Crisi Cipro: E se il sogno europeo stesse per finire?

MARZO 28, 2013

 Alexandre Latsa RIAN 27/03/2013

 Un po’ di storia

I recenti avvenimenti a Cipro hanno causato un’overdose mediatica assai spesso lontana dalla realtà.  La parte meridionale dell’isola di Cipro (la parte settentrionale è militarmente occupata dalla Turchia dal 1974), ha una popolazione di 770.000 abitanti, rappresentando solo lo 0,3% del PIL nell’area dell’euro. L’isola, anche se relativamente sconosciuta al grande pubblico, almeno fino a questa crisi, ha avuto una storia ampiamente travagliata, suddivisa tra oriente e occidente. I lettori interessati possono saperne di più visitando questa pagina di storia illustrata dell’isola, fino al 2004. E’ proprio in quel momento che Cipro aderiva all’Unione europea (il Paese era il più ricco dei nuovi aderenti, all’epoca) e nel 2008, Cipro entrava nella zona euro. Al tempo, l’isola stava già ricevendo flussi di capitali russi e la legislazione fiscale era sostanzialmente la stessa di oggi. Lo stesso anno, la crisi finanziaria colpì l’isola, come tutti i Paesi occidentali, e nella ristrutturazione del debito greco le attività bancarie cipriote (che aveano una percentuale elevata di titoli di stato greci) furono brutalmente svalutate per decisione dell’Eurogruppo. Nel 2011, il Paese aveva ancora un debito, in percentuale del PIL, inferiore a quelli di Francia, Italia e Germania. Jacques Sapir ricorda, inoltre, che le banche cipriote hanno oggi attività pari a 7,5 volte il PIL dell’isola, mentre la media UE è di 3,5 volte, assai meno alle attività bancarie del Lussemburgo, che pesano 22 volte il suo PIL.

 Racket fiscale: nuova soluzione della crisi?

La Trojka (l’alleanza tra BCE, FMI e UE) ha scelto misure drastiche per avere il denaro necessario per salvare le banche: prendere il denaro tramite prelievi obbligatori a tutti i titolari di un conto nell’isola. Una misura senza precedenti e probabilmente contraria a tutti gli standard bancari internazionali legali, che le autorità russe hanno descritto non solo ingiusta e pericolosa, ma che dimostra anche come il modello economico neoliberista sia completamente esaurito. I funzionari russi hanno anche parlato di provvedimento di tipo sovietico e la stampa russa titola della fine della civilissima Europa. I commentatori francesi, a loro volta, in questi giorni hanno invece giustificato l’imposta sui conti ciprioti del racket della Troika, dicendo che dopo tutto si riscuoteva denaro sporco e russo, o russo e quindi sporco, e che pertanto la misura è giustificata. Menzione speciale di Marc Fiorentino secondo cui non ci si deve ‘infognare’ in questo paese… “Dove la gente non paga le tasse (…) e di colpire i soldi della mafia russa“. I ciprioti saranno contenti. Per Christophe Barbier la misura colpisce “denaro che non è di Cipro“, cosa a cui migliaia di lavoratori che rischiano il licenziamento, difficilmente crederanno.

I politici non sono da meno. Per il ministro delegato presso il Ministro degli esteri Bernard Cazeneuve “E’ normale che gli oligarchi russi paghino”, per Lamassoure “E’ normale che la lavatrice per lavare il denaro sporco di Cipro sia fermata e che gli oligarchi russi paghino” e Daniel Cohn-Bendit “che tassare gli oligarchi russi non m’impedirà di digerire ciò che ho mangiato stasera” (fonte). Quanto a François d’Aubert, a sua volta ha detto che “non c’è ragione per cui i contribuenti europei risparmino le finanze degli oligarchi“. Ci piacerebbe sentire gli stessi commentatori sugli investimenti russi in Inghilterra, il Paese che concede il diritto di soggiorno a un gran numero di oligarchi di cui si può grandemente dubitare che abbiano fatto fortuna legalmente, o ancora più vicino, sui numerosi investimenti russi in Francia, in particolare sulla Costa Azzurra, alla fine degli anni ’90. Romaric Gaudin mette relativamente le cose in chiaro dicendo che “gli europei, pronti a piagnucolare per la difficile situazione di Mikhail Khodorkovskij, dimenticano che aveva costruito il suo impero sulla Banca Menatep, con sede a Cipro…” o che “Quando il denaro russo va a Cipro, è necessariamente sporco. Viceversa, quando il denaro russo costruisce il gasdotto sotto il Mar Baltico per la Germania, o investe nel calcio britannico, diventa rispettabile.”

 

I miti sono duri a morire, a Cipro

A Cipro, guardando più da vicino, la situazione non è esattamente come descritta dalla stampa francese. Secondo l’economista Natalija Orlova, l’ammontare dei depositi nelle banche cipriote arrivava a 90 miliardi di euro (persone fisiche e giuridiche) di cui detenute solo per il 30% da persone (fisiche o giuridiche) non native della zona Euro. I depositi russi a Cipro sono stimati in circa 20 miliardi di dollari, e 13 miliardi corrispondono a depositi greci, inglesi e anche mediorientali. La registrazione delle imprese ha infatti contribuito alle fortune di Cipro, che in effetti offre un quadro giuridico e fiscale vantaggioso e flessibile. Molte aziende quindi hanno logicamente sede legale a Cipro, nell’ambito dell’Unione europea. Tra esse molte aziende russe con intense attività economiche verso l’UE, che beneficino del regime fiscale favorevole di Cipro (IVA al 10%) e di un accordo sulla doppia imposizione, in modo da poter rimpatriare i profitti in Russia senza essere tassati due volte.

Le argomentazioni sulla “volontà di combattere” contro il riciclaggio di denaro sporco e russo, o russo e quindi necessariamente sporco, sono divenute una grottesca caricatura mentre i depositi russi a Cipro sono pari a circa 20 miliardi di euro. Rispetto all’anno scorso, vi sono stati 120 miliardi di movimenti di capitali russi verso Cipro, ma anche e soprattutto 130 miliardi di euro di movimenti di capitali da Cipro verso la Russia (fonti qui e qui). Dal 2005, gli investimenti da Cipro alla Russia sono maggiori degli investimenti dalla Russia a Cipro! Secondo Marios Zachariadis, professore di economia presso l’Università di Cipro: “La percentuale di aziende straniere illegali a Cipro non è più alta di quelle in Svizzera o Lussemburgo“, Paese che ha da poco firmato il trattato per evitare la  doppia imposizione con la Russia, come ha fatto Cipro. Un fatto confermato dal segretario di Stato per le Finanze tedesco, Stefan Kampeter, che ha esplicitamente affermato che “non vi sono prove di dumping illegale a Cipro, e che le accuse di riciclaggio di denaro nei confronti di Cipro non possono essere provate“.

