Si parla ormai correntemente di deglobalizzazione. Bene!

La sinistra italiana è una solache “le sinistre” non menzionino il concetto di stato e nazioni (una volta invece ne proteggevano il ruolo fondamentale come regolatore dell’economia in funzione sociale, da decadi è una bestemmia pronunciare la parola nazione, infatti proprio le sinistre hanno abiurato e tradito questa politica economica) è meglio. Non sarebbero manco credibili se non per strumentalizzare e tentare di recuperare “punti”.
 

Molti di noi, mediamente, vivono immersi in un mondo di inconsapevolezze arredato per metà con la caverna di Platone e per l’altra dal migliore dei mondi possibili di Leibniz-Candide. Veniamo tenuti apposta in questo mondo estetico ed etico mentre le nostre élite operano costantemente nelle segrete, dove torturano la realtà coi più affilati strumenti e le tecniche più sofisticate. Sia torturare la realtà, sia tenercelo nascosto, viene fatto per il “nostro bene”, non reggeremmo allo shock e tutte le nostre sicurezze ne risentirebbero.

         (Pierluigi Fagan)
 
 
1. Il libro di Pierluigi Fagan Verso un mondo multipolare. Il gioco di tutti i giochi nell’era Trump (Fazi, 2017) parla di Stati e di nazioni. Concetti tabù per la sinistra radicale, da non menzionare nemmeno. Dal canto loro, i cultori di destra del Blut und Boden invano vi cercheranno un’esaltazione della Patria e del Re e i seguaci dell’establishment culturale di sinistra avranno il dispiacere di veder messi a nudo il cosmopolitismo progressista e la narrazione della “fine degli stati-nazione”, che verranno chiamati col loro nome proprio: imperialismo.
Sono secoli che la sinistra (tutta, in vari gradi e sfumature) ci ricasca – o ci ritenta. E viene sbugiardata.
Ai suoi tempi Marx criticò l’internazionalismo dei proudhoniani francesi ritenendolo un sostegno allo sciovinismo francese: «Lafargue, senza neppur rendersene conto, per negazione delle nazionalità intende, sembra, il loro assorbimento da parte della nazione francese modello».
 
Mettete “Stati Uniti” al posto di “Francia” e vedrete quante cose quadrano.
Ci volle il realismo di Lenin per criticare l’ostilità di due grandi rivoluzionari come Rosa Luxemburg e Karl Radek all’idea di “autodeterminazione delle nazioni”.
Infine, con l’approfondirsi della crisi sistemica, la sinistra politica e intellettuale – con pochissime eccezioni, che pur esistono grazie al cielo – si è nuovamente comportata come l’inesperto di navigazione che essendo scoppiata la tempesta ha cercato di rimanere vicino alla costa conosciuta andando così a sbattere contro gli scogli, invece di prendere il mare aperto anche senza una meta chiarissima.
Si percepisce dietro a queste difficoltà un errore d’approccio che nasconde varie cose, a volte correlate tra loro a volte no, che vanno dall’opportunismo al dogmatismo, passando attraverso un pregiudizio (ma a volte un paravento) metodologico trasversale che chiamerò “concettualismo accademico”.
 
Cercherò allora di mettere in evidenza il metodo usato da Pierluigi Fagan e il suo vantaggio rispetto al concettualismo accademico, specialmente di stampo marxista.
2. Si parla ormai correntemente di deglobalizzazione. Bene! Finalmente ci siete arrivati! mi verrebbe da dire[1]. Se prima non ci si credeva, grazie ai postumi dell’ubriacatura globalizzatrice, oggi la presidenza Trump ha dato la sveglia. Un caffè nero che provoca conati di vomito e feroci mal di testa. Sempre così dopo una brutta sbornia.
E quindi occorre rifare i conti coi concetti di “Stato” e di “nazione”. O, alternativamente, continuare a vivere nel mondo di Papalla.
Giovanni Arrighi nel suo capolavoro “Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo” (Il Saggiatore, 1996) asseriva che occorre «dipanare il nodo del rapporto fra lo sviluppo dell’Europa, centrato sul commercio estero, e quella superiorità militare che ha consentito per almeno tre secoli agli europei di appropriarsi dei crescenti benefici dell’integrazione dell’economia su scala mondiale».
Il punto sta proprio qui. Lo sviluppo capitalistico occidentale nasce imperialista. Si è svolto cioè attraverso un processo invertito che non è partito dallo sviluppo interno per poi espandersi all’esterno con l’occupazione di spazi, ma è andato nella direzione inversa. La sua storia è quindi una storia imperiale ab origine e, come ha osservato Samir Amin, «non esiste nessuna teoria del capitalismo distinta dalla sua storia»
Invece i marxisti moderni si baloccano molto coi concetti astratti. I loro libri e le loro conferenze sono sostanzialmente luoghi e occasioni di divertimento. Poco male, se poi non si guardasse con sufficienza e sospetto chi cerca di capire nella realtà dove va il mondo e che cosa possiamo fare.
E invece da sempre chi non la pensa in modo conformista o ortodosso è oggetto di accuse gravi. Lo sapeva benissimo Gramsci, si magna licet, che canzonava chi lo accusava di spiritualismo, bergsonismo e persino di “futurismo marinettiano”. Ancora oggi, ci sono sconsiderati che pensano che Lenin fosse un agente dell’imperialismo prussiano e persino che Marx fosse un agente del capitale finanziario newyorkese[2]. Per quanto riguarda invece gli affari correnti, fanno insistente capolino accuse di “filo-putinismo” o “filo-trumpismo”. Basta non essere clintoniani e clintonoidi, basta chiedersi “Cosa sta succedendo? Perché sta succedendo?”, senza accontentarsi delle spiegazioni mainstream, ed è tutto un filare pro questo o pro quello. Al cittadino moderno vengono richiesti sudditanza e continui atti di fede. Dubbi mai. Se recalcitrante, vengono prospettati Ministeri della Verità e si incomincia a mettere in serio dubbio che sulle cose “importanti” sia il caso di far votare il “popolo sovrano”. Un neo servaggio. Propugnato dalla destra? No dalla sinistra. Quella sinistra che poi sbraita contro il populismo.
Questo stato di cose rende sempre più evidente che se un intellettuale non è “organico” nel senso di Gramsci, ovvero disciplinato da un progetto politico che intende – come si dice – “superare lo stato presente delle cose”, esso viene quasi inevitabilmente catturato dal senso comune dell’avversario, da chi lo stato presente delle cose se lo vuol cambiare lo vuole fare alla Gattopardo o alla Vicerè. E viene sedotto dalla sicurezza e dal senso di appartenenza che da questa cattura deriva[3].
Gli intellettuali fedeli solo a se stessi – come voleva e sperava Costanzo Preve – sono molto rari e destinati alla marginalità.
Le idee dominanti sono in ogni epoca quelle che hanno i mezzi per essere veicolate, propagandate ed essere protette culturalmente, politicamente e con la forza.
 
