L’italia devastata dalla troika dei banchieri

Questa è l’Italia di TUTTI I GIORNI.

Ma dato che non si può inzozzare la reputazione dei saggi professori e dei signori della “responsabilità” come la lungimirante TROIKA DEI BANCHIERI ECCO CHE I PENNIVENDOLI CENSURANO e nascondono quanto possibile queste notizie CHE NON DEVONO ANDARE SUL NAZIONALE.

I tg non ne parliamo.

 L’azienda è in crisi, imprenditore tenta di rubare in casa col figlio

I carabinieri di Chioggia hanno arrestato un 46enne titolare di un’azienda agricola che con due complici voleva razziare un’abitazione di Valgrande

 Gabriele Vattolo29 Marzo 2013

 La pistola sequestrata

Voleva regalarsi una Pasqua migliore. Per sé e per due dipendenti della sua azienda agricola, tra cui il figlio. La ditta, infatti, non naviga in acque floride. Peccato, però, che G.T., 46enne di Sant’Anna di Chioggia, abbia scelto la strada peggiore. Del resto criminali non si nasce, si diventa. Ed è necessaria anche un po’ di esperienza, quella che al trio è mancata nella notte tra giovedì e venerdì, quando sono tutti finiti in manette per furto in abitazione in concorso e porto illegale d’arma.

 G.T., il figlio 22enne e il dipendente, un cittadino romeno di 28 anni, avevano messo nel mirino l’abitazione dell’azienda agricola “Gallmann” di Valgrande, una località rurale della città clodiense. Verso mezzanotte, quindi, hanno raggiunto il luogo del colpo con la Fiat Punto con targa romena intestata alla moglie del dipendente-ladro e poi sono entrati in azione. Il più giovane del trio, il figlio dell’imprenditore, è rimasto al volante del veicolo. Era stato designato come “palo”, mentre gli altri due sono entrati alla chetichella nell’abitazione.

 Proprio in quel momento, però, una pattuglia del nucleo radiomobile dei carabinieri di Chioggia, in servizio di perlustrazione, si è accorta della Fiat Punto. In sosta in un luogo molto isolato, “fuori contesto”. Sono scattati quindi i controlli: il 22enne viene prima identificato e poi perquisito. Nel suo marsupio era nascosta una pistola calibro 7,65 perfettamente funzionante. Col colpo in canna e un altro nel caricatore. Vicino anche una scatola con 37 proiettili. Di sicuro, quindi, per quella notte criminale i tre si erano armati a puntino.

 Gli altri due componenti della batteria, che nel frattempo avevano trafugato nella casa un veliero, un televisore Samsung a schermo piatto da 52 pollici e vari trofei di caccia, non trovando più l’auto del palo ad aspettarli, hanno deciso di nascondere momentaneamente la refurtiva in un casolare abbandonato poco distante. Per poi darsi alla fuga attraverso i campi. Tempo mezz’ora, però, e anche loro sono stati catturati dai militari dell’Arma, che poi hanno portato in caserma tutti e tre i “novelli banditi”. Di fronte alle domande degli agenti, i tre hanno rivelato anche dove avevano nascosto il bottino, poi restituito al legittimo proprietario.

 Pieno di debiti diventa rapinatore di banche. Arrestato piccolo imprenditore

Bollette, debiti e tasse. Un carico che un piccolo imprenditore 60enne non riusciva più a sostenere decidendo così di risolvere il problema improvvisandosi rapinatore di banche. Tre i colpi effettuati in poco più di un mese, 20mila euro il bottino.L’uomo, arrestato martedì scorso, è ora agli arresti domiciliari.

 riccione | 29 marzo 2013 |

L’uomo, da solo, entrava in banca a volto scoperto, si avvicinava allo sportello minacciando con un cutter per farsi consegnare il denaro e poi fuggire in pochi minuti. La prima rapina ai danni della filiale Monte dei Paschi di Siena, in questo caso il rapinatore uscendo ha urlato “siete voi i ladri”, è avvenuta il 29 gennaio scorso, la seconda il 14 marzo alla Carim di Riccione. Pochi giorni dopo, il 19, ha rapinato la Banca Popolare Valconca di Sant’Andrea in Casale. I video di sorveglianza hanno permesso ai carabinieri del comando di Riccione di identificare l’uomo. Si tratta di un 60enne di origine venezuelana residente a San Giovanni in Marignano, separato e con due figli piccoli, in gravi difficoltà economiche per il fallimento della sua attività di vendita al dettaglio di stock di pagine gialle o altri prodotti. Nel suo appartamento è stato trovato il giubbotto utilizzato per le rapine, il cutter e 800 euro in contanti provento del reato.

 Pubblicato in data 28/mar/2013

TREVISO – Ancora il suicidio di un imprenditore, ancora un dramma legato alla crisi economica. Si è tolto la vita, stamane, all’interno della sua azienda, il 57enne proprietario della Elettro Forma, di Fiume Veneto, residente a Treviso.

– Intervistati: MARINA SALAMON (Imprenditrice) – Servizio di Paola Gazziola, riprese di Matteo Spinazzè, montaggio di Paolo Carrer

 IL PROCESSO

Per pagare Equitalia fallisce

I giudici lo assolvono

L’accusa di bancarotta per 12 milioni di lire lievitati. L’imprenditore: «Quasi 20 anni di calvario»

 «Stavo bene, non posso negarlo. Ogni mio compleanno andavo a Bormio, mi permettevo crociere e vacanze, però guardi che io e mia moglie lavoravamo giorno e notte. Ora lavoriamo per pagare i debiti». La storia di Giovanni D. (l’iniziale per uno strascico di problemi finanziari), 54 anni, di Fara Gera d’Adda, è un calvario: quasi vent’anni di cartelle esattoriali e debiti con le banche lievitati, fino al processo per bancarotta fraudolenta per distrazione. Soldi usati in buona parte per pagare Equitalia. Ora il riscatto: l’assoluzione «perché il fatto non costituisce reato». L’ha chiesta lo stesso pm. Per i giudici, in sostanza, l’imprenditore non ha macchinato nessun fallimento. Anzi, ha fatto di tutto per mettere le pezze ai debiti. Ma il verdetto non addolcisce l’amarezza che gli sta appiccicata addosso come una seconda pelle: «Forse sarebbe stato meglio andare in galera ma avere ancora lavoro». Invece ha perso tutto: la tranquillità economica, tant’è che «prima al supermercato riempivamo il carrello, ora prendiamo il cestino e controlliamo con cura tutti i prezzi», l’azienda, le case, il lavoro, e la fiducia della banche.

 La sua vicenda inizia tanti anni fa.

«Dal 1986 al 1993 sono stato socio con altre tre persone, una era mio fratello, di un caseificio. Poi sono uscito, perché ho avuto un brutto incidente e con i soldi dell’assicurazione nel’94 ho aperto un’altra attività con mia moglie. Assemblavamo parti elettroniche. Ma ho lasciato la mia firma nella precedente società ed è stata la mia rovina».

 Le cartelle esattoriali.

«Nemmeno il tempo di aprire la nuova società e mi sono piombate addosso. Non ne sapevo nulla: 12 milioni di lire che con il tempo sono lievitati a 240 mila euro. Arrivavano a me, perché gli altri soci non avevano beni. Prima dalla Bergamo Esattorie, poi da Equitalia, a mio nome e con quello dell’azienda. Un caos».

 Come ha reagito?

«La mia rabbia era che non c’entravo nulla se non per quella firma. Ha ho detto “pago tutto quello che devo pagare”. Ho sempre messo la faccia e non mi sono mai nascosto».

 Come avete fatto lei e la sua famiglia?

«Nel 1995 abbiamo svenduto per 140 milioni di lire – metà del prezzo che valeva – una casa a Cisano. Metà sono andati alla Bergamo Esattorie e metà alla banca, perché avevo un mutuo».

