O’Neill (Goldman Sachs): macché Cipro, è Grillo il vero problema della Ue

29 marzo 2013

O’Neill (Goldman Sachs): macché Cipro, è Grillo il vero problema della Ue

 Il vero problema dell’Ue, a cui il blocco del Paesi del Nord dovrebbe pensare seriamente, non è Cipro ma l’Italia con il “fattore Grillo”. Lo ha detto Jim O’Neill, presidente di Goldman Sachs Asset Management, in un’intervista a Bloomberg Tv. «La storia più interessante – dice O’Neill – è il fattore Grillo in Italia. Non capisco come i tipi duri del Nord non stiano pensando a questo problema. L’Italia è la terza economia dell’Eurozona, e se non comincia ad avere un po’ di crescita presto, cominceranno a chiedersi quali siano i benefici della permanenza dell’euro». Cosa «sta facendo l’Ue per affrontare questo problema? – si chiede O’Neill – sembra che le sue decisioni vengano prese da chi ha la voce grossa, specie in Germania».

 C’è da dire che in Goldman Sachs non sempre procedono come un sol uomo. Proprio ieri il colosso di Wall Street aveva sponsorizzato l’idea di acquistare BTp e vendere Bund. Motivo: il recente rialzo dei rendimenti dei titoli di stato italiani rappresenterebbe un’opportunità d’acquisto contro l’equivalente tedesco. In più Goldman prevede un governo di larghe intese il cui insediamento favorirebbe un rally dello spread con discesa in area 275. Analisi discordante da quelle di altri colossi Usa, BlackRock e Pimco, orientati a ridurre l’esposizione su Spagna, Italia ed euro.

 Va ricordato che lo stesso O’ Neill lo scorso 1 marzo aveva dichiarato in una nota di considerare piuttosto interessante l’esito delle elezioni del 24-25 febbraio in quanto possibile premessa per una stagione di riforme. Oggi mette in pole position il pericolo Grillo in quanto quel «qualcosa di nuovo» potrebbe rivelarsi letale per l’area euro.

  29 marzo 2013

http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2013-03-29/oneill-goldman-sachs-macche-164238_PRN.shtml

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Quando l’eugenetica è politically correct ..e piace al mondo mod erno e libero

Donne indiane sacrificate per dare figli a coppie 

14 febbraio 2013

Di Diego Molinari

13 gennaio 2013

La Nuova Bussola Quotidiana

Si è svolta a Parigi la manifestazione delle associazioni familiari contro la decisione del governo francese di riconoscere i matrimoni fra persone dello stesso sesso. C’è una spinta ideologica che attraversa tutto l’Occidente che cerca di imporre la legittimazione dei matrimoni gay. Ma una storia che arriva dall’India ci mostra uno degli effetti aberranti di questa corsa all’omosessualismo. È un testo molto lungo, ma abbiamo preferito lasciarlo integrale perché rappresenta un eccezionale documento.

Per la visita di routine con il dottor Manish Banker, è arrivata sino al Pulse Women’s Hospital dove è stramazzata al suolo. Premila Vaghela, che era incinta all’ottavo mese, è morta poco dopo. È successo lo scorso maggio, a Ahmedabad, nella povera e turbolenta regione centro-occidentale del Gujarat, in India. Il dottor Banker è un esperto privato di IVF, la sigla che indica in quell’inglese medico ricco di latinismi la In Vitro Fertilisation, cioè la fecondazione in provetta.

Premila era una delle sue “surrogate”: povere donne che offrono il loro apparato riproduttivo per danaro a ricche coppie straniere (americani, taiwanesi, arabi, europei, singaporesi, indiani stessi delle classi più affluent) che in sostanza ne affittano l’utero per impiantarci un ovulo fecondato: il loro. Questo fenomeno, chiamato dagli anglofoni semplicemente surrogacy (“surrogazione”; in Italia pare si tenda a preferire l’espressione «maternità surrogata”) è oramai una questione rilevante per la società indiana, oltre che per molta della cultura liberal americana. Come in qualsiasi altro fenomeno economico del mercato globalizzato, a una precisa domanda di “consumatori” di, per esempio, Upper West Central Park (la zona dei ricchi di New York) o della California, corrisponde una precisa reazione di una manovalanza delocalizzata nel terzo mondo: ecco Anand, in Gujarat, capitale mondiale della surrogacy, dove le coppie di forestieri investono danaro p er far produrre la propria prole. Ahmedabad, la città della storia di Premila, non è lontana.

Premila è morta, ma non prima di aver portato a termine il suo sporco lavoro. La storia della sua breve, brevissima “degenza” è significativa, perché mette in luce (pazzo rovesciamento rispetto alla cultura dell’aborto) il valore della vita della donna rispetto a quella del bambino, che non è suo figlio ma un prodotto, lautamente pagato, destinato a altri. Premila, crollata al Pulse Women’s Hospital – la struttura privata che gestisce le madri surrogate – è stata immediatamente portata nell’unità di terapia intensiva prenatale, dove hanno estratto il bimbo con un cesareo. Successivamente, avendo constatato i medici le sue gravi condizioni, Premila è stata spedita in un altro ospedale, lo Sterling Hospital. Rapporti ufficiali di questo ultimo ospedale riportano lo stato disperato in cui è arrivata la donna, vittima di un grave collasso cardiaco. I tentativi per rianimarla sono stati vani. Premila lascia un marito e due figli. Il neonato, venuto al mondo 1.75 kg, è stato messo in incubazione. Ignoriamo se alla coppia di anonimi benestanti americani sia stato infine consegnato l’ordine che è costato la vita a Premila.

