Perché Renzi odia il reddito di cittadinanza e propone il lavoro di cittadinanza

reddito-minimo-garantitoStraordinario Renzi: di ritorno dalla California, dove si sperimenta il reddito di cittadinanza, annuncia in Italia una tesi opposta: il lavoro di cittadinanza. Dopo la batosta del 4 dicembre deve recuperare il voto di giovani e poveri. Come? Mettendoli a lavorare (su cosa?) in cambio di una “cittadinanza”: qualche spicciolo o bonus. Il lavoro di cittadinanza è una delle tesi della sinistra lavorista. Ad essa va contrapposto il reddito di base come diritto universale di esistenza e sviluppo dell’autonomia della persona. Questo diritto oggi può strutturare una proposta radicale e alternativa di tipo politico, economico, sociale ed esistenziale al di là della fascinazione acritica per gli automatismi della Silicon Valley in cui è caduta la sinistra non lavorista e dalle accuse infondate storicamente dei lavoristi di sinistra per i quali il reddito di base è una proposta “neoliberista”
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Ma Renzi è davvero stato in California? Oppure ha dato un indirizzo sbagliato ai giornalisti ed è rimasto a casetta? La sua gita nella Silicon Valley è stata inutile: dallo stato dove si discute, e si sta sperimentando un reddito di cittadinanza a Oakland, Renzi ha importato il concetto opposto: il lavoro di cittadinanza. Ovvero: obbligo di lavoro per tutti i precari e disoccupati, gestito dallo Stato garante in ultima istanza del «lavoro pubblico garantito».
Ripresentarsi con la proposta di lavoro cittadinanza senza citare il reddito di cittadinanza sostenuto, non senza problematicità, dai principali esponenti e teorici della Silicon Valley che parlano di robot e automazione la dice lunga sul livello di arretratezza e subordinazione culturale in cui vive la stampa e buona parte della “sinistra” italiana. Parlare di “lavoro di cittadinanza” è surreale all’indomani della bocciatura delle destre neoliberiste all’europarlamento di una tassa sull’automazione e dei robot per finanziare un reddito di base. Benoit Hamon, candidato dei socialisti francesi alle presidenziali (il partito alla cui sedicente “famiglia” politica dovrebbe appartenere il Pd-partito di Renzi), ha sbaragliato la destra social-liberista di Manuel Valls alle primarie con questa proposta che è più avanzata rispetto alle posizioni neoliberiste espresse da Emmanuel Macron, favorito nella corsa all’Eliseo. In base ai primi risultati della sperimentazione di Oakland condotta su mille persone sembra che il reddito dimostri le posizioni di chi da tempo lo sostiene: l’aumento delle tutele contro la precarietà e la disoccupazione non diminuisce la capacità di lavoro, ma rafforza l’autonomia del titolare di un diritto al reddito di base.
Il personaggio-Renzi è dotato di un’enorme capacità di mistificare tutto e il suo contrario e i media ne sono affascinati in un gioco di auto-distruzione che si autoalimenta. Risultato ineguagliato, per il momento, resta il catastrofico (per lui, non per il paese) referendum del 4 dicembre. Ora, il mistificatore ha bisogno di recuperare voti sul “sociale”, i “giovani”, i “poveri”. La proposta sul “lavoro di cittadinanza” mette benzina sul fuoco.
 
“Fermare il progresso e la tecnologia o pensare di rallentare è assurdo”, ha detto l’ex premier ed ex segretario del Pd: “Le invenzioni, dalla stampa all’automobile, hanno avuto sempre ricadute sociali. Compito della politica è ora affrontare i problemi che derivano dalla rivoluzione digitale e i costi in termini di perdita di posti di lavoro”. Ma, aggiunge, “contesto la risposta grillina al problema. Garantire uno stipendio a tutti non risponde all’articolo 1 della nostra Costituzione che parla di lavoro non di stipendio. Il lavoro non è solo stipendio, ma anche dignità. Il reddito di cittadinanza nega il primo articolo della nostra Costituzione”, invece “serve un lavoro di cittadinanza”.
Luigi Di Maio, candidato a Palazzo Chigi contro Renzi per i Cinque Stelle, si è chiesto cosa significhi “lavoro di cittadinanza”. Qualcuno ha provato a dare una risposta: sarebbe addirittura una proposta di Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera, e  di Berlusconi che di recente si è scoperto sostenitore del “reddito di cittadinanza”.
Brunetta starebbe pensando a un lavoro di cittadinanza che impone, per legge, un’occupazione di 3 mesi a chi ne farà domanda. I tre mesi di lavoro daranno diritto a trascorrerne altrettanti con l’indennità di disoccupazione, e così via. Si desume che l’obbligo al lavoro, magari attraverso i vecchi lavori socialmente utili o con i più “moderni” voucher. In questo caso, tutti i cittadini in disagio lavorativo saranno costretti a svolgere nuove corvée o lavori servili di ogni tipo per avere in cambio un sussidio di povertà di ultima istanza (chiamato da Berlusconi, senza vergogna, “reddito di cittadinanza”) in una turnazione trimestrale. L’agenzia nazionale delle politiche attive (Anpal) creata dal Jobs Act di Renzi e i centri per l’impiego, enti che hanno una buona parte dei dipendenti precari o in scadenza a marzo, dovrebbero gestire il nuovo lavoro servile, chiamato “lavoro di cittadinanza”. Resta da capire cosa faranno i richiedenti asilo che, a causa delle disfunzioni strutturali del sistema di asilo e del razzismo dilagante, saranno messi al lavoro (gratuito) per ottenere quello che sarebbe un loro diritto. Il piano Minniti-Morcone rientra, e in che modo, nel lavoro di cittadinanza?
 