 Il debito, però, non era saldato.

«No. Nel frattempo sono arrivate altre cartelle. Allora, nel 2003, io e mia moglie abbiamo venduto anche un’altra casetta che avevamo preso a Blello: tra acquisto e ristrutturazione ci era costata 260.000 euro, l’abbiamo data via a 160.000. Così 120.000 sono andati a Equitalia e 80.000 alla banca».

 Fatti i conti, quanto le rimaneva da pagare?

«Di cartelle esattoriali sui 79.000 euro. Ho ottenuto la rateizzazione. Potevo farcela: 1.000 euro al mese a Equitalia e 500 euro per noi».

 Come campare con 500 euro al mese?

«Lavoravamo e basta e i miei figli non avevano pretese. Appassionati di calcio, la loro massima richiesta era un paio di scarpe per giocare a pallone».

 Allora com’è arrivato il tracollo?

«Colpa della concorrenza cinese. Pensi che dalla Germania avevo ordini per 450.000 euro revocati nel giro di due mesi: mi hanno detto “o ci fai gli stessi prezzi o compriamo da loro”; io ho risposto che non potevo. Intanto i clienti erano in crisi e non pagavano, due sono pure falliti».

 A quel punto ha chiuso?

«Ma no. Mi hanno anche consigliato di fallire, ma non lo avrei mai fatto per orgoglio».

 Che cosa ha fatto?

«Erano arrivate altre cartelle. Quindi ho venduto la casa di mia moglie in cui vivevamo, a 230.000 euro a fronte di un valore di 400.000. Ero in rosso di 80.000 euro con la banca che, saputo della vendita dell’abitazione, mi ha chiamato e ha detto che dovevo portare i soldi da loro. Ma nel frattempo ho pagato le mie sette dipendenti, alcune con figli, che ho dovuto licenziare. Prima, però, io e mia moglie abbiamo trovato un nuovo lavoro a tutte. Poi c’erano i fornitori, avevano diritto di essere pagati. Ricordo che uno aveva dei bambini malati».

 Possedeva altri beni?

«Certo, il capannone. Avevo trovato un acquirente. Valeva 355.000 euro: con quei soldi avrei pagato Equitalia, che nel frattempo voleva metterlo all’asta, la banca, il mutuo in un’altra banca e mi sarebbero rimasti 50.000 euro. Ho detto a mia moglie “tiriamo su le maniche e andiamo avanti”. Ma nel 2010 mi è arrivato il pignoramento cautelativo e a luglio è stato dichiarato il mio fallimento. Non l’ho mica chiesto io. Non l’avrei mai dichiarato».

 Poi l’accusa di bancarotta fraudolenta per sottrazione: 244.388 euro tolti dalla sua precedente attività per pagare Equitalia e altri 115.324 dal conto in banca per privilegiare altri creditori.

«Ma ci pensa? Non ho tolto i soldi dalla società, erano i miei, provento della vendita delle case. Siamo finiti per sei mesi in un container. Ma ripeto, non ho nascosto nulla alla banca. Ho chiesto aiuto anche a mia suocera che mi ha prestato 60.000 euro».

 Finire sotto accusa, un grosso peso.

«Notti insonni. Mia moglie piangeva di nascosto. Ma ho uno spirito battagliero e la mia famiglia è unita, mi seguirebbe anche se mi buttassi nel fuoco. Che cosa dovevo fare, andare a rubare o gettarmi nell’Adda? Mai».

 I giudici le hanno creduto. Un riscatto.

«Sapevo che la verità sarebbe saltata fuori. Se fossi finito in carcere, avrei scritto un libro per raccontarla. Sono stato assolto, sì, però sono rovinato. Io e la mia famiglia. Nessuno ci dà più fiducia. Pensi che abbiamo chiesto i sussidi, ma ci hanno risposto “siete imprenditori, non vi spettano”».

 E ora i debiti sono ripianati?

«Magari. A Equitalia dobbiamo ancora 62.000 euro, ma si prenderanno l’ipoteca sul capannone, che andrà all’asta; il debito di 118.000 euro con una banca è diventato di 190.000, e quello con un’altra da 11.000 euro è salito a 62.000».

 Scusi, ma come fa?

«Mi arrangio, vado a lavorare dove capita, nei cantieri, ovunque, so fare di tutto».

 E dove vive?

«Nel mio capannone. Mio si fa per dire, perché sta per andare all’asta. Sono passato dalle stelle alle stalle, ma non per colpa mia. Se avessi speso soldi in Ferrari e li avessi nascosti chissà dove, direi che tutto questo l’ho voluto io, ma quelle cartelle esattoriali non erano mie».

 Giuliana Ubbiali

Bruxelles rafforza i poteri della polizia europea

certo, credibile questa europa dei popoli come carne da macello per le banche. Tanto attenta ai risparmi (da saccheggiare) da FINANZIARE EUROTROLLS per diffondere il verbo DELL’EUROPA e silenziare chi contesta sta meraviglia

Europol e Cepol vengono unificate per risparmiare, ma soprattutto per favorire il controllo capillare delle tensioni sociali 

Andrea Perrone

L’agenzia di polizia dell’Unione europea con sede a L’Aja, Europol, vedrà rafforzati i suoi poteri e le sue capacità operative per implementare le attività di controllo nell’ambito di una proposta avanzata dai tecnocrati della Commissione europea.
Il progetto di regolamento impone agli Stati membri di alimentare l’agenzia con più dati, per migliorare la loro cooperazione riguardo ai crimini transfrontalieri e alle indagini. “L’Ue ha bisogno di una agenzia efficace ed economicamente efficiente per aiutare gli Stati membri a combattere la grave criminalità transfrontaliera e il terrorismo”, ha sottolineato in un comunicato il Commissario europeo per gli Affari interni, Cecilia Malmström (nella foto).
L’agenzia per l’elaborazione dei dati sarà anche rinnovata con mezzi altamente tecnologici per produrre risultati più efficienti con le informazioni già in suo possesso. Il regolamento prevede per l’agenzia di adottare un “privacy by design” approccio, con garanzie supplementari che permettano “all’Europol di adeguare la propria architettura IT per le sfide future e le esigenze delle autorità incaricate dell’applicazione della legge nell’Unione europea”. Malmström ha dichiarato che i cambiamenti rafforzeranno la protezione dei dati personali e aumenteranno le responsabilità di Europol nei confronti dell’Europarlamento e dei parlamenti nazionali. 

Parole che sembrano vere, ma nascondono ben altre verità, ovvero che l’unità prospettata servirà a controllare meglio chi ha posizioni politiche divergenti rispetto a quelle dei tecnocrati di Bruxelles e Francoforte. Posizioni molto diffuse a causa delle tensioni sociali crescenti merito delle politiche di austerità imposte dalla troika dell’usura internazionale e approvate dai governi nazionali.
Nel frattempo, l’Accademia europea di polizia, Cepol, verrà spostata dal Regno Unito e si fonderà con Europol, che ha la sua sede a L’Aja. 