Il parlamento cipriota ha votato contro il piano iniziale della Trojka, che prevedeva un prelievo forzoso su tutti i conti dell’isola, e solo nella notte tra domenica a lunedì è stato trovato un accordo, vale a dire un prelievo del 100% delle attività superiori ai 100.000 euro su tutti i conti bancari della banca più gravata dell’isola, e una percentuale non ancora fissata (30-40%) su tutti i conti superiori ai 100.000 euro della seconda più grande banca del Paese. Chiaramente, una pura e semplice estorsione di denaro cipriota e non-cipriota (russo, est-europeo, inglese e mediorientale) massicciamente depositato nelle due principali banche dell’isola. E’ normale che le attività estere legali paghino per la crisi greca? Potete immaginare le società francesi o statunitensi in Russia tassate al 40% del proprio patrimonio, per risarcire il debito dei Paesi dell’Unione eurasiatica se fossero in cattive condizioni? Possiamo cercare di immaginare la reazione statunitense in una situazione del genere.

 Guerra finanziaria tra ortodossia ed energia

Cipro sembra in realtà sempre più un anello (una pedina per Thierry Meyssan), nel cuore della tensione geopolitica sempre più diretta e frontale tra la Russia e l’occidente. L’Eurogruppo ha indubbiamente raggiunto i suoi obiettivi reali. Il primo era prendere delle misure da provare su un piccolo Paese, che probabilmente è servito da laboratorio. Già Spagna e Nuova Zelanda hanno dichiarato di essere pronte a passare a misure simili per colmare il gap dei loro sistemi bancari. Non c’è dubbio che l’elenco si allungherà. Le conseguenze rischiano di essere pesanti e potranno rendere precari molti titolari dei conti nella zona euro. Anche se l’Eurogruppo ripete come un mantra che Cipro è un caso particolare, molti europei sono tentati di spostare le loro attività finanziarie altrove, e probabilmente all’estero, indebolendo sempre di più l’Europa e l’area dell’euro. I ciprioti hanno occupato le piazze sventolando cartelli “Non saremo le vostre cavie“, mentre le strade di Nicosia erano piene di messaggi ai fratelli ortodossi russi, e nelle manifestazioni degli ultimi giorni sono fiorite le bandiere russe.

Dopo il fallimento della Grecia, la Russia era impegnata da quasi un anno sul riscatto del consorzio gasifero greco DEPA/DESFA da parte di Gazprom. Tali negoziati sono avvenuti pochi mesi dopo la caduta del regime libico (e le relative importanti perdite finanziarie per Mosca), ma si erano visibilmente fermati un mese fa, quando il dipartimento di Stato aveva avvertito Atene contro la cooperazione energetica con Mosca e messo in guardia che il trasferimento di DEPA a Gazprom “consentirà a Mosca di rafforzare la sua posizione dominante dul mercato dell’energia regionale.” Impedire l’ulteriore integrazione economica UE-Russia è davvero nell’interesse dell’Europa di oggi, mentre il presidente cinese ha appena compiuto la sua prima visita internazionale a Mosca, chiave di una forte intensificazione della cooperazione politica, militare, ma anche e soprattutto energetica tra i due Paesi? E colpendo direttamente gli asset russi nelle banche a Cipro, la Russia viene direttamente interessata e colpita. Certo, anche i russi hanno logicamente degli obiettivi, e sono di gran lunga più importanti del semplice sfruttamento del giacimento gasifero offshore da cui il consorzio russo Novatek è stato escluso in modo abbastanza inspiegabile. Secondo l’esperto di relazioni internazionali Nouriel Roubini, la Russia mira semplicemente all’installazione di una base navale sull’isola (cosa che i lettori di RIA Novosti sanno dal settembre scorso) che i russi potrebbero tentare di monetizzare in cambio di aiuti finanziari a Nicosia.

A questo proposito, i colloqui russo-ciprioti non sono falliti, al contrario di quanto molti analisti  hanno indubbiamente frettolosamente concluso. Ma Cipro probabilmente non è sufficientemente nell’ambito della sfera di influenza russa, date le dimensioni di tali questioni. Ciò richiederebbe che Cipro lasci l’Unione europea e aderisca alla Comunità economica eurasiatica, come chiaramente indicato da Sergej Glaziev, consigliere del presidente Putin. Dobbiamo ricordare che Sergej Glaziev aveva all’inizio di quest’anno denunciato la “guerra finanziaria totale condotta dai Paesi occidentali contro la Russia di oggi.” Una guerra finanziaria che sembra essere confermata dalle ultime minacce da parte della BCE alla Lettonia, affinché non accetti il potenziale capitale russo che potrebbe desiderare di lasciare Cipro. All’esterno, Cipro resta un elemento fondamentale per la Russia nel quadro del suo ritorno in Medio Oriente e Mediterraneo, ma anche dei suoi rapporti con l’occidente. Sul fronte interno, il governo russo potrebbe finalmente mostrarsi determinato a mantenere l’obiettivo di controllare l’offshorizzazione dell’economia russa, di cui Vladimir Putin ha fatto un punto chiave nel suo discorso di fine anno 2012. E’ in questo contesto che il gruppo pubblico russo Rosneftaveva indicato che avrebbe rimpatriato, da diverse aree del mondo ritenute off-shore, gli asset ereditati con l’acquisizione della rivale inglese TNK-BP, soprattutto da Cipro e Caraibi.

 Al centro del mondo ortodosso, la fine del sogno europeo?

