Trattati di Roma, la nuova offensiva del capitale finanziario (60 anni dopo)

fa così strano sentire un pensiero definito comunista in linea con la difesa delle masse e non a lanciare anatemi contro i “populismi”…


bandiera ue

 
 
Sono trascorsi sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma, visti come l’atto fondatore del processo di integrazione capitalista europeo. La data di turno si presta, a ben vedere, all’ondata di celebrazioni che le si abbinano. Ma le dosi massicce di propaganda con cui la CEE/UE è stata venduta ai popoli d’Europa nel corso di decenni, servite ora in dose rafforzata, non riescono a salvarla dal discredito in cui è precipitata e dalla profonda e persistente crisi in cui si trova.
L’anniversario è il pretesto per contrabbandare le più diverse tesi. Il grande capitale e i suoi rappresentanti politici non sono disposti a rinunciare a questo loro strumento.
Questo il punto di partenza per le tesi di salvezza/riforma/rifondazione dell’UE.
Il Parlamento Europeo è di solito molto attivo su questo fronte. Recentemente, ancora una volta ha assunto l’iniziativa. La discussione sul “futuro dell’Europa” ha giustificato l’approvazione di tre relazioni in cui si è delineato il copione previsto per la riforma dell’UE. La destra e la socialdemocrazia le hanno sottoscritte congiuntamente. Non è una novità.
Definire un nemico o una minaccia – “le forze politiche euroscettiche e apertamente anti-europee”, Putin, Trump, il terrorismo – aiuta a giustificare gli obiettivi fissati. Si tratta, in fin dei conti, di scongiurare la minaccia esterna.
Il copione difende “l’aumento delle competenze attribuite al livello europeo”, il che “implica un accordo sulla diminuzione della sovranità nazionale degli stati-membri”. Dimenticano, dunque, le vergognose minacce, i ricatti, le sanzioni, come quelle che sono state indirizzate contro il Portogallo, sotto la copertura dell’attuale legislazione dell’UE. Ma non è abbastanza. Ci vuole di più. Questo perché “la procedura relativa agli squilibri macroeconomici non è attualmente utilizzata in modo sufficiente” e “l’UE necessita di nuove disposizioni legali in materia di politica economica e riforme strutturali fondamentali”.
Le poche decisioni che ancora richiedono l’unanimità tra gli stati-membri – ossia, in pratica, le uniche che ancora li collocano formalmente su un piano di parità – devono essere accantonate e la  regola della votazione per maggioranza qualificata deve prevalere in qualsiasi circostanza (anche se in contrasto con gli attuali trattati).
Va sottolineato che nell’attuale definizione delle “maggioranze” nel Consiglio, in accordo con il Trattato di Lisbona, la Germania ha un peso sette volte maggiore dei voti del Portogallo. Questo per capire chi trae vantaggio dalla fine dell’unanimità…
 
Sempre in linea con la maggiore concentrazione del potere, si propone la creazione di un ministro delle Finanze dell’UE, “a cui dovrebbero essere concessi tutti i mezzi e le capacità necessarie per applicare e far attuare l’attuale quadro di governance economica”. Si, come i prelievi e le sanzioni.
Il bilancio dell’UE deve essere “riorientato”, specialmente per quanto riguarda i fondi strutturali, allo scopo di privilegiare strumenti come i partenariati Pubblico-Privato. Vale a dire: finanziamento pubblico diretto dei monopoli transnazionali, come attualmente già succede con il Piano Juncker.
 