La Commissione europea afferma che la fusione permetterà di risparmiare circa 17,2 milioni di euro per il periodo che va dal 2015 al 2020. Il College britannico ha rappresentato la prima agenzia Ue le cui spese di bilancio sono state bloccate dall’Europarlamento nel 2010 per una cattiva gestione. Il capo di Europol Rob Wainwright aveva in passato espresso una certa riluttanza sulla fusione di Cepol con l’agenzia di polizia Ue. Nel mese di gennaio, aveva sottolineato ai ministri britannici che l’Europol era stata già spremuta per i finanziamenti quando ha realizzato una nuova struttura per la lotta alla criminalità informatica.
“Se l’affare è quello di prendere un altro compito grande, ma ancora più fondi, allora preferirei non sia disponibile in tutto”, ha dichiarato. La Malmström ha annunciato la creazione di un centro per lotta alla cybercriminalità esattamente un anno fa. La Commissione intende trasformare l’Europol in un hub per la condivisione delle informazioni e delle analisi su reati ritenuti gravi. La riforma dovrebbe comprendere anche la formazione della polizia, hanno fatto sapere i Soloni di Bruxelles. Da parte sua, il gruppo Statewatch con sede a Londra che si occupa delle libertà civili ha delle riserve su come i dati vengono utilizzati da persone come Wainwright. E ricorda una relazione presentata nel 2011 dall’Europarlamento in cui si rileva che Europol aveva in suo possesso dei dati di un gruppo di 33 giovani donne, che venivano definite delle prostitute e sospettate di attività criminali. Ma successivamente è risultato che la maggior parte delle giovani erano soltanto vittime del traffico di esseri umani e che “non c’erano prove sufficienti per tenerle come sospettate nel sistema di Europol”.
Il rappresentante di Europol nel Regno Unito ha notificato all’agenzia il problema. Ma i dati riguardanti queste donne erano ancora memorizzati nel database della polizia europea, trascorso ormai un anno, nonostante la segnalazione proveniente dalla Gran Bretagna avesse sostenuto e dimostrato il contrario. Le mani nuovo regolamento sul controllo esterno della protezione dei dati di Europol al garante europeo della protezione dei dati.
“I diritti individuali, lesi dal trattamento dei dati da parte di Europol, saranno rafforzati”, ha osservato la Commissione Ue e i suoi tecnocrati sempre pronti a salmodiare la filastrocca dei diritti umani. Ma che questo avvenga veramente è sempre bene dubitarne. Intanto l’unificazione delle due sedi, quella di Londra e quella de L’Aja, rappresenta un passaggio che non promette niente di buono per i popoli e i cittadini europei, come dimostra la vicenda delle donne vittime del traffico di essere umani. Chiunque sia ritenuto avverso al sistema politico-economico attuale potrebbe essere schedato e considerato pericoloso da tutte le polizie dell’Unione europea e non solo. Un metodo questo per controllare, frenare e annullare qualsiasi tipo di tensione sociale che lentamente nell’Ue sta crescendo a causa della politica di austerità della troika dell’usura internazionale che annienta il futuro dei popoli europei.


29 Marzo 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19972

 

Francia sfora target deficit 2012: 4,8% Pil e debito supera 90%

Le guerre per il neocolonialismo costano, ah già. Esporta democrazia, puro gesto d’amore per il prossimo

Nel 2011 5,3%. Ma il ministro dell’Economia Moscovici rivendica: “Abbiamo fatto quello che chiedeva la Commissione europea”

Parigi, 29 mar. (TMNews) – Con un deficit di bilancio al 4,8 per cento del Pil, la Francia ha sforato l’obiettivo di riduzione previsto per il 2012, che prevedeva un disavanzo al 4,5 per cento a fronte del 5,3 per cento del 2011. I dati, riferito dall’Insee, l’agenzia di statistica e analisi economica dell’Esagono, certificano uno sforamento già avvenuto mentre Parigi ha ripetutamente annunciato – con il nulla osta dell’Ue – che sforerà anche l’obiettivo di quest’anno, rinviando di un anno l’abbassamento del deficit al 3 per cento del Pil.

 Il ministro dell’Economia, Pierre Moscovici, ha rivendicato che senza le misure correttive prese in estate “il deficit avrebbe superato il 5,5 per cento del prodotto interno lordo. Abbiamo fatto lo sforzo strutturale atteso dalla Commissione europea, siamo sulla strada giusta”.

 Ma intanto con questo nuovo rosso in bilancio la Francia ha visto l’incidenza del debito pubblico sul Pil lievitare al 90,2 per cento, secondo l’Insee, a fronte dell’85,8 per cento del 2011.

http://www.tmnews.it/web/sezioni/top10/20130329_124709.shtml

 

Ribelli fanno strage di studenti all’università di Damasco

Lavrov contesta la decisione presa dalla Lega araba di assegnare alla Coalizione di Doha il seggio della Siria 

Matteo Bernabei

È di almeno 13 vittime il bilancio dell’attacco portato ieri dalle milizie ribelli con colpi di mortaio sulla facoltà di architettura di Damasco e sul bar annesso, all’interno del quale si trovavano molti studenti (foto). Decine di giovani sono rimasti feriti a causa dell’attacco sconsiderato sull’ateneo. Non un’azione ma un crimine di guerra, che è stato confermato sia dalle autorità siriane, sia dall’Osservatorio per i diritti umani, organizzazione vicina ai movimenti d’opposizione con sede a Londra. E neppure l’emittente satellitare al Arabiya, che in passato aveva fatto attenta opera di disinformazione sul conflitto in atto da quasi due anni, ha questa volta potuto far finta di non vedere l’azione indiscriminata delle truppe del sedicente Libero esercito siriano, braccio armato dei movimenti dissidenti esteri, costata nuovamente la vita a civili innocenti.
L’attacco è infine stato denunciato anche dal Sindacato nazionale degli studenti, che lo ha definito “un atto di vigliaccheria terrorista”. Eppure, nonostante tutto questo, nonostante le milizie ribelli si siano rese responsabili di un’ennesima strage, nonostante la realtà sia sotto gli occhi di tutti, non una dichiarazione di condanna per quanto accaduto è arrivata dai governi occidentali. Un atteggiamento consueto ormai per i leader europei e statunitensi che, pur sbandierando il vessillo della democrazia per giustificare l’ennesimo golpe, voltano la faccia di fronte i crimini commessi dai propri protetti. Silenzio ben più scontato da parte delle monarchie sunnite del Golfo persico e della Turchia, che fin dall’inizio della crisi hanno sostenuto l’opzione armata per rovesciare il governo di Bashar al Assad. E se questo è il risultato della fornitura illegale di armi fin qui portata avanti da Qatar e Arabia Saudita, con l’aiuto di Ankara e Washigton, il futuro di questa guerra alla luce della decisione della Lega araba, di assecondare l’armamento ufficiale dei ribelli, appare ancora più drammatico del presente.
Un atteggiamento, quello dell’organizzazione panaraba, contro il quale ieri si è espresso il ministro della Difesa russo, Sergei Lavrov, che ha contestato inoltre l’assegnazione del seggio di Damasco alla Coalizione di Doha, piattaforma che riunisce parte delle opposizioni siriane all’estero.
Per il responsabile della diplomazia del Cremlino la decisione presa nel corso dell’ultimo vertice arabo in Qatar, infatti, metterebbe in discussione il mandato dell’inviato speciale delle Nazioni Unite e della stessa Lega, Lakhdar Brahimi, al quale era stato chiesto di trovare una soluzione pacifica e negoziata per la fine del conflitto. Un compito ostacolato proprio dall’atteggiamento dell’Occidente e dei Paesi arabi, che nonostante le intenzioni “democratiche”, hanno sempre agito per favorire il rovesciamento delle attuali istituzioni di Damasco supportando il fronte dissidente, politico e militare, in ogni modo possibile.