Ma durante lo scontro tra occidente e Russia per territori interposti nel cuore del Mediterraneo (Grecia, Siria, Cipro…), il popolo cipriota e decine di migliaia di lavoratori inglesi e immigrati dall’Est Europa, a Cipro, pagheranno il conto e probabilmente attraverseranno anni difficili; per esempio Jean Luc Mélenchon ha già promesso l’inferno ai ciprioti. Mentre la Bulgaria ha recentemente interrotto i suoi negoziati per l’integrazione nell’euro, la Grecia continua ad sprofondare nell’austerità. A Cipro, oggi secondo recenti sondaggi, il 67% delle persone vuole che il  Paese abbandoni la zona euro e l’Unione europea, e si avvicini alla Russia, una posizione sostenuta attivamente dalla Chiesa ortodossa di Cipro. Al centro del Mediterraneo e del mondo ortodosso, il sogno europeo sembra volgere al termine.

 Le opinioni espresse in questo articolo non coincidono necessariamente con la posizione della redazione di RIA Novosti, di cui l’autore non fa parte. Alexandre Latsa è un giornalista francese che vive in Russia e gestisce il sito Dissonance, volto a dare una “visione diversa della Russia”.

 Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

http://aurorasito.wordpress.com/2013/03/28/crisi-ipro-e-se-il-sogno-europeo-stesse-per-finire/

 

Retorica dei diritti umani e necessità sociali

Pubblicato il: 27 marzo, 2013

Analisi / Società

Luca Tentori

 Uno dei cavalli di battaglia più sfruttati dal pensiero dominante liberaldemocratico è la “difesa dei diritti umani”, intesa come un complesso di garanzie che vanno riconosciute a qualsiasi cittadino in qualsiasi parte del mondo con lo scopo di tutelare l’inviolabilità della sua persona e le sue “libertà individuali”. Questa libertà individuale è intesa come la libertà dell’individuo suddetto di esprimere il proprio pensiero attraverso la parola, la stampa, i mezzi di comunicazione di massa, la libertà di scegliere i propri rappresentanti di governo, di criticarne le scelte, di essere sottoposto a processi ritenuti corretti dagli organi internazionali, di riunirsi in associazioni della natura più disparata, di professare liberamente la propria religione e così v ia.

Tali diritti sono riassunti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Febbraio del 1948 (1), con lo scopo, almeno iniziale, di evitare ulteriori catastrofi umane come quello della Seconda Guerra Mondiale.

A tutela di questa serie di diritti umani dovrebbero provvedere organismi internazionali universalmente riconosciuti e teoricamente “super partes”, tutte facenti parte dell’ONU. Sulla carta, questa teoria dei diritti umani è all’apparenza ampiamente condivisibile, ma nella pratica, in quanto comunque parte integrante del sistema giuridico così come inteso nella dottrina capitalista, essa risulta nei fatti viziata in origine da questa dottrina ed è oggi più che mai sfruttata per legittimare atti criminali di portata internazionale. Per chi nutrisse dei dubbi sull’effettiva veridicità di questa affermazione basta citare pochi ma significativi paradossi. Uno dei più evidenti è dato dal comma n°1 dell’articolo n°23 il quale recita che:

”Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione”.

In altre parole uno Stato nel quale non esista la piena occupazione dovrebbe essere a tutti gli effetti un paese che non tutela i diritti umani e dovrebbe quindi, se veramente i sottoscrittori di queste dichiarazioni fossero coerenti con sé stessi, essere sottoposto a sanzioni. Naturalmente essendo questa dichiarazione soltanto uno strumento volto a dare un volto presentabile ad azioni per nulla benefiche verso l’umanità, nessuno penserebbe mai di criticare i paesi nei quali oggi si sta acuendo in maniera preoccupante una grave crisi economica, causata proprio dal fallimento di quelle teorie liberal-capitalistiche difese a spada tratta dagli stessi sottoscrittori della dichiarazione. L’attuale crisi e tutto ciò che ne consegue (la disoccupazione è solo la punta dell’iceberg), come già espresso nel nostro periodico, non è una “crisi umana” o una “crisi globale”, ma una crisi del capitalismo e delle sue strutture. Tuttavia essendo il concetto di diritti uman i inglobato nel pensiero unico capitalista, le violazioni dei diritti umani derivanti dall’essenza stessa del capitalismo, praticamente vengono considerate non esistenti o come fatti inevitabili e non imputabili a nessuno.

Nel comma n°1 dell’articolo n°25  si legge poi che:

”Ogni individuo ha il diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione  e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari, ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”.

E’ paradossale come i paesi del disciolto blocco socialista, accusati di essere “l’impero del male”, siano stati i principali sostenitori e fautori di quanto espresso in questo articolo, mentre nella nazione guida del pensiero liberaldemocratico, ossia gli Stati Uniti d’America, solo in questi ultimi anni si stia muovendo qualcosa per garantire ad ogni cittadino un servizio sanitario veramente pubblico e gratuito, e nonostante ciò, questi miglioramenti vengono considerati in modo altamente negativo da una percentuale comunque relativamente elevata della popolazione statunitense, a testimonianza di quanto il lavaggio cerebrale verso qualunque cosa sia anche lontanamente collegabile ad un concetto socialista sia stato massiccio ed efficace. Ciononostante si registrano comunque nel ricco Stato nordamericano sempre alte percentuali di homeless e di persone che vivono in grave difficoltà, acuite ulteriormente dalla crisi economica attuale. Il fatto che molti c ittadini statunitensi vedano la recente riforma sanitaria negativamente in quanto bollata di “filo-comunismo” fa capire anche quanto siano effimere le tanto decantate libertà di stampa e comunicazione. E’ sì vero che è possibile esprimere il proprio pensiero, ma è altresì vero che la possibilità di espressione è direttamente proporzionale alla sua disponibilità economica. Chi ha a disposizione enormi capitali può contare su mezzi di diffusione dell’informazione potentissimi e se attraverso questi mezzi si diffondono notizie false costruite appositamente “in laboratorio” (le recenti tecnologie si sono rivelate di grande aiuto nel caso), tali notizie passano per assolutamente vere. Poca importanza ha se poi, chi conosce la verità, provvederà a diffonderla attraverso un suo piccolo blog disperso in altri milioni di realtà similari che si appoggiano o si smentiscono a seconda dei casi. In altre parole, si hanno delle “verità ufficiali”, diffuse dai p rincipali mezzi di informazione e quindi “garantite e veritiere” per forza di cose, e “verità effettive”, diffuse attraverso mezzi di comunicazione ben più modesti, ma che per la scarsa fiducia che la massa nutre verso queste realtà all’apparenza poco meritevoli di fiducia, passano per “farneticazioni”, “complottismi” e via di questo passo. Se poi fatti come le armi chimiche di Saddam Hussein, le fosse comuni di Gheddafi si dimostreranno delle falsità clamorose, questo ha poca importanza: la verità si conoscerà solo quando essa non sarà più nociva agli interessi di chi ha provveduto ad occultarla.

