Una simpatizzante di destra alle primarie del Pd a Torino

Una simpatizzante di destra alle primarie del Pd a Torino

di Andrea Doi

Maria Grazia Grippo, il volto nuovo del Pd. Ma non della politica, come invece ha affermato in alcune interviste. Infatti ha una vita precedente, dove lei era di destra.

Andiamo con ordine.

Per le primarie del Partito Democratico come candidata viene presentata la Grippo. Ad accompagnare per mano la 40enne il consigliere regionale Pd Mauro Laus, presidente della cooperativa Rear, quella resa famosa da Ken Loach, che in solidarietà con i lavoratori ha rifiutato il premio del Torino Film Festival.

Lei, giornalista, infatti lavora come responsabile delle comunicazioni stampa proprio per la Rear.

Dicevamo dell’altra vita, o per chi ama le citazione cinematografiche il suo lato oscuro. Alla fine degli anni 90, la Grippo era redattrice de “Il Giornale del Piemonte”, edizione subalpina de “Il Giornale”, di proprietà della famiglia Berlusconi. Una giornalista che di politica ne ha sempre masticato, ma non per diritto di cronaca.

Nelle sedi vercellesi del centrodestra, era di casa. Anzi. Chi ha memoria di quei tempi parla di vera e propria simpatia non nascosta per Alleanza Nazionale e Forza Italia. Non solo. La Grippo, originaria di Caresanablot, sempre nell’altra vita, era molto vicino a Roberto Rosso, deputato azzurro, che la scoprì in un giornale locale, dove lei lavorava, e decise di portarla a Torino al “Giornale”, appunto.

Oggi folgorata da Laus sulla via di Damasco, visto che il consigliere regionale non può, per regole del partito, partecipare alle primarie, miracolosamente si scopre di “sinistra”. Doppio miracolo: infatti, grazie al fatto che a quote rosa il Partito Democratico piemontese non sta messo bene, c’è il rischio concreto di vederla partire per Roma, considerato anche il tesoretto di voti di cui il presidente della Rear può contate, e che è pronta ad indirizzare verso la sua protetta. Niente male per chi a Vercelli e dintorni viene ricordata non proprio come una “compagna”

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Cambiare si può, ma le alleanze elettorali sono un’altra cosa

IL MANIFESTO BLOG
   D’ambiente, nucleare, TAV e altri mostri…di Massimo Zucchetti
 
      
 
Cambiare si può, ma le alleanze elettorali sono un’altra cosa
 
  • Tornato finalmente in patria, sono andato questa mattina a Torino all’assemblea di “Cambiare si può“. Proprio nela stessa mattina nella quale il magistrato siciliano Antonio Ingroia, primo firmatario del manifesto “Io ci sto”, ha sciolto la riserva per la candidatura in Parlamento e, in conferenza stampa, ha presentato il simbolo della lista “Rivoluzione civile“.

    Cambiare si può

    Cambiare si può?

    “Cambiare si può” è una iniziativa degna di attenzione e che mi ha molto interessato. E’ partita da un appello, di cui riassumo i tioli principali, che è leggibile sul sito: “Il sistema sta andando in pezzi. A fronte di ciò non è più possibile stare a guardare o limitarsi alla critica. I fatti richiedono un’iniziativa politica nuova e intransigente, per non restare muti di fronte a opzioni che non ci corrispondono.” E quindi “è questo il senso della campagna,  con l’obiettivo di presentare alle elezioni politiche del 2013 una lista di cittadinanza politica, radicalmente democratica, alternativa al governo Monti, alle politiche liberiste che lo caratterizzano e alle forze che lo sostengono.” Fra i promotori, persone che stimo, e ne scelgo tre soltanto fra i tanti: Luciano Gallino, Livio Pepino, Marco Revelli.

    Ma torniamo alla realtà, cioè al fatto che questa “lista di cittadinanza politica” doveva sostanziarsi, in pratica, in un sostegno, anzi in una inclusione, nel “quarto polo” di Ingroia, in “Rivoluzione Civile”.