29 Marzo 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19990

 

Dieci anni fa, la seconda guerra del Golfo, Fabio Falchi

Dieci anni fa, la seconda guerra del Golfo, Fabio Falchi

 Dieci anni fa, esattamente il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti, insieme con la Gran Bretagna, davano inizio alla Seconda Guerra del Golfo. A nulla valse l’opposizione della Francia, della Russia e della Cina, gli altri tre membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (un’organizzazione che confermò di non essere, né di poter essere, un autentico “attore geopolitico”, in grado cioè di far valere una propria visione politica, o se si preferisce in grado di far valere il punto di vista della comu nità internazionale anche contro la volontà di quella che oggi è la potenza predominante). Peraltro, gli Stati Uniti, consapevoli di poter contare a priori sul sostegno del circo mediatico occidentale, aggirarono ogni ostacolo inventandosi che Saddam possedeva armi di distruzione di massa e accusando il regime iracheno addirittura di complicità nell’attentato dell’11 settembre 2001. Fu quindi facile per gli Stati Uniti sostenere la necessità di una guerra preventiva contro l’Iraq, onde garantire la sicurezza della comunità internazionale, nonostante che già allora fosse evidente sia che Washington stava accusando l’Iraq senza alcuna prova, sia che l’attentato dell’11 settembre aveva fornito l’occasione a Washington di intervenire militarmente in Afghanistan, con il pretesto di distruggere il gruppo terroristico di Al Qaeda, guidato dal saudita Osama Bin Laden.

 

Ben altro, infatti, era il vero obiettivo degli Stati Uniti, che, come ebbe a rivelare, nel 1998, l’ex direttore della Cia, Robert Gates, avevano cominciato ad appoggiare l’opposizione al governo di Kabul perfino prima dell’intervento sovietico; un’operazione che, secondo Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza del presidente Jimmy Carter, aveva avuto «l’effetto di attirare i russi nella trappola afghana» (1). Né sfuggiva agli statunitensi che l’Afghanistan è da sempre un crocevia fondamentale tra Cina, India, il Medio Oriente e l’Europa. Un “territorio” ancora più importante dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, dato che la fine del bipolarismo offriva agli Stati Uniti la possibilità di raggiungere lo scopo che almeno da un secolo tentavano (e tentano tuttora) di conseguire. Ovverosia l’incontrastata supremazia globale, basata su una dittatura di mercato “non evidente”, benché reale, in quanto celata, più o meno bene, dalla foglia di fico della “democrazia liberale ” e “veicolata” dall’american way of living. Di conseguenza, da un lato, era essenziale per gli Stati Uniti liquidare tutto ciò che poteva ostacolare la formazione di una nuova società di mercato in funzione di una globalizzazione contraddistinta dalla “colonizzazione mercantile” di ogni mondo vitale e di ogni ambito sociale. Dall’altro, però gli Usa dovevano ridefinire gli equilibri mondiali in una prospettiva “americanocentrica”, sia mediante una ristrutturazione della Nato, al fine di ancorare definitivamente l’Europa all’Atlantico (un compito reso estremamente meno difficile dal tradimento della sinistra europea e dal fatto che l’oligarchia tecnocratica e “affaristica” del Vecchio continente poté sfruttare la riunificazione della Germania per mutare “in radice” il significato  politico dell’Unione Europea), sia mediante il controllo diretto del “cuore” dell’Eurasia.

 Non sorprende allora la deci sione di aggredire l’Iraq di Saddam Hussein, tanto più se si considera la relativa facilità con cui gli statunitensi avevano vinto la Prima Guerra del Golfo nel 1991. Una vittoria che pareva dar ragione a quegli analisti che ritenevano che l’aviazione e la superiorità tecnologica consentissero agli Stati Uniti di imporre la propria volontà a qualunque nemico, trascurando l’importanza dei “fattori culturali” (che invece si devono sempre tenere in considerazione, e proprio sotto il profilo politico-militare, come insegna la storia militare) e delle caratteristiche, non solo fisiche ma anche geopolitiche, di un determinato “territorio”. Comunque sia, anche se la Seconda Guerra del Golfo terminò nel giro di tre settimane, gli Stati Uniti, dopo la caduta del regime di Saddam, ancora una volta, come in Corea e soprattutto in Vietnam, furono incapaci di far sì che scopo politico e obiettivo militare fossero convergenti. E con il passare degli anni questa “forbice” continuò ad allargarsi, tanto da indurre Obama ad ordinare un ignominioso ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq.

 Nondimeno, l’esercito nordamericano si è lasciato dietro una spaventosa scia di sangue, una catena orrenda di crimini e violenze di ogni specie, che hanno causato centinaia di migliaia di vittime che si sommano alle vittime causate dall’embargo imposto dall’Onu dopo la Prima Guerra del Golfo, e che provocò conseguenze gravissime per la popolazione civile, in particolare bambini e malati privi di medicine. Sarebbe però del tutto errato interpretare il ritiro dell’esercito statunitense dall’Iraq come una rinuncia della potenza capitalistica predominante ai suoi progetti di egemonia mondiale, ché anzi gli Usa sono ancor più decisi ad impedire che si possa dar vita ad un autentico “ordine multipolare” e devono necessariamente controllare il maggior numero di “posizioni dominanti”, sotto l’aspett o geostrategico, in vista della sfida con la Cina. Del resto, non è certo un caso che, da circa due anni, in Siria si combatta una durissima guerra che vede contrapporsi all’esercito della Repubblica araba socialista della Siria – ed al popolo siriano fedele ad Assad – delle bande armate e dei gruppi di islamisti, che comprendono numerosi mercenari e terroristi stranieri, finanziati e supportati dalle “petromonarchie” del Golfo (ma sarebbe più corretto denominarle “petrodittature” del Golfo). Ossia da Paesi che sono tra i principali alleati dello Stato nordamericano, che sembra essersi reso conto che non può fare tutto da solo e che deve cedere delle “quote di potere” ad alcuni gruppi “subdominanti” , al fine di evitare i pericoli derivanti da una “sovraesposizione imperiale”.

 In sostanza, siamo in presenza di una nuova strategia che si fonda su un “approccio indiretto” anziché sullo scontro frontale, e che quindi  p uò rischiare di “giocare la carta” dell’islamismo contro l’Islam (2) (e la stessa eliminazione di Bin Laden si dovrebbe interpretare in questo senso). D’altronde, è noto che in ogni Paese vi sono delle divisioni di carattere etnico, religioso, sociale o ideologico che è possibile sfruttare, per favorire rivoluzioni colorate o per promuovere delle rivolte armate “eterodirette” o comunque guidate “dall’esterno”. Gli esempi purtroppo non mancano, basta pensare alla “primavera araba” in Egitto, alla ribellione dell’oligarchia islamista bengasina contro la Giamahiria di Gheddafi o alla rivolta contro il regime di Assad. Mutatis mutandis, lo scopo è sempre il solito, cioè «cambiare il regime di uno Stato avversario od occupare un territorio straniero, finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati». (3). E lo spiega chiaramente il documento strategico del Pentagono del 30 settembre 2001, secondo cui gli Sta ti Uniti devono intervenire ogni volta che vi sia «la possibilità che potenze regionali sviluppino capacità sufficienti a minacciare la stabilità di regioni cruciali per gli interessi statunitensi», e in particolare qualora vi sia «la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse». (4)