Niente di meno che la demolizione di qualsiasi obiettivo detto di coesione che possa ancora esistere.
Poiché la scalata antisociale non avanza senza il corrispondente attacco alla democrazia e neppure senza un rafforzamento dell’aggressività del sistema, il copione scritto per il futuro dell’UE ha previsto, a grandi lettere, un’inquietante deriva securitaria e militarista. Da un lato, sono resi possibili nuovi attacchi a diritti, libertà e garanzie, in nome della “lotta al terrorismo”, aprendo la porta alla creazione di un sistema di informazioni a livello dell’UE, in collaborazione con strutture di polizia e giudiziarie sovranazionali. Dall’altro lato, è potenziata al massimo la militarizzazione dell’UE nel contesto del rafforzamento della collaborazione con la NATO e anche oltre, con la proposta della creazione di un esercito europeo e il sostegno all’industria europea degli armamenti, puntando all’incremento dell’arsenale militare, messi entrambi al servizio “degli interessi strategici dell’UE”.
 
In modo sintomatico, il copione prevede che “gli stati-membri hanno il dovere di cooperare in modo leale con l’Unione e di astenersi dal prendere qualsiasi misura suscettibile di mettere in discussione l’interesse dell’Unione”.
Resta da dire che tale copione è stato votato favorevolmente dal Partito Socialista, da PSD e CDS e che ha avuto, ha e avrà l’opposizione del Partito Comunista Portoghese e di tutti coloro che non si rassegnano a questo “futuro”che, anche se chi lo annuncia forse ancora non lo sa, in fondo, è già passato…
 
di João Ferreira, parlamentare europeo del Partito Comunista Portoghese da avante.pt  Traduzione di Marx21.it
Notizia del: 24/03/2017

La scissione dell’atomo. Riflessioni sulla sinistra più a destra del mondo

Un piccolo esempio dalle parole di un amico su FB:

E quindi,per arginare i “populismi” in Europa avete prima tifato prima un olandese che redarguiva il governo Monti perché ha creato pochi esodati, ne voleva qualche altro milioncino…

E oggi in Francia Macron ,iper eurocrate, che “consigliava ” all’Italia per contenere il debito un forte taglio alle pensioni e il prolungamento dell’età pensionabile (2012 ) Ma che belle persone..
Auguroni!


 
sotto segue art: Globalisti, sovranisti, nazionalistipopolo-sovrano
La scissione dell’atomo. Riflessioni sulla sinistra più a destra del mondo
 
Potrebbe sembrare un titolo provocatorio. Soprattutto considerata la matrice destrorsa di chi scrive. Ma così non è, dal momento che il sottoscritto si considera seguace della destra più a sinistra del mondo. Ricordo una frase di Almirante: «Se parliamo di Dio, Patria e Famiglia, non c’è nessuno più a destra di noi. Se parliamo di Stato Sociale, non c’è nessuno più a sinistra di noi.»
 
Ma lasciamo stare “quella” destra, e torniamo a “questa” sinistra, di cui oggi (scrivo queste note domenica mattina) si deciderà il destino. E – sia detto per inciso – insieme al destino del PD si deciderà il destino del sistema elettorale italiano: se si dovrà rimanere ancorati al sistema anglosassone dei grandi contenitori fungibili (centro-destra e centro-sinistra, repubblicani e democratici, conservatori e laburisti, eccetera); o se, invece, si dovrà prendere atto dell’anima pluralista (e proporzionalista) della democrazia italiana, muovendosi in direzione di aggregazioni omogenee e non di insalate miste, a sinistra come a destra.
Succeda quel che succeda, comunque, una cosa è certa: in quello che è il contenitore della pseudo-sinistra ufficiale, si è ormai raggiunto il limite massimo di sopportazione verso le politiche di estrema destra economica che hanno raggiunto l’acme con il Vispo Tereso: dall’abolizione dell’articolo 18 alle “tutele crescenti” del Jobs Act, dalla “buona scuola” alla gestione familistica delle crisi bancarie, dalla prosecuzione della funesta pratica delle privatizzazioni alle leggi elettorali liberticide, fino a quella assurda riforma costituzionale (strabocciata dagli elettori) che recepiva i “consigli” della J.P.Morgan e delle banche d’affari americane.
Certo, una parte non secondaria nell’esasperare la situazione l’ha anche avuta la presunzione, la prepotenza, la supponenza, l’arroganza, il padreternismo del ragazzo. È chiaro ed evidente che il Renzi ha gestito tutta la vicenda all’insegna del suo “Io” smisurato, da “Enrico stai sereno” in poi: le riforme scritte nel presupposto di essere sempre lui a vincere le elezioni, la promessa di lasciare tutto se fosse stato sconfitto al referendum, l’incredibile “abbiamo scherzato”, ed infine la pretesa di imporre la sua leadership al PD attraverso un congresso-lampo “cotto e mangiato”, anche a rischio di portare quel partito al tracollo elettorale.
 
