Quarto giorno di scontri e proteste in Palestina |

La folla attacca una donna palestinese a Gerusalemme

 Betlemme – Ma’an. Un gruppo di donne ebree ha aggredito una donna palestinese, lunedì, mentre era in una stazione della ferroviaria di superficie, a Gerusalemme, picchiandola duramente. E’ quanto hanno riferito i media israeliani.

 Il quotidiano israeliano in lingua ebraica, Maariv, ha riferito che una donna ebrea ultra-ortodossa è passata davanti alla

palestinese e di colpo l’ha presa a pugni. Altre donne, sue amiche, l’hanno raggiunta e insieme hanno cominciato a picchiarla con forza.

La vittima ha cercato di difendersi, ma gli aggressori era in numero sufficiente per avere la meglio e continuare ad aggredirla.

Maariv ha scritto che un testimone oculare è riuscito a fotografare l’assalto.

“C’erano più di 100 ebrei ortodossi, tra cui studenti Yeshiva che hanno visto una donna araba che veniva picchiata. Era scortata da un uomo anziano, prima che scoppiasse un’accesa discussione. La gente gridava. Non riuscivo a capirne il motivo, e tutto ad un tratto tutti hanno attaccato la donna araba picchiandola selvaggiamente”, ha riferito il testimone.

http://www.infopal.it/la-folla-attacca-una-donna-palestinese-a-gerusalemme/

Quarto giorno di scontri e proteste in Palestina | 

di: Matteo Bernabei
m.bernabei@rinascita.eu

Sale la tensione in Israele e Cisgiordania all’indomani del funerale del detenuto palestinese, Arafat Jaradat, ucciso sabato dalle torture degli agenti di Tel Aviv nel carcere di Megiddo.
Non si è fatta attendere l’annunciata risposta delle brigate di al Aqsa che lunedì avevano minacciato pesanti ritorsioni per l’uccisione del proprio membro. Il braccio armato di Fatah ha infatti rivendicato il lancio di un razzo dalla Striscia di Gaza che si è abbattuto nella vicina città israeliana di Ashqelon, senza provocare vittime. “La libertà viene raggiunta attraverso il sacrificio e noi dobbiamo combattere il nostro nemico con ogni mezzo possibile”, si legge nella nota di rivendicazione del movimento palestinese inviata all’agenzia di stampa dell’enclave Ma’an.
Per scoraggiare nuovi e più pericolosi tentativi di colpire le proprie città, il governo di Benjamin Netanyahu ha annunciato ieri la dislocazione di una nuova batteria del sistema di difesa anti-missilistico Iron Dome nella zona di Tel Aviv, sottolineando tuttavia che si tratta di un atto compiuto nell’ambito di una più vasta operazione, finalizzata a rendere il sistema operativo in tutte le aree del paese iniziata un mese fa.
Nuovi scontri fra manifestanti palestinesi e forze di sicurezza israeliane si sono inoltre verificati ieri in tutta la Palestina: un centinaio di dimostranti si sono radunati davanti al carcere dove è morto il giovane militante di al Fatah e proteste si sono verificate anche nella cittadina di Beitounia, nei pressi del complesso militare di Ofer, dove sono almeno 10 le persone rimaste ferite a causa dell’intervento dei soldati con la stella di Davide. Stando a quanto riferito poi da fonti riservate dell’esercito di Tel Aviv al quotidiano locale Ha’aretz, sarebbero almeno sei i palestinesi rimasti feriti dai proiettili di gomma sparati dalle forze armate israeliane. Versa invece in gravi condizioni il ragazzo di circa 13 anni colpito all’addome lunedì scorso nel corso degli scontri fra dimostranti e forze di sicurezza israeliane a Nablus.
“Siamo di fronte a un’escalation senza precedenti da parte israeliana nei confronti di giovani e bambini che protestano contro le pratiche dell’occupazione e quelle dei coloni”, ha affermato il presidente del governo di Ramallah, Mahmoud Abbas, in apertura della riunione del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, commentando le notizie delle violenze.  “Per la prima volta dopo diverso tempo il governo israeliano prende di mira i giovani sparando loro e poi chiede all’Anp di mantenere la calma e impedire le manifestazioni – ha spiegato poi il leader palestinese – ma queste proteste sono la reazione a delle aggressioni, se non vi fossero le aggressioni e gli arresti, allora non vi sarebbe ragione di manifestare, e se i coloni la smettessero di andare nei villaggi a incendiare i raccolti e le proprietà  private e a uccidere la gente, nessuno li aggredirebbe”.
La richiesta di apertura di un’indagine indipendente e trasparente sulle circostanze della morte di Arafat Jaradat è poi stata rilanciata ieri dal coordinatore dell’Onu per il processo di pace Vicino Oriente, Robert Serry, che ha così accolto l’appello in tal senso fatto lunedì dall’autorità nazionale palestinese. “Le Nazioni Unite stanno monitorando attentamente la situazione, che presenta un reale rischio di destabilizzazione”, ha spiegato il funzionario dei Palazzo di Vetro che ora dovrà però portare nelle sedi opportune le legittime richieste dei palestinesi. Nonostante le belle parole di Serry, infatti, le possibilità che il Consiglio di Sicurezza autorizzi l’apertura di un’inchiesta internazionale, e che poi il governo israeliano permetta gli inquirenti a effettuare indagini sul proprio territorio, sono praticamente nulle. Se si considerano poi le volte che anche il presidente Abbas ha favorito l’insabbiamento dei crimini compiuti da Tel Aviv e delle sue forze armate, come avvenuto in seguito all’operazione “Piombo fuso” su Gaza del 2009, le speranze dei detenuti palestinesi di avere finalmente giustizia si riducono a una chimera.

http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19335

Apocalisse sulla spiaggia di Gaza, 100 mante marine spiaggiate!