    I partiti che hanno sostenuto la candidatura di Ingroia sono quattro: Italia dei Valori, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani, Partito dei Verdi (di quest’ultimo, sinceramente, pensavo fosse quasi sparita traccia, ma tant’è). Nel suo appello di pochi giorni fa, Ingroia aveva poi chiamato a raccolta “la società civile”, rivolgendosi a potenziali candidati come Maurizio Landini, don Ciotti, Santoro ed altri. E “Cambiare si può” rappresentava una fetta importante del suo appoggio a livello di movimenti di base dei cittadini. Con una forte componente NOTAV che era ben percepibile nelle persone e nelle mozioni. E che bilanciava e completava geograficamente la notevole componente antimafia.

    Nel progetto di Ingroia c’era – e c’è – però una forte contraddizione, che è emersa puntualmente fra ieri e oggi: apparentemente,  si affermava  non esserci spazio – a livello di candidature – per gli esponenti noti dei vecchi partiti; ma ovviamente per avere le firme per le liste e per avere i voti degli elettori, proprio ai vecchi partiti Ingroia doveva in realtà rivolgersi e chiedere appoggio.

    Riporto la frase di pochi giorni fa di Ingroia stesso,  rivolgendosi ai segretari politici dei partiti che lo appoggiano, cioè Diliberto, Bonelli, Di Pietro e Ferrero: “Siete esempi di una politica pulita e alternativa che ha combattuto in questi anni battaglie contro Berlusconi prima e Monti poi”, ma “per aiutare la società civile a fare un passo avanti, io credo che voi dobbiate fare un passo indietro. Non sono un rappresentante dell’antipolitica e degli antipartiti e so che voi rappresentate la politica per bene. Ma aiutateci a incoraggiare la società civile. Facendo un passo indietro, voi non sparite ma restate con noi in questa battaglia”. Traduzione dal politichese: non candidatevi, lasciate spazio a facce nuove, ai movimenti, alla società civile.

    Paolo Ferrero di Rifondazione aveva dato la propria disponibilità a farsi da parte personalmente, come richiesto. Ma per gli altri, come vi era da aspettarsi vista la storia politica precedente di almeno due di essi, non c’è stato nulla da fare. Risultato di ieri: i quattro segretari dei quattro partiti saranno primi candidati alle elezioni per “Rivoluzione Civile”.

    Progetto che quindi parte mostrando quella che è la sua vera natura, rispettabilissima: un’alleanza elettorale fra alcuni vecchi partiti, speranzosi così di riuscire a rompere la barriera del quorum, corredando l’alleanza con un progetto – messo insieme giocoforza un po’ in fretta – che includesse nell’alleanza stessa più pezzi possibili dei movimenti di base, dell’italia civica e civile che ha manifestato in questi anni delusione e insofferenza verso i partiti, la politica come questi partiti la fanno, i risultati falimentari e lo sfascio della società civile che ne è conseguito.

    Questa mattina, alla notizia di avere i segretari di quattro vecchi partiti come capolista, l’assemblea di “Cambiare si può” ha avuto una – comprensibile – sollevazione. Indignazione in molti. Deluso realismo, in altri. Ora ci sarà – secondo le regole del movimento – una votazione telematica su questa questione delle candidature – che mi pare esiziale – ed il cui esito sarà probabilmente un “no” netto e uno sfilarsi dalla allenza elettorale per febbraio 2013: i resoconti dei tre “garanti” di Cambiare si può, che hanno incontrato Ingroia ieri, apparivano scoraggianti e orinetate in tal senso.

    Io credo purtroppo non ci sia nulla da stupirsi. Come si sperava che una operazione che – visti i tempi ristretti – è sostanzialmente elettorale, vedesse i vecchi partiti rinunciare a simbolo e candidati “di spicco” in nome di un volontaristico passo indietro? I partiti ragionano in base a convenienze e in base a equilibri, seggi, potere. Forse è deludente, ma era comprensibile che i “vecchi politici” si facessero avanti e non rinunciassero alla tanto amata cadrega.

    Chi sperava nel contrario, purtroppo, ha un’idea bella e alta della politica che è molto distante dalla realtà e – forse – non è adatto a muoversi dentro di essa allo stato attuale.