3. Il metodo di analisi di Pierluigi Fagan è quello della teoria della complessità. Questo approccio e quello di derivazione marxiana non sono antitetici, come spesso si crede, ma si compendiano. Io il punto di convergenza l’ho trovato nella nozione di “sistema dissipativo”.
Il processo di accumulazione, in quanto privo di un fine sociale è anche privo di un fine qualsiasi e quindi è letteralmente senza (un) fine. E’ autoperpetuante. Questa caratteristica genera crisi in continuazione. Crisi di sovrapproduzione, di sovraccumulazione, nell’andamento del saggio di profitto e altri fenomeni analizzati da Marx.
Le crisi, nel loro complesso e dal punto di vista dei sistemi dissipativi, si possono descrivere come una produzione di entropia (frutto delle contraddizioni del processo di accumulazione) che deve essere scaricata all’esterno.
Quindi il rapporto interno-esterno è centrale nell’analisi delle concrete società capitalistiche.
In particolare, la nascita del termocapitalismo occidentale, cioè del capitalismo nato in Occidente e poggiante massicciamente sull’utilizzo di fonti di energia, è retroflessa, come già si è detto. In particolare il moderno capitalismo europeo ha avuto origine dall’estroversione, trainata dal commercio estero, di un centro (l’Inghilterra) verso lo spazio esterno, combinata con un processo di retroversione dal commercio estero allo sviluppo industriale e agricolo nazionale. Ma è l’intero processo che conduce al capitalismo occidentale che nasce da una necessità di estroversione: di piccole entità.
 
Una necessità dovuta alla limitatezza delle loro risorse territoriali in relazione alla capacità di accumulazione. Si pensi al percorso che va dalle città-stato italiane e arriva, per l’appunto, a una piccola isola galleggiante nei freddi mari del Nord chiamata “Inghilterra” che col solo 1,7% del PIL mondiale di allora andò alla conquista o alla soggezione di Paesi che assieme contavano per il 60% del PIL mondiale.
Io affermo sempre che il capitalismo occidentale è nato con la battaglia di Plassey, una città del Bengala, nel 1757. E l’ho sostenuto recentemente anche in India, di fronte a militanti della sinistra radicale di quell’immenso Paese (solitamente marxisti-leninisti, ma non solo), che mi guardavano sorpresi ma interessati. Con la rapina del Bengala gli Inglesi ripianarono i debiti coi banchieri olandesi e riuscirono a investire nelle invenzioni della prima rivoluzione industriale. Il gioco iniziò così.
Ora, la capacità di scaricare all’esterno l’entropia generata dal centro (la proiezione di potenza e di capitali “esuberanti”, così come le delocalizzazioni per contrastare la caduta del saggio di profitto, sono esempi di questo movimento) implica che ci sia un esterno, che esso sia libero e che sia popolato da persone disposte a ricevere questa “spazzatura termica” (ad esempio producendo profitto per un centro altro). Già questo implica a sua volta che la dinamica della crisi è direttamente condizionata dai rapporti tra Stati, ovvero dalla configurazione dello spazio geopolitico. E questo spazio è uno spazio di sistemi.
Come ricorda Fagan, l’1,7% di PIL mondiale inglese era un sistema. Per questo ebbe la meglio sul 60% combinato di Cina e India, che non facevano sistema o per lo meno un sistema complesso e soprattutto fortemente dinamico come quello inglese (come mise bene in rilievo Jawarharl Nehru in The discovery of India, scritto mentre giaceva proprio nelle galere britanniche). E coi mezzi militari di ausilio a questo dinamismo.
 