Il Dottor Banker ha dato le informazioni necessarie alla polizia, che al momento della tragedia aveva promesso un’indagine. Pare invece che nessun file sia stato aperto per questo caso.

RACCONTI DISPERATI DEL COLONIALISMO BIOLOGICO

Coolie è un’antica parola, invero spregiativa, con la quale i coloni inglesi descrivevano gli autoctoni delle terre colonizzate. La parola pare che derivi da cool, “fresco”: i coolie erano i servi che con grandi ventagli seguivano gli eleganti inglesi fra le canicole di Asia e Africa. La parola, considerata molto offensiva nell’India indipendente, sta brutalmente riaffacciandosi nel discorso pubblico: qualcuno descrive le madri surrogate come biological coolies, in pratica schiave biologiche. Sia l’essenza, che le modalità concrete del fenomeno fanno infatti pensare alla schiavitù, o forse perfino una schiavitù ancora più pericolosa e umiliante. Non pochi infatti parlano di un “colonialismo biologico”. Torna l’imperialismo delle nazioni ricche, sotto la forma – invasiva sino al parossismo – di uno sfruttamento del ventre materno delle autoctone. Il Sydney Herald, in un denso articolo dedicatovi il 7 settembre scorso racconta dell’indifferenza di molti “clienti” nei confronti delle madri surrogate dei loro figli, che molto spesso non vogliono nemmeno incontrare. “Volevo picchiare un gay che mi chiese, dopo che nacque suo figlio, dove poteva trovare una balia”, ha raccontato al giornale la ginecologa Anita Nayar. “Lui voleva che il suo bambino avesse le difese immunitarie che dà il latte materno, come se le indiane fossero schiave delle piantagioni che vanno in giro ad accudire bambini”.

I dettagli giuridici, economici e sociali del fenomeno danno ragione a chi usa la parola “schiavismo”.

Anche se sapesse di averne diritto, il marito di Premila non può denunciare il Pulse Hospital per ottenere un indennizzo. Il contratto di surrogazione da lei firmato, come quello di tutte le altre, esonera i dottori e la coppia straniera da ogni complicazione della gestante surrogata, assicurandosi che con il marito si assuma tutto il rischio medico, finanziario e psicologico.

Sostiene sempre il Sydney Herald, che “i contratti specificano che se la madre è diagnosticata con una malattia mortale al termine della gravidanza, ella sarà mantenuta in vita per via artificiale per proteggere la qualità del feto e assicurare una nascita in salute per conto dei genitori genetici”. Il baffuto dottor Banker, sostiene che la coppia americana ha pagato di sua sponte un milione di rupie alla famiglia di Premila.

“La somma è irrilevante” tuona Kishwar Desai, una scrittrice indiana che ha appena pubblicato un romanzo sul tema dal titolo Origins of Love. Desai rappresenta una delle prime reazioni intellettuali concrete al diffondersi di questo fenomeno, arrivando a scriverne anche sul noto quotidiano britannico The Guardian. “Di quante altre donne come Premila non abbiamo sentito parlare? Nessuno vuole scrivere della morte di una povera donna”, riporta l’articolo australiano. La scrittrice è irritata dal fatto che l’India sia diventata l’Eldorado mondiale della maternità surrogata.

L’industria della surrogacy varrebbe oggi due miliardi e mezzo di dollari, producendo qualcosa come 25.000 bambini all’anno. L’indotto è molto articolato: alle cliniche, si sommano i reclutatori, gli avvocati per i contratti, gli spazi dove tendenzialmente le cliniche fanno vivere insieme le gestanti, gli hotel che ospitano i genitori stranieri che vengono a controllare lo stato dell’ordine o a “ritirare” il prodotto pronto per la consegna. La clientela è principalmente americana, ma qualcuno dice che la metà dei casi coinvolge indiani di classe agiata: il caso più noto, volutamente reclamizzato dai media, è quello delle star del cinema di Bollywood Amir Khan e sua moglie Kiran Rao, che nel dicembre 2011 hanno dichiarato di avere avuto un figlio tramite maternità surrogata. Nel portafoglio clienti delle più di mille cliniche specializzate del subcontinente, non mancano gli australiani, i taiwanesi, i singaporesi e gli Europei. Il gruppo più in crescita rimane comunque quello degli omosessuali occidentali.

Uno studio del Centre for Social Research (CSR) di Nuova Dehli uscito lo scorso aprile e intitolato Surrogacy Motherhood: ethical or commercial, ha cominciato a riportare dati e episodi davvero inquietanti. Ranjana Kumari, la direttrice del Centro, racconta: “Abbiamo trovato una donna alla quale erano stati dati 25 cicli di IVF. Un’altra è stata forzata ad aver impiantati quattro embrioni in una sola volta, contro la pratica internazionale di un embrione per volta, o al massimo, due”. Dal documento, che si può visionare in rete in formato PDF, emerge che a molte delle madri surrogate viene fatto firmare il contratto ma non gliene viene data copia; che un gran numero di esse hanno già tre o quattro figli che cercano di mantenere con altre due o tre gravidanze surrogate; che esse sono confinate in ostelli dove in caso di malattie contratte dai figli o dal marito non possono ricevere visite; che se un bambino nasce “difettato” (abituiamoci a questo gergo commerciale, perché di commercio propriamente si tratta) la donna non viene pagata: considerando che i rischi di deformità nelle fecondazioni in vitro è doppio rispetto a quelle naturali, questo significa che tante madri surrogate non vengono pagate al termine della gestazione, e del “prodotto di scarto”, cioè del bambino, ci piacerebbe conoscere la sorte, sulla quale al momento non abbiamo alcuna informazione.