    Meglio forse non concentrarsi solamente sulle dinamiche puramente elettoralistiche, che mal si coniugano con un reale rinnovamento e con le idee nuove, e continuare a costruire con un orizzonte più ampio che non quello di mandare qualche deputato in Parlamento, oltretutto con questa penosa legge elettorale che ancora una volta vedrà un parlamento di nominati e non di eletti.

    Niente di nuovo sotto il sole, cari compagni.

    Riporto in conclusione sei punti tratti da una delle mozioni approvate da “Cambiare si può” recentemente, e che approvo, e sulle quali mi sento di poter discutere, e costruire. Non su mandare o no in parlamento Di Pietro o Diliberto: questo mi sembra, sinceramente, squalificante e di livello bassissimo.

    Costruiamo un percorso basato su:

    1) La rimessa in discussione del fiscal compact e la contestazione delle politiche di austerità imposte dall’Europa;

    2) Il rifiuto della logica delle grandi opere a cominciare dal TAV;

    3) La revisione netta delle politiche del lavoro e dei relativi diritti dei governi attuali;

    4) La difesa e rilancio del welfare e la laicità e pubblicità della Scuola e dell’Università;

    5) Il taglio della spesa militare, la cancellazione delle missioni militari all’estero e la politica della pace;

    6) Politiche di accoglienza e dei diritti dei migranti

    Su questo, e non sui cadreghini, possiamo discutere e costruire a livello alto.

    Se si vuole invece impegnarsi elettoralmente, quindi a livello necessariamente coincidente con l’attuale basso livello della politica italiana, non si può fare altro che sporcarsi le mani: nulla di male, basta saperlo.

     di massimozucchetti 

pubblicato il 29 dicembre 2012 

MES/ Monti nomina senza il Parlamento: e sceglie l’amico dei ministri, ex Banca Mondiale

Tanti sono i punti di domanda sul MES (il Meccanismo europeo che obbligherà l’Italia a versareoltre 125 miliardi nei prossimi cinque anni). E certamente l’atteggiamento del governo Monti non aiuta a dissimularli: nonostante infatti fosse stato deciso che le nomine per il consiglio dei governatori e per il cda del MES sarebbero state condivise con il Parlamento, alla fine Monti & co. hanno deciso per una scelta d’imperio e arbitraria. Senza coinvolgere minimamente Camera e Senato, senza “attivare un procedimento di verifica parlamentare sui criteri di scelta e sui curriculum dei membri”, è stato nominato – peraltro per entrambi gli incarichi – Vincenzo La Via, attuale direttore generale del tesoro (incarico che fu di Grilli), ex Banca Intesa (la ex banca di Passera) ed ex direttore finanziario della Banca Mondiale. Il Parlamento non esiste.

 

– di Carmine Gazzanni –

 

Era il 19 luglio quando l’Italia entrava nelMES dopo che il Parlamento esprimeva parere favorevole sul trattato, depositato poi a settembre presso gli Uffici dell’Unione Europea. Circa tre mesi dopo –l’otto ottobre – nasceva ufficialmente l’istituto europeo che – come si legge sul sito del Consiglio Europeo – sarà “uno degli strumenti del meccanismo di risoluzione delle crisi per i paesi della zona euro” in quanto fornirà “sostegno alla stabilità attraverso alcuni strumenti di assistenza finanziaria a favore degli Stati membri del MES che sono colpiti o minacciati da gravi problemi di finanziamento”.

Ciononostante, i punti interrogativi sul funzionamento dell’istituto sono tanti. E l’atteggiamento del governo Monti certamente non aiuta a sfatarli: sebbene fosse stato chiesto espressamente dal Parlamento lo stesso 19 luglio, l’esecutivo si è riservato di non coinvolgere né Camera né Senato nella nomina del rappresentante italiano nel cda dell’istituto europeo. Sarà un caso ma il “prescelto” è il dottor Vincenzo La Via, attuale direttore generale del tesoro (incarico che fu proprio del ministro dell’Economia Vittorio Grilli), molto legato anche ad altri ministri tecnici e, soprattutto, ex direttore finanziario della Banca Mondiale. Ma andiamo con ordine.