Infine vi sono altri due articoli che meritano di essere analizzati al di là di come si presentano ad una prima impressione; il n° 28, secondo cui:

”Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e la libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati”.

e il n°30, nel quale si legge che:

”Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle libertà in essa enunciati.”.

I risvolti pratici di questi due articoli aprono scenari decisamente pericolosi ed inquietanti. Mentre quanto letto negli articoli sopra esaminati (n° 23 e n°25) prestava il fianco a critiche di incoerenza, quanto espresso negli articoli n°28 e n°30 appare come una legittimazione a qualsiasi azione intrapresa dai governi delle nazioni in cui (in teoria) sono rispettati i diritti umani, verso altri Stati, altre comunità o altre culture in cui questi diritti non sarebbero rispettati, sempre secondo un giudizio arbitrario. Questi due articoli quindi, costituiscono la legittimazione contemporanea all’esistenza del moderno imperialismo capitanato dagli USA e dai paesi ad esso collegati attraverso la NATO. La NATO stessa infatti è stata creata proprio allo scopo di difendere i paesi ad essa aderenti da una possibile aggressione che ne avrebbe distrutto l’ordinamento giuridico, a loro dire rispettoso dei diritti umani, e il tipo di società su di esso fondato, ossia quella capitalistico-liberista. Poco importa se per la difesa dei diritti umani questa alleanza militare è ricorsa a colpi di stato che hanno portato al potere regimi come quello dello shah, di Pinochet, di Singman Ree e moltissimi altri o se si sono privati milioni di cittadini del più importante dei diritti, ossia quello alla vita (che è pure riportato fedelmente nell’art. n°3 della sopracitata Dichiarazione del 1948).

Con la scomparsa dell’URSS la corsa in avanti dell’imperialismo verso la costruzione di quell’“ordine sociale internazionale” propagandato nell’articolo n°28 contro quegli “stati, gruppi o persone” accusati arbitrariamente di “esercitare attività o compiere atti miranti dalla distruzione dei diritti e delle libertà”, ha subito un’accelerazione formidabile. E mentre gli anni ’90 e ‘2000 registravano una paurosa escalation di violenza nei quali i diritti umani di milioni di persone venivano cancellati da bombardamenti o violenze atroci e rivoltanti compiute dagli ascari dell’imperialismo (tra i sottoscrittori della famigerata Dichiarazione si annoverano anche i terroristi dell’UCK od organizzazioni similari attive in Medio Oriente, Asia Centrale, eccetera, a quanto pare?), il mondo procedeva sempre più spedito verso l’attuale crisi economica che però non trova imputati. Perchè? Semplicemente perchè chi oggi è chiamato a giudicare gli attentatori ai diritti umani, sono gli attentatori stessi e quindi non imputabili. Imputabili sono i soliti noti, ossia chi non si allinea al disegno egemonico dell’imperialismo: cinesi, iraniani, cubani, nord-coreani, siriani e via di questo passo, elencando tutti quei soggetti compresi nell’articolo n°30. La realtà non è affatto quella che gli imperialisti vogliono farci credere coprendosi con dichiarazioni di ogni sorta, ma che il loro mondo, il loro sistema, nelle loro intenzioni l’unico il perfetto e il definitivo, si sta pian piano sgretolando vittima di sé stesso, mentre altre realtà che si volevano confinate a sottoposte, stanno invece sempre più emergendo. Cosa si è trovato di meglio, nell’affrontare questa nuova situazione, che cercare di distruggere o screditare agli occhi dell’opinione pubblica occidentale queste realtà che non bollarle come malefiche, violente, arretrate e barbariche? Basta dare sostegno ai terroristi come quelli più sang uinari che oggi stanno dilaniando il Medio Oriente o il Nord Africa [ma nella Dichiarazione non si parlava forse di “associazioni pacifiche”? (art.n°20,comma n°1)], presentare come eroi figure tutt’altro che meritevoli come il Dalai Lama, dare legittimità a cause inesistenti come quella appunto dell’indipendententismo ceceno, curdo o tibetano. Oppure erigere a paladini dei diritti umani (con tanto di premio Nobel), traditori dichiarati come Liu Xaobo.

E quando vi sono reazioni legittime contro questi soggetti tutt’altro che pacifici e disinteressati, ecco scoccare la condanna quale “violazione de diritti umani”.

Forse questi signori, Dichiarazione dei Diritti Umani in pugno, dovrebbero fare in primis un esame di coscienza essi stessi invece di erigersi a giudici universali. Forse dovrebbero rendersi conto che se volessero essere davvero coerenti con le loro dichiarazioni dovrebbero sottoporre a critica e giudizio proprio quello stesso sistema che essi stessi hanno creato, quel capitalismo che oggi è alla base dei problemi economici del mondo più avanzato e come conseguenza è causa dei problemi di quei paesi in via di sviluppo a cui non si vorrebbe permettere di svilupparsi. Cercare di fermare l’avanzata di enormi porzioni dell’umanità verso una condizione di vita migliore, più stabile e sicura, attraverso la violenza e l’inganno non solo è un disegno criminale che non può trovare alcuna legittimazione, ma anche un progetto volto al fallimento più completo, che prima verrà abbandonato, prima risparmierà notevoli sofferenze per molta gente. Paradossalmente, mentre nei p aesi più sviluppati della terra, milioni di persone stanno vedendo sempre più svanire le proprie garanzie sociali, si vuole pretendere di ergersi a maestri di fronte a realtà che invece cercano con successo di evolvere e migliorarsi, pur tra cotraddizioni, difficoltà ed ostacoli di ogni sorta. In altre parole si vorrebbe pretendere che un sistema statale disciplinato e ordinato fondato su sani principi che garantisca stabilità e sicurezza ai propri cittadini e che usi il rigore contro chi attenta a quel tipo di società, sia peggiore di un sistema in costante declino che lascia ai suoi cittadini il diritto di lamentarsi liberamente per i suoi problemi, senza però far nulla per risolverli. Va altresì ricordato e mai perso di vista un punto fondamentale: il diritto degli individui di organizzarsi e portare avanti determinati tipi di posizioni politiche è garantito fino al punto in cui queste attività non rappresenteranno un pericolo per le classi dominanti. Qualora le possibilità di cambiamento del tipo di società siano però alla reale portata di una di queste organizzazioni, ecco che esse saranno immediatamente bollate come sovversive, terroristiche e comunque facente parti di quella serie di soggetti elencati nel sopracitato articolo n°30.