Infine c’è il quadro sociale più vasto, in cui a indurre la donna alla surrogacy è spesso il marito con problemi di alcool, il marito che sperpera, il marito che ha bisogno di un capitale di partenza con il quale iniziare un business: una volta che il capitale finirà (accade molto spesso) la donna procederà con un’altra gravidanza per conto terzi. La direttrice del CSR Ranjana Kumari non ha paura di dichiarare al giornale australiano che “il nostro studio dimostra che si sta creando una mafia di trafficanti, con le donne trovate in località remote da agenti di reclutamento che hanno il solo fine di fare soldi. La vulnerabilità dei poveri viene sfruttata”.

Gli indiani cominciano a essere dubbiosi rispetto a questa commercializzazione della maternità. Un paese che di per sé non ha una grande percezione dell’estero, inizia a chiedersi perché l’India debba offrire un servizio che altrove costituisce un crimine. Ma ancor di più: le immagini delle donne gravide sui cartelli pubblicitari delle cliniche, ormai diffusissime, offendono sempre di più la popolazione, che è conscia del fatto che queste donne spesso vengono fatte vivere tutte insieme in dormitori che assomigliano decisamente a degli allevamenti di bestiame: baby-factories, “bambinifici”, fabbriche di bimbi. Non è raro, infatti, che il contratto preveda la temporanea separazione della fecondata dalla famiglia, onde evitare il pericolo di rapporti sessuali col marito, e quindi la trasmissione di malattie veneree che potrebbero alterare la qualità del prodotto, cioè il bambino surrogato.

IL COSTO DELLA VITA: PUBBLICITA’

Una delle fonti che riporta i dettagli della storia di Premila è l’articolo scritto a caldo del Times of India, reperibile dal sito della testata indiana. Scorrendo la pagina sino in fondo trovo i Google Ads, ossia spazi con annunci che Google profila considerando l’interesse dell’utente internet sulle keyword di quella specifica pagina. Ebbene, l’automatismo amorale dell’algoritmo, vuole consigliarmi siti come quello della New Dehli IVF Center (“International standards with good success rates. Donor and durrogacy). Me ne consigliano anche altri di questo tipo, alcuni hanno come estensione di dominio .ru (Russia) o .gr (Grecia). Ma è oneinsix.com ad attirare la mia attenzione. “Surrogacy Cost $26,500 Surrogate & Surrogacy in India” è il titolo dell’annuncio. Entro nel sito, che è spoglio, brutto: ben visibile però è il tasto per pagare con il sistema Paypal, e poi, nella pagina “cost” un testo, in un inglese irto di sgrammaticature tipico di certi indiani: “nel 2005 la surrogacy costava 12.000 dollari. Oggi le stesse cliniche fanno pagare 35.000 dollari. Un suicidio economico posporre o ritardare il tuo trattamento non necessariamente” scrive il sito sghembamente. “Due cliniche che conosciamo offrono la surrogacy per 26.000 dollari, al prezzo del Giugno 2012. Queste cliniche procurano una surrogata per quel prezzo che include un deposito per la consegna del bambino”.

Quando si pensa agli esseri umani come merce, non si arriva a immaginare che si possa essere così espliciti. Il sito continua enumerando ciò che è compreso nel prezzo: “consulenza e reclutamento della surrogata; preparazione della surrogata; parcelle cliniche per il ciclo di IVF; droghe IVF e iniezioni, dipendentemente dal dosaggio; rimborso della surrogata; vitto e alloggio della surrogata per 9 mesi, lavoratori sociali [sic]; Antenatale [sic]; assicurazione; deposito per l’ospedale di consegna e emergenze”. La lista è sconclusionata, poco chiara e paurosa. Più sotto, in un paragrafo chiamato semplicemente “The West” (L’occidente), il sito, con le consuete sgrammaticature, tocca inusitati vertici di ignominia: “un’altra area di inquietudine è che ci dicono che viviamo in Rip-off Britain [La Gran Bretagna che ci pela, ndr]. Le leggi del governo restringono il numero degli embrioni impiantabili in una donna a tre (…) e ora vogliono ridurre gli embrioni a uno! (…) In India, dove si può impiantare mediamente 4-6 embrioni, ma anche di più, il costo per embrione è significativamente minore”. Seguono conti aritmetici del prezzo di un embrione, e relativa sprezzante critica a chi parla di “sfruttamento”.

All’acquirente vengono date vaste opzioni per customizzare il prodotto finale: “Se la donatrice della cellula-uovo non incontra le vostre richieste riguardo all’aspetto etc. potete pubblicizzare per una donatrice di cellule-uovo sul giornale Times of India. Nel 2005 il costo della pubblicità era $600 in una dozzina di città una volta a settimana per due mesi. Una donatrice di ovuli si aspetta un pagamento fino a 50.000 rupie”. Facciamo notare, che il Times of India è il giornale dal cui articolo sulla morte di Premila siamo partiti: pare che, anche di fronte alla tragedia patente, l’intero sistema sociale indiano (autorità, media, intellighenzia) sia connivente se non complice.

