed ecco, quando questo obiettivo è stato quasi raggiunto, in gran parte grazie agli sforzi diplomatici di Russia e Cina, e quando il governo della Corea democratica, nel 2011-2012, ha ripetutamente annunciato di essere disposto a continuare il suo coinvolgimento nel processo diplomatico a sei, Washington, Tokyo e Seoul, in contrasto con le loro stesse dichiarazioni, iniziarono ad avanzare pretesti e sostanzialmente fecero del loro meglio per ritardare la ripresa dei negoziati il più a lungo possibile. Così facendo, ancora una volta rivelarono i loro veri scopi: estendere la politica della “pazienza strategica”, che molti esperti statunitensi definiscono una variazione della “strategia del contenimento” della Corea democratica, in modo da aumentarne l’isolamento con il fine ultimo del cambio di regime. Avendo perfettamente compreso ciò dei suoi avversari, e tenendo conto, sugli esempi di Libia e Siria, della crescente inclinazione dell’occidente a usare la forza militare per rovesciare i regimi indesiderati, Pyongyang si considera libera nella scelta dei mezzi e ha adottato le misure necessarie per rafforzare la sua capacità di difesa nazionale. Ciò non è l’unico motivo che spinge Pyongyang a prendere tali misure, naturalmente. E’ più che probabile che il desiderio del governo nordcoreano di compensare la sgradevole amarezza che nasce nella società, dopo il fallito lancio del satellite del 13 aprile, e la realtà della corsa allo spazio tra Corea del Nord e Corea del Sud vi gioca anche la sua parte. Inviando il suo primo satellite in orbita, come programmato, il 12 dicembre 2012, la Corea democratica ha vinto la corsa allo spazio. Ciò è stato preso piuttosto male al Sud, real izzando il riuscito lancio del proprio satellite un mese e mezzo dopo.

Nel frattempo, queste azioni trascinano verso un conflitto mettendo ormai la penisola coreana sull’orlo della guerra. Al fine di evitare ulteriormente il deterioramento della situazione, tutte le parti interessate devono avere autocontrollo, prima di tutto, e avere la massima concentrazione nella ricerca dei modi per riprendere i contatti politici.

La ripubblicazione è gradita in riferimento alla rivista on-line della Strategic Culture Foundation.

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

Vedasi anche: SONGUN: Antimperialismo e identità nazionale nella Corea socialista

Misteri italiani: la “scomparsa” dell’Imu

di: Ernesto Ferrante

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È stata la grande protagonista della campagna elettorale, spopolando in lungo e in largo tra salotti televisivi e piazze.

È stata “rimborsata” da Berlusconi, “redistribuita” da Bersani e “rimodulata” da Monti, almeno fino alla due giorni dell’urna. Poi, però, è misteriosamente sparita.

Parliamo dell’Imu, l’imposta municipale propria che funesta i sogni degli italiani e buca le loro tasche già vuote.

Inutile provare a cercarla tra le sedi dei partiti e nei discorsi dei loro reggenti: meglio inviare foto e descrizione a “Chi l’ha visto?”, nella speranza che qualcuno di buon cuore possa fornire indicazioni circa i suoi spostamenti.

La solita furbata all’italiota che ha abbindolato molti ma non tutti, soprattutto chi il mondo del mattone lo conosce per davvero, come la Confederazione Italiana Proprietà Edilizia.

Le parole del suo presidente, Corrado Sforza Fogliani, sono inequivocabili: “Il Paese ha votato contro l’Imu, il mercato immobiliare è allo stremo, nel settore manca ormai ogni investimento. A gran voce, chi è preoccupato dell’impoverimento generale che l’Imu ha creato, con conseguenze fatali sui consumi e sulle famiglie, reclama da subito la sua revisione, con particolare riferimento anche alle case affittate ai meno abbienti”.

E poi ancora, con una certa amarezza: “Tuttavia la risposta dell’attuale Governo è diametralmente opposta fino ad approvare un DEF che non solo non lascia spazio alla richiesta revisione da subito di questa imposta, ma addirittura mette in guardia dal fatto di non prorogare l’Imu sperimentale anche dopo il 2014”.

La Costituzione, richiamata un giorno sì e l’altro pure, in questo caso non vale, e i professori e i loro successori-puntellatori in pectore fingono di non ricordare il dettato della Corte costituzionale di cui alle sentenze del 1966 e del 1985 ed il principio ispiratore di fondo: la progressività non può che essere strettamente collegata al reddito.

L’imposta municipale propria, come chiedono decine di associazioni e tecnici del settore, andrebbe riformata riportandola alle sue origini di imposta correlata al beneficio apportato agli immobili dai servizi apprestati in sede locale.

La base imponibile andrebbe rivista, in particolare, per gli immobili affittati, se non si vogliono ulteriormente incrementare gli sfratti e, con essi, l’emergenza abitativa.

Ma l’orizzonte è cupo, cupissimo. Basta dare un’occhiata al programma del Pd, il partito in prima fila per il varo del prossimo governicchio, che prevede la “redistribuzione dell’Imu” ma pur sempre con l’aumento dell’imposta in questione per gli immobili di una gran parte della proprietà diffusa che è l’unica in grado di assicurare ancora la sopravvivenza dell’affitto.

Sul fronte dei berluscones, solo imbarazzi e silenzi dopo le sparate a salve di quel buontempone del cavalier parolaio. La ricetta montiana, invece, è nota da mesi: tasse fino all’ultimo filo di mattoni.

“Pare proprio – conclude Sforza Fogliani – che questo Governo viva sulle nuvole, staccato dalla terribile realtà del Paese, e che oltretutto non voglia saperne di metter mano alla spesa pubblica, cominciando col ridurre in modo drastico gli sprechi”.

 

Articolo letto: 249 volte (12 Aprile 2013)

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