4. La lettura del libro di Pierluigi Fagan induce una prima considerazione: non essere accademici permette di svincolarsi da quell’apparato o camicia di forza concettuale che è il solo ad essere ritenuto legittimo e riconosciuto dai pari. Fagan ha lavorato con le multinazionali, io ho lavorato con le multinazionali. Nessuno di noi due è propriamente un intellettuale col pedigree. Forse è per questo che lui, seguace della teoria della complessità e io, seguace di Marx, ci intendiamo. Non siamo dei “professionisti del concetto” e quindi non facciamo interminabili litigate sui concetti. Per dirla in termini popolari: andiamo al sodo.
I concetti, usati come strumenti, servono a dare un ordine alla realtà, di modo che sia intelligibile e agibile progettualmente. Il metodo di Marx della “risalita dall’astratto al concreto” fa proprio questo[4]. Occorre iniziare l’analisi da un piccolo nucleo di concetti “cellulari”, “elementari”, ma alla fine dell’analisi deve esserci la realtà, che è tale in quanto è “ricca di determinazioni”, come sostiene Marx. E questo è un riconoscimento della complessità del reale.
Ma il pensiero accademico molto spesso si ferma al culto devoto del concetto in sé. Questo è tipico degli intellettuali marxisti, affascinati dalla logica espositiva di Marx, o meglio del primo libro del Capitale, o meglio ancora dei primi tre capitoli del primo libro del Capitale. Ma questo culto del concetto è fustigato dallo stesso Marx, che nelle Glosse a Wagner ha affermato con un certo sarcasmo: «Prima di tutto, io non parto da “concetti, quindi neppure dal “concetto di valore”, e non devo perciò in alcun modo “dividere” questo concetto. Ciò da cui io parto è la forma sociale più semplice in cui si presenta il prodotto del lavoro nell’attuale società, il prodotto in quanto “merce”».
Non è lecito giocare con concetti astratti: «Alles das sind “Faseleien”», sono tutte “stupidaggini”, dice sbrigativamente Marx del filosofare degli economisti accademici tedeschi.
Questo difetto, queste “stupidaggini”, hanno avuto come conseguenza quella di disinnescare la carica rivoluzionaria del pensiero di Marx e di renderlo, per l’appunto, gradevole e gradito in ambito accademico. Era proprio il difetto di cui si era dovuto invece sbarazzare un marxista rivoluzionario come Lenin che contrapponeva gli eleganti schemi teorici di Bucharin (pur sempre ritenuto da Lenin come il miglior teorico del Partito) alla poco elegante natura della realtà: “Da questa disparità, da questa costruzione fatta con materiale difforme – per quanto spiacevole e poco armonico possa parere – non usciremo per un ben lungo periodo» [5].
La sfera culturale marxista è invece periodicamente percorsa dalla parola d’ordine del “ritorno a Marx”, proprio per recuperare i suoi puri “concetti”, mentre un “ritorno a Lenin” – e si capisce perché – sarebbe visto con orrore. E’ un fenomeno molto italiano ed europeo.
Nonostante alcune fiammate soggettivistiche e volontaristiche, il marxismo che da noi ha dominato a partire dal Sessantotto, una stagione che più o meno coincide con le prime avvisaglie della crisi sistemica attuale, si è configurato di fatto come una sorta di marxismo da II Internazionale, alla Kautsky o alla Bernstein, tutto rivolto a leggere nei fenomeni il concretizzarsi, finalmente, delle “condizioni” che preludono l’avvento del comunismo.
E come fece Kautsky con la sua idea di “superimperialismo”, si sono divinati i segnali di uno “spazio liscio” che prende il posto di uno “spazio striato”, increspato. Ovvero è stato annunciato un mondo unificato e appiattito dal capitalismo. Impero di Hardt e Negri è la sintesi più nota di questo annuncio. Ma al pari dell’ipotesi del “superimperialismo” di Kautsky, anche questo è stato un annuncio sfigato. Allora la confutazione a Kautsky fu il primo massacro interimperialistico, la risposta a Hardt e Negri sono stati l’11/9 e l’inizio delle guerre infinite. Di fatto, le due drammatiche confutazioni sono state in entrambi i casi contemporanee all’enunciazione della tesi.
5. L’analisi intellettuale riduce le coordinate e le variabili al minimo (putativamente coincidenti con le ipotesi minime dell’esposizione marxiana e dimenticandosi bellamente che la logica dell’esposizione non coincide mai con quella della scoperta – cosa che ogni scienziato dovrebbe sapere): scontro capitale-lavoro in un sistema omologante, teso allo smantellamento inevitabile di ogni differenza di etnia, di etica e di costumi, di religione, nazione, stato, casta considerati rimasugli pre-moderni e moderni.
E invece il mondo è un casino e così i bei concetti simmetrici ed elegantemente dispiegati non riescono a cogliere i fenomeni, per non parlare di ciò che sta sotto i fenomeni.