27 feb 2013 -Centinaia di mante marine rinvenute morte sulla spiaggia di Gaza beach. Il ritrovamento dai connotati apocalittici,e’ stato fatto questa mattina presto.Naturalmente non si sa cosa abbia potuto scatenare un incidente di questa portata.
L’uomo con la sua arroganza e mania di onnipotenza sta distruggendo il pianeta mettendo a repentaglio la vita di tutti gli esseri viventi che lo abitano.Non si contano piu’ le segnalazioni di animali marini che si spiaggiano senza vita lungo le coste di tutto il pianeta.

 al link la macabra galleria

Strage di orche sullo stretto di Magellano

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Venti orche sono morte e altre 25 sono state tratte in salvo, dopo essere rimaste spiaggiate lungo lo Stretto di Magellano a causa di una marea insolitamente bassa: lo ha riferito il Servizio nazionale per la pesca del Cile. 

Marinai e personale della Marina cilena hanno lottato per salvare le orche dopo che i cetacei erano finiti in difficoltà vicino a Susan, un villaggio sullo stretto che collega l’Oceano Atlantico al Pacifico, lungo la punta meridionale del Sudamerica. 

I soccorritori hanno spiegato che i mammiferi marini sono stati trascinati e spinti in mare a mano, perchè i veicoli non possono raggiungere la linea di costa dove si trovavano gli animali. 

 



http://terrarealtime.blogspot.it/2013/02/strage-di-orche-sullo-stretto-di.html

La recessione si aggrava, Bruxelles cerca scuse

Rehn assicura che la Commissione avverte un aumento di fiducia da parte di cittadini ed imprese ma la realtà lo smentisce. La ricetta suggerita ai Paesi membri è la solita: smantellare lo Stato sociale e realizzare le riforme “strutturali” 

Filippo Ghira

La Commissione europea ha presentato il suo classico rapporto invernale sulle previsioni economiche per il biennio 2013-2014 nel quale le speranze devono fare i conti con la realtà che dice tutt’altro. Il commissario europeo all’Economia e alla Moneta, il finlandese Olli Rehn, ha infatti sostenuto che cresce la fiducia dei cittadini nell’Europa ma che tale fiducia non trova riscontri nell’economia reale. Inoltre,  ha ammesso il tecnocrate, nonostante gli sforzi fatti, la spirale recessiva si è aggravata.
Insomma, nonostante la recessione si stia accentuando, nonostante la chiusura di migliaia di imprese, nonostante l’aumento esponenziale della disoccupazione e nonostante l’aumento di una povertà che coinvolge sempre più larghe fasce di popolazione, a Bruxelles continuano a millantare che tutto è giusto e perfetto, che la fiducia sta tornando e che i cittadini guardano con occhi adoranti all’operato e ai risultati della Commissione europea.
Ma Rehn non demorde e sostiene che Bruxelles ha ricevuto segnali di aumento di fiducia degli investitori e indicazioni di stabilizzazione. Come questo sia possibile lo sanno soltanto Rehn e i suoi colleghi ma bisogna pur giustificare i lauti stipendi che ingrassano il conto in banca di una burocrazia sempre più auto-referenziale e fuori della realtà. I dati economici dell’Unione europea e dell’Eurozona, ha insistito mettendo in un angolo il buon senso e la decenza, mostrano che come europei stiamo preparando la strada della ripresa, e di conseguenza dobbiamo mantenere questo ritmo di riforme strutturali.
Nel caso dell’Italia, Rehn ha rsostenuto che il nostro Paese, sotto la guida di Mario Monti, ha raggiunto una posizione di bilancio equilibrata in termini strutturali che deve essere mantenuta a causa dell’alto debito pubblico che ormai ha superato il 126%. All’epoca di Berlusconi era il 120%. E’ essenziale, ha sostenuto, che l’Italia mantenga la rotta delle riforme e mantenga strategie coerenti di consolidamento. Dove le riforme sono quelle delle pensioni, con lo slittamento in avanti dell’età di quiescenza e quella del lavoro, con i licenziamenti resi sempre più facili e con l’avvento delle più svariate forme di precarietà e di flessibilità . Quella, voleva dire Rehn, è l’unica strada per convincere operatori stranieri a venire ad investire in Italia ed avere la certezza che una impresa sarà tanto più redditizia quanto più avrà possibilità di ridurre i costi fissi e quindi licenziare i dipendenti.
Quanto al consolidamento dei conti pubblici, Rehn ha osservato che una attuazione completa delle misure già varate dovrebbe permettere all’Italia un miglioramento strutturale senza la necessità di misure supplementari, almeno per quest’anno. Insomma, con tutta la sfilza di tasse che sono state varate, dall’aumento dell’Iva alla introduzione dell’Iva, ci si è garantiti di entrate continue e sicure che potrebbero permettere a Monti, o ai governi che lo seguiranno o di cui potrebbe fare parte, che nei prossimi anni (nel 2013 sarà un po’ difficile) verrà raggiunto il pareggio di bilancio, con l’azzeramento del disavanzo che, appunto grazie all’aiuto delle misure fiscali, è già passato dal 4,5% al 2,9%. Rehn vede invece rischi per il 2014 perché il ritmo dell’economia potrebbe rallentare e quindi, con meno entrate fiscali e contributive i problemi potrebbero aumentare. In ogni caso, sai che soddisfazione,. Rehn ha assicurato che la Commissione europea continuerà a monitorare da vicino la situazione italiana. Il disavanzo dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, restare sotto il 3% nel 2013 e anche nel biennio 2014-2015. L’Italia è messa “sul binario giusto” dato che ha attuato correzioni “tempestive e sostenibili” dei conti pubblici. Non serve una nuova manovra correttiva e di conseguenza potrebbe essere possibile un’abrogazione della procedura per deficit eccessivo. Ma questo non potrà avvenire prima della presentazione delle prossime stime economiche di primavera, che saranno rese note in maggio.
  