 

IL “MOSTRO GIURIDICO” DEL MES – Si legge sul sito del Consiglio Europeo: “Il meccanismo costituirà globalmente la maggiore istituzione finanziaria internazionale, dotata di una forte base di capitale pari a 700 miliardi di EUR, di cui 80 miliardi saranno versati all’inizio del 2014 e, di questi 80, 33 miliardi di EUR entro il 12 ottobre 2012. Insomma, un superfondo che venga in soccorso ai Paesi che ne avranno bisogno. Qualcosa, però, non torna. Prendiamo il caso dell’Italia. Stando a quanto emerge leggendo lo statuto, l’Italia dovrà versare oltre 125 miliardi nei prossimi cinque anni (circa 25 miliardi ogni anno). Domanda: come farà il nostro Paese, già distinta da un pesante indebitamento, a versare questi soldi? Come denunciato da diversi economisti, il rischio è che si crei un sistema paradossale nel quale i Paesi saranno costretti ad indebitarsi per versare soldi ad un ente che nasce proprio per risolvere il problema del debito. Un cortocircuito bello e buono, insomma.

Non solo. Come denunciato in più occasioni dal parlamentare Idv Elio Lannutti, quello del MES sarebbe un vero e proprio “mostro giuridico”, dato che “tecnocrati, oligarchi, cleptocrati possono agire senza rispondere ad alcuno del proprio operato” e, dunque, “decideranno se e a quali condizioni, e anche a quali tassi di interesse, prestare i soldi”. Il motivo è presto detto: come scritto nero su bianco sullo statuto del MES, i membri e i loro conseguenti atti sono coperti dall’immunità da ogni forma di giurisdizione. “Non vogliono avere rivalse, non vogliono finire sotto processo, è questa la ragione”, chiosa Lannutti.

 

IL PARLAMENTO CHIEDE TRASPARENZA SULLE NOMINE – I dubbi, dunque, sono forti eassolutamente legittimi (considerando anche il fatto – non secondario – che un’altra norma prevede l’impossibilità di veto dei Parlamenti nazionali sulle decisioni del MES per i Paesi sottoscriventi). E certamente il comportamento del governo guidato da Mario Monti non aiuta. Per poter rendercene conto bisogna tornare al 19 luglio, data di approvazione dello statuto del MES da parte del Parlamento italiano. In quella data venne accolto dal Governo l’ordine del giorno n. 9/05359/001 a firma degli onorevoli Marco Marsilio e Fabio Rampelli con il quale si impegnava l’esecutivo, tra le altre cose, a “prevedere che il membro supplente del consiglio dei governatori – in luogo del titolare ministro delle Finanze – fosse “un vice ministro o un sottosegretario dello stesso” e “ad attivare un procedimento di verifica parlamentare sui criteri di scelta e sui curriculum dei membri effettivo e supplente nell’ambito del consiglio d’amministrazione. In altre parole, si chiedeva trasparenza sulle nomine del membro supplente nel consiglio dei governatori (il titolare, da statuto, è il ministro dell’Economia in carica) e su quelle dei membri – effettivi e supplenti – del consiglio di amministrazione del MES.

 

RE MONTI PRIMA APPROVA, POI DECIDE DA SOLO – Nonostante il governo stesso avesse espresso parere favorevole all’ordine del giorno dei due parlamentari, nulla di tutto questo è stato fatto. A renderlo noto ancora l’onorevole Marco Marsilio in un’interrogazione di pochi giorni fa. “Dal sito internet ufficiale del Meccanismo europeo di stabilità –scrive il parlamentare – nella pagina relativa alla governance dello stesso, si apprende che sono già state effettuate le nomine spettanti all’Italia relative al membro supplente del consiglio dei governatori, nonché al titolare e al supplente del consiglio d’amministrazione”. Tutto deciso d’imperio, insomma. Senza che il Parlamento sia stato messo al corrente o consultato dall’esecutivo.