Per chi ha una pur minima conoscenza dello stato delle politiche del lavoro, e dei risultati reali (non quelli renziani) del Jobs Act, sa che queste proposte di contrasto alla disoccupazione, tra l’altro in una crisi economica come la nostra, sono fuffa. Vale tuttavia la pena di analizzarle perché da oggi a febbraio 2018 – quando presumibilmente si voterà in Italia, salvo rovesci – questa sarà materia di propaganda. Potrebbe essere un punto dell’agenda del governo Pd-partito di Renzi-Forza Italia-Ncd e vari satelliti.
Renzi è spregiudicato. Quando parla di “lavoro di cittadinanza” allude a una tesi della sinistra lavorista. E’ stata avanzata da Laura Pennacchi (nel 2013; o nel 2017). Questa proposta è contro un reddito di base, soprattutto se incondizionato, accusato di favorire “la scissione del nesso costituzionale tra lavoro e dignità, il quale considera il lavoro non solo come attività ma come processo antropologicamente strutturante l’identità umana”. Prima che se ne appropriasse Renzi, la proposta era stata avanzata in politica da Stefano Fassina (Sinistra Italiana, già viceministro dell’Economia nel governo Letta quando militava nel Pd): “il lavoro di cittadinanza, non reddito di cittadinanza – ha sostenuto Fassina – Che deve servire all’inserimento lavorativo, quindi deve essere condizionato ad attività formative e all’accettazione di offerte dignitose di lavoro. Lo vedo come un veicolo per condurre o ricondurre le persone al lavoro”.
 
Questa sinistra sostiene il ritorno dello Stato a cui affidare il ruolo di “creatore di ultima istanza” di lavoro. Impresa ambiziosa che si ritrova nel piano sul lavoro presentato dalla Cgil e viene tramandato dal tempo in cui alcuni economisti progressisti consigliavano di impiegare persone facendogli scavare le buche. Più di recente se ne è parlato per creare occupazione statale nella manutenzione dei disastrati territori italiani. A Renzi, invece, non interessa un simile ruolo dello Stato, se non limitato all’erogazione degli incentivi alle imprese: 18 miliardi per il Jobs Act. Si appropria del lavorismo e, con la sua personale interpretazione del populismo, lo mescola con l’assistenzialismo statale agli imprenditori in chiave di capitalismo compassionevole. Un patchwork conservatore e liberista, di destra e di sinistra, in chiave anti-Movimento Cinque Stelle.
 
Renzi è impegnato in una battaglia ideologica lavorista contro la proposta workferista del Movimento Cinque Stelle su un presunto (e infondato) reddito di cittadinanza (si tratta di un reddito minimo, come si dimostra qui e qui). Ha trovato nel sintagma “lavoro di cittadinanza” la parola ideale per confondere ancora di più le acque della propaganda da una parte e dall’altra. La mossa è studiata: visto che la micro-scissione dal Pd (e da Sinistra Italiana) della “ditta” Bersani-D’Alema (e Speranza, Scotto, Smeriglio ecc) si chiamerà “Articolo 1 – Movimento dei democratici e dei progressisti), Renzi ha pensato di impadronirsi dell’ingombrante portato giuridico dell’articolo della Costituzione per rubare la scena ai suoi attuali avversari “di sinistra” e scaricarlo contro i Cinque Stelle accusati, a torto, di essere meno lavoristi del Pd.
 