23 Febbraio 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19240

 

Siria, armi europee per Al-Qaeda

di Michele Paris – 27/02/2013

Fonte: Altrenotizie [scheda fonte] 

I più recenti progressi attribuiti alle forze “ribelli” che si battono per il rovesciamento del regime di Bashar al-Assad in Siria, con il sostegno degli Stati Uniti e dei loro alleati in Europa e nel mondo arabo, sarebbero in gran parte il risultato di un sensibile aumento dell’impegno nel conflitto in corso da parte delle monarchie assolute del Golfo Persico.

Secondo quanto riportato nei giorni scorsi dai media americani, queste ultime, con l’aiuto di un governo che sta per entrare a far parte dell’Unione Europea, si sarebbero infatti adoperate per garantire armamenti sempre più letali all’opposizione siriana, con un conseguente ulteriore drammatico aumento dei livelli di violenza nel paese mediorientale.
Un lungo articolo apparso domenica sul Washington Post, basato sulle ri velazioni di anonimi membri delle organizzazioni ribelli siriane e di diplomatici arabi, aveva messo in luce come, per la prima volta dall’inizio delle ostilità in Siria, nelle scorse settimane siano stati forniti alle opposizioni armamenti pesanti per combattere le forze del regime. Il trasferimento di queste armi in territorio siriano attraverso la Giordania è avvenuto grazie all’intervento dei paesi già più attivi nel conflitto per rimuovere Assad, in particolare l’Arabia Saudita e il Qatar.
La segretezza di queste forniture aveva iniziato a crollare svariati giorni prima, soprattutto dopo che il blogger britannico Eliot Higgins ed altri esperti militari avevano osservato in alcuni filmati postati su YouTube dai ribelli la circolazione tra questi ultimi di armi non in dotazione all’esercito siriano. Secondo la versione ufficiale, la maggior parte delle armi a disposizione dei ribelli proverrebbe infatti dal saccheggio di arsenali delle forze di sicurezza go vernative.
In particolare, gli equipaggiamenti in questione comprenderebbero armi e cannoni anti-carro che, secondo le reporter del Washington Post sarebbero stati impiegati massicciamente nella Yugoslavia degli anni Ottanta. Questo riferimento ai Balcani è stato ribadito e precisato dal New York Times, il quale lunedì ha pubblicato il proprio contributo per rivelare come le autorità saudite abbiano finanziato l’acquisto in Croazia di ingenti quantità di armi da destinare ai ribelli siriani, con la collaborazione attiva di Stati Uniti e Giordania, ma anche, verosimilmente, di alcuni paesi europei.
Per minimizzare la gravità di queste operazioni, i due giornali americani dedicano ampio spazio alle osservazioni di analisti e funzionari statunitensi, i quali sostengono che le forniture di armi sarebbero dirette alle opposizioni più moderate, così da contrastare la crescente influenza di gruppi jihadisti come il sanguinario Fronte al-Nusra, già resosi responsabil e di numerosi attentati indiscriminati in Siria che hanno causato centinaia di vittime civili.
Secondo questo punto di vista, il territorio siriano verrebbe dunque inondato di armi sempre più sofisticate precisamente per contenere le formazioni terroristiche, utilizzate peraltro dall’Occidente come forza d’urto per abbattere il regime di Assad, nonostante appaia più che evidente che le fazioni radicali e quelle teoricamente più moderate collaborino strettamente ormai da tempo per raggiungere l’obiettivo finale – il cambio di regime a Damasco – desiderato da Washington e dalle dittature sunnite del Golfo Persico.
Ancora, per i media ufficiali l’altra motivazione che ha spinto Riyadh e i suoi vicini a fornire armi ai ribelli sarebbe il tentativo di tenere il passo con quanto sta facendo il governo iraniano a favore del regime alleato, poiché, nelle parole degli autori del pezzo del New York Times, quella in atto in Siria è ormai diventata “una competizione regionale tra i paesi arabi sunniti da una parte e il governo di Assad sostenuto dall’Iran ed Hezbollah in Libano dall’altra”.
Simili giustificazioni, che dovrebbero rendere accettabili le manovre dei finanziatori dell’opposizione in Siria, rivelano in realtà come il conflitto in questo paese sia pressoché esclusivamente di natura settaria e rifletta le rivalità strategiche tra le varie potenze regionali con interessi contrastanti. Che la lotta per la democrazia e le legittime aspirazioni del popolo siriano servano solo a riempire gli slogan ed abbiano ben poco peso nei calcoli di paesi come l’Arabia Saudita risulta d’altra parte inevitabile, viste le credenziali democratiche della monarchia assoluta che governa questo paese e dei suoi alleati nel Golfo.
Le armi fornite di recente ai ribelli, in ogni caso, sarebbero state inviate in Giordania – e da qui in Siria – a partire dallo scorso dicembre, quando numerosi cargo hanno iniziato a fare la spola tra la Croazia e il Medio Oriente, trasportando fucili, cannoni, munizioni e molto altro ancora. A confermare questi movimenti è stato sabato scorso anche il quotidiano croato Jutarnji List, il quale ha scritto di come negli ultimi mesi sia stato notato un numero insolitamente alto di aerei giordani in transito dall’aeroporto Pleso di Zagabria.
Secondo la ricostruzione del New York Times, un esponente del governo croato in visita l’estate scorsa a Washington avrebbe riferito a membri dell’amministrazione Obama la disponibilità a Zagabria di ingenti quantità di armi, facenti parte di rimanenze non dichiarate risalenti alla guerra nei Balcani degli anni Novanta e pronte ad essere inviate ai ribelli in Siria.


Il governo statunitense, continua in maniera allusiva il Times, aveva declinato l’offerta, alla luce della posizione ufficiale di non fornire armi direttamente ai guerriglieri anti-Assad, facendo notare allo stesso tempo all’emissario del governo croato che “vi erano già segnali di una limitata assistenza militare esterna da parte dei paesi arabi”. Con ogni probabilità, cioè, Washington ha subito colto la palla al balzo, rimandando il rappresentante di Zagabria agli alleati sauditi per portare a termine l’acquisto e la fornitura di armi.