Una disanima dei possibili costi della surrogacy in America (120.000 dollari, dice il sito), condannando che “come sempre in America una grossa porzione va all’agenzia e ai medici” spinge ulteriori altri calcoli della convenienza degli uteri indiani procurati oneinsix.com. Ma non è finita: “se tu avessi l’opzione di impiantare 6, 9 o più embrioni alla volta, non salteresti su di una simile possibilità? Certo, avresti il rischio di nascite multiple, ma esse possono essere ridotte selettivamente”. Maternità surrogata, super-impianto di embrioni, uccisione degli embrioni, aborto selettivo: chiude la pagina, un convertitore di valute.

IL TREND: STAR, GAY E TOO-POSH-TO-PUSH

Come tutti i trend, anche quello della maternità surrogata per arrivare alla gente comune è dovuto passare per le star. Le vedettes di cinema, tv e musica (e moda, sport, teatro, insomma la dimensione delle “celebrità”) fungono da immenso catalizzatore funzionale di tendenze che si riversano sulla società dei consumi, dalla forma dei pantaloni che si indossano all’etica riproduttiva.

Già nel 2007, Oprah Winfrey, potentissima presentatrice del talk show più seguito d’America, portò in TV la Dottoressa Nayana Patel della Akanksha Infertility Clinic di Andand, cioè la mecca della surrogazione materna.

In principio, tra le star, fu Sarah Jessica Parker, la protagonista del noto serial “Sex and the City”. Incarnazione della donna edonista ed emancipata, al punto da diventare un modello mondiale della sessualità borghese libera e elegante di New York, la magrissima Parker decise tra il 2008 e il 2009 con il marito Matthew Broderick (un altro attore famoso) di avere due gemelle per mezzo della maternità surrogata.

La Parker è la capofila di una particolare categoria della clientela degli uteri indiani: le too-posh-to-push, ovvero troppo eleganti per spingere. Donne dell’alta società che per motivi sociali, professionali o semplicemente per pigrizia rifiutano l’idea che per avere un figlio si debba deformare il proprio corpo con la gravidanza, e non tollerano neanche che alla fine del processo si debba persino soffrire i dolori del parto. Hollywood dedicò alla surrogacy una commedia, con le due più eleganti comiche del popolare programma “Saturday Night Live”: le bravissime Tina Fey e Amy Poheler. Nel film, una professionista snob con problemi di sterilità si affida alla maternità surrogata di una ragazza di South Philly (la parte sud di Filadelfia, considerata dall’immaginario USA come terra di poveracci, dei “grezzoni”, dei popolani poco educati; il film “Rocky” è ambientato lì).

La rossa premio Oscar Nicole Kidman (che Avvenire definì “magica” quando decise di sposare l’ultimo marito Keith Urban con rito cattolico) ha annunciato poco più di un anno fa di aver avuto una bambina con maternità surrogata. A differenza della Parker, ha tenuto segreto l’intero processo, per poi parlarne solo a cose fatte. Ha chiamato la bambina “Faith”, Fede, “perché abbiamo bisogno di molta fede”.

Ma il caso più eclatante, per le sue implicazioni sociali, è stato quello del sessantacinquenne cantante Elton John, che ha “surrogato” la maternità di “suo figlio” per poterlo crescere con il proprio “marito” (o “moglie”?) appena sposato, il regista David Furnish, di venti anni più giovane.

Benché vi siano realtà che praticano la surrogacy da svariati anni, il caso di Elton John ha fatto scalpore perché si tratta di un bambino nato biologicamente da una celebre coppia omosessuale. In pratica, la messa in scena su scala mondiale – su di un teatro di cui solo le celebrità possono godere – del sogno ai confini della realtà dei gruppi LGBT e della teoria del Gender tutta: anche coppie dello stesso sesso possono figliare, superando, con slancio post-umano, i limiti imposti dalla natura, che come in ogni Gnosi è vista dalla teoria del Gender come un demiurgo cattivo, che ha incastrato i gay in corpi non compatibili con la riproduzione umana e forse nemmeno con la loro stessa psiche.

Ancora, nel 2011 fu data notizia della nascita del figlio di Elton John il giorno di Natale. Il cantante avrebbe poi dichiarato di aver avuto dei ripensamenti, sostenendo che il bambino necessita di un padre e una madre, ma pare che a tali uscite non siano conseguite azioni reali. Il New York Post nei primi giorni del 2013 ha pubblicato la notizia che la coppia ha “avuto” un secondo figlio per via surrogata. Tra i media e i portavoce del cantante è tutt’ora in corso il consueto Valzer di piccole ammissioni e smentite.

LA FRAGILE POSIZIONE DEL FRONTE OMOSESSUALISTA

Dal punto di vista dei gruppi organizzati dei gay, la questione della maternità surrogata è particolarmente delicata per il futuro della bioetica e della società reale: da una parte, rappresenta il punto di svolta in cui all’omosessuale viene data la possibilità di riprodursi geneticamente; dall’altra, lo status sempre più innegabile di sfruttamento della donna può portare il fronte omosessuale a un inedito divorzio con gli alleati degli ultimi decenni. Il movimento dei diritti civili, i partiti di sinistra, i movimenti di liberazioni delle minoranze, tra cui le diminuite ma pur sempre agguerrite femministe. Un capitale immenso di potere politico potrebbe dilapidarsi in pochissimo tempo.