Se i grandi profeti del pensiero liberale odierno scendessero qualche volta di più dalle loro cattedre e si mettessero invece nei panni, ad esempio, di quegli 8,2 milioni di cittadini italiani che l’ISTAT ha dichiarato vivere in condizione di povertà relativa (di cui 3,4 milioni in povertà assoluta) probabilmente non solo staremmo molto meglio noi, ma anche i cittadini di quei paesi emergenti vittima delle “attenzioni” dei dirittumanisti di turno. L’Italia oggi non si può definire un “paese povero” nel senso assoluto, poiché la maggior parte dei suoi cittadini gode comunque di un tenore di vita più che accettabile se non ottimo, ma il fatto che questo benessere sia sempre più traballante e precario, sempre più legato ad un eredità passata ormai in via di esaurimento, e con una quota di cittadini che non possono goderne in costante crescita dovrebbe quantomeno far riflettere profondamente tutti noi sul futuro che ci si prospetta. Un paese come il nostro, s enza sovranità, in costante emorragia di capitale finanziario e umano, guidato da un governo in stallo legislativo è come una bomba ad orologeria. Ed in una situazione come questa sarebbe molto più utile pensare a risolvere i problemi sociali e nazionali nostrani, che non tagliarci ulteriormente le vene sanzionando l’Iran, bombardando la Libia, danneggiando il nostro commercio con la Cina Popolare o la Russia, o inviando missioni militari a sostegno dell’imperialismo atlantico, il tutto con la pretesa di difendere i diritti umani delle popolazioni di quei paesi (magari sostenendo nel contempo gruppi estremisti o terroristi in essi operanti, tanto per essere coerenti con la propria incoerenza). Il capitalismo liberista dimostra sempre di più soltanto di essere capace di porre obiettivi sulla carta stampata senza avere dentro di sé le capacità di realizzarli e dare risposte concrete, che sono quelle che la popolazione si aspetta. Una forma di società rispettosa dei diritti umani è quella che dà ai suoi cittadini la possibilità di avere una vita stabile, sicura e sana e che non esiti a colpire chi attenta ad essa per soddisfare il proprio egoismo personale o dietro ordine di chi non tollera che esistano società alternative alla propria. In altre parole rispetta i diritti umani solo chi dà un aiuto concreto alla risoluzione delle necessità sociali degli individui, intesi non come corpi estranei l’uno dall’altra ma come parte di una collettività unica, e non chi abbandona questi individui a sé stessi, lasciando ad essi soltanto la libertà di lamentarsi o di cercare rifugio in miti inesistenti, in comportamenti autodistruttivi che culminano anche con il suicidio.

 (1) Interlex


http://www.statopotenza.eu/6627/retorica-dei-diritti-umani-e-necesita-sociali

 

IL MODELLO CIPRO: UN CASO STUDIO CHE PUO’ ESSERE REPLICATO IN FU TURO

Sono quasi certo che il modello Cipro farà scuola. Fra qualche tempo sui manuali più autorevoli di economia e finanza saranno dedicati interi capitoli sul modo molto inusuale e sbrigativo con cui i ministri delle finanze dell’eurozona hanno risolto la crisi bancaria dell’isola cipriota, stravolgendo in pratica tutto ciò che prima sapevamo e davamo per scontato sulla gestione dei flussi finanziari. L’accordo trovato in extremis domenica notte, salutato con entusiasmo da tutti i mezzi della propaganda come il salvataggio di Cipro, presenta notevoli punti oscuri che avranno sicuramente pesanti ripercussioni in futuro sulla tenuta dell’intera area euro. Innanzitutto perché non si tratta assolutamente di un accordo, ma di un diktat, di un ricatto o meglio, usando la terminologia edulcorata dei tecnocrati europei: un memorandum d’intesa (MoUMemorandum of Understanding). Il parlamento di Cipro stava infatti lavorando ad una sua proposta di ristrutturazione interna del sistema bancario, che è stata bruscamente ignorata per fare posto alle imposizioni dei tecnocrati. Un eventuale rifiuto del MoU (che in ogni caso deve essere ancora ratificato dal parlamento cipriota) avrebbe comportato il default di Cipro e la successiva uscita dall’eurozona, dato che il governatore della BCE Mario Draghi aveva minacciato di interrompere l’erogazione di liquidità alle banche cipriote prevista dal programma di emergenza ELA (Emergency Liquidity Assistance)

Il MoU come sappiamo è uno strumento obbligatorio e coercitivo associato a tutti gli aiuti forniti dal Meccanismo Europeo di Stabilità: per avere qualsiasi forma di sostegno finanziario, sia al settore pubblico che al settore bancario, il governo del paese in questione deve accettare una serie di condizionalità che possono cambiare da paese a paese, e in base al prestigio e all’importanza strategica della sua economia. A giugno scorso, per esempio, la Spagna ha ottenuto un piano di aiuto da €100 miliardi per ricapitalizzare buona parte delle sue banche fallite, senza controfirmare alcun memorandum d’intesa o garantire ulteriori riforme strutturali. Ma la Spagna non è Cipro e il suo peso specifico all’interno dei palazzi che contano non è di certo paragonabile a quello della piccola isola mediterranea: questo modo di agire sarà sicuramente vincente per la creazione di quello spirito europeo dei popoli (il Sogno!) con cui ci riempiono tanto la testa i tromboni della demagogia europeista. Per un abitante di Cipro sapere che lui è un cittadino europeo di serie B rispetto ad uno spagnolo sarà certamente gratificante, motivo di orgoglio e di vicinanza nei confronti degli altri popoli del continente più disastrato del mondo. In quanto poi a condizionalità imposte da Bruxelles, noi italiani siamo invece i più furbi, perché i nostri precedenti governi (Berlusconi e Monti) le hanno già accettate (ricordate la lettera della BCE dell’agosto del 2011? Non può quella missiva strettamente riservata considerarsi l’antesignana di tutti i successivi MoU?), senza ricevere in cambio alcun sostegno finanziario. Sarebbe troppo umiliante per noi italiani essere accomunati a greci o ciprioti o irlandesi. Altro atteggiamento questo per sentirsi più vicini e solidali nella stessa sorte.