I governi di Arabia Saudita e Qatar, ma anche di Emirati Arabi Uniti, Turchia e Giordania, sono infatti utilizzati dagli USA per continuare a garantire gli armamenti necessari ai ribelli in Siria. In questo modo, l’amministrazione Obama può coordinare le forniture stesse pur mantenendo una posizione ufficiale di relativo disimpegno.
Le rivelazioni del New York Times, però, smascherano anche la doppiezza dell’Unione Europea, la quale solo pochi giorni fa ha prolungato l’embargo sulla fornitura di armi alla Siria, comprese le forze di opposizione, per non fomentare ulteriori violenze nel paese. Anche se la Croazia entrerà ufficialmente a far parte dell’Unione solo il pro ssimo mese di luglio, appare improbabile che un’operazione di questo genere sia stata condotta all’insaputa di Bruxelles o dei principali governi europei.
Da parte sua, il governo di Zagabria, tenuto oltretutto al rispetto delle severe norme internazionali che regolano la vendita di armi, ha comunque smentito di avere facilitato spedizioni verso la Siria. Un analista militare croato intervistato dal Times ha tuttavia affermato senza mezzi termini che “l’esportazione di grandi quantità di armi senza l’approvazione governativa”, anche se non del tutto impossibile, appare “estremamente improbabile” e potrebbe essere stata organizzata dai servizi segreti.
Sul fronte diplomatico, infine, l’intervento diretto del neo-segretario di Stato americano, John Kerry, del vice-presidente, Joe Biden, e del ministro degli Esteri britannico, William Hague, ha scongiurato l’altro giorno il boicottaggio da parte dell’opposizione siriana della conferenza internaziona le sulla crisi nel paese mediorientale che andrà in scena giovedì a Roma.
Nella sua prima visita all’estero da successore di Hillary Clinton, l’ex senatore democratico del Massachusetts ha cercato di rassicurare i leader dei ribelli, preoccupati per la presunta inerzia dei paesi che li sostengono, prospettando un maggiore coinvolgimento nel prossimo futuro da parte dell’amministrazione Obama, in modo da “cambiare la realtà sul campo per il presidente Assad” e convincerlo a farsi da parte.
Da Mosca, invece, il ministro degli Esteri di Damasco, Walid al-Moallem, ha per la prima volta aperto ad un possibile dialogo anche con i gruppi armati che combattono contro il suo governo. La proposta è stata però subito scartata dai vertici dell’opposizione appoggiata dall’Occidente, forse convinti a mantenere una linea dura dall’aumentata assistenza militare già ottenuta dai propri sponsor arabi, nonché dalla promessa americana di un maggiore impegno a breve per dare la spallata finale al regime di Assad e ridisegnare gli equilibri di potere in tutto il Medio Oriente.

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=45131

 

Draghi- Prossimo premio nobel per la pace?

Toh. Ecco da dove veniva quel ritornello ripetuto come un mantra da cotanti europeisti soprattutto di sinistra. Da Gandhi? No, da uno speculatore di GS, mentore di Ws, un credibile filantropo uomo di pace.

 Draghi: euro strumento pace. Disoccupazione? Una tragedia

ROMA – «L’euro è un mezzo per promuovere la pace tra le nazioni e anche un mezzo per migliorare la nostra prosperità collettiva». Così – parlando all’Accademia Cattolica do Monaco di Baviera – il presidente della Bce Mario Draghi. 

 Disoccupazione. «La riduzione della disoccupazione è una sfida urgente», ha aggiunto Draghi che ha invitato i governi ad «attuare riforme fondamentali che spingano il potenziale delle loro economie». «La disoccupazione è una tragedia», ha proseguito, spiegando che «spreca la vitalità dei lavoratori, impedisce alle persone di avere un ruolo attivo nella società e crea una sensazione di senza speranze, che è frustrante per i giovani».

 «Riformare i mercati». «Dobbiamo rinvigorire i nostri modelli sociali attraverso la riforma delle nostre economie», ha detto poi il presidente della Bce, spiegando che «è necessario rafforzare i meccanismi di mercato al servizio dell’umanità». In questo modo «possiamo salvaguardare la persona nella sua integrità». 

 Bce. «Il mandato della Bce ha dei limiti definiti» e «noi non possiamo riparare bilanci sbagliati, noi non possiamo ripulire banche in difficoltà, non possiamo risolvere problemi profondi nelle strutture dell’economie dell’Europa», ha aggiunto Draghi.

Atlante populista italiano

di Ernesto Galli della Loggia – 27/02/2013

Fonte: Corriere della Sera [scheda fonte] 

È populista chiedersi quali «sacrifici» hanno compiuto l’on. Rosy Bindi, faccio per dire, o chessò il senatore Latorre, in questi ultimi quindici mesi, mentre alcune centinaia di migliaia di italiani perdevano il loro posto di lavoro? È populista chiedersi quali effetti del «rigore» governativo abbiano subito l’on. Bondi o l’on. Cesa, sempre tanto per dire, nello stesso periodo, mentre ottocentomila famiglie italiane chiedevano la rateizzazione delle bollette della luce e del gas che non riuscivano a pagare, o decine di piccole aziende e di negozi erano costretti ogni giorno a chiudere? È populista? Forse sì, chissà. Ma allora, per passare dalle stalle alle stelle, erano populisti anche i sovrani inglesi quando decidevano durante la Seconda guerra mondiale di restare a Buckingham Pa lace nel cuore della Londra colpita ogni notte dai bombardieri della Luftwaffe; o forse erano populisti – e va da sé della peggior specie – anche i membri dello Stato Maggiore tedesco che nell’autunno del ’42 decidevano di consumare alla mensa di Berlino lo stesso misero rancio che a qualche migliaia di chilometri di distanza consumavano i loro commilitoni assediati senza speranza a Stalingrado.