Sono troppo ingiusto, troppo critico, troppo grezzo, non capisco le raffinatezze dei ragionamenti? Ma non è che siamo invece un po’ troppo nella merda e qualcuno ancora non vuole capirlo per fedeltà identitaristiche? La reazione a questa incapacità analitico-politica, non è proprio il rifugiarsi in tutte quelle identità e fedeltà premoderne e moderne che si pensavano in via di dissoluzione? Il disastro della reazione non è un segnale di quello dell’azione?
Una reazione che, di certo, non incontra il favore né di Pierluigi Fagan né di chi scrive (e per questo siamo così critici; non per divertimento ma per confessata preoccupazione).
A quelle caratteristiche premoderne e moderne, alcuni associano valori (si veda il ritorno di istanze fasciste, xenofobe, razziste, nazionaliste, il culto per il Blut und Boden e il Medioevo). Non ci piace affatto, ma è inevitabile quando la sinistra perde il contatto con la realtà e si dedica a “utopie letali” come recita il titolo di un libro di Carlo Formenti che ha fatto arrabbiare molti.
Lo scontro di classe non avviene sulla Luna, ma in mezzo a dinamiche impregnate di etnie, religioni, nazioni, Stati, eccetera. Dinamiche con complesse motivazioni ideologiche, culturali, etiche, politiche e materiali. Dinamiche che hanno alle spalle una storia precedente e sono la causa di una storia seguente. E questa storia non si svolge nel vuoto interstellare, ma sulla Terra, su Gea, un ambiente fisico, geografico e materiale.
6. Il libro di Pierluigi Fagan è inevitabilmente anche un libro di Storia, nel senso che guarda gli ultimi decenni con distacco storico (che non vuol dire distacco morale). Lo riesce a fare perché il punto di vista sistemico gli consente di aumentare o diminuire la granularità dell’analisi e le maglie che connettono questi grani.
Se si osserva un quadro impressionista, come ad esempio il “Ponte giapponese” di Monet, se si va troppo vicino si vedranno piccole macchie di colore e null’altro. Occorre distanziarsi, e anche un bel po’, per distinguere il ponte. Allo stesso modo, se si va troppo vicino ai dettagli non correlati della realtà si dirà: “Chissà che cosa significa. E’ tutto un gran disordine”. La famosa “risalita dall’astratto al concreto” di Marx serve proprio a calibrare il livello di granularità dell’analisi della realtà per portarla alla coscienza del soggetto.
Ma quando finalmente si capisce che non bisogna avvicinare troppo il naso bensì distanziarsi un po’ per avere uno sguardo d’assieme che possa cogliere le correlazioni, far intuire pattern, bisogna stare molto attenti a non inforcare gli occhiali sbagliati e vedere quello che fa comodo vedere.
Perché la realtà è in movimento e il movimento spiazza e ciò che spiazza incomoda.
7. Quando la grana è grossa (Stati) i movimenti diventano geopolitici e geostorici. Nell’uso corretto di questi strumenti non c’è nessuna esaltazione della nozione di “potenza” né un interesse particolare per la lotta per il Lebensraum degli stati-nazione. C’è invece una riscoperta della materialità della Storia, della complessità del reale.
L’intellettualità accademica ha invece spesso dimenticato pressoché tutto ciò che costituisce il binomio “materialismo-Storia”. Ha dimenticato il materialismo perché ha espunto la materia, che appunto, nel nostro mondo si chiama Gea. Ha dimenticato la Storia perché l’ha ridotta alla formula per l’attesa delle “condizioni canoniche”, formula prelevata direttamente dalla caverna di Platone.
Una storia ridotta a formula, come a Marx non piaceva: «la “fatalità storica” di questo movimento è … espressamente ristretta ai paesi dell’Europa occidentale». Così Marx nella sua risposta a Vera Zasulič del 1881. Concetto che il rivoluzionario tedesco aveva già espresso in una lettera alla redazione della rivista russa Otečestvennye Zapiski del 1877 dove diceva:
«Nel capitolo sull’accumulazione originaria, io pretendo unicamente di indicare la via mediante la quale, nell’Occidente europeo, l’ordine economico capitalistico uscì dal grembo dell’ordine economico feudale [.]. Ecco tutto. Ma per il mio critico, è troppo poco. Egli sente l’irresistibile bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto».
8. L’intellettualità marxista blasonata ha inanellato un record di sconfitte materiali e di incomprensioni della realtà. Le ultime in ordine di tempo vanno dalle “primavere arabe” all’elezione di Trump[6]. Pur non essendo il tema principale del libro, Fagan utilizza il suo approccio per dare un senso alla “sorpresa” The Donald. E ora io cerco di sintetizzare questo senso dal mio punto di vista.
Se l’affollamento geopolitico del mondo e la sua complessità riducono agli USA (e in subordine all’Occidente) la possibilità di utilizzare l’esterno come spazio per la produzione materiale di ricchezza e potenza, questa produzione deve essere ricondotta e protetta là dove il potere della società capitalistica viene originariamente gestito: lo stato-nazione. Lì è il punto di avvio dell’espansione e lì è il punto di approdo della contrazione.