 In definitiva, il fallimento politico-militare in Iraq (e pure quello in Afghanistan, dove gli statunitensi devono usare i droni per combattere dei nemici fortemente radicati in un territorio che conoscono perfettamente, anche se possiedono solo “archi e frecce” per opporsi alla gigantesca macchina bellica della Nato) ha convinto Washington a considerare l’occupazione di un territorio solo come l’extrema ratio e a delegare ad altri “attori” la funzione di rappresentare gli interessi degli Usa nelle diverse aree del pianeta. Il che però fa aumentare il rischio di dipendere da personaggi come il “petrodit tatore” del Qatar o da loschi figuri come Hashim Thaci, il “boss” dello Stato “mafioso” del Kosovo (5). Ne consegue che facilmente gli eventi possono prendere una direzione imprevista, dal momento che, facendo leva su “quinte colonne” per destabilizzare un Paese o anche per far cadere un regime amico, ma di cui non ci si fida più (anche semplicemente perché considerato non più “utile” o troppo debole e corrotto), è inevitabile che si rischi di perdere il controllo della situazione. Non si deve dimenticare però che gli Stati Uniti hanno una notevole esperienza in questo genere di “operazioni”, sia pure in un continente distante dall’Eurasia. Ci riferiamo naturalmente all’America Latina, il cosiddetto “cortile di casa” degli Usa. Tanto che quando George W. Bush, dopo l’attentato dell’11 settembre, dichiarò  guerra al “terrorismo internazionale”, George Monbiot (editorialista del “Guardian” e docente universitar io) ebbe a scrivere che il presidente degli Usa avrebbe dovuto prima di tutto dichiarare guerra proprio agli Stati Uniti, dato che da decenni gli Usa gestivano un campo di addestramento terroristico – denominato, fino al gennaio 2001, “Scuola delle Americhe” – che a partire dal 1946 aveva addestrato oltre 60000 poliziotti e soldati dell’America Latina, tra i quali parecchi “illustri” torturatori, assassini, dittatori e terroristi del continente americano. (6)

 D’altra parte, la gigantesca macchina da guerra statunitense (o, se si preferisce, “occidentale”) comprende una miriade di “quinte colonne”, tra cui si devono annoverare non poche Ong e soprattutto i media mainstream. Sono stati infatti questi ultimi ad essere “in prima linea” al fianco dei militari statunitensi in Iraq (facendo apparire, nel migliore dei casi, la guerra d’aggressione degli Usa e le stragi di civili iracheni come una questione su cui era ed è possibile a vere punti di vista diversi – sempre che, s’intende, non si osi dubitare della bontà della “missione” degli Usa nel mondo, dato che secondo i media occidentali è indubbio che gli statunitensi spendano centinaia di miliardi dollari ogni anno unicamente allo scopo di difendere la democrazia e i diritti umani in ogni angolo del globo). E sono i media occidentali, che ora sono “in prima linea” contro la Siria di Assad, ad avere svolto un ruolo decisivo anche nell’aggressione contro la Serbia (il bombardamento “democratico” della Nato contro la Serbia, al quale diede il suo contributo pure l’Italia di Massimo D’Alema – uno dei tanti “compagni italiani” convertitisi al servilismo filo-atlantico” – s’iniziò il 24 marzo del 1999, esattamente quattordici anni fa) e nel (fallito) golpe del 2002 in Venezuela. (7) “Legioni” di gazzettieri e intellettuali al servizio dell’oligarchia occidentale, sempre pronti ad usare “due pesi e due misure” e capaci di inventarsi dittatori che massacrano la propria gente ma che non si vergognano – pur di favorire la “reazione”, adesso che Chavez è scomparso – di non ricordarsi che, quando Chavez, nel 1992, con altri ufficiali bolivariani tentò di fare un colpo di Stato, al potere vi era “un tale” Carlos Perez. Vale a dire il politico venezuelano che aveva portato il suo Paese al disastro sociale ed economico – seguendo un “modello neoliberista”, non molto dissimile da quello che oggi viene imposto dalla cosiddetta “troika” (Ue, Bce e Fmi) – e che non aveva esitato a ordinare di sparare contro il proprio popolo (fonti ufficiali parlano di 200 morti, ma probabilmente furono più di 2000), ribellatosi perché stava letteralmente morendo di fame.

 Tuttavia, né l’azione dei vari “scagnozzi” degli Usa né l’accanimento dei media occidentali contro l’America Latina di Chavez, di Morales o della Kirchner hanno potut o impedire il diffondersi e il rafforzarsi nel continente americano di una concezione e di una prassi politica decisa a contrastare la prepotenza degli Stati Uniti. Come non hanno potuto aver ragione né della “resistenza” della Siria di Assad né di quella dell’Iran di Ahmadinejad e degli ayatollah. Sotto questo aspetto, l’umiliazione inflitta alle truppe statunitensi in Iraq (e in Afghanistan) “gioca” a vantaggio di chi continua a battersi contro gli Usa e la dittatura di mercato, traendo profitto dalla riluttanza degli Stati Uniti ad impegnarsi in un altro conflitto. Si può dunque affermare che l’aggressione contro l’Iraq, indipendentemente dalle critiche che si possono (e si devono) rivolgere al regime di Saddam Hussein, è diventata, in un certo senso, il simbolo della tracotanza degli Usa e di quella dei gruppi di interesse che gli Usa difendono e rappresentano, nonché della “miseria”, umana e intellettuale, dei loro zelanti servitor i, pagati profumatamente per giustificare le ingiustizie peggiori e i delitti più efferati. La tragedia dell’Iraq è diventata insomma il simbolo della barbarie atlantista, della volontà di potenza di uno Stato talmente ebbro di violenza e di perversioni, da ritenere l’intero pianeta una sorta di “oggetto-sé” (per usare un termine tecnico della psicoanalisi). Ma la tragedia dell’Iraq, proprio come quella del Vietnam o quella dell’Afghanistan, ha confermato – al di là di ogni altra considerazione, per quanto corretta possa essere – che un Paese non disposto a farsi colonizzare può sempre “farcela”. E’ una lezione che numerosi Paesi sembrano avere ben appreso, a cominciare dalla Siria, ma che pare invece essere quasi del tutto ignorata in Europa, al punto che non è forse azzardato pensare che anche per questo motivo il Vecchio continente stia precipitando nel baratro di una crisi che, non a caso, non è tanto una mera, ancorché graviss ima, crisi economica, quanto piuttosto una crisi (geo)politica, sociale, economica e culturale.

 1) “Le Nouvel Observateur”, Parigi, n.1732, 15/1/1999.

 2) Al riguardo si veda L’islamismo contro l’Islam?, “Eurasia”, 4/2012.

 3) Manlio Dinucci, Sotto il corridoio afghano, “il manifesto”, 18/10/2001.

 4) ”Quadrennial Defense Review”, 30/7/2001 (notare la data di pubblicazione).

 5) Si veda l’ottimo articolo di William Engdahl, http://www.eurasia-rivista.org/la-bizzarra-strategia-di-washington-sul-kosovo-potrebbe-distruggere-la-nato-giocare-con-la-dinamite-e-la-guerra-nucleare-nei-balcani/15205/.

 6) Vedi Massimo Bontempelli e Carmine Fio rillo, Il sintomo e la malattia, Editrice C.R. T., Pistoia, 2001, p. 81 e ss .

 7) Un documento di notevole valore, a tale proposito, è il video “La Rivoluzione non sarà teletrasmessa” che «mostra nei dettagli tutte le fasi della manipolazione mediatica svolta dalle cinque tv private venezuelane e il ruolo decisivo della massiccia reazione popolare che impedì il progetto oligarchico-statunitense» (http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Unique&id=6746).

 http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=45279

 

Qual è l’equazione della Siria, ora che i suoi nemici hanno usato armi chimiche?, Amin Hoteit

Nella sua ultima intervista al Sunday Times[1], pubblicata il 3 marzo 2013, il presidente siriano Bashar al-Assad ha detto: “Tutto ciò che è stato menzionato dai media e dalle retoriche dichiarazioni dei politici sulla questione delle armi chimiche siriane, è speculazione. Non abbiamo mai parlato, e non abbiamo mai discusso, con nessuno delle nostre armi. Ciò di cui il mondo deve preoccuparsi, sono le sostanze chimiche finite nelle mani dei terroristi. Le sequenze video già diffuse mostrano che attualmente testano tali sostanze tossiche sugli animali, e anche che oggi  minacciano il popolo siriano di farlo morire in questo modo! Abbiamo diffuso questo video in altri Paesi. Ecco dove il mondo dovrebbe concentrarsi invece di sprecare sforzi inventandosi titoli elusivi sulle armi chimiche siriane per giustificare un intervento in Siria.”