Renzi sostiene queste posizioni da almeno quattro anni. Impadronendosi oggi della parola d’ordine  del “lavoro di cittadinanza”, l’ex premier otterrà l’effetto di neutralizzare la principale – e modesta – proposta di “sinistra” per affrontare, si fa per dire, il problema epocale della precarietà, del lavoro povero, della totale mancanza di tutele universalistiche per la persona e infine dell’automazione che-distrugge-i-posti-di-lavoro. La sinistra non lavorista rischia di restare, come sempre, senza voce. A meno che non rilanci – contro la proposta dei Cinque Stelle e contro il lavorismo di Renzi e della sua “sinistra” – la prospettiva del reddito di base universale. Destinato anche ai residenti stranieri, non solo ai “cittadini”.
 
Impresa difficile perché il lavorismo ha una presa ideologica anche nei quadri dirigenti sindacali, Cgil compresa. Qualche cambiamento c’è stato negli ultimi sei o sette anni nella Fiom e nella Flc, ma il reddito non è mai diventato un argomento di discussione dirimente nel sindacato, a cominciare dalla “Carta dei diritti del lavoro” che la Cgil sostiene con i referendum contro i voucher e sugli appalti. Senza contare che la confederazione sindacale sostiene una proposta di “reddito di inclusione sociale” (Reis), una misura parziale e non universalistica contro la povertà, e non un reddito di base a sostegno della persona vulnerabile nel mercato del lavoro nella società finalizzata al libero e autonomo sviluppo della sua dignità sociale, umana e professionale.
In questa confusione politica e ideologica la battaglia è feroce. A sinistra, tra i Cinque stelle e Renzi non si faranno prigionieri. Chi sta perdendo sono milioni di persone la cui vita migliorerebbe con una riforma universalistica del Welfare familistico, lavorista, burocratico e anacronistico come quello italiano. Gli unici, ad oggi, che sostengono una prospettiva di “reddito minimo garantito” sono in parte in Sinistra Italiana, Possibile di Civati o parte di Rifondazione Comunista, le reti dei movimenti e dei centri sociali, la rete dei Numeri Pari (composta da Libera, Cnca, Rete della Conoscenza, Roma Social Pride), il Basic Income Network-Italia. Molto interesse desta la proposta di “reddito di autodeterminazione” avanzata dal movimento Non una di meno. La novità più interessante nella politica degli ultimi tempi porterò questa rivendicazione in piazza nello sciopero delle donne del prossimo 8 marzo. Queste posizioni che potrebbero evolvere verso un vero reddito di base universale. Una parte ancora poco visibile politicamente, a cui bisognerebbe chiedere più coraggio e azione politica per sfuggire alla tenaglia ideologica del pauperismo, del miserabilismo e di un’equivoca, nostalgica e acritica idea “socialdemocratica” dello stato che oggi unisce lavoristi di destra e di sinistra.
Una precedente campagna sul reddito di dignità, sostenuta da Libera e da centinaia di associazioni e movimenti, è stata cannibalizzata dagli opportunismi dei lavoristi. Il governatore della Puglia Michele Emiliano ha stravolto quella proposta spuria (una forma di reddito minimo garantito) in un sussidio di ultima istanza per i poverissimi con famiglie numerose, sottoponendoli alle condizioni di un workfare ispettivo che prevede penalizzazioni per chi non accetta una manciata di euro in cambio di lavori socialmente utili. Emiliano ha chiamato questa proposta “reddito di dignità”. Uno scippo che ha mostrato la debolezza politica delle istanze che chiedono in Italia una forma di dignità e giustizia sociale. Il consenso per una misura come il reddito resta tuttavia, potenzialmente, molto ampio nel paese. Per questo non dovrebbe restare confinato nei limiti di uno spazio politico ultra-identitario e altrettanto incerto, e infinitamente condizionabile da una duplice dialettica: quella distruttiva pd-centrica oppure quella neutralizzante dei Cinque Stelle.
 
In questa prospettiva bisogna liberare il campo da un equivoco. Il discorso sul reddito di base non è una prerogativa della Silicon Valley, né tanto meno dei liberisti alla Milton Friedman. Di sganciamento del reddito dal lavoro, e di riforma del Welfare, si parla perlomeno dagli anni Settanta in Italia, in Germania e nella sinistra europea più avanzata. Senza contare che un reddito di base non esclude il lavoro, ma libera il soggetto dal suo ricatto, per un libero sviluppo della sua personalità. Un’antica aspirazione del Marx teorico della “forza lavoro” e non del “lavoro”, come ritengono i lavoristi che hanno del marxismo un’immagine umanistica, smithian-ricardiana e certamente non comunista. Da un altro punto di vista, altrettanto radicale, di recente Stefano Rodotà ha proposto la formulazione di un diritto fondamentale al reddito che ha chiamato diritto universale di esistenza. Un diritto che oggi può strutturare ogni proposta alternativa di tipo politico, economico, sociale ed esistenziale al di là della fascinazione acritica per gli automatismi della Silicon Valley in cui è caduta la sinistra non lavorista.
 