I gruppi organizzati dei gay toccano finalmente con mano la possibilità di uscire dalla condanna inappellabile a cui li ha relegati la natura, ossia la sterilità. La prospettiva della famiglia gay accende le speranze di giungere a una equiparazione totale dell’omosessualità con l’eterosessualità, dei “diversi” (notatelo: parola un tempo frequente ora in totale disuso) con la normalità. Si tratta di un punto di svolta decisivo per l’intero movimento omosessuale. Una società che consente di farsi fare dei figli tramite i ventri del Terzo Mondo, è una società pronta ad accogliere in toto ogni caratteristica della loro personalità (tra cui dati statisticamente provati come l’infedeltà, la promiscuità, certa voracità sessuale, che di fatto ha contagiato la società, soprattutto le donne, le quali come nota qualcuno oggi vivono l’accoppiamento in modo più promiscuo e aggressivo).

La maternità surrogata è l’orizzonte finale dell’omosessualismo, e lo è da un punto di vista biologico, morale, sociale, strategico.

Eppure, la surrogacy rischia di essere per i gay un rischio fatale, un boomerang che può finire per distruggere prima le alleanze, poi le vittorie accumulate, infine le basi stesse del mondo gay.

Le femministe, perennemente autoproclamantesi difesa ultima delle donne, non potevano rimanere a lungo insensibili al macroscopico caso della maternità surrogata, di fatto la forma di prostituzione e sfruttamento delle donne più oscena mai inventata dall’Occidente capitalista.

Così, per lo meno in India dove gli effetti del fenomeno surrogacy sono evidenti e devastanti, le femministe cominciano a far sentire la propria voce. I gruppi femministi indiani domandano apertamente la messa al bando della maternità surrogata: l’industria dell’affitto dell’utero, sostengono, è dannosa per la salute delle donne (non più padrone del proprio corpo come da assioma femminista) e le espone a ulteriori crimini da parte dei maschi, come i dottori che non pagano la cifra pattuita o i mariti ubriaconi che le imbottiscono di ormoni sino a far scoppiar loro le ovaia.

La dimensione dello sfruttamento non poteva non far sollevare le antenne anche ai partiti comunisti, molto fiorenti in diverse parti del subcontinente (stati del Kerala e del Bengala in testa). Pur al di fuori di questioni morali e spirituali, Brinda Karat, parlamentare comunista indiana, usa apertamente la parola “sfruttamento” per descrivere il rapporto tra i ricchi stranieri e le povere madri surrogate indiane: “La posizione economica delle indiane non è eguale a quello dei ricchi stranieri, quindi la donna indiana non sta compiendo una libera scelta, non una costrizione. Se le coppie straniere credono nella maternità surrogata commerciale, perché non convincono i loro governi a cambiare le leggi invece di venir qui e sfruttare le povere donne?”.

Così, potrebbe infine crearsi una spaccatura nel fronte unito formato negli ultimi decenni da gay (o LGBT, ora LGBTQIQ, cioè Lesbian Gay Bisexual Transgender Queer Intersexual e Questioning, quali altre categorie si aggiungeranno nel corso di questo lustro non sappiamo) e le alleate femministe, compagne naturali della causa omosessualista nella trincea del politicamente corretto. La politica del movimento gay, infatti, non è qualcosa di spontaneo od improvvisato. Vi è un libro che più di ogni altro dimostra la lucidità del fronte omosessualista. Si tratta di After the ball. How America will conquer its fear & hatred of Gays in the 90′s, (tradotto: Dopo il ballo. Come l’America vincerà la sua paura e odio verso i gay negli anni 1990), uscito nel 1989 dalle penne di Marshall Kirk, un neuropsichiatra, e di Hunter Madsen, un esperto della persuasione del marketing. Il testo, che constata che “la rivoluzione gay è fallita”, delucida le linee guida che il movimento dovrà seguire al fine di conquistare l’opinione pubblica. “Ritrai i gay come vittime, non come provocatori aggressivi”, “Dà ai potenziali protettori una giusta causa”, “Fa che i gay sembrino buoni”, “Fa che gli aggressori sembrino cattivi”. Il documento analizza il contesto mediatico, i sistemi di raccolta dei fondi, la composizione dell’opinione della popolazione e le manipolazioni su di essa praticabili. “La legittimazione dell’identità gay e lesbica attraverso una battaglia di libertà come quelle sul divorzio o sull’aborto, che dispone di argomenti semplici e convincenti: primo fra tutti la proclamazione di un modello normativo di omosessualità risolto e rassicurante. Con la torta nel forno e le tendine alle finestre, come l’ha definito una voce maligna.

Il messaggio è più o meno il seguente: i gay non sono individui soli, meschini e nevrotici, ma persone splendide, affidabili e equilibrate, tanto responsabili da desiderare di mettere su famiglia”.

L’ULTRA PROSTITUZIONE E IL FAR WEST BIOLOGICO: FINO A QUANDO?

I dottori indiani, che si stanno arricchendo come collaborazionisti autoctoni di questa nuova colonizzazione ovarica, reagiscono con rabbia alle critiche che cominciano a sollevarsi dall’opinione pubblica e dalla politica indiana. I partiti di sinistra in India esistono e hanno gran voce, così come esiste nel subcontinente una ampia libertà di stampa. Così, l’industria surrogante comincia a difendersi con paradossi ridicoli ma perfettamente legittimi per certa mentalità da Terzo Mondo: nelle baby-factories, ci dicono, le madri surrogate mangiano cibo sano per la prima volta nella loro vita, così come ricevono visite mediche di controllo e cure che mai prima avrebbero potuto permettersi se fossero state gravide di figli “propri”. Parimenti, è interessante notare che alcune reazioni di rabbia di dottori e madri surrogate verso le prime critiche fanno notare come le femministe siano spesso “non sposate” (qualcosa di sospetto per la cultura civile dell’Indi a, che è ancora saldamente basata sul matrimonio, specie se combinato).