Non c’è dubbio che i video in questione sono stati visti e la loro autenticità verificata dai servizi competenti di Francia, Spagna e altrove [2]. Vi è il dubbio che la minaccia contro il popolo siriano sia stata spietatamente applicata il 19 marzo [3], a Khan al-Assal nella regione di Aleppo, dove il presidente francese vuole integrare le sue pretese agognate “zone liberate” degli “ammirevoli rivoluzionari“, che fanno il lavoro sporco che invoca e che “normalmente” ignora bellamente. Nessuno dubita delle ragioni per cui il ministro degli Esteri francese vuole “rapidamente armare” la cosiddetta opposizione siriana [4], ovvero che a suo parere non solo “As sad non merita di restare sulla terra” [5], ma neanche i recalcitranti cittadini siriani, civili e fedeli alla loro patria. 

 

Nessuno dubita che il Presidente siriano, le autorità siriane, non si siano mai nascoste “rifiutando la realtà” orribile e terrificante dei cittadini siriani, e infamante e nauseante per i cittadini occidentali ingannati dai loro leader bugiardi, rapaci e sciacalli. Senza dubbio perché è oramai chiaro, anche ad alcuni media da tempo disonesti[6], che lo Stato e il popolo siriani devono essere sacrificati sull’altare delle ambizioni egemoniche di certe “grandi” potenze e dei loro mediocri alleati. Ma ora l’uso criminale di armi chimiche, dopo tanti crimini non meno barbari, cambia l’equazione per il popolo e lo Stato siriani? Il Generale Hoteit risponde alla domanda.

[Nota di Mouna Alno-Nakhal].

 

Alcuni sono stati sorpresi dall’uso di armi chimiche da parte delle bande terroristiche che imperversano in Siria, suscitando addirittura la reazione di disapprovazione dei governi occidentali, che non si accontentano più di falsare i fatti prima di usarli per propagare ulteriormente la loro aggressività, ma si arrogano il diritto di nominare uno statunitense di origine siriana [un tale Ghassan Hitto, ignoto ai siriani [7] NdT] a capo di un governo dell’opposizione siriana, chiamato “governo ad interim”! Siamo quindi di fronte ad una “escalation pianificata dell’aggressione anti-siriana” e per individuare il livello effettivo di questi eventi, dobbiamo tornare ai fondamenti della questione. Uno di questi aspetti riguarda naturalmente l’identità di coloro che hanno utilizzato le armi chimiche; identità evidente a qualsiasi osservatore disposto a vedere l’ovvio. Il primo è dato dal fatto che il missile a testata chimica, lanciato sul Khan al-Assal nei pressi di Aleppo, ha preso di mira una zona interamente controllata dall’Esercito nazionale siriano, la cui popolazione ha respinto all’unanimità i presunti ribelli armati sia siriani che stranieri, e ha dimostrato il suo supporto costante allo Stato e al suo governo siriano legittimamente eletto. Il secondo è legato al “timing” dell’attacco, avvenuto in un momento critico che svela l’incapacità delle bande di cambiare i rapporti di forza a loro favore, tanto che non possono effettivamente riuscire a controllare nemmeno una parte del Paese, negandone l’accesso alle forze governative, non avendo così alcuna legittimità nonostante tutte le loro armi e la logistica a loro disposizione! Senza dimenticare un ovvio terzo aspetto: che la crisi vissuta dalla famigerata cosiddetta opposizione siriana, divisa dentro e fuori,  uniti solo nella sua “ostilità nei confronti del regime”, per disperdersi immediatamente davanti alla “sete di potere”.

Tutto questo ci permette di dire che i terroristi hanno usato armi chimiche su decisione del Comando Supremo [degli USA], con la collaborazione e la complicità di un triangolo regionale [Qatar, Arabia Saudita, Turchia] e di un binomio europeo [Francia, Gran Bretagna], che quindi non sono che degli esecutori per poter giungere ai seguenti obiettivi:

1. Superare la crisi strutturale e l’incapacità sul terreno subite dalla presunta opposizione siriana e introdurre una nuova arma nella battaglia, per raggiungere l’equilibrio agognato dal “fronte degli aggressori”, come ha detto il ministro degli esteri francese Laurent Fabius, che “non può accettare l’attuale squilibrio” tra uno Stato sovrano e i mercenari asserviti agli stranieri, e che ritiene che la “revoca dell’embargo sulle armi [destinate all’opposizione siriana] sia l’unico modo per giungere a una soluzione politica!” [4]. Ma le regole di guerra hanno sempre insegnato che un avversario, incapace di raggiungere i suoi obiettivi, chiede rinforzi e/o introduce una nuova arma sul campo di battaglia. E questo è proprio il caso dei mercenari, incapaci di controllare la situazione generale nonostante che gli incessanti rinforzi umani siano arrivati a 135.000 uomini armati, ridottisi a 65000 sotto i colpi dell’esercito nazionale siriano e anche dai cambiamenti nella loro situazione, non potendo più ingannare sulle loro vere motivazioni. Bloccati politicamente e militarmente, non gli rimane che usare armi chimiche per mutare la situazione sul campo e recuperare l’equilibrio agognato.

2. Soddisfare i leader della NATO, in particolare della Turchia, inviando un forte messaggio alla Siria dicendole che le loro ripetute minacce di fornire “armi letali” alla cosiddetta opposizione siriana, sono serie e che le autorità siriane farebbero bene a prendere in considerazione e a rivedere i loro calcoli, come affermato da più di un funzionario occidentale… a loro avviso, la Siria dovrebbe rivedere i calcoli che hanno portato alla determinazione del governo siriano e del Presidente al-Assad a non fare affidamento che esclusivamente sulle decisioni del popolo, respingendo i dettami stranieri, dovunque provengano, compresi quelli volti a designare dei leader saltando le urne. Inoltre, la nomina di un cittadino statunitense di origine siriana a primo ministro di un governo fantoccio, è solo un assaggio di ciò che gli occidentali imporrebbero alla Siria se il popolo siriano , così come le sue autorità nazionali e patriottiche, si rifiutassero. Anche in questo caso, gli è rimasto solo l’uso di armi chimiche per fare pressione, intimidire o terrorizzare le autorità siriane affinché rinuncino ai loro principi di governo, sovranità e indipendenza.

3. Permettere ai leader statunitensi di testare concretamente la coesione e la compostezza della leadership siriana, soprattutto mentre la spinge a rispondere a questo crimine commesso dalle bande al loro soldo, commettendo un crimine della stessa natura. In altre parole, spingendo la leadership siriana a contrattaccare con armi chimiche,nel caso in cui non riescano ad accusarla di averlo fatto.  E gli Stati Uniti avranno il pretesto sufficiente per intervenire militarmente sotto la copertura di diversi organismi internazionali e regionali e, infine, di riuscire a “far cadere il regime” che si è opposto ed è ancora in grado di resistere, nonostante il considerevole numero di attaccanti e dell’estrema violenza dell’aggressione; così spingendo la Russia ad avvertire chiaramente che “la sua caduta è impossibile!

