Questione taxi: ecco perché Uber non conviene a nessuno

taxi ToLa recenti proteste, con codazzo di polemiche annesso sulla libera concorrenza, la ‘lobby’ dei taxi e le magnifiche sorti e progressive del mercato hanno riacceso i fari su Uber, la multinazionale americana nata dall’omonima app che promette, almeno nelle intenzioni, di liberare la popolazione dal gioco delle vecchie e stantie corporazioni, tassisti in prima fila, che tengono i cittadini al guinzaglio. E’ realmente così? A bocce ferme, con la trattativa taxi-governo rinviata a data da destinarsi e a sciopero scongiurato, cerchiamo di fare una seria analisi costi-benefici che, a meno di non voler adottare posizione ideologiche, dovrebbe sempre essere condotta prima di prendere una decisione.
Uber, com’è noto, è un servizio in pieno stile sharing economy: sono automunito? Divento automaticamente candidabile come autista. I livelli offerti sono diversi e differenziati fra loro, qui prendiamo a riferimento quelli al di sotto di Uber Black, dato che oltre subentrano barriere all’ingresso (il possesso di auto di lusso, auto oltre i 6 posti o Suv) tali da configurare un oligopolio più che un sistema veramente concorrenziale. Prima del blocco dell’app, arrivato nel 2015, alcune inchieste avevano fatto luce sul funzionamento di UberPop, la versione allora più diffusa. Dal lato di chi usufruisce del servizio la convenienza era palese: le tariffe sono sensibilmente inferiori – anche oltre la metà – rispetto a quelle, stabilite dai Comuni, per i Taxi. Se c’è chi usufruisce del servizio, c’è però anche chi lo offre. Per questi ultimi i numeri non sembravano malaccio: in 8 ore di lavoro per 5/6 giorni a settimana si riuscivano a raggranellare in media qualcosa come 1000 e dispari euro netti ogni mese, con differenze che dipendono ovviamente dal numero di chiamate, dai km percorsi, dai consumi della propria auto.
UberPop come Re Mida, allora? Non proprio, perché innanzitutto in quei proventi non erano considerati i costi della manutenzione, che dipendono dai km percorsi e – chi possiede un’automobile ne è al corrente – non sono mai indifferenti: con un chilometraggio ‘standard’ si parla, per rimanere solo nell’ambito della manutenzione ordinaria, di almeno due tagliandi e due treni di pneumatici ogni anno. In secondo luogo, i ricavi non rientravano in dichiarazione dei redditi (come molte app, anch’essa si colloca in una zona molto grigia di rapporti col fisco) per cui, a differenza dei tassisti con licenza, l’autista UberPop gode(va) di una esenzione implicita e non irrilevante. Questa però si chiama concorrenza sleale. Come risolverla? La strada della regolarizzazione è sicuramente la più breve e intuitiva, ma porta con sé anche una serie di problemi. Facciamo dunque pagare Irpef e contributi Inps, ma allora quei 1000 euro – o 2000, ad essere generosi – cominciano a scendere. Includiamo poi le manutenzioni all’automezzo, assicurazioni e altro: sono ulteriori costi da togliere ogni mese e, pure nell’ipotesi generosissima in cui lavorando tutti i giorni si riesca ad essere nella parte alta della forchetta, dimezzare il ricavo è un attimo.
 
Si potrà dire che qualche centinaia di euro al mese sono comunque una somma più che discreta visti i chiari di luna, indubbiamente preferibili ad uno stato di disoccupazione. Ma davvero vogliamo, solo per inseguire l’idea di un mercato libero e autentico – che per inciso esiste solo sui manuali accademici – creare una classe di sottoproletari automuniti? Anche qui, la soluzione sembrerebbe a portata di mano: alziamo le tariffe. Le soluzioni più semplici sono però anche le più indesiderabili perché nel nostro caso di fatto si tratterebbe di un aumento, per garantire a chi sceglie questa strada come lavoro di avere uno stipendio quanto meno dignitoso, che dovrebbe oscillare fra il raddoppio e il triplicamento. E allora la convenienza anche per l’utente dove va a finire?
Filippo Burla