La gravità di quanto accaduto è peraltro duplice: non solo infatti la scelta del governo è avvenuta su una questione tanto delicata quanto è il Meccanismo Europeo di Stabilità ma, peraltro, senza nemmeno rispettare quanto approvato in Aula Parlamentare. Scrive infatti Marsilio, “a dispetto di quanto previsto nell’ordine del giorno di cui sopra, non solo il membro supplente del consiglio dei governatori non risulta essere un membro del Governo italiano; ma nemmeno alcuna procedura parlamentare di verifica è stata attivata per la nomina dei membri del consiglio d’amministrazione”. Come detto, una scelta d’imperio.

 

IL “PRESCELTO” VINCENZO LA VIA: DALLA BANCA MONDIALE A INTESA – A questo, punto, però andiamo a vedere chi è stato il “prescelto” del governo Monti. Le stranezze, infatti, non finiscono qui. Anzi, se possibile qui si addensano. Il membro supplente del consiglio dei governatori (il vice di Grilli, in pratica) non sarà né – come richiesto – un vice ministro né un sottosegretario. Sarà inveceVincenzo La Via, attuale direttore generale del tesoro. Proprio l’incarico che fu di Vittorio Grilli. Un caso, certamente. Così come sarà un caso il fatto che in passato La Via è stato Chief Financial Officer per Banca Intesa, la stessa banca per cui hanno lavorato tanti ministri montiani (da Passera alla Fornero). Così come sarà un caso che per anni (dal 2005 al 2011) La Via è stato anche ex direttore finanziario della Banca Mondiale.

Finita qui? Certo che no. Leggendo i vari consigli interni al MES si nota un’altra stranezza non di poco conto: La Via, infatti, non sarà solo membro supplente di Grilli, ma sarà anche membro effettivo del consiglio di amministrazione del Meccanismo. Anche questa – ovviamente – decisione presa senza sentire alcun parere parlamentare. Il che è tutt’altro di poco conto dato che, come si legge sul sito del Consiglio Europeo, il cda sarà responsabile della “gestione corrente” del MES. In altre parole, di come nei fatti verranno gestiti i soldi.

Tutto deciso da Re Monti e la sua corte, dunque. Con buona pace di Parlamento. Democrazia. E cittadini.

Fonte


L’altro inutile Tav del Sud

 di Marco Ponti | 30 dicembre 2012

 È una questione di giustizia territoriale: se si buttano i soldi pubblici dalla finestra a nord, con le linea ferroviaria Torino-Lione (in Francia gli studiosi indipendenti non ridono meno di quelli italiani alla vista dei dati di quella linea), sembra giusto sprecarli anche al sud, con la nuova linea Napoli-Bari. Questo mega-progetto è caro al ministro Fabrizio Barca, certo attento ad attirare denari pubblici al mezzogiorno, ma, sembra, meno attento a verificare l’utilità delle opere a cui questi soldi sono dedicati. Lavoce.info pubblicò un anno fa una critica allo studio presentato da Fs per giustificare questo progetto. Fs non replicò mai. E perché mai avrebbe dovuto farlo, essendo Fs il soggetto economico destinato a ricevere quei soldi, e rischiando in più di evidenziare l’inconsistenza dell’analisi da lei stessa presentata, in palese e clamoroso conflitto di interessi?  

 Per i dettagli tecnici, si rimanda ovviamente a lavoce.info. Ci si limita a riassumere qui gli aspetti più clamorosi e intuitivi di quella critica. Lo studio Fs riguarda la fattibilità socioeconomica dell’opera (“analisi costi-benefici per la collettività”). Non sono stati presi in esame gli aspetti finanziari dell’opera (soldi che entrano ed escono per lo Stato), dato che si assume che non vi siano ritorni finanziari di sorta, e che dunque lo Stato paghi tutto, fino all’ultimo euro.  