Questo Far West biologico, questa Eldorado della post-umanità potrebbe avere i giorni contati. Era impensabile che passasse inosservato un simile mostruoso fenomeno sociale, in cui il valore del corpo e perfino come nel caso di Premila della vita stessa della donna, contrariamente a ogni teoria femminista, è ridotto al punto che le nascite avvengono per lo più per cesareo in accordo con i biglietti aerei dei “committenti” stranieri che arrivano in India per la consegna del prodotto umano, il neonato.

Una bozza di legislazione da parte delle autorità indiane esiste. Si chiama Artificial Reproductive Technology Bill, ossia documento per la tecnologia di riproduzione artificiale. Il parlamento è da 3 anni che lo deve discutere: un business da due miliardi di euro, immaginiamo, avrà le sue lobby nella democratica e danarocentrica Nuova Dehli (ricordiamo che Lakshmi, il danaro, per l’induismo è una dea cui votarsi, non lo “sterco del demonio”). Forse non sono nemmeno solo le lobby economiche al lavoro: la bozza prevedrebbe che le coppie gay fossero escluse dalla possibilità della surrogacy. Cosa che avrebbe effetti devastanti sia sul business indiano, sia sull’evoluzione a lungo termine della cultura omosessuale, privata di un elemento importante nella sua rincorsa alla presentabilità sociale prima e alla sostituzione della famiglia tradizionale poi.

Secondo il testo, inoltre, le donne straniere che volessero utilizzare uteri indiani dovrebbero provare a livello medico la loro sterilità: fine delle Sarah Jessica Parker, delle donne in carriera in vena di maternità extracorporea e delle too-posh-to-push. Il testo darebbe inoltre potere alla giustizia indiana di perseguire penalmente una coppia che rifiuti il bambino surrogato se nato “difettato”, proibirebbe le indiane sotto i 21 anni e sopra i 35 di divenire surrogate, impedendo la surrogazione oltre la quinta gravidanza includendo i figli naturali.

Come dicevamo, la legge non è ancora stata nemmeno discussa, è pending, pendente, da più di tre anni.

Ma la questione non riguarda solo l’India. È un affare (in tutti i sensi) globale.

http://www.civitas.it/2013/02/14/donne-indiane-sacrificate-per-dare-figli-a-coppie-gay/

 

Il più grande imprenditore italiano attacca le banche e ne denuncia la speculazione.

di Sergio Di Cori Modigliani

E’ il nostro fiore all’occhiello.

E’ forse l’unica grande azienda italiana, leader planetario nel suo specifico settore merceologico, ad essere virtuosa, solida, in espansione. Presente in 132 nazioni, ha 75.560 dipendenti, di cui 62.000 addetti che producono nel territorio della repubblica italiana. Non ha neppure un cassintegrato e non ne prevede. Il suo titolo quotato in borsa, soltanto nel 2012, è schizzato in avanti del 32%: unico titolo in positivo. Il suo fatturato si aggira intorno ai 7 miliardi di euro, superiore di un +13,1% rispetto all’anno precedente.

L’azienda è nata nel 1961, ad Agordo, in provincia di Belluno, dentro un garage.

La storia di questa fabbrica e del suo ideatore e fondatore è studiata oggi nel corso di management industriale all’università di Harvard come esempio pratico e vincente “del miracolo economico italiano che coniuga impresa, creatività, rischio, con una ricerca accurata del design, del gusto e del dettaglio che nasce dall’applicazione della tradizione artigiana locale”.

L’azienda non ha mai visto uno sciopero, né uno scorporo, né proteste.

Si chiama LUXOTTICA. Produce lenti per occhiali e li vende in tutto il mondo. Tra i suoi clienti più famosi la polizia stradale della California (i celeberrimi CHIPS) l’esercito cinese, tutta la linea occhiali di Christian Dior e Yves Saint Laurent. Produce in Italia e vende in Cina.

Il suo proprietario e fondatore, Leonardo Del Vecchio, nato nel 1935 a Milano, è poco noto alla massa degli italiani. Ma il suo nome è un mito in Usa, Germania, Gran Bretagna, Cina.

La sua frase più recente? “Non investiamo neppure un euro nella finanza, perché noi sappiamo come produrre, come inventare mercato, avendo come fine la ricchezza collettiva della comunità, altrimenti questo lavoro non avrebbe senso”.

Alieno da conventicole, complotti, schieramenti politici di parte, corteggiato da sempre sia dalla destra che dalla sinistra (“no grazie, non mi piacciono i balli a corte” ha risposto all’ultima preghiera-convocazione alle elezioni politiche del 2008 sia al PD che al PDL che alla Lega Nord) è uscito allo scoperto per la prima volta nella sua esistenza, violando il suo codice personale fatto di discrezione, poche chiacchiere e molto lavoro intinto di creatività.

“Basta con i manager mitomani finanzieri” ha detto al giornalista  Daniele Manca in una esplosiva intervista pubblicata sul corriere della sera qualche giorno fa, non a caso, in Italia, volutamente passata sotto silenzio e rimasta priva del dibattito che avrebbe meritato.

Ma non all’estero.