 E fin qui ci siamo limitati a parlare delle questioni di forma, ma andiamo adesso alla sostanza del MoU, cercando di capire punto per punto cosa può rappresentare e quali scenari può aprire in futuro. Ovviamente partiremo dal modo alquanto bizzarro in cui è stato strutturato il salvataggio delle due principali banche dell’isola (Bank of Cyprus e Laiki Bank), analizzando bene la sequenza dei passaggi:

1)La Laiki Bank verrà fatta fallire con notevoli perdite per azionisti, titolari di obbligazioni e depositi non garantiti superiori a €100.000 (si parla attualmente di un taglio del 40%, ma siamo ancora nella fase delle stime provvisorie)

Se, come abbiamo già detto, per azionisti e titolari di obbligazioni la perdita può essere giustificata perché si tratta di veri e propri investimenti che mantengono un fondo di rischio, non si capisce invece come sia possibile considerare investimento un semplice deposito presso una banca. Il titolare di un deposito ha solo chiesto un servizio di custodia ad un banca per cui paga delle commissioni e in caso di deposito vincolato o di risparmio riceve degli interessi in base alle clausole pattuite (per esempio il tempo di preavviso per il prelievo o il periodo minimo di mantenimento). Il depositante è a tutti gli effetti un cliente della banca e non un investitore. La manfrina di considerare dei ricchi paperoni coloro che hanno un deposito superiore a €100.000 è solo qualunquismo della peggiore specie, perché una famiglia di semplici impiegati o di pensionati abituati a risparmiare può arrivare a simili cifre nel giro di una decina d’anni (basta evitare spese inutili e mettere da parte poco meno di €1000 al mese). Anche perché sappiamo bene che per fare una vera patrimoniale e tassare la ricchezza non si possono solo conteggiare i beni finanziari, ma bisogna anche includere quelli reali e gli immobili. Io posso pure avere un deposito superiore a €100.000 ma non possedere una casa perché non ho voluto o potuto stipulare un contratto di mutuo. E sarei quindi un nababbo, del tutto equiparabile a chi ha ville di lusso, yacht, macchine sportive? Inoltre non è un mistero che i veri ricchi mantengono pochi soldi sui conti correnti e preferiscono utilizzare le carte di credito con vari livelli di plafond per le proprie spese, impegnando il resto delle risorse in investimenti fruttiferi.

Per assimilare i risparmiatori, i clienti, ai veri responsabili della cattiva gestione di una banca, al pari dei dirigenti, degli organi di vigilanza o degli stessi investitori che non hanno valutato accuratamente il rischio, ci vuole davvero faccia tosta. Cosa che a quanto pare non manca ai tecnocrati europei. Solo per fare un esempio, immaginiamo di trovarci in un negozio di scarpe insieme ad altri clienti, ai commessi, al titolare. All’improvviso arriva il messo del tribunale che consegna al titolare l’ingiunzione di fallimento. Normalmente cosa accade? Si fa una svendita promozionale, si mettono all’asta i locali e si rimborsano quota parte i vari creditori (senza entrare nel merito delle società a responsabilità limitata o di capitali). Nel caso cipriota invece è come se il titolare avesse abbassato le saracinesche del negozio, sequestrato i clienti e chiesto ad ognuno di loro di mostrargli quanti contanti custodiscono in portafoglio: quelli che hanno meno di €100 euro possono andare via (anche se appena fuori hanno posteggiato una Ferrari!), mentre quelli che hanno più di €100 euro devono pagare una penale del 40%, non si capisce a che titolo, se non estorsione o rapina

E gli oligarchi russi, per quanto possano stare antipatici a qualcuno, sono pur sempre dei clienti uguali agli altri, che frequentavano quelle banche da anni, senza che nessuno avesse mai alzato un dito o gridato allo scandalo. Anzi erano gli stessi tecnocrati o analisti finanziari ad osannare il modello di sviluppo di Cipro come un esempio da seguire, perché attirava parecchi investimenti esteri. Solo oggi si sono accorti che gli investimenti esteri non vengono dati gratuitamente ma sono sempre dei debiti privati che quando superano una certa soglia o non possono essere remunerati adeguatamente minacciano l’equilibrio dell’intero sistema paese. Alla faccia dei nostri indecenti sindacalisti o sinistrorsi vari che ancora oggi implorano l’arrivo dei capitali e degli investimenti esteri come soluzione a tutti i problemi dell’Italia. 

2)Una volta accertato il fallimento la Laiki Bank verrà suddivisa in una bad bank e in una good bank. Nella bad bank verranno trasferite tutte le attività deprezzate o fuori mercato, dai cui proventi di vendita (quando realizzabili), insieme a parte del fondo di salvataggio da €10 miliardi, si spera poi di rimborsare azionisti, obbligazionisti e depositanti taglieggiati. Una volta conclusa la procedura di fallimento, la bad bank verrà eliminata.

3)La good bank (con le attività ancora buone e i depositi garantiti inferiori a €100.000, che non sono stati toccati) verrà trasferita invece presso la Bank of Cyprus. Per rimettere però a posto i bilanci della BoC, anche gli azionisti, gli obbligazionisti e i titolari dei depositi non garantiti superiori a €100.000 subiranno delle perdite che oscillano fra il 30%-40%. Inoltre i depositi non garantiti verranno congelati fino a quando non saranno concluse le operazioni di ricapitalizzazione della banca.