 Dunque, il raddoppio ad Alta Capacità/Alta Velocità della linea Napoli-Bari, lunga 162,3 chilometri, aveva un costo previsto al momento dello studio di 4,052 miliardi di euro. Lo studio è stato fatto da RFI (sezione di FS che si occupa di infrastrutture) un paio di anni fa. Dallo studio Rfi l’opera risulta fattibile, con un beneficio netto per la collettività di 683 milioni di euro. L’analisi critica della Voce, basata su una tesi del Politecnico di Milano, portava il risultato netto per la collettività da +683 milioni di euro a -837 milioni. Cioè l’infrastruttura determinerebbe una vistosa perdita netta di benessere sociale, uno straordinario spreco di soldi pubblici. Ma questo eliminando solo alcuni errori materiali riscontrabili (i principali legati ai costi ambientali), senza entrare in merito all’aspetto più spinoso della faccenda: le previsioni di traffico.  

 La nuova linea fa risparmiare, sulla base dei dati ufficiali, un’ora e un quarto ai treni passeggeri, e probabilmente un po’ di meno ai treni merci (il dato per questi non è specificato). L’esperienza e la letteratura internazionale evidenziano che se il tempo di viaggio dimezza, il traffico può anche raddoppiare. Ma qui siamo lontanissimi da quel valore! Il traffico previsto dallo studio FS arriva a quadruplicarsi con la nuova linea. Non vengono fornite spiegazioni sul modello usato per raggiungere quell’inverosimile valore. La sensazione è che si tratti di una lieve confusione tra l’offerta possibile (quanti treni ci possono passare), e la domanda (cosa verosimilmente ci passerà).

 Ovviamente, se nella revisione dei calcoli sopra presentata si fosse assunta una domanda “verosimile” sulla nuova linea, i benefici sociali prima citati sarebbero ulteriormente crollati, a circa un quarto di quelli stimati (e da noi assunti comunque come veri per essere prudenti nel criticare uno studio altrui).   

 Uno degli argomenti in difesa delle grandi opere è il seguente: intanto facciamole, poi la domanda arriverà. Illuminante a questo proposito è la linea AV Milano-Torino, costata 8 miliardi, con una capacità di 330 treni al giorno: dopo quattro anni, ne passano 22. Meglio non parlare poi degli aspetti occupazionali: per euro pubblico speso, queste opere occupano pochissima gente.  

 Ma nei due anni trascorsi da quell’analisi qualcosa è cresciuto: non la domanda di traffico, purtroppo, ma i costi previsti, che sono passati da 4 a 7 miliardi. E parliamo solo di previsioni, i consuntivi tendono ad essere un po’ più alti. Le popolazioni locali qui non protestano, al contrario che nella Valsusa: la situazione economica e sociale è tale che qualsiasi euro pubblico è il benvenuto, e il settore delle opere civili a sud di Roma è spesso controllato da soggetti sociali che non è prudente contrastare, come dice la stessa Corte dei Conti.  

 Meglio non continuare a chiedere all’oste se il vino è buono.

 Il Fatto Quotidiano, 30 Dicembre 2012

ICHINO: CHI CAZZO SEI?

 

 

Breve storia di un arrampicatore sociale:  ovvero, come ha potuto un grillo, introfulatosi tra le file operaie che hanno fatto dure lotte sindacali, trasformarsi, una volta giunto nel bel mezzo della piramide sociale, e mostrare la sua vera natura.

 

Al dott. Ichino –    Esperto in lavoro (degli altri)  –

 

Abbiamo  letto  qualcosa di Pietro Ichino dopo aver sentito  discutere  delle  sue  opere in tv in questi giorni  e soprattutto a proposito del suo  libro ‘I nullafacenti’.

Allora  abbiamo  pensato…..  Questo  qui  ne  capisce di lavoro… lavora,  avrà lavorato?!

Insomma, siamo  andati  a vedere  il  suo  curriculum. L’Ichino  nasce a Milano nel 1949,   fin da giovanissimo  si appassiona al  mondo del  lavoro (non al  lavoro  ma al mondo del lavoro) ed alla tenera età di vent’anni (nel 1969) diviene dirigente sindacale della CGIL-FIOM,  incarico che ricoprirà fino al 1972.

 

Assolve  gli obblighi  di leva come  marconista trasmettitore (dove tutt’ora si canta  la canzoncina ‘onda su onda noi siam  trasmission, gente che non fa niente che non c’ha voglia di lavorar,  gente specializzata a stare in branda a riposar’)  ed è quindi pronto a rientrare nel mondo del lavoro, ritorna infatti tra i ranghi della CGIL dove resterà sino al 1979.