Eh sì, orribili populisti, ci assicurerebbero i sapientissimi nostri intellettuali che sermoneggiano in ogni sede su che cosa è la vera democrazia. Sì, tutti populisti: come Beppe Grillo, naturalmente, e chi lo ha votato.

Si dà il caso tuttavia che le classi dirigenti vere, i veri governanti, facciano proprio questo, guarda un po’: specie nei momenti critici, cioè, cercano di mettersi allo stesso livello della gente comune, di condividerne pericoli e disagi, e in questo modo di meritarne la fiducia. Non vanno ogni sera in tv da Bruno Vespa o da Floris, o da Santor o (in trasmissioni che, sia detto tra parentesi, mostrandone la vuotaggine parolaia hanno contribuito come poche cose a disintegrarne l’immagine). Una classe politica che ha il senso del proprio onore e delle proprie funzioni deve essere capace di sentire quando è il momento di stare dalla parte dei suoi concittadini. Se non lo sente, ecco che allora sorge inevitabilmente a ricordarglielo il cosiddetto «populismo».

Certo, il populismo si limita perlopiù a invocare comportamenti diversi, denuncia ingiustizie e latrocini, insiste sulla moralità e sulla qualità delle persone. Non è «propositivo», come si dice; non indica vasti programmi di misure strutturali. Fa come ha fatto Grillo, appunto. Ma sarà pure lecito chiedere: c’è per caso qualcuno tra coloro che stanno leggendo queste righe che ricorda invece una vera proposta, per così dire strutturale, avanzata in questa campagna elettorale da Casini o da Bersani? E c’è qualcuno che ha ascoltato Vendola illust rare come immaginava di finanziare l’Eden che nei suoi programmi si compiaceva di dipingere per il futuro? Stranamente però non sono in molti a dare del populista a Vendola.

Volendo però entrare nel cuore della presunta assenza di proposte e di veri obiettivi politici da parte del cosiddetto populismo grillino, la domanda decisiva da farsi mi sembra questa: a conti fatti, voler mandare a casa un’intera classe politica costituisce o no un obiettivo politico (e non da poco, direi)? Costituisce o no un programma, anzi un ambizioso programma elettorale? E se la risposta è positiva, allora sopraggiunge di rincalzo un’altra domanda ancora: nelle condizioni date, qui, oggi, in questo Paese, quale altra via esisteva, per cercare, non dico di realizzare ma di affermare con forza quell’obiettivo, se non il voto per la lista di Beppe Grillo? Quale altra via esisteva per esprimere il proprio rifiuto nei confronti di una classe politica che in venticinque anni non ha saputo met tere in prima fila una sola faccia nuova? Che ancora oggi vede da un lato un vecchio leader 76enne, circondato da uno stuolo di camerieri, e dall’altro un partito, il Pd, che alla candidatura di Matteo Renzi ha saputo opporre solo la rabbia antiriformista dei vecchi oligarchi tardoberlingueriani alleati con i giovani turchi dell’apparato, entrambi oggi pronti, magari, a sostenere disinvoltamente che pure Grillo «è una costola della sinistra»? Quale altra via per protestare davvero contro una classe politica (ma non solo: né Monti né alcuno dei suoi ministri «tecnici» ha mai osato proporre alcunché, e tanto meno minacciare di dimettersi), una classe politica (ma non solo), dicevo, che travolta da scandali di ogni tipo e misura non è stata capace di inventarsi nulla, assolutamente nulla, per riguadagnare la fiducia dei cittadini?

E però non bisognava votare Grillo – si dice – per non dispiacere ai mercati e all’Europa, per non farci massacrare dallo spread. Ev identemente però molti hanno pensato che forse la qualità dei governanti è un prius rispetto a qualunque altra urgenza. Che forse una classe politica screditata e corrotta non solo alla fine non dà alcuna vera garanzia alla stessa Unione europea, ma soprattutto (ed è cosa non da poco) non garantisce un rappresentanza e una difesa adeguate degli interessi nazionali.

Questo è il punto: una classe politica chiusa nella supponenza delle sue chiacchiere e nell’impotenza del suo finto potere, la quale non ha voluto prendere atto che c’è un’Italia sempre più numerosa che non ne può più: né di lei né dei suoi partiti. Un’Italia che quindi ha fatto la sola cosa che poteva fare: se n’è inventato un altro, di partito. Praticamente dal nulla e con il nulla: affidandosi a una sorta di fool , di «matto», di buffone shakespeariano, l’unico capace, nella sua follia, di dire ciò che gli altri non potevano. Con l’augurio – che a questo punto, immagino, è di tutti gli i taliani – che alla fine, però, possa esserci del metodo in quella sua follia.

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=45136

 

ECCO COME EQUITALIA ROVINA LE FAMIGLIE: UN ESEMPIO PRATICO

 

Prima di leggere vi rimando a questo video, per chi non lo avesse visto, è un obbligo prima di leggere queste cose da “Equitalia”

“Equitalia”, oltre ad applicare tassi di interesse pazzeschi (in pochi anni la cifra dovuta raddoppia, triplica…) strappa alle famiglie in difficoltà economica la casa, spesso pagata in anni e anni di rinunce e sacrifici:

Con le nuove normative approvate recentemente (in silenzio) Equitalia potrà prelevare i soldi direttamente dai conti correnti, e pignolare le case in SOLI 2 MESI dalla partenza delle procedure: (vedi articolo) la cosa che fa ancora più schifo, viene le case dei poveri vengono SVENDUTE all’asta, a qualche ricco speculatore (magari un evasore fiscale che ricicla i soldi sporchi, anche tramite prestanome) che la acquista a prezzo stracciato, per rivenderla con calma, al doppio: anche se impiega 2,3 anni per venderla, è sempre un ottimo investimento…

Facciamo un esempio:

La tua casa vale 200.000 Euro:
con gli interessi di un mutuo ventennale, ne hai restituiti 350.000:

Se la casa non viene venduta alla prima asta, viene ripetuta, e il prezzo di partenza di abbassa di volta in volta: pertanto diventa una prassi, che alla prima non venga mai venduta:

Alla prima asta, il prezzo di partenza è di 130.000: niente!
L’asta si ripete: partendo da 100.000….. niente!
alla terza asta, si parte da 70.000 … e viene venduta.