La lotta fra Trump e il vecchio ordine si svolge su questo sfondo del quale tutti i contendenti devono tener conto, volenti o nolenti. Assisteremo a colpi e contraccolpi, ma la direzione è segnata. In questo spazio affollato e quindi ristretto gli USA devono negoziare da una posizione di forza[7]. Ma questa forza, come si capisce usando un po’ di logica e buon senso, non può dipendere da circostanze esterne che non siano strettamente controllabili, altrimenti si entrerebbe in un giro vizioso. Il problema degli Stati Uniti – e la ragione dell’ostilità del “deep state” – è che essi sono invischiati fino al collo in circostanze esterne sempre meno controllabili, cioè nella globalizzazione e nella finanziarizzazione (che in realtà è il fattore principale). Globalizzazione e finanziarizzazione che hanno informato di sé proprio il “deep state” e il personale politico alleato che mostra infatti un’enorme fatica ad adattarsi al cambiamento persino quando gli gioverebbe (vedi le sanzioni alla Russia).
Questa è la realtà, il resto è rappresentazione. A meno che si pensi veramente che un miliardario americano si possa svegliare una bella mattina con l’idea di diventare presidente degli Stati Uniti, così solo perché gli garba.
La la land !
NOTE
[1] Si veda P. Pagliani, Al cuore della Terra e ritorno. Parte 2. La crisi che verrà: definanziarizzazione e deglobalizzazione. 2013 (scaricabile gratuitamente da http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=73540).
[2] Sarebbe stato meglio per Marx, così i suoi figli non sarebbero morti perché non poteva comprare il cibo e le medicine e non avrebbe dovuto a volte impegnare persino i calzoni per poter sopravvivere – l’agente dell’Alta Finanza peggio pagato del mondo!
[3] «[Il duca] deciso veramente a ritirarsi dalla vita pubblica, aveva un’ultima ambizione: quella d’essere nominato senatore; se, quindi, per finir bene dinanzi all’opinione pubblica, non gli conveniva abbandonar bruscamente il partito al quale, dopo il Settantasei, s’era legato ancora più stretto, non gli conveniva neppure muover guerra troppo aperta a quella sinistra da cui aspettava la seggiola a Palazzo Madama. Quindi aveva dato a Benedetto Giulente la presidenza della Costituzionale [l’associazione locale della Destra], contentandosi del posto di semplice gregario. Frattanto, contro questa società era sorta una Progressista, alla quale s’era fatto ascrivere Consalvo [nipote del duca e principe di Mirabella]. “Zio e nipote l’un contro l’altro armati? Il ragazzo che si ribella al vecchio?” dicevano in piazza; ma le eterne male lingue insinuavano che la cosa era fatta d’amore e d’accordo, che il duca era ben contento d’avere il nipote nel campo contrario, come il principino si giovava del credito dello zio tra i conservatori. Del resto, quantunque consocio dei progressisti, egli dichiarava a questi ultimi che la sinistra non aveva ancora “un finanziere della forza del Sella”, né “oratori eleganti come Minghetti”. Ma a quelli che non nascondevano i disinganni prodotti dal regime costituzionale non aveva nessuna difficoltà a dichiarare: “L’errore è stato di credere che potesse dare buoni frutti. Il gregge ha sempre avuto bisogno d’un pastore con relativi bastoni e cani di guardia…”». F. De Roberto, I Vicerè, pag. 258. Progetto Manuzio, http://www.classicistranieri.com/liberliber/De%20Roberto,%20Federico/i_vice_p.pdf
[4] Si veda K. Marx, Introduzione a Per la Critica dell’Economia Politica. Capitolo 3. Il metodo dell’economia politica.
[5] V. I. Lenin, Rapporto sul programma del partito, VIII congresso del PC(b)R, 19 marzo 1919.
[6] «Così qualche settimana dopo sono tornato a fargli visita [al Pentagono al generale del Joint Staff che aveva visto subito dopo l’11/9, NdA]. Stavamo già bombardando in Afghanistan. Chiesi: “Abbiamo ancora intenzione di fare la guerra all’Iraq?” E lui disse: “Oh, è molto peggio”. Raggiunse la sua scrivania. Prese un pezzo di carta e disse: “L’ho appena avuto da sopra – intendendo l’ufficio del Segretario della Difesa – oggi”. E disse: “Questa è una memo che descrive che stiamo per far fuori (take out) sette paesi in cinque anni, a iniziare dall’Iraq, e poi la Siria, il Libano, la Libia, la Somalia, il Sudan e per concludere, l’Iran.”. Chiesi: “E’ classificata?” Rispose: “Sì, signore”. Dissi: “Beh, allora non mostrarmela”». Generale Wesley Clark. Intervista alla rete TV “Democracy now”, 2007. Ecco la vera origine delle “primavere arabe”.
[7] Tra le cose su cui Trump sembra voler negoziare, per aver voce in capitolo, geopolitica e di business, ci sono le nuove “vie della seta” (OBOR: One Belt One Road).
di Piero Pagliani – 26/02/2017 Fonte: Megachip