Sostenere che il reddito di base è una proposta neoliberista è dunque un falso storico usato dai lavoristi che parlano di “piena occupazione”. Dire che Milton Friedman propone forme di distribuzione estranee al rapporto di lavoro, è altrettanto insignificante quanto sottolineare l’affezione dei fascismi per la piena occupazione. Quella dei neoliberisti è solo una delle possibili varianti del reddito di base. Non certo l’unica.
 
Una volta messo in ordine il quadro teorico e storico, è giunto il momento di un’iniziativa politica autonoma sul reddito. Non è mai troppo tardi.
 
***qui e qui le differenze tra reddito minimo garantito, reddito di inclusione sociale, reddito di povertà e reddito di base universale
Quinto Stato
Roberto Ciccarelli 27.02.2017
 

Notizie dal Centro Italia

terremoto-6mesi004-1000x600si lo stato c’è, per raccattare soldi da devolvere alle casette delle coop del Pd. Intanto, che crepino di freddo, inclusi gli animali. Se vi fossero stati dei morti come purtroppo in questo caso, a causa della neve che ha bloccato le persone in casa, senza elettricità, sotto l’era psiconano-bertolaso sarebbero stati impiccati in piazza. Le vittime del terremoto di Amatrice e successivi avvenuti nel centro italia non hanno guardacaso dei comitati che vanno in giro per l’italia a raccontare la loro tragedia. C’è il moralmente superiore politically correct, anti corruzione, anti evasione Errani quindi tutto a posto, tutto Ok. A 6 mesi dal terremoto ci sono ancora macerie da rimuovere in centro paese.