Poniamo che il tuo debito nei confronti di equitalia sia stato di 30.000 Euro: (magari l’importo dovuto è di 10.000 ma tra interessi e penali, in qualche anno è arrivato a 30.000) per recuperarli, svendono la tua casa a 70.000, dopodiché ti trattengono i 30.000 che devono, ti addebitano le spese (dell’asta e delle pratiche) per un importo di ulteriori 5.000 e ti restituiscono……….. 35.000 euro!

per sanare un debito iniziale di 10.000 Euro, ti hanno privato della tua casa che hai pagato 350.000 euro, restituendoti 35.000 Euro: in pratica, quel debito ti è costato la bellezza di 305.000 Euro, ovvero i 10.000 del debito iniziale sommati ai 35.000 che ti hanno restituito dopo la vendita all’incanto.

TUTTO QUESTO è LEGALE, E AVVIENE NEL TUO PAESE: SI CHIAMA “EQUITALIA”.. (potevano risparmiarsi di coinvolgere la parola “equità”…)

DIFFONDI QUESTO ARTICOLO, FALLO LEGGERE AI TUOI AMICI, CONSIGLIALO, CONDIVIDILO SUI SOCIAL NETWORK… FACCIAMO SAPERE A TUTTI COSA AVVIENE NEL NOSTRO PAESE NELLA TOTALE INDIFFERENZA… MOLTA GENTE SI è SUICIDATA DOPO AVERE SUBITO TUTTO QUESTO, ALTRI SI SONO AMMALATI DI CUORE FINO AD AVERE UN INFARTO, ALTRI SONO ENTRATI NEL TUNNEL DELLA DEPRESSIONE… QUESTE COSE NON DOVREBBERO ACCADERE IN NESSUN PAESE DEMOCRATICO!!!

Tutto questo potrebbe essere accaduto anche a qualcuno che conosci, ma non sai niente: PERCHE’ GRAZIE ALLA MENTALITA’ CHE CI HANNO IMPOSTO ATTRAVERSO I MASS MEDIA, AVERE DIFFICOLTA’ ECONOMICHE è CONSIDERATO UNA VERGOGNA… anziché solidarizzare con chi è meno fortunato, sembra quasi che avere problemi dovuti alle vicissitudini della vita sia una colpa… non avere una famiglia ricca, avere la sfortuna di perdere il lavoro… è una colpa? Fonte

 

L’incubo dei licenziamenti

Nei primi 9 mesi del 2012 le imprese hanno mandato via 640 mila dipendenti 

Andrea Angelini

Lavorare stanca però ti aiuta a vivere. Centinaia di migliaia di persone in Italia sono rimaste senza lavoro a causa delle speculazioni dell’Alta Finanza internazionale che ha innescato una recessione economica devastante nella quale siamo tutti immersi.
Una deriva economica e sociale alla quale ha offerto un contributo non indifferente il ministro in lacrime, Elsa Fornero, che con la sua riforma del mercato del lavoro ha creato il terreno più adatto per permettere che i licenziamenti siano sempre più facili.
Secondo i dati offerti dallo stesso Ministero, nei primi nove mesi del 2012, in Italia ci sono stati 640 mila licenziamenti con un aumento dell’11% sul 2011. Dati confermati anche dal’Eurostat che ha stimato che alla fine di quest’anno il livello della disoccupazione sarà salito al 12%.
Ma non è colpa soltanto della Fornero ma del governo in carica e di tutti i governi che lo hanno preceduto. E’ colpa dei partiti di destra e di sinistra che hanno approvato la riforma Fornero, votandola in Parlamento, e che non sono riusciti a partorire uno straccio di politica industriale. Partiti che si sono appiattiti sulle posizioni dei grandi gruppi industriali italiani che, per esportare in Paesi come la Cina, il più grande mercato del mondo, hanno imposto, in nome del principio di reciprocità, l’abbattimento delle barriere doganali, con la scusa che ce lo chiedevano l’Unione europea e l’Organizzazione mondiale del Commercio. Ma quella che poteva andare bene per aziende come la Fiat, non poteva andare bene per centinaia di piccole imprese nazionali, tipo quelle tessili, che non sono state più in grado di resistere ad una concorrenza basata sul prezzo, grazie ad un costo del lavoro 8-10 volte inferiore di quello italiano. E per buona parte di esse la chiusura è stato un traguardo inevitabile.
A questo dato più aziendalista si è aggiunta poi la stretta creditizia che ha accresciuto le difficoltà delle imprese che si sono viste negare le risorse finanziare per investire nell’innovazione tecnologica. E questo è accaduto nonostante le banche fossero gonfie di soldi per i prestiti triennali ricevuti dalla Bce al modico tasso di interesse dell’1%. Così, grazie ad un effetto domino, con le imprese senza risorse per investire e per pagare i fornitori, imprese non più in grado di farsi pagare dallo Stato per le forniture fatte di beni e di servizi, si è innescato un effetto domino devastante e inarrestabile. Un effetto del dispiegarsi di quel Libero Mercato tante volte invocato come la panacea di tutti i mali e come l’elemento indispensabile per favorire lo sviluppo e la crescita economica e che invece ha dimostrato di essere soprattutto l’occasione per i grandi gruppi, protetti dai governi e dai vertici bancari, per fare i propri interessi a danno delle piccole imprese. Il governo Monti ci ha messo molto di suo, dando l’impressione di pensare soprattutto alle necessità di imprese come la Fiat che da anni ha avviato la smobilitazione degli stabilimenti italiani e il trasferimento della produzione in Paesi come Serbia, Brasile e Polonia, nei quali il costo del lavoro è molto inferiore a quello italiano. E che in questa sua tendenza ha trovato a Palazzo Chigi la più ampia comprensione in nome della libertà di impresa che il Lingotto ha sempre sostenuto, specie quando si trattava di impedire ai concorrenti esteri di produrre auto in Italia e soprattutto di venderle.
 