La scissione dell’atomo. Riflessioni sulla sinistra più a destra del mondo

Un piccolo esempio dalle parole di un amico su FB:

E quindi,per arginare i “populismi” in Europa avete prima tifato prima un olandese che redarguiva il governo Monti perché ha creato pochi esodati, ne voleva qualche altro milioncino…

E oggi in Francia Macron ,iper eurocrate, che “consigliava ” all’Italia per contenere il debito un forte taglio alle pensioni e il prolungamento dell’età pensionabile (2012 ) Ma che belle persone..
Auguroni!


 
sotto segue art: Globalisti, sovranisti, nazionalistipopolo-sovrano
La scissione dell’atomo. Riflessioni sulla sinistra più a destra del mondo
 
Potrebbe sembrare un titolo provocatorio. Soprattutto considerata la matrice destrorsa di chi scrive. Ma così non è, dal momento che il sottoscritto si considera seguace della destra più a sinistra del mondo. Ricordo una frase di Almirante: «Se parliamo di Dio, Patria e Famiglia, non c’è nessuno più a destra di noi. Se parliamo di Stato Sociale, non c’è nessuno più a sinistra di noi.»
 
Ma lasciamo stare “quella” destra, e torniamo a “questa” sinistra, di cui oggi (scrivo queste note domenica mattina) si deciderà il destino. E – sia detto per inciso – insieme al destino del PD si deciderà il destino del sistema elettorale italiano: se si dovrà rimanere ancorati al sistema anglosassone dei grandi contenitori fungibili (centro-destra e centro-sinistra, repubblicani e democratici, conservatori e laburisti, eccetera); o se, invece, si dovrà prendere atto dell’anima pluralista (e proporzionalista) della democrazia italiana, muovendosi in direzione di aggregazioni omogenee e non di insalate miste, a sinistra come a destra.
Succeda quel che succeda, comunque, una cosa è certa: in quello che è il contenitore della pseudo-sinistra ufficiale, si è ormai raggiunto il limite massimo di sopportazione verso le politiche di estrema destra economica che hanno raggiunto l’acme con il Vispo Tereso: dall’abolizione dell’articolo 18 alle “tutele crescenti” del Jobs Act, dalla “buona scuola” alla gestione familistica delle crisi bancarie, dalla prosecuzione della funesta pratica delle privatizzazioni alle leggi elettorali liberticide, fino a quella assurda riforma costituzionale (strabocciata dagli elettori) che recepiva i “consigli” della J.P.Morgan e delle banche d’affari americane.
Certo, una parte non secondaria nell’esasperare la situazione l’ha anche avuta la presunzione, la prepotenza, la supponenza, l’arroganza, il padreternismo del ragazzo. È chiaro ed evidente che il Renzi ha gestito tutta la vicenda all’insegna del suo “Io” smisurato, da “Enrico stai sereno” in poi: le riforme scritte nel presupposto di essere sempre lui a vincere le elezioni, la promessa di lasciare tutto se fosse stato sconfitto al referendum, l’incredibile “abbiamo scherzato”, ed infine la pretesa di imporre la sua leadership al PD attraverso un congresso-lampo “cotto e mangiato”, anche a rischio di portare quel partito al tracollo elettorale.
 
Tutto questo ha di sicuro inciso sul redde rationem in atto. Ma – mi ripeto – a determinare la svolta drammatica di questi giorni è stato un altro fattore: la presa di coscienza che il partito erede del PCI persegue oggi una linea politico-economica che è oggettivamente di destra, di estrema destra. E non mi riferisco certo alla destra politica, quella che Almirante esaltava nella tutela dello Stato Sociale. Mi riferisco all’altra destra, alla destra economica, quella dei Rotschild e di Wall Street, quella della BCE e del Fondo Monetario Internazionale, quella del debito pubblico e della speculazione finanziaria, quella della globalizzazione e delle privatizzazioni, quella delle pensioni “contributive” e dell’addio al posto fisso, quella della riduzione della spesa pubblica e del massacro sociale.
Orbene, è a questa destra bieca, retrograda, antipopolare che la sinistra italiana si è sottomessa e allineata. Ma – a
ttenzione – questo è un processo che è iniziato ben prima di Matteo Renzi. Il ragazzotto toscano è soltanto il tragico punto d’arrivo di una abiura che viene da lontano: almeno dagli anni ’70, quando i “miglioristi” di Giorgio Napolitano teorizzavano la “moderazione salariale” in funzione anti-inflattiva, quando si buttavano al macero decenni di cultura gramsciana e li si sostituiva con l’intellettualismo radical-chic di “Repubblica” e della spocchia scalfariana.
Andazzo che aveva una brusca impennata con la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, quando la classe dirigente del PCI si convinceva dell’ineluttabile trionfo del capitalismo anglosassone e si apprestava a montare sul carro del vincitore. Nel 1991 Achille Occhetto gestiva il congresso che segnava lo scioglimento del PCI e la nascita di un Partito Democratico della Sinistra che avrebbe dovuto «unificare le forze di progresso».
 
Ed eccole le forze di progresso, prodighe di smorfiette e pacche sulle spalle per quella “grande forza democratica” che si apriva alla modernità, alla moderazione e, in una parola, al mercato. I “progressisti” che facevano gli occhi dolci ai comunisti pentiti erano quelli delle ali sinistre di DC e PSI, quelli che, dopo aver tenuto a battesimo la privatizzazione del sistema bancario italiano (con Andreatta nel 1981 e con Amato nel 1990), volevano sbolognarsi adesso anche la grande, preziosa industria pubblica del nostro Paese. Il guru della alienazione dei beni pubblici era un giovane virgulto della loro serre: Romano Prodi, allievo prediletto di Beniamino Andreatta, che sarà il dominus incontrastato delle privatizzazioni nella sua qualità di Presidente dell’IRI (1982-89, poi 1993-94). Prodi aveva tutte le carte in regola per fare carriera in uno schieramento della più ortodossa destra economica: a parte i numerosi incarichi ministeriali, sarà consulente della Goldman Sachs (1990-93 e poi dopo il 1997), e financo amico di quello stramiliardario Georges Soros che, con un attacco speculativo mirato, aveva messo in ginocchio la lira italiana nel 1992. Quello stesso Soros – sia detto tra parentesi – a cui il prof. Prodi propizierà poi una laurea honoris causa dall’università di Bologna (1995).
 
Ebbene, era proprio a Romano Prodi che il PDS (di cui era frattanto divenuto segretario Massimo D’Alema) si rivolgeva nel 1995 per chiedergli di capitanare l’alleanza di tutte le sinistre contro l’odiato Berlusconi. Nasceva così l’Ulivo (PDS + Margherita democristiana) che andava a vincere le elezioni del 1996. Prodi diventava Presidente del Consiglio, con i brillanti risultati che si ricordano.
 