 

Nel 1979 Ichino ha ormai trent’anni, possiamo immaginare la  moglie che gli dice:  “Pie’ ormai c’hai trent’anni, se non vuoi  trovare un lavoro almeno trova uno stipendio ed una pensione”.

Detto fatto l’Ichino viene eletto alla Camera dei deputati, e va pure in Commissione Lavoro. Però non è ancora contento, ha lo stipendio, si è assicurato una ricchissima ‘pensione’, che  comincerà a percepire nell’aprile del 2009 dopo aver ‘lavorato’ ben  4  anni  alla Camera  ( dal 1979 al 1983), ma sente  che  gli manca qualcosa. E qualcosa arriva, nel 1981 (non vi sfugga che  nello stesso momento era parlamentare)  viene assunto come ricercatore all’Università di Milano.

 

Nel 1986 diviene docente di Diritto del lavoro dopo concorso.

Quasi dimenticavamo  la cosiddetta  Legge Mosca, una  leggina  allucinante (poco) nota per aver contribuito a creare una piccola  voragine nei conti pubblici italiani, tale legge era nata come legge numero 252 del 1974 e consentiva a chi avesse collaborato con partiti e sindacati di vedersi regolarizzata la propria posizione contributiva scaricando i costi sulla fiscalità complessiva e dietro una piccola certificazione presentata dal partito o dal sindacato.

In buona sostanza, con questa legge vennero “regolarizzate” le posizioni di migliaia  di  persone che risultarono essere state impegnate come dirigenti sindacali sin dalle scuole medie.

 

Questa orda assetata di soldi è costata alle casse dello stato una cosuccia come 25mila miliardi di lire distribuiti tra oltre 40.000  persone; si badi bene non tra 40.000  lavoratori  ma tra  40.000  oscuri  funzionari  di  partito e nobilissimi  rappresentanti  dei lavoratori. Comprendiamo bene la vostra obiezione:  la Legge è del 1974, l’Ichino è stato sindacalista fino al 1979, se ne ha goduto è  solo per  una parte della sua carriera ed in  fondo la legge c’era, lui che poteva fare. Errore, la legge era del 1974 ma  è  stata  prorogata  più  volte;  particolarmente interessante per meglio illuminare il personaggio Ichinesco è l’ultima proroga, avvenuta nel 1979;  abbiamo detto come il  nostro eroe sia stato deputato nella VIII legislatura, durata dal  20 giugno 1979 all’11 luglio 1983, ma l’Ichino  non è  arrivato  alla Camera il 20 giugno 1979 ma il 12 luglio in sostituzione di  un collega ed il suo primo atto, da vero alfiere dei veri lavoratori, è stato quello di correre ad aggiungere la sua preziosa  firma alla proposta di legge numero  291 presentata il 10 luglio 1979 ed avente a titolo “ Riapertura  di termini in  materia  di posizione  previdenziale di talune categorie di lavoratori dipendenti pubblici e privati”, così facendo il deputato Ichino si affrettava  ad  aggiungere la sua firma sotto un progetto di legge che favoriva spudoratamente i sindacalisti come Ichino, contribuendo a causare una voragine nei conti pubblici che il professor Ichino propone oggi di sanare per il mezzo di rigore, sacrifici e duro lavoro (degli altri).

 

In buona sostanza, noi non sappiamo ancora  come e quando  andremo in pensione mentre il castigatore dei nullafacenti si trova ad avere già diritto a due pensioni ottime (quella di  docente universitario e quella di deputato che SONO CUMULABILI) più un altro paio potenziali, quella di giornalista e quella di sindacalista.

 

Insomma  Ichino, abbiamo capito che dovremo lavorare  almeno  fino a 70 anni  di età per pagare LE SUE pensioni, ma almeno non potrebbe evitare di prenderci per il culo ?

 

p.s.  credo che già  gli paghiamo anche una scorta armata 24h su 24.

 

FONTE: Oppostadirezione