(Piccole storie di ordinario liberismo. Ormai qualsiasi evento naturale, non poi così strano (neve in gennaio…), rischia di far affondare un pezzo del paese. Inutile ripetere cose già dette. Possiamo solo raccogliere l’invito che chiude questo intervento di Paolo Di Remigio, che pubblichiamo volentieri. Davvero, sganciarsi da questa organizzazione sociale folle e decadente sta diventando questione di sopravvivenza. M.B.)
Nella provincia di Teramo inondata dalla neve e martoriata dal terremoto, manca la corrente elettrica ancora a migliaia di abitazioni, perché, si dice, carichi di neve, gli alberi cresciuti vicino ai cavi elettrici sono caduti e li hanno spezzati. Pare che non si conosca neanche dove siano interrotte le linee.
Di fronte a tanto disagio, i responsabili scaricano la responsabilità su altri responsabili: il presidente della regione Abruzzo, in un’intervista televisiva, chiede come mai la rete elettrica abruzzese sia così inefficiente nonostante l’ENEL, divenuta azienda di Stato nel 1962 ma privatizzata nel 1992, abbia dichiarato di aver investito 50 milioni per il suo ammodernamento; durante la stessa intervista un giornalista lancia contro il governatore accuse roventi per il ritardo con cui egli avrebbe lanciato l’allarme. Ma non sono queste le accuse rilevanti. Ogni società, dice Aristotele, sorge perché l’individuo è incapace di soddisfare da solo i propri bisogni. Tra i compiti dello Stato c’è dunque, innanzitutto, quello di provvedere ai bisogni che per definizione l’individuo non può fronteggiare, alle situazioni di emergenza, quelle umane, come le guerre, e quelle naturali, come le grandi forze elementari. Se di fronte a situazioni emergenziali, ma certo non catastrofiche (è così straordinario che a gennaio nevichi? Sono così straordinarie scosse sismiche dopo la prima?), manca una risposta che non sia l’eroismo dei singoli, questo significa che in trent’anni si è infine realizzato un preciso progetto, portato avanti con tenacia e intelligenza dagli interessati, benedetto dagli esperti, inculcato dai comunicatori: il progetto liberale dello Stato minimo, dello Stato senza mezzi.
E la colpa degli amministratori è la stessa degli esperti ed è la stessa dei comunicatori: il loro tradimento, che fa impallidire ogni ulteriore responsabilità individuale, è di aver collaborato alla distruzione dello Stato su mandato del cosiddetto mercato. Di fronte a questa colpa, quella di non aver spedito la turbina agli ospiti terrorizzati dell’albergo di Rigopiano, per quanto grave possa essere, è una conseguenza forse inevitabile: solo se ci fossero state a disposizione 10, 50 turbine, anziché 1, dico una, turbina, non averla spedita sarebbe stata una decisione arbitraria e dunque criminale.
Dopo il terremoto del 18 gennaio, la Commissione Grandi Rischi ha dichiarato che potrebbero esserci scosse del VI-VII grado Richter e che le dighe del lago di Campotosto potrebbero cedere con effetto Vajont. Le capacità previsionali della sismologia sono molto modeste, e in un territorio in cui ci sono stati sismi del VI-VII grado Richter sono in generale possibili scosse della stessa magnitudo in qualunque momento. Si vorrebbe credere che, nell’emettere una dichiarazione così allarmante, la Commissione Grandi Rischi non si sia riferita a questa generica possibilità, ma abbia avuto a disposizione elementi per quantificare la probabilità di forti scosse e abbia calcolato i rischi della popolazione secondo la sua distanza dai probabili epicentri, in modo che le altre autorità competenti mettessero in atto piani rapidi di verifica della sicurezza abitativa e di evacuazione delle comunità a rischio. Nulla di tutto questo. Già a fine ottobre su un autorevole giornale tedesco si poteva infatti leggere che tra Amatrice e L’Aquila c’è una faglia (quella di Campotosto) caricata di energia dalle precedenti scosse, che avrebbe sicuramente prodotto importanti fenomeni tellurici.
Si sapeva con sicurezza da mesi il dove, solo sul quando c’era probabilità. La gente, nonostante la reticenza degli esperti, mormorava che a Campotosto ci sarebbe stato un nuovo episodio del terremoto iniziato nel 2009; ma le autorità, tutte, fingevano di ignorarlo per timore di dover fare ciò che non potevano fare. Se fosse esistito lo Stato anziché lo Stato minimo, non ci sarebbe stata nessuna esitazione a mettere in sicurezza già dall’inizio di novembre i paesini intorno alla faglia di Campotosto, dichiarando inagibile tutto ciò che non potrebbe resistere al VI-VII grado Richter e iniziando a costruire in modo sicuro secondo le diverse priorità dei diversi abitanti di restare nella loro terra. Invece gli abitanti di Campotosto, di Capitignano, di Montereale sono stati lasciati soli con il loro rischio e hanno subito le quattro scosse del 18 gennaio intrappolati nelle loro case intrappolate nella neve.
Che solo dopo il terremoto del 18 la Commissione Grandi Rischi annunci che sono possibili grandi rischi, addirittura la rottura delle dighe del lago di Campotosto e il catastrofico versamento delle acque lungo la vallata del fiume Vomano – il ritardo di un allarme tanto grave si può spiegare solo con la vicenda del processo che la Commissione ha subito per il terremoto dell’Aquila del 2009: poiché l’aver tranquillizzato la popolazione le è costata l’accusa di essere responsabile delle circa 300 vittime, essa, benché assolta per i fatti di allora, in questa occasione ha capovolto la linea di comportamento così da tutelarsi in eventuali futuri processi: non più tranquillizzare, ma allarmare e scaricare ogni eventuale responsabilità sulle altre autorità qualora non reagiscano all’allarme. E in effetti la regione non è in grado neanche di ripristinare la corrente elettrica e di raggiungere le località isolate, figuriamoci il resto! Così l’unica reazione di cui le autorità dello Stato minimo liberale dispongono per fronteggiare i problemi è esasperare la paura della popolazione.
Quando ero piccolo nel mio paese di 5000 anime c’era lo spazzaneve, una pala montata su un autocarro militare americano dell’ultima guerra, che percorreva continuamente le strade a partire dall’ispessirsi dei primi centimetri e garantiva la viabilità. Oggi ai comuni manca tutto: Teramo non ha la possibilità di tenere sgombre le strade e, travolta dagli eventi, non ha la possibilità neanche di organizzare i cittadini che volessero mettersi a disposizione per i lavori di comune utilità.
Gli Italiani non si illudano: non è questa decisione di questo amministratore di sospetta corruzione la radice delle sciagure, è il neoliberalismo che ha inibito lo sviluppo delle forze produttive e ha ridotto il potere pubblico all’impotenza primitiva. Sganciarsene inizia a diventare una questione di sopravvivenza.
di Pietro Di Remigio – 27/01/2017
Fonte: il main stream