Ammaliato dalla travolgente esperienza politica dell’Ulivo, il PDS faceva un altro passo verso la socialdemocratizzazione: cambiava ancora nome, si trasformava in DS, Democratici di Sinistra, e si affidava alla guida illuminata di Walter Veltroni, il più “amerikano” dei compagni, quello del ”Yes we can” (1998).
 
Poi – tutti insieme appassionatamente – DS, Margherita e Ulivo si scioglievano e confluivano nell’ultima creatura: il PD, Partito Democratico, stesso nome del fratello maggiore americano (2007).
Il resto è storia recente, fino all’arrivo del Vispo Tereso (dicembre 2013) ed ai suoi trionfi. La Sinistra, intanto, è andata dispersa. Prossimamente – forse – se ne occuperà “Chi l’ha visto?”.
 
P.S. Per una singolare coincidenza, mentre il PD marcia – forse – verso la scissione, alla sua sinistra nasce un’altra formazione politica, Sinistra Italiana. Si tratta di una iniziativa “di nicchia”, ma certamente di una iniziativa seria. Non credo, invece, che altre proposte – come quella di Pisapia – abbiano molto da dire al “popolo della sinistra”.
 
 
di Michele Rallo – 26/02/2017
Fonte: Michele Rallo
Globalisti, sovranisti, nazionalisti
In realtà le cose per me sono piuttosto semplici, e passano per l’idea di uno Stato che intervenga nei processi economici a fini di giustizia sociale. Da una parte ci sono i globalisti, dall’ altra i sovranisti. Tra i globalisti possono annidarsi perfino dei nazionalisti, i quali possono sì cavalcare il tema del ritorno ad una maggiore sovranità nazionale degli stati con più o meno forza e declinare quello del protezionismo con diverse sfumature, ma fondamentalmente non sono contro l’ idea che il capitale possa (anzi, in qualche caso: debba, perfino) circolare liberamente (cosa che alla fine limita moltissimo la sovranità nazionale; basti pensare, solo per fare un esempio, al tema delle politiche fiscali) e, insomma: a loro della sovranità popolare e soprattutto della giustizia sociale non importa proprio un fico secco, perché il più delle volte si tratta solo di liberisti appena un po’ più moderati di quegli altri. Guai però a dire che lo Stato debba tornare a dirigere i processi economici (come nei Trenta gloriosi), per carità, vade retro! Per loro, lo Stato è sempre la Bestia da affamare, e il suo ruolo in economia è molto limitato: al massimo, potrà intervenire per «correggere le “disfunzionalità” dei mercati e la rigidità di strutture di prezzo troppo complicate che bloccherebbero la scelta del consumatore» (testuale da un discorso del primo ministro inglese May, che in un’altra occasione ha auspicato che dopo la Brexit il proprio paese diventi ancora più “globale”). Ordo-liberismo puro, o quasi (l’ideologia dell’UE senza l’UE).
I sovranisti, invece, sono contro la globalizzazione liberista “senza se e senza ma”; sono per limitare fortemente la libera circolazione di capitali, merci, servizi e forza lavoro, perché hanno a cuore la giustizia sociale. Sono autenticamente democratici, perché sanno molto bene che l’unico modo per legittimare il potere è quello di fare in modo che coincida con la sovranità popolare, e al tempo stesso hanno capito molto bene che la sovranità popolare non è possibile senza la sovranità nazionale; quindi, non sono nazionalisti ma patrioti.
di Luca Russi – 26/02/2017 Fonte: Appelloalpopolo

Se i Nobel Economia lo criticano,significa che Donald ha ragione

stglitz vs trump
i criteri con cui assegnano il nobel sono chiari da un pezzo….

Sul quotidiano francese LeMonde di venerdi 3 febbraio, con questo titolone : “Joseph Stiglitz : Trump détruit l’ordre géopolitique mondial “ , con sottotitolo “ les perdants de la mondialisation seront les premierès victimes de Trump “,  il premio Nobel  rilascia una intervista che a dir poco mi ha sorpreso .
L’intervistatore gli chiede : “Voi denunciate da anni gli eccessi della mondializzazione fonte di ineguaglianza .Il protezionismo di Trump può esser una soluzione?” . Stiglitz risponde : “ No.L’ironia è che le persone che  ne hanno più sofferto nei 25 anni passati saranno le prime vittime.. “ .
Mio commento : Se Stiglitz spiegasse anzitutto con chiarezza chi sono le vittime e la sua visione sull’origine di questi  eccessi ,dimostrerebbe di aver giustamente meritato il Nobel  e di saper proporre soluzioni. Invece coglie l’occasione per   attaccare  il rischio di populismo politico in Usa ed Europa.
La  risposta giusta è  : Il vero grande disordine si crea negli anni settanta grazie alle dottrine del nuovo ordine mondiale che come prima  azione frenano le nascite (solo in occidente) , e questo fenomeno avvia il processo di disordine economico-geopolitico mondiale. Di per sé la globalizzazione  ha creato un riequilibrio  economico inimmaginabile grazie alla  delocalizzazione produttiva realizzata dai paesi occidentali verso quelli orientali ,per beneficiare dei loro bassi costi di produzione .Pur nell’errore originale ,  ciò  ha permesso  a due terzi del pianeta ( persino in Africa) di avviare piani di crescita economica. Lo squilibrio  si è invece paradossalmente creato nei cosiddetti paesi occidentali ( Usa, Europa in primis) perché da paesi produttori  che erano ,si sono trasformati in paesi consumatori , mentre i paesi asiatici e affini si son trasformati repentinamente in paesi produttori ,ma non ancora consumatori.
L’occidente ha  deindustrializzato creando presupposti per il suo crollo economico. Il cosiddetto  protezionismo nei confronti di alcuni settori industriali diventa ora indispensabile per far riprendere settori trainanti dell’economia ( esposti alla competizione  fondata su forme quasi di schiavismo lavorativo)  e riavviare un nuovo ciclo in paesi come gli Usa, sull’orlo del fallimento economico e sociale. In Occidente ,le vittime son stati i giovani senza lavoro, le persone in età matura  operanti in settori impiegatizi sostituibili dalle tecnologie, gli anziani.
La seconda domanda : “ se il protezionismo non è una risposta come si può proteggere le vittime della mondializzazione ? “.La risposta è da vero premio Nobel .” La priorità è aiutarli a formarsi… “ cioè acquisire nuove competenze e  creare nuovi lavori ….( ci vuole una generazione  per riuscirci?) .
Dice anche che non sarà la rilocalizzazione in patria a creare nuovi impieghi , ma saranno investimenti, per esempio,  nella   sanità, cura degli anziani  , proponendo di trovare le risorse   con tasse e riduzione spese militari  . Ma Stiglitz , premio Nobel per l’economia,  di che sta parlando ? Per creare nuove competenze e nuovi lavori , come si fa se non reimportando in patria quei settori trainanti l’economia , quei settori che creano investimenti e sviluppano tecnologie ?  proprio come l’automobile che sviluppa un indotto che può arrivare a quintuplicare gli effetti  di creazione posti di lavoro  e di investimento , purchè realizzati all’interno del paese.
 