Tutto questo ha di sicuro inciso sul redde rationem in atto. Ma – mi ripeto – a determinare la svolta drammatica di questi giorni è stato un altro fattore: la presa di coscienza che il partito erede del PCI persegue oggi una linea politico-economica che è oggettivamente di destra, di estrema destra. E non mi riferisco certo alla destra politica, quella che Almirante esaltava nella tutela dello Stato Sociale. Mi riferisco all’altra destra, alla destra economica, quella dei Rotschild e di Wall Street, quella della BCE e del Fondo Monetario Internazionale, quella del debito pubblico e della speculazione finanziaria, quella della globalizzazione e delle privatizzazioni, quella delle pensioni “contributive” e dell’addio al posto fisso, quella della riduzione della spesa pubblica e del massacro sociale.
Orbene, è a questa destra bieca, retrograda, antipopolare che la sinistra italiana si è sottomessa e allineata. Ma – a
ttenzione – questo è un processo che è iniziato ben prima di Matteo Renzi. Il ragazzotto toscano è soltanto il tragico punto d’arrivo di una abiura che viene da lontano: almeno dagli anni ’70, quando i “miglioristi” di Giorgio Napolitano teorizzavano la “moderazione salariale” in funzione anti-inflattiva, quando si buttavano al macero decenni di cultura gramsciana e li si sostituiva con l’intellettualismo radical-chic di “Repubblica” e della spocchia scalfariana.
Andazzo che aveva una brusca impennata con la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, quando la classe dirigente del PCI si convinceva dell’ineluttabile trionfo del capitalismo anglosassone e si apprestava a montare sul carro del vincitore. Nel 1991 Achille Occhetto gestiva il congresso che segnava lo scioglimento del PCI e la nascita di un Partito Democratico della Sinistra che avrebbe dovuto «unificare le forze di progresso».
 
Ed eccole le forze di progresso, prodighe di smorfiette e pacche sulle spalle per quella “grande forza democratica” che si apriva alla modernità, alla moderazione e, in una parola, al mercato. I “progressisti” che facevano gli occhi dolci ai comunisti pentiti erano quelli delle ali sinistre di DC e PSI, quelli che, dopo aver tenuto a battesimo la privatizzazione del sistema bancario italiano (con Andreatta nel 1981 e con Amato nel 1990), volevano sbolognarsi adesso anche la grande, preziosa industria pubblica del nostro Paese. Il guru della alienazione dei beni pubblici era un giovane virgulto della loro serre: Romano Prodi, allievo prediletto di Beniamino Andreatta, che sarà il dominus incontrastato delle privatizzazioni nella sua qualità di Presidente dell’IRI (1982-89, poi 1993-94). Prodi aveva tutte le carte in regola per fare carriera in uno schieramento della più ortodossa destra economica: a parte i numerosi incarichi ministeriali, sarà consulente della Goldman Sachs (1990-93 e poi dopo il 1997), e financo amico di quello stramiliardario Georges Soros che, con un attacco speculativo mirato, aveva messo in ginocchio la lira italiana nel 1992. Quello stesso Soros – sia detto tra parentesi – a cui il prof. Prodi propizierà poi una laurea honoris causa dall’università di Bologna (1995).
 