26 Febbraio 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19282

 

Libia. “Basta invasioni del Parlamento”

I deputati si scagliano contro il premier Zeidan dopo che l’ennesima irruzione di uomini armati ha bloccato i lavori dell’assemblea 

Ferdinando Calda

Il quotidiano Libya Herald ha definito quella di domenica scorsa “la più infuocata seduta” da quando il Congresso Nazionale libico è stato istituito, ad agosto scorso, nonostante il Parlamento di Tripoli abbia già assistito a diverse sessioni piuttosto turbolente nella sua breve vita. Nel mirino delle rabbia dei deputati c’è il primo ministro Ali Zeidan (foto), accusato soprattutto di non riuscire a garantire la sicurezza del Paese e neanche della stessa assemblea. L’insofferenza dei parlamentari, spiega il giornale libico, è montata per settimane, dopo che all’inizio del mese un gruppo di veterani della guerra civile contro Gheddafi hanno invaso i locali del Parlamento, costringendo i deputati a sloggiare e a sospendere l’approvazione del bilancio. Per oltre due settimane una trentina di manifestanti hanno campeggiato all’interno del Parlamento, chiedendo allo Stato il pagamento delle cure ospedaliere sostenute a causa delle ferite riportate nei combattimenti. Mentre i parlamentari chiedevano a gran voce al governo di intervenire, l’esecutivo di Zeidan era restio ad utilizzare la forza contro i veterani, molti dei quali mutilati di guerra. La pazienza dei parlamentari è arrivata al limite la scorsa settimana, quando il Parlamento è stato costretto a riunirsi nella sala conferenza del vicino hotel Rixos.
Domenica, dopo una serie di richieste in precedenza bloccate dai sostenitori di Zeidan, una maggioranza di deputati è riuscita a convocare il premier per chiedergli conto sui ritardi delle riforme promesse, soprattutto nel campo della sicurezza. Il tono “appassionato” delle domande e delle risposte, racconta il Libya Herald, ha reso la seduta particolarmente “turbolenta”. “Abbiamo convocato il primo ministro affinché spieghi il fallimento nel garantire la sicurezza del Congresso nazionale”, ha dichiarato il deputato Nizar Kawan.
Nei mesi scorsi, infatti, diverse volte manifestanti e uomini armati hanno fanno irruzione nel Parlamento di Tripoli, costringendo i parlamentari ad abbandonare l’aula o a sospendere la seduta. Uno degli ultimi episodi risale al primo gennaio scorso, quando più di 300 miliziani hanno assediato l’edificio dell’assembla con veicoli armati, aggredendo anche alcuni deputati. Si trattava di ex “ribelli” membri dell’Alta commissione di sicurezza, che protestavano contro la decisione del governo di sciogliere la Commissione – che aveva riunito diversi gruppi di miliziani durante la guerra – e di accorparne i componenti nei ranghi della polizia nazionale, alle dipendenze del ministero dell’Interno.
Ma il governo di Tripoli sembra non essere in grado di garantire la sicurezza neanche negli uffici dello stesso premier. Lunedì, mentre Zeidan si trovava a Ginevra per parlare davanti alla Commissione dei diritti umani dell’Onu, una trentina di membri di una milizia legata al ministero della Difesa hanno fatto irruzione nella sede del primo ministro nel centro della capitale, occupandola con un sit-in pacifico per chiedere un salario migliore.
L’incapacità delle autorità nazionali libiche di garantire la sicurezza all’interno dei palazzi governativi dà la misura della difficoltà per il governo di Tripoli di mettere ordine nel Paese, dove le milizie locali, pur non essendo tendenzialmente ostili al governo centrale, continuano a mantenere un’importante e pericolosa autonomia di movimento.
 
Le milizie accusate di rapimenti, sparizioni e torture
“Non ci possono essere né libertà né dignità in una società dove regnano il disordine e il caos delle milizie”. A lanciare l’allarme è la Commissione per i diritti umani del Congresso Nazionale libico, che in un comunicato ha denunciato “rapimenti, sparizioni forzate, omicidi, arresti arbitrari e tortura quasi sistematici” compiuti dalle milizie. “Evidenziamo – scrivono i membri della Commissione – la necessità di avviare un’inchiesta e di punire quanti sono stati coinvolti [in queste violazioni dei diritti umani], in modo da alimentare un senso di sicurezza e di giustizia nel popolo libico”. Già all’inizio di febbraio Human Rights Watch aveva denunciato come la Libia sia “ancora afflitta da gravi violazioni dei diritti dell’uomo, compresi gli arresti arbitrari, la tortura e i decessi in carcere, quasi un anno e mezzo dopo la caduta di Gheddafi”.