Stiglitz annuncia,  come un oracolo, che prodotte in case le auto costeranno più care per gli americani .  Ma conosce Stiglitz  il potenziale tecnologico americano ( ottenuto proprio grazie agli investimenti nella difesa,che crearono Silicon Valley) che quando applicato a quei settori da rilocalizzare in patria , permetterà  di crescere la competitività domestica  “quasi “ vicino a quella dei paesi a basso costo. Ciò perché questi paesi  , costretti a ridurre le esportazioni  in occidente , per evitare collassi delle proprie economie , dovranno creare domanda interna , aumentando il potere di acquisto, perciò i costi .  Tra poco , se Trump non fa errori ,per molti settori economici ,il costo di produzione domestico in USA   sarà quasi equivalente a quello importato ,ma con un effetto trainante elevatissimo . Grazie alla potenza tecnologica , gli Usa son riusciti  negli ultimi  pochi anni  a diventare persino indipendenti nelle produzioni energetiche .
 
L’intervistatore chiede al premio Nobel se i progetti di fare opere infrastrutturali  beneficeranno la crescita . La risposta è ambigua , si  , forse si potranno fare , ma  conclude ironizzando  che i repubblicani non credono al cambio climatico ..Lasciando immaginare  che Trump lo peggiorerà con le sue scelte.
Successiva domanda è infatti sul  clima : che farà Trump ? Risposta del Nobel in economia : “ Trump sta distruggendo l’ordine geopolitico mondiale avviato dopo la seconda guerra mondiale.” Spiegando che gli Usa ripiegheranno  su sé stessi  fuori dalla comunità internazionale .Ma con una affermazione criptica :” Dans quatre ans, il y aura peut etre un autre président américain qui déciderà  de rejoindre à nouveau le club.”
Quale club , il club di Roma  e affini ?  Intende il  club che ha creato i dissesti della globalizzazione forzandone scelte contrarie a tutte le leggi naturali cominciando dal frenare le nascite nel mondo occidentale ? Ma quale ordine ? Chi ha distrutto l’ordine geopolitico mondiale son stati proprio i predecessori di Trump.
 
Solo nell’ultima domanda Stiglitz da una risposta che condivido (ironicamente) .Gli si chiede se l’Europa deve difendere il libero scambio contro un presidente protezionista .La risposta è “ Bisogna mantenere un sistema mondiale aperto. Se lo si chiude si perde. Ma la mondializzazione deve proteggere i perdenti …e ce n’è anche troppi” .
Bene , ma ripeto la domanda , chi sono i perdenti  e perché lo sono , Stiglitz lo  ha capito ? Io credo che siano quelli che han votato la Brexit, hanno votato Trump e voteranno partiti populisti in Europa . Ma gli Stiglitz hanno  capito perché ? Dalla intervista non si intende . I più deboli  che lui vorrebbe far difendere non vogliono  farsi più difendere da chi vorrebbe lui , avendo  perso fiducia   proprio nel “club” evocato da Stiglitz . Han perso fiducia negli  Obama , Clinton  e compagnia bella . Cioè in coloro che  pretenderebbero oggi di risolvere un problema mondiale agendo sugli effetti anziché sulle cause del problema. E le cause del problema  rifiutano persino di considerarle ,perché , con disprezzo,  le  considerano “morali” . Ed è vero , sono state  la mancanza di  valori morali che han provocato miseria morale che a sua volta ha generato miseria economica e  sociale. L’intervista conferma che l’economia non è una scienza e pertanto il Nobel non dovrebbe neppure  esser riconosciuto, ma conferma anche che sarebbe necessaria una forte Autorità Morale   che  evangelizzasse a dovere  nel mondo globale .
di Ettore Gotti Tedeschi