La decisione di utilizzare il sarin è stata adottata dalla dirigenza USA due mesi fa, al fine di sfruttarla come pretesto per l’intervento. Gli articoli della CNN sul preteso impiego del gas da parte di Damasco messa alle strette, sono aumentati dall’inizio dell’anno [8] e dimostrano che quest’ultimo argomento è evaporato come i precedenti, poiché la coerenza siriana sul piano politico e mediatico ha fatto fallire alcuni dei principali obiettivi dei suoi nemici. Anche se i risultati di questo atto criminale hanno avuto gravi conseguenze, tra cui il numero delle vittime in Siria [26 morti, tra cui 16 soldati e 86 feriti, al 20 marzo 2013, nota del traduttore]. Tuttavia, i suoi effetti vanno nella direzione opposta alla volontà degli Stati Uniti. Infatti:

1.  La condanna internazionale di questo attacco chimico dei presunti oppositori per la libertà, ha creato imbarazzo tra i leader occidentali, in particolare rivelando l’ipocrisia dei leader degli Stati Uniti che, dopo aver detto di non sapere se i ribelli o le autorità siriane avessero usato queste armi, si sono impegnati in una fuga in avanti affermando: “non accetteremo che il regime usi armi chimiche“, il che equivale a un’implicita ammissione di averne accettato, incoraggiato e ordinato l’utilizzo da parte dei ribelli! Anche se riteniamo che i leader degli Stati Uniti non abbiano limiti legali, morali o umanitari, tuttavia crediamo che la situazione in cui si sono invischiati potrebbe impedirgli d’invocare l’uso di armi chimiche, chiedendo alla comunità internazionale d’intervenire militarmente in Siria.

 

2. Per quanto riguarda la cosiddetta opposizione siriana, si può dire che tale crimine supera il semplice imbarazzo e costituisce uno scandalo enorme che, sicuro, la dividerà ancor più di quanto già lo sia, soprattutto quando le vittime sono per lo più donne e bambini, tra cui una ragazza che non poteva non sentire: “Questa è la libertà? Possa Dio impedirla per sempre!“.

3. Rimangono gli “urbani” che ancora si incontrano sotto l’egida della presunta Lega araba e su cui  non mi soffermo, se non per dire che il loro silenzio è un’ammissione di complicità in questo crimine condannabile e riprovevole da parte di qualsiasi persona sana di mente e dotata di un minimo di nobiltà, tutti termini assenti dal loro vocabolario.

Infine, anche se l’uso di armi chimiche da parte del “fronte degli aggressori” guidato dagli Stati Uniti”, è un’escalation della violenza contro la Siria, non è riuscito a fare breccia nella difesa e non ha in nessun modo assicurato l’equilibrio delle forze che gli Stati Uniti cercano disperatamente prima di sedersi al tavolo dei negoziati. Invece, gli Stati Uniti hanno perso delle carte che non saranno compensate certamente dalla nomina di un cittadino statunitense di origine siriana a “capo di un governo provvisorio.” Né lui, né il criminale attacco con armi chimiche, sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi, in quanto non alterano i parametri essenziali dell’equazione su cui poggiano lo Stato siriano e la sua legittimità.

 

Amin Hoteit 21/03/2013 Articolo originale: al-Tayyar

Articolo tradotto dall’arabo da Mouna Alno-Nakhal per Mondialisation.ca

 

Note:

[1] Intervista completa con il presidente siriano con il Sunday Times

[2] I terroristi testano l’effetto di gas tossici di fabbricazione turca, in territorio siriano

[3] Siria: i terroristi di al-Qaida, sostenuti da USA-NATO, armati di ADM. Armi chimiche contro il popolo siriano

[4] Siria: Fabius vuole armare l’opposizione “velocemente”

[5] Siria: Fabius, “Assad non merita di restare sulla terra”

[6] In Siria, armi a doppio taglio.

[7] Siria: il primo ministro dell’opposizione rifiuta ogni dialogo con Assad

[8] Il potenziale bellico chimico della Siria: Cosa son e quali sono i rischi per la salute?

 

Il Dottor Amin Hoteit è un analista politico, esperto di strategia militare ed Generale di brigata in pensione libanese.

Copyright © 2013 Global Research

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

 


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Cipro e le Inammissibili Ingerenze Turche – A rischio l’Accordo ENI con l’Italia – Interrogazione alla Commissione e uropea

Giovedì,  Marzo 28th/ 2013 

– Qui Europa, Iniziativa di Libero Confronto, “Pensa e Scrivi” –

    Comunicato Stampa di Mario Borghezio, Eurodeputato

Esteri / Ingerenze Turchia  

Bruxelles, Ankara, Nicosia – Interrogazione alla Commissione europea / Esteri – L’intervento gravissimo della Turchia, in funzione anti-Cipro, costituisce, secondo un atto inconcepibile, a danno di due Pesi membri, da parte di un Paese che bussa alla porta dell’Europa. Stamane ho fatto presente alla Commissione Barroso – chiedendo sollecito intervento – il fatto che ministro dell’Energia Taner Yildiz ha annunciato che il governo turco ha deciso di sospendere i progetti avviati con l’Eni a causa della partecipazione del gruppo petrolifero italiano al programma di esplorazione dei giacimenti di gas al largo delle coste di Cipro, che Ankara contesta in una disputa sulle acque territoriali.

 ENI – A rischio l’Accordo Italia-Cipro per Illegittime Ingerenze Turchia    

A gennaio l’Eni aveva annunciato la firma di un accordo con il governo di Nicosia per l’esplorazione e lo sfruttamento di tre zone del giacimento di gas al largo delle coste dell’isola in consorzio con il gruppo coreano Kogas e la Turchia contesta al governo di Nicosia il diritto di gestire autonomamente le risorse energetiche al largo dell’isola. Inoltre, Ankara ha minacciato più volte di sospendere ogni collaborazione con i gruppi petroliferi internazionali che concludano accordi con il governo cipriota e ha diffidato il governo cipriota negli ultimi giorni dall’usare le riserve di gas quale garanzia per superare l’attuale crisi finanziaria”.

 Il Quesito alla Commissione europea                                                                       

Pertanto stamane, Giovedì 28 Marzo, ho chiesto ufficialmente alla Commissione Europa – su interrogazione – quanto segue: “Come valuta la Commissione Europea questo atteggiamento della Turchia, anche in relazione ai gravi danni che può arrecare all’economia di due Paesi Membri – Cipro e Italia – e quali iniziative intende intraprendere in merito?”. Attendo sollecita risposta.

Comunicato Stampa di Mario Borghezio – Eurodeputato

http://www.quieuropa.it/cipro-e-le-inammissibili-ingerenze-turche-a-rischio-laccordo-eni-con-litalia-interrogazione-alla-commissione-europea/

 

L’intero Dna dell’uomo è stato coperto dai brevetti

La Corte suprema Usa chiamata ad esprimersi sui due «frammenti lunghi» Brca1 e Brca2

tratto da: http://www.corriere.it/

Chi è il «proprietario» dei geni? Sono brevettabili quei piccoli frammenti di Dna alla base della vita? Da oltre 30 anni le autorità giuridiche di tutto il mondo stanno discutendo proprio della brevettabilità del Dna.

 

Interrogandosi sulla liceità che qualcuno possa accampare diritti su un prodotto della natura, del creato. E questo non riguarda solo i geni, ma anche la funzione di determinate cellule. Il prossimo appuntamento dell’annoso dibattito è fissato per il 15 aprile, quando la Corte suprema degli Stati Uniti dovrà esprimersi riguardo ai brevetti detenuti da Myriad Genetics su due importanti geni la cui mutazione espone le donne a un più elevato rischio di cancro al seno: i geni Brca1 e Brca2. Su un piatto della bilancia della giustizia c’è la natura «creatrice» di questi geni, sull’altro pesano le ricerche per isolarli e individuarne gli effetti. I giudici dovranno valutare quanta ingegnosità è stata impiegata dalla Myriad Genetics per isolare e caratterizzare Brca1 e Brca2. E quanto le tecniche adottate fossero così originali da giustificare la tutela brevettuale.