Soprattutto in Usa e in Gran Bretagna dove la situazione italiana è seguita con estrema attenzione, perché Del Vecchio sta spiegando come funziona l’Italia, anzi….come non funziona l’Italia e perché, allertando il business internazionale che conta sulla situazione nel nostro paese. Vox clamantis in deserto, la sua opinione è fondamentale, soprattutto in questo momento, e per una ragione ben specifica: perché Del Vecchio è sceso in campo (non ama e non ha bisogno di visibilità) andando all’attacco del cuore della finanza italiana.

Qualche notizia biografica su di lui tanto per capire che tipo sia.

All’età di sette anni rimane orfano, insieme a quattro fratelli. Provenendo da famiglia disagiata, i fratelli vengono dati in affidamento. Lui, invece, finisce nei Martinitt, l’orfanotrofio milanese per poveri. All’età di 15 anni, con il diploma di scuola media, esce e va a lavorare come garzone di bottega in una fabbrica che stampa marchi di metallo. I proprietari del negozio lo aiutano e lo spingono a iscriversi ai corsi serali all’Accademia di Brera per studiare design e soprattutto incisione. A ventidue anni si trasferisce nel trentino dove trova lavoro come operaio in una fabbrica di incisioni metalliche e impara il mestiere. Dopo sei anni, all’età di 27 anni, riesce a ottenere gratis un enorme garage e capannone abbandonato nel comune di Belluno, di proprietà della regione, con la consegna di avviare un’attività per assumere personale proveniente dalle comunità montane più disagiate. E inizia, insieme a due collaboratori, a tirar su l’impresa: fabbricare occhiali all’italiana, con montature originali artigianali d’eccellenza, incise a mano, e lenti molate da lui personalmente. Vent’anni dopo è una florida azienda e va all’attacco del mercato statunitense che gli mette potenti sbarramenti. Li supera tutti. Stende la concorrenza più competitiva che si arrende. Acquista i tre più importanti marchi Usa e diventa la più potente multinazionale al mondo nel settore della produzione di occhiali. Dal 2002 è leader incontrastato.

Oltre ad essere il maggior azionista di Luxottica è un importantissimo grande azionista di Unicredit e soprattutto le assicurazioni Generali. Data la sua posizione è sempre stato nel consiglio direttivo del colosso assicurativo. Tre giorni fa (ed ecco perché ne parliamo e lui ha deciso di parlarne al pubblico) si è dimesso, se n’è andato sbattendo via la porta, con un clamoroso atto d’accusa: “la mia è una protesta contro il management imprenditoriale di questo paese, composto da individui superficiali che non sanno nulla del loro lavoro, sono semplici contabili mitòmani. Mi sento davvero a disagio. Il vero problema è che quando da assicuratori si vuole diventare finanzieri comprando le più disparate partecipazioni senza comunicare nulla ai propri azionisti, non si fa un buon servizio né per l’azienda, né per gli azionisti, né per il paese. Mentre questo è un periodo in cui ciascuno dovrebbe fare il proprio dovere, ovverossia: fare ciò che sa fare. E chi crede che lo spread sia domato, si sbaglia di grosso. Basta un nulla per farlo schizzare a 600 e mandare la nazione a picco. E’ ciò che stanno facendo gli imprenditori italiani e le banche e i colossi assicurativi perché insistono nell’investire nella finanza: il rischio è alto ed estremo”.

La considero una voce fondamentale da ascoltare, quella di Leonardo Del Vecchio.

Sulla quale riflettere. Perché l’Italia ha bisogno di un incontro tra imprenditoria efficace, efficiente e virtuosa da una parte e mondo del lavoro dall’altro, uscendo fuori dalle consuete griglie di protesta che finiscono per coagulare dissenso e indignazione uscendo fuori dalla immediata necessità di emergenza di costruire alleanze solide tra le due parti sociali.

Del Vecchio è sceso in campo.

Nel modo giusto.

Non scende in campo appoggiando un certo partito, né movimento. Non ama Monti e non lo odia. Non vuole entrare in politica come soggetto. Vuole dare uno scossone al mondo dell’imprenditoria. La sua voce è da diffondere.

Perché il suo curriculum professionale ed esistenziale è il suo biglietto da visita.

“Il problema dell’Italia nasce quando si vuole fare finanza. Quando, le aziende, usando i soldi degli investitori e soprattutto dei risparmiatori, comprano un pezzettino di Telecom, e un pezzetto di una banca russa; si mettono a repentaglio –come nel caso delle assicurazioni Generali-  ben due miliardi di euro alleandosi con il finanziere ceko Kellner e ci si impegna con la Citylife in una percentuale che nessun immobiliarista al mondo avrebbe mai accettato, com’è avvenuto nel 2009 quando hanno investito 800 milioni in fondi di investimento greci. Miliardi di euro sono andati in fumo. Erano soldi di imprenditori italiani che avevano investito con l’idea di poter poi spostare i profitti nel mercato del lavoro per tirar su imprese e creare lavoro. I manager responsabili di questi atti perdenti sono stati tutti promossi e saldati con stipendi multi milionari. Non si va da nessuna parte, così”.

E’ impietoso, Del Vecchio. Picchia duro. E se lo può permettere. E parlando al canale televisivo di Bloomberg, quando un giornalista americano gli ha fatto la domanda da 1 milione di dollari “Lei come si pone rispetto all’articolo 18 che in Italia è il punto dolente nello scontro tra imprenditori e lavoratori?” ne è uscito in maniera impeccabile. Ha risposto: “Un dibattito inutile, fuorviante. Personalmente, ripeto “personalmente” non mi riguarda. Su 65.000 lavoratori italiani che pago ogni mese, non c’è nessuno, neppure uno che rischia il licenziamento. Che ci sia l’art.18 così com’è, che venga abolito, modificato, cambiato, per me è irrilevante. La mia azienda funziona e ogni imprenditore -parlo di quelli veri- ha come sogno autentico quello di assumere e non di licenziare. Il paese si rialza assumendo non licenziando. E la colpa è delle banche”.