27 Febbraio 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19321

 

La tecnocrazia europea teme il contagio italiano

Il risultato delle elezioni ha fatto aprire gli occhi sull’aumento diffuso della povertà. Bruxelles lancia l’allarme populismo. L’economista Krugman boccia l’austerità di Bruxelles che ha accentuato la recessione e aumentato la disoccupazione 

 Filippo Ghira 

 Il risultato delle elezioni italiane ha lasciato di stucco sia la tecnocrazia europea legata a filo doppio agli ambienti dell’Alta Finanza sia la politica ufficiale che ha immediatamente colto il segnale giunto da Roma. Gli elettori italiani hanno voluto dare un messaggio chiaro: basta con la politica dell’austerità e dei sacrifici che non fa altro che aggravare la recessione economica in corso, favorendo il diffondersi di una povertà di massa, un fenomeno che era assolutamente sconosciuto prima. Al contrario, la tecnocrazia che siede a Bruxelles ha difeso a spada tratta la necessità dell’austerità e dei sacrifici e ha ammonito i cittadini italiani ed europei a non farsi trascinare dal populismo. Insomma, se non ce la fate ad arrivare alla fine del mese, se state diventando poveri, cosa volete che sia? Bisogna fare i sacrifici e poi il futuro, all’insegna del Libero Mercato, sarà roseo per tutti.

Il reale messaggio emerso dalle elezioni è stato colto immediatamente dal presidente del Parlamento europeo, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz. Si tratta di un chiaro messaggio di protesta contro la politica europea e l’austerità imposta prima di tutto dai governi nazionali. Si deve prendere atto che c’è stato un massiccio voto di protesta contro la politica di consolidamento fiscale. Per tale motivo, ha avvertito, si deve lavorare per coniugare la disciplina di bilancio e il rigore fiscale con la crescita e la lotta alla disoccupazione, in particolare quella giovanile. I cittadini, ha ammesso, non hanno gradito la politica d’austerità, la quale, ha ricordato, è stata imposta in primis dai governi nazionali e non da Bruxelles. In Europa, c’è una insoddisfazione diffusa. I cittadini, ha sostenuto, sono disposti a fare sacrifici, ma non a tutti i costi.

In particolare, quelli italiani hanno visto nell’Europa la prima responsabile delle loro difficoltà. Da qui l’auspicio di Schulz di un compromesso tra le forze politiche italiane da raggiungere attraverso il dialogo. L’Italia, ha concluso, ha bisogno di stabilità ma allo stesso tempo si deve rispettare la scelta degli elettori che hanno inviato un appello che va ascoltato. 

La Commissione europea ha preso atto del risultato elettorale e poi ha assicurato che da Bruxelles si lavorerà a stretto contatto con il nuovo governo per favorire e rilanciare la crescita economica  e la creazione di posti di lavoro. Barroso e soci hanno messo le mani avanti per ribadire“piena fiducia” (grazie tante!) nel processo democratico italiano, ma subito dopo hanno sostenuto che i mercati finanziari sono

liberi di reagire come ritengono opportuno. Il fatto che lo spread tra Btp e Bund tedeschi sia passato dai 270 di lunedì ai 350 di martedì dimostra ancora una volta che l’Italia, condizionata ancora da Grillo e da Berlusconi, resta sotto osservazione. La Commissione europea, interprete anche degli umori della speculazione internazionale, auspica la nascita di un governo sorretto da una maggioranza forte e stabile che continui a portare avanti la politica economica avviata da Monti.

Dagli Stati Uniti, il premio Nobel per l’Economia, Paul Krugman, ha ironizzato sulle pretese della finanza internazionale che il voto degli italiani fosse all’insegna della maturità e del realismo. Un auspicio sostenuto dal settimanale Economist, l’organo della speculazione della City, al momento delle dimissioni di Monti, a seguito dello sgambetto fatto da Berlusconi. Dove la maturità e il realismo consistevano nel fare tornare Monti che, ha ricordato Krugman, è stato imposto al nostro Paese dai “suoi creditori”. Una maniera elegante per indicare gli speculatori di Wall Street e della City che giocano al ribasso sul valore di mercato dei nostri Btp italiani per portare al rialzo lo spread con i Bund tedeschi. Una operazione che nel novembre del 2011 riuscì perfettamente tanto da portare lo spread a 570 punti e provocare la caduta del governo Berlusconi. A giudizio di Krugman gli effetti dell’austerità imposta da Monti, da lui definito il proconsole installato dalla Germania per imporre l’austerità fiscale su un’economia già in difficoltà, sono stati disastrosi. Ed anche la cosiddetta “rispettabilità” da ottenere da parte dei circoli politici europei risiede soltanto nel perseguire l’austerità senza limiti. Una austerità che non ha funzionato ma che non sembra preoccupare i suoi sostenitori, specie i funzionari europei, che sembrano sempre più petulanti e deliranti. Gente che non si sono minimamente preoccupati del fatto che il taglio della spesa e l’aumento delle tasse in una economia depressa come quella italiana, potesse peggiorare le cose con una percentuale sempre più alta di disoccupati. E l’aspetto paradossale è che l’austerità non ha aiutato a raggiungere l’obiettivo minimo di ridurre il debito che in Italia è aumentato dal 120% con Berlusconi al 126% attuale sul Pil.

Se l’analisi di Krugman ha il pregio del realismo, si deve però osservare, allo stesso tempo, che essa risente di una impostazione di tipo keynesiano favorevole al deficit spending, usare cioè la spesa pubblica in disavanzo per sostenere la crescita economica. In questa fase taluni ambienti di oltre Atlantico cercano di spingere l’Europa a fare come gli Usa dove il debito pubblico è costantemente sopra il 100% del Pil. Lì’applicazione del principio del “più indebitati siete voi, meglio stiamo noi”. Una tendenza che gli Usa possono permettersi per il ruolo del dollaro come moneta di riferimento nelle transazioni internazionali. Mentre per l’euro questo non è possibile.

Interessante è semmai la conclusione di Krugman, laddove osserva che i “populisti” sono in aumento nell’Europa del Sud proprio perché la tecnocrazia di Bruxelles non vuole ammettere che le politiche economiche imposte ai Paesi con alto debito (Grecia, Spagna Portogallo e Italia)  sono un fallimento disastroso. Se questo atteggiamento non cambierà, prevede l’economista, le elezioni italiane saranno solo un assaggio della pericolosa radicalizzazione che verrà in tutta Europa.