4)Per raggiungere un rapporto di capitalizzazione del 9% (rispetto alle attività ricalcolate per il rischio, come previsto dagli Accordi di Basilea III) parte dei depositi non garantiti verrà convertita in modo forzoso in azioni della banca. Uno che solo il giorno prima era un semplice cliente viene in pratica obbligato con una pistola puntata alla tempia a diventare un socio di una banca gestita da criminali, faccendieri, briganti. Istigazione a delinquere allo stato puro. A termine di legge, questo giochetto si può fare con le obbligazioni strutturate che hanno il vincolo di convertibilità in azioni, ma non con i depositanti. Ecco per quale motivo mi aspetto molti ricorsi in tribunale e class action nei prossimi giorni, settimane, mesi a Cipro.

5)I soldi del piano di aiuti da €10 miliardi non verranno quindi utilizzati per ricapitalizzare le banche, ma serviranno al governo per coprire le prossime perdite delle banche, il cui calvario non è ancora finito (siamo proprio sicuri che alla riapertura degli sportelli, prevista per il prossimo lunedì, i clienti inferociti e spaventati non si presenteranno in massa per chiudere i loro depositi garantiti inferiori a €100.000?) e per gestire i propri fabbisogni fiscali, nonché il rimborso o il rinnovo dei titoli di stato in scadenza, visto che ormai Cipro non può più finanziarsi tramite i “mercati” a causa degli alti rendimenti richiesti.

Le limitazioni al prelievo dei contanti (si parla di un massimale intorno a €100-120 al giorno) e alla circolazione dei capitali verranno applicate per evitare le fughe di liquidità dall’isola, che manderebbero in poco tempo all’aria il delicato piano di ristrutturazione. Il governo, in collaborazione con la banca centrale cipriota, si impegna a mantenere queste restrizioni per tutto il tempo necessario. Il governo cipriota inoltre dovrà seguire pedissequamente il classico programma di austerità fatto di consolidamento fiscale (tagli alla spesa pubblica e tasse), riforme strutturali (licenziamenti nel settore pubblico, che si sommeranno a quelli del settore privato, soprattutto nel comparto bancario alla deriva) e privatizzazioni (il vero boccone prelibato da spolpare dato che sui giacimenti di gas naturale di Cipro avrebbero già da tempo puntato gli occhi cinesi, russi e gli stessi tedeschi). Secondo le ambiziose e quanto mai deliranti previsioni dei tecnocrati europei, il sistema bancario di Cipro dovrebbe allinearsi alla media europea entro il 2018 e il debito pubblico del paese rientrare entro la soglia del 100% (dal 140% circa attuale) entro il 2020.

Come al solito, gli analisti di Bruxelles non considerano la caduta del PIL cipriota che si avrà nei prossimi anni in conseguenza del piano di salvataggio (secondo le ultime stime, visto che gran parte del PIL dell’isola era in qualche modo legato alle attività finanziarie, sia avrà una contrazione superiore al -10% quest’anno, e superiore al -8% nel 2014), che renderà sempre più difficile il raggiungimento degli obiettivi previsti. Inoltre non sono stati minimamente considerati gli effetti geopolitici che si avranno in futuro, dato che la Russia ha mostrato parecchio fastidio dal metodo adottato che penalizza soprattutto i grandi magnati russi, avvantaggiando invece le solite banche europee che avevano investito in titoli di stato cipriota e non subiranno alcuna decurtazione del valore nominale (in pratica, come già sperimentato con la Grecia, la maggior parte dei €10 miliardi di aiuti serviranno appunto a rimborsare i grandi possessori di titoli di stato cipriota, mentre poco o nulla si fermerà sull’isola per favorire una qualche forma di politica economica espansiva, indispensabile per sperare nella ripresa). Considerando che la Russia rifornisce di gas e petrolio quasi tutti i paesi dell’eurozona, non valutare gli effetti collaterali di un possibile ostruzionismo russo potrebbe essere una mossa molto azzardata.

Ma l’intera operazione cipriota presenta notevoli criticità non solo per il modo unico e speriamo irripetibile con cui sono state ricapitalizzate le banche, ma anche perché in maniera molto palese e sprezzante l’eurozona ha mostrato al mondo tutti i limiti della sua fragilissima costruzione bizantina. La pretesa del mercato unico e della libera circolazione dei beni e dei capitali è fallita perché si fondava sul principio che l’estrema deregolamentazione avrebbe consentito un raggiungimento di una qualsiasi condizione di equilibrio per via naturale e spontanea. Una credenza dogmatica che ormai è stata smentita più volte dai fatti e dalle evidenze sperimentali e gli stessi economisti del FMI giudicano stantia, verificando dati alla mano che laddove sono state applicate restrizioni e controlli ai movimenti dei capitali, il sistema finanziario interno è stato di gran lunga più sostenibile, stabile, equilibrato. Ma c’è un altro fattore che è emerso in tutta la sua evidenza nel caso Cipro: la mancanza di una banca centrale. Sappiamo che la nascita delle banche centrali è stata spesso necessaria per evitare le crisi di panico, le corse agli sportelli e fornire una garanzia di supporto all’intero sistema bancario e indirettamente a tutti i depositanti.

Siccome nell’eurozona non esiste una vera banca centrale che faccia da prestatore di ultima istanza (non solo per il settore pubblico, ma anche per quello privato, come vedremo dopo), questi pericoli sono e saranno sempre incombenti. Come si può notare dal grafico sotto, i finanziamenti concessi dalla BCE alle banche cipriote dal 2008 ad oggi sono molto ridotti e circoscritti, limitandosi in pratica alla sola fornitura di liquidità operativa prevista dal programma di emergenza ELA. Nulla in confronto ai fiumi di liquidità forniti per esempio alle banche spagnole e italiane. In una simile occasione di dissesto finanziario ci saremmo aspettati un intervento più massiccio della BCE, che invece non c’è stato perché osteggiato dai soliti tedeschi, che non solo considerano scorretto qualsiasi finanziamento diretto ai governi nazionali ma anche il sostegno eccessivo alle banche private, persino quelle sull’orlo del fallimento. Per un’ovvia ragione: la BCE è la loro banca, una costola della Bundesbank, che non può rischiare di esporsi più di tanto nelle operazioni di rifinanziamento e deve centellinare la distribuzione dell’euro-marco in giro per l’Europa per mantenerne inalterato nel tempo il potere di acquisto e apprezzato il valore di cambio. Al contrario di ciò che accade nel resto del mondo, in Europa i salvataggi delle banche devono avvenire a spese dei contribuenti (il meccanismo MES), gravare sui bilanci pubblici o come abbiamo scoperto da poco a Cipro, essere sostenuti dagli stessi clienti. Tutto fuorché l’utilizzo di una banca centrale. Cosa che come potete immaginare ha fatto sussultare gli analisti di quei paesi (Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Australia) dove esiste una “normale” banca centrale.