L’intero genoma umano è ormai coperto da qualche forma di brevetto, un fenomeno che mette a rischio la «libertà genetica» degli individuiE’ quanto afferma uno studio di due ricercatori della Cornell university di New York sugli oltre 40 mila brevetti depositati. Studio pubblicato da Genome Medicine e che ora aleggia sulla decisione della Corte suprema statunitense. I geni che compongono il Dna sono formati da sequenze di «lettere» (quattro le lettere chiave dell’alfabeto della vita) più o meno lunghe in base alle diverse combinazioni espresse. I ricercatori hanno analizzato i brevetti sui frammenti di Dna lunghi, trovando che coprono il 41% del genoma umano. Se si considerano però anche le catene più piccole, contenute in quelle lunghe, si arriva al 99,999% dei geni. E un esempio è proprio il brevetto sulle sequenze di Dna che costituiscono Brca1 e Brca2, favorenti il tumore al seno. La Myriad , azienda biotech depositaria dei «patentini», afferma che il loro brevetto copre non solo i due geni, due catene con molte lettere, ma anche tutti i frammenti più piccoli contenuti nelle catene e che possono esprimere altre funzioni. In realtà, in base alle combinazioni di lettere, si tratta di geni nei geni. Secondo lo studio della Cornell university , Brca1 e Brca2 contengono almeno 689 sequenze di altri geni, tutti estranei ai tumori, che però in teoria non possono essere studiati senza infrangere il brevetto. In altre parole, la Myriad studiando i tumori ha individuato, e brevettato, due lunghe sequenze di Dna. Ma le combinazioni di lettere all’interno di queste sequenze esprimono anche molti altri geni che nulla hanno a che vedere con il tumore. La Myriad è ora «proprietaria» solo di Brca1 e Brca2 o anche degli altri 689 geni codificabili nelle stesse sequenze?

Sulla questione specifica si deve esprimere appunto la Corte suprema. Uno degli autori dello studio pubblicato da Genome Medicine , Christopher Mason, vorrebbe una sentenza anti-brevetti: «Se si concede che questi diritti di proprietà siano esercitati – dice -, è a rischio la nostra “libertà genomica”. E proprio nel momento in cui si sta entrando nell’era della medicina personalizzata, ironicamente abbiamo le maggiori restrizioni sulla genetica. Bisogna chiedersi come farà il mio medico curante a “guardare” il mio Dna senza rischiare di violare un qualche brevetto». Sotto accusa è anche l’ufficio brevetti statunitense che in passato ha concesso con troppa facilità «patentini» sui geni. Più severo è stato l’analogo ufficio europeo, dicono i ricercatori americani. Ma, tornando al quesito trentennale, forse sarebbe meglio riconoscere agli uomini il diritto alla libertà genomica e cellulare.

Tratto da: http://www.astronavepegasus.it/

 

http://terrarealtime.blogspot.it/2013/03/lintero-dna-delluomo-e-stato-coperto.html#more

 

L’impegno di Obama in Medio Oriente

di Manlio Dinucci – 27/03/2013

 Fonte: Il Manifesto 


Duplice è l’impegno ribadito da Obama nella visita in Israele. La sempre più forte alleanza degli Usa con lo stato israeliano, confermata dal fatto che «i nostri militari e i nostri servizi di intelligence cooperano più strettamente che mai». Ciò è indubbio. La creazione di «uno stato palestinese indipendente e sovrano». Ciò è falso. Lo «stato palestinese» che hanno in mente a Washington somiglia molto a una «riserva indiana»: quattro mesi fa, alle Nazioni unite, gli Stati uniti hanno votato con Israele perfino contro il riconoscimento della Palestina quale «stato osservatore non-membro». Ma il dichiararsi favorevoli a uno stato palestinese accredita l’idea che gli Usa sono impegnati, come non mai, per la pace e la democrazia in Medio Oriente.

 Obama ha fatto inoltre da paciere fra Turchia e Israele: Netanyahu ha telefonato a Erdogan scusandosi per gli «errori operativi» commessi nell’attacco alla «Freedom Flotilla» che trasportava i pacifisti a Gaza. Scuse subito accettate: sulle tombe dei pacifisti uccisi dagli israeliani sarà ora scritto «morto il 31 maggio 2010 per un errore operativo». Dopo gli incontri in Israele, Obama ha fatto scalo ad Amman, ribadendo «l’impegno degli Stati uniti per la sicurezza della Giordania», messa in pericolo dalla «violenza che filtra attraverso la frontiera con la Siria». Occorre vedere, però, da quale direzione. Come documenta il giornale britannico «Guardian», istruttori Usa, coadiuvati da francesi e britannici, addestrano in Giordania i «ribelli» che vengono infiltrati in Siria. Si stringe così il cerchio attorno alla Siria, con l’operazione a guida Usa/Nato condotta attraverso Turchia e Israele (ora riconciliate) e la Giordania. Ed è pronto, per la spallata finale, il casus belli: il lancio di un razzo con testata chimica, che ha provocato la morte di decine di persone nella zona di Aleppo.

 Parlando a Gerusalemme, Obama ha espresso solidarietà con «la crescente preoccupazione israeliana per le armi chimiche della vicina Siria», avvertendo che, se l’inchiesta troverà le prove che sono stati i militari siriani a usare l’arma chimica, ciò «cambierà le regole del gioco». In altre parole, minaccia un intervento «preventivo» Usa/Nato in Siria, con la motivazione di bloccare l’arsenale chimico prima che venga usato. Se emergessero tali «prove», ciò vorrebbe dire che il governo siriano ha deciso di usare un razzo a testata chimica contro propri soldati e civili leali al governo (la quasi totalità delle vittime), per fornire agli Usa e alla Nato, su un piatto d’argento, la giustificazione per attaccare e invadere la Siria.

 Intanto Washington ha già fornito ai «ribelli», insieme a dollari e armi, il futuro premier: Ghassan Hitto, cittadino statunitense di origine siriana. Un executive texano della tecnologia dell’informazione, formalmente scelto dai «ribelli». Che cos’altro dovrebbe fare Obama per la pace e la democrazia in Medio Oriente?

 Manlio Dinucci

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=45276

 

Pd a rischio crac: e spunta una lettera ai dipendenti dove si annunciano i tagli

Per il Partito Democratico il 2013 rischia di essere l’Annus Horribilis di una storia politica decennale ma sull’orlo del baratro. Dopo l’ennesima sconfitta della gioiosa macchina da guerra, adesso il vero problema è economico: le finanze languono e si rischia il crac. Soluzione? Si taglia. Come si evince dal documento firmato da Antonio Misani e Francesco D’Avanzo.

 Nel caso il finanziamento pubblico ai partiti venisse abolito, o rivisto, la macchina del PD potrebbe collassare. La prova è finita in rete.

 Una lettera indirizzata ai circa duecento dipendenti del Partito Democratico a firma Antonio Misiani (il tesoriere), in cui si annuncia un piano di ristrutturazione “lacrime e sangue”.

 È questo il contenuto pubblicato in esclusiva dal sito de La Zanzara, popolare trasmissione radiofonica di Radio 24, condotta da David Parenzo e Giuseppe Cruciani.

 Nella lettera, si parla senza mezzi termini di un “severo ridimensionamento della struttura dei costi del PD nazionale per arrivare preparati ad affrontare la complessa fase di passaggio ad un nuovo modello di finanziamento dei partiti“, che comincerà immediatamente, a partire dal mese di aprile.

 Con la chiusura delle sedi di “via del Tritone 87 e 169”, “la riorganizzazione degli spazi assegnati a dipendenti, collaboratori e dirigenti politici”, la riduzione del 75% dei budget “assegnati ai membri della Segreteria nazionale e ai Giovani democratici”, l’azzeramento del budget ai forum.

 Ma non solo, perché ad essere toccati direttamente saranno anche i dipendenti e “i contratti con i fornitori, del PD e di YouDem, al fine di massimizzare le economie di spesa”.

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http://www.infiltrato.it/notizie/italia/pd-a-rischio-crac-e-spunta-una-lettera-ai-dipendenti-dove-si-annunciano-i-tagli