E’ la prima volta che un grande imprenditore, un grande finanziere, un grande industriale, attacca frontalmente le banche italiane. E qui non si tratta dei bloggers che odiano Goldman Sachs o dei consueti slogan contro la finanza internazionale. Perché Del Vecchio attacca la gestione inconcludente delle banche, affidata a “personale e personalità poco affidabili”. Racconta la parabola di Alessandro Profumo che lui presenta come una favola con un brutto finale, senza fare pettegolezzi o scandali.

“Finchè Unicredit e le Generali facevano le banche andava bene. Poi si sono buttati nella finanza e hanno perso la testa. Ho visto sotto i miei occhi trasformarsi Profumo. Partecipazioni, fusioni, investimenti a pioggia inutili e perdenti, con l’unico fine di agguantare soldi veloci e facili invece che produrre impresa con l’unico risultato di ottenere perdite colossali e bonus di uscita per diverse decine di milioni di euro. Le banche italiane hanno perso la testa. Ricordo il 1981. La mia azienda, dopo 20 anni, era diventata forte e solida. Avevo capito che la globalizzazione era alle porte e bisognava andare all’attacco del mercato americano. Ma non si cerca di entrare in Usa se non si è solidi finanziariamente. Abbiamo fatto le nostre ricerche e analisi e alla fine abbiamo calcolato che avevamo bisogno di una certa cifra molto alta. Mi rivolsi al Credito Italiano. Andai a parlare con Rondelli che la dirigeva. Gli dissi che volevo iniziare acquistando Avantgarde, un marchio americano che sarebbe stato il cavallo di Troia, ma non avevo i soldi. Presentai il progetto, il business plan, il programma, i rischi. Dieci giorni dopo mi convocò alla banca. Accettò. Mi presentai in Usa che mi ridevano in faccia. Dissero la cifra. Tirai fuori il libretto di assegni e firmai senza neppure chiedere lo sconto di un dollaro. Due ore dopo, l’amministratore delegato di Avantgarde mi confessò al bar penso di aver commesso il più grande errore professionale della mia vita e si ritirò dagli affari. Un anno dopo avevo restituito alla banca tutto il capitale con gli interessi composti, avevo aperto quattro nuovi stabilimenti e assunto 4.500 persone. Questo deve fare una banca. O in Italia lo capiscono e si danno una smossa, oppure si rimane alle chiacchiere e si affonda”.

Del Vecchio spera e auspica che Monti intervenga molto presto nel settore che lui (e Corrado Passera) conoscono molto ma molto bene: banche e finanza italiane. E propone di far applicare un codice ferreo di regolamentazione comportamentale che imponga a tutti gli amministratori delegati di banche, fondazioni e aziende, di riferire come usano i soldi.

“Alle Generali l’amministratore delegato poteva disporre investimenti fino a 300 milioni di euro senza comunicare niente a nessuno. Lo stesso a Unicredit, Intesa SanPaolo, Mps. La verità è che nessuno sa dove vanno a finire quei soldi, dove siano andati a finire i soldi. La mia azienda alla fine dell’anno si ritrova circa 700 milioni di euro da investire. Andrea Guerra che è il mio amministratore ogni volta che deve spendere cifre superiori a 1 milione di euro, informa ogni singolo membro del consiglio e manda copia a ogni importante azionista. Pretende di avere delle risposte e pretende che si discuta del suo investimento perché vuole sapere l’opinione di tutti, compreso il collegio sindacale interno e il rappresentante sindacale dei lavoratori dipendenti. Perché l’azienda è anche loro. Il loro posto dipende dalle scelte di chi dirige. Ogni decisione presa viene valutata collettivamente. Se si rischia, lo sanno tutti, l’hanno accettato. Non esistono mai sorprese. Questa è la strada. Non ne esistono altre. O si fa così, o si chiude tutti quanti, baracca e burattini”.

Perché la classe politica italiana non si fa carico delle gravissime preoccupazioni di imprenditori come Del Vecchio e non interviene in proposito?

Non stanno lì in parlamento ad appoggiare un gruppo di professori nel nome delle imprese e della ripresa economica? Se non ascoltano i leader che producono, che senso ha? Dov’è il Senso?

Ho pensato che potesse essere interessante una voce insolita, diversa dai precari, dai disoccupati, dai licenziati, che vivono ogni giorno la propria tragedia esistenziale. Il nemico non sono le imprese. Il vero nemico è la sordità di governanti e politici che non ascoltano chi produce e conosce la verità del mercato.

Quello è il vero nemico.

Quella sordità è l’anti-politica. Che cosa c’entra Beppe Grillo?

Fonte: sergiodicorimodiglianji.blogspot.it 29 Aprile 2012

http://ilupidieinstein.blogspot.it/2012/04/il-piu-grande-imprenditore-italiano.html


Tratto da: Il più grande imprenditore italiano attacca le banche e ne denuncia la speculazione. | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/04/30/il-piu-grande-imprenditore-italiano-attacca-le-banche-e-ne-denuncia-la-speculazione/#ixzz2PHZIrIeL 
– Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!