 Infine un altro principio è stato velatamente o sfacciatamente ripreso nel caso cipriota: le banche possono utilizzare qualsiasi mezzo o strumento per salvarsi, non esistono limiti a riguardo. Qualsiasi innovazione in questo campo, come più volte ribadito dal presidente olandese dell’eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, è sempre gradita. E soprattutto, avendo il modello di Cipro rappresentato un precedente, tale bizzarra strategia di salvataggio può essere replicata in futuro in altri paesi, perché ognuno deve farsi carico di una parte di rischio che affrontano gli eroici banchieri per investire i capitali nel turbolento oceano della finanza mondiale. Anche qualora questa soglia di rischio si spingesse fino all’azzardo morale. Banche e società civile ormai sono due entità praticamente inscindibili e noi tutti dobbiamo sentirci coinvolti nelle alterne fortune in cui navigano le nostre banche nazionali. I diritti umani o quella cosa ottocentesca chiamata Carta Costituzionale sono poco cosa rispetto ad un bilancio in salute di una banca o alle plusvalenze degli azionisti. Avere dei bravi e intraprendenti banchieri è molto più importante per il benessere collettivo che allevare buoni e onesti politici o men che meno statisti che abbiano una visione più allargata e lungimirante dei problemi complessi da affrontare. Se poi come a Cipro, o in Grecia, o nella stessa Italia non hai né l’uno né l’altro, il tuo paese è spacciato e prima o dopo affonderà. Diventando una colonia di chi invece può contare su banchieri e politici affiatati, compatti, coesi, intenzionati a difendere in tutti i modi i propri interessi nazionali (la Germania vi ricorda nulla?)

Se queste sono le premesse, i principi e gli scenari verso cui si sta dirigendo a grandi passi l’eurozona, i tecnocrati (politici e banchieri inclusi) non si devono stupire se presto o tardi nascerà una forte opposizione organizzata di resistenza civile e democratica in tutto il continente. Dalla Spagna, alla Francia, alla Germania, passando dall’Italia per arrivare fino a Cipro. Se solo la stampa e l’opinione pubblica in generale riuscisse a svincolarsi dalla sudditanza e dall’asfissiante oppressione della tecnocrazia si riuscirebbe in breve tempo a coalizzare tutti i movimenti di protesta che rifiutano categoricamente questa minacciosa impostazione totalitaria ed oligarchica dell’eurozona. Movimenti e idee che per il momento sono costretti a muoversi nell’ombra e in clandestinità, ma che cominciano a suscitare sempre più interesse nei partiti più euroscettici o nel popolo vessato ed umiliato. A tal proposito, mi pare degna di nota questa presa di posizione del giornalista cipriota Emmanuel Lioudakis del quotidiano O Phileleftheros (Il Liberale), pubblicata sul sito Presseurop. Se queste voci disperse cominceranno ad unirsi sotto un’unica bandiera democratica europea saranno dolori per i tecnocrati, visto che i loro veri nemici siamo proprio noi. 

IL CALVARIO E’ COMINCIATO

Di Emmanuel Lioudakis

Traduzione di Andrea De Ritis

Oggi sento più che mai il bisogno di scrivere qualche riga per esprimere quello che provo, per cercare di mettere insieme i pezzi della dignità di questo popolo, distrutto dall’imposizione da parte dei nostri partner dell’Unione europea (Ue) di misure inammissibili. Oggi migliaia di persone si sono svegliate e invece di pensare ai loro problemi quotidiani hanno provato un immenso vuoto. Sì, perché il loro paese, Cipro, non esiste più. La nostra isola è scomparsa qualche settimana prima di Pasqua, all’inizio della quaresima, con l’abdicazione ai diktat della troika (Fmi, Ue e Bce). Provo un sentimento di disgusto, di vergogna e di delusione. Che cosa è rimasto del nostro orgoglio, della nostra dignità e della nostra forza di opposizione?

In realtà se ci troviamo sull’orlo del precipizio è in gran parte a causa dei nostri sbagli. Siamo responsabili di questa situazione perché abbiamo lasciato la gestione dei nostri affari alla troika e ai tecnocrati dell’Eurogruppo. La distruzione del sistema bancario avrà come conseguenza la scomparsa del nostro Stato. La gente perderà il lavoro e saranno cancellati tutti gli sforzi fatti per avere una vita migliore. Le pensioni, ottenute grazie ai sacrifici di tutta una vita, subiranno la stessa sorte dei depositi bancari e saranno duramente tassate dai nostri “amici” europei. Amici del genere è meglio perderli che trovarli.

E che cosa sarà dei migliaia di lavoratori che perderanno il posto e il cui stipendio è ormai ostaggio dei debiti? La maggior parte di loro riceverà un benservito senza alcun indennizzo. E cosa sarà delle banche? Riapriranno? Quante riusciranno a sopravvivere a questa settimana da incubo? Gli interrogativi sono numerosi e siamo ormai allo stremo, stanchi di aspettare che altri decidano il nostro futuro al nostro posto.

È per questo motivo che attraverso queste righe voglio rivolgermi ai miei connazionali, alla gente comune, e chiedere loro di cercare di risanare il nostro sistema bancario per mandare via la troika e per ridefinire i nostri legami di solidarietà. È adesso che bisogna mostrare il nostro patriottismo, bisogna mostrare che l’anima degli elleni non si sottomette così facilmente ai diktat stranieri. La nostra anima è in fermento e i nostri pugni sono serrati. Stiamo già cercando i responsabili e sono certo che li troveremo.

In questo momento cruciale dobbiamo essere uniti, aiutare il nostro paese e resistere al nemico. Come se fossimo di nuovo in guerra. Perché quella che stiamo vivendo è una guerra, anche se assume altre forme. I nostri connazionali della diaspora potranno aiutarci mettendo mano al portafoglio. Bisogna aiutare il nostro stato a rialzarsi, perché siamo solo all’inizio di una lunga via crucis. Forza e coraggio!

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