Ebbene, era proprio a Romano Prodi che il PDS (di cui era frattanto divenuto segretario Massimo D’Alema) si rivolgeva nel 1995 per chiedergli di capitanare l’alleanza di tutte le sinistre contro l’odiato Berlusconi. Nasceva così l’Ulivo (PDS + Margherita democristiana) che andava a vincere le elezioni del 1996. Prodi diventava Presidente del Consiglio, con i brillanti risultati che si ricordano.
 
Ammaliato dalla travolgente esperienza politica dell’Ulivo, il PDS faceva un altro passo verso la socialdemocratizzazione: cambiava ancora nome, si trasformava in DS, Democratici di Sinistra, e si affidava alla guida illuminata di Walter Veltroni, il più “amerikano” dei compagni, quello del ”Yes we can” (1998).
 
Poi – tutti insieme appassionatamente – DS, Margherita e Ulivo si scioglievano e confluivano nell’ultima creatura: il PD, Partito Democratico, stesso nome del fratello maggiore americano (2007).
Il resto è storia recente, fino all’arrivo del Vispo Tereso (dicembre 2013) ed ai suoi trionfi. La Sinistra, intanto, è andata dispersa. Prossimamente – forse – se ne occuperà “Chi l’ha visto?”.
 
P.S. Per una singolare coincidenza, mentre il PD marcia – forse – verso la scissione, alla sua sinistra nasce un’altra formazione politica, Sinistra Italiana. Si tratta di una iniziativa “di nicchia”, ma certamente di una iniziativa seria. Non credo, invece, che altre proposte – come quella di Pisapia – abbiano molto da dire al “popolo della sinistra”.
 
 
di Michele Rallo – 26/02/2017
Fonte: Michele Rallo
Globalisti, sovranisti, nazionalisti
In realtà le cose per me sono piuttosto semplici, e passano per l’idea di uno Stato che intervenga nei processi economici a fini di giustizia sociale. Da una parte ci sono i globalisti, dall’ altra i sovranisti. Tra i globalisti possono annidarsi perfino dei nazionalisti, i quali possono sì cavalcare il tema del ritorno ad una maggiore sovranità nazionale degli stati con più o meno forza e declinare quello del protezionismo con diverse sfumature, ma fondamentalmente non sono contro l’ idea che il capitale possa (anzi, in qualche caso: debba, perfino) circolare liberamente (cosa che alla fine limita moltissimo la sovranità nazionale; basti pensare, solo per fare un esempio, al tema delle politiche fiscali) e, insomma: a loro della sovranità popolare e soprattutto della giustizia sociale non importa proprio un fico secco, perché il più delle volte si tratta solo di liberisti appena un po’ più moderati di quegli altri. Guai però a dire che lo Stato debba tornare a dirigere i processi economici (come nei Trenta gloriosi), per carità, vade retro! Per loro, lo Stato è sempre la Bestia da affamare, e il suo ruolo in economia è molto limitato: al massimo, potrà intervenire per «correggere le “disfunzionalità” dei mercati e la rigidità di strutture di prezzo troppo complicate che bloccherebbero la scelta del consumatore» (testuale da un discorso del primo ministro inglese May, che in un’altra occasione ha auspicato che dopo la Brexit il proprio paese diventi ancora più “globale”). Ordo-liberismo puro, o quasi (l’ideologia dell’UE senza l’UE).
I sovranisti, invece, sono contro la globalizzazione liberista “senza se e senza ma”; sono per limitare fortemente la libera circolazione di capitali, merci, servizi e forza lavoro, perché hanno a cuore la giustizia sociale. Sono autenticamente democratici, perché sanno molto bene che l’unico modo per legittimare il potere è quello di fare in modo che coincida con la sovranità popolare, e al tempo stesso hanno capito molto bene che la sovranità popolare non è possibile senza la sovranità nazionale; quindi, non sono nazionalisti ma patrioti.
di Luca Russi – 26/02/2017 Fonte: Appelloalpopolo