Discorso natalizio di Bergoglio scritto da Soros

soros-e-papadicembre 25, 2017
Papa Ratzinger aveva il coraggio di criticare la mondializzazione e lo sradicamento capitalistico. Papa Francesco – ci spiace ricordarlo – sta sempre più mettendosi al loro servizio. Così nel discorso di oggi, vera e propria omelia per lo ius soli: “Maria e Giuseppe, per i quali non c’era posto, sono i primi ad abbracciare colui che viene a dare a tutti noi il documento di cittadinanza”. Legge del cuore (Hegel) e batticuore per l’umanità (ancora Hegel) non servono a nulla, senza considerare gli obiettivi rapporti di forza: i quali ci dicono che dare la cittadinanza a tutti è il primo passo per annichilire il concetto di cittadinanza e renderci tutti schiavi apolidi e migranti. La mondializzazione non vuole rendere cittadino chi ancora non lo è. Vuole rendere non-cittadino chi ancora lo è. Questo il punto. Insomma, l’omelia di Francesco, stavolta, sembra ispirarsi a Soros più che a Cristo.
 
“L’essenza dell’uomo consiste unicamente nella libertà assoluta, ché l’uomo non è né cosa, né fatto, e nel suo essere autentico non può essere in alcun modo un oggetto” (F.W.J. Schelling, Dell’Io come principio della filosofia)

L’avversione contro Donald Trump non è che propaganda di guerra

soros trumpI nostri precedenti articoli sul presidente Donald Trump hanno suscitato vive reazioni nei nostri lettori, che si chiedono le ragioni per cui Thierry Meyssan dia prova di tanta ingenuità, malgrado gli ammonimenti della stampa internazionale e l’accumularsi di segnali negativi. Ecco la sua risposta, argomentata come d’abitudine.
A due settimane dall’insediamento, la stampa atlantista prosegue nell’opera di disinformazione e di sobillazione contro il nuovo presidente degli Stati Uniti. Il quale, insieme ai primi collaboratori, moltiplica dichiarazioni e gesti apparentemente contraddittori, sicché è difficile comprendere che succede a Washington.
La campagna anti-Trump
La malafede della stampa atlantista è verificabile analizzando i suoi quattro principali argomenti.
– 1. Per quanto riguarda l’inizio dello smantellamento dell’Obamacare (20 gennaio), è giocoforza constatare che, contrariamente a quanto pretende la stampa atlantista, i ceti più deboli, che avrebbero dovuto sfruttare questo dispositivo di «sicurezza sociale», in realtà l’hanno massicciamente ignorato. Obamacare si è infatti rivelato troppo costoso e troppo rigidamente condizionante per sedurre coloro cui è rivolto. Le uniche a esserne pienamente soddisfatte sono le assicurazioni private che lo gestiscono.
2. Per quanto riguarda il prolungamento del muro alla frontiera con il Messico (23-25 gennaio), la ragione non è la xenofobia: il Secure Fence Act è stato firmato dal presidente George W. Bush, che poi ha dato l’avvio alla costruzione del muro. Il presidente Barack Obama l’ha proseguita, appoggiato dal governo messicano dell’epoca. Al di là della retorica oggi alla moda sulla costruzione di “muri” e di “ponti”, le misure tendenti a rafforzare il controllo delle frontiere sono efficaci solo se le autorità di entrambe le parti concordano nel renderle operative. Per contro, sono votate al fallimento se uno dei due Paesi vi si oppone. L’interesse degli Stati Uniti è il controllo dell’ingresso dei migranti, l’interesse del Messico è fermare l’importazione illegale di armi. Niente è cambiato. Tuttavia, con l’applicazione del Trattato di libero-scambio nordamericano (NAFTA), società transnazionali hanno delocalizzato le proprie industrie, trasferendo dagli Stati Uniti al Messico non solo mansioni non qualificate (conformemente alla regola marxista della ”caduta tendenziale del tasso di profitto”), ma anche mansioni qualificate, facendole svolgere da operai sottopagati (dumping sociale). In Messico, la comparsa di questi posti di lavoro ha provocato un forte esodo rurale e destrutturato la società, com’è accaduto nel XIX in Europa. In tal modo, le società transnazionali hanno potuto abbattere i costi della manodopera, facendo però precipitare nella povertà parte della popolazione messicana, che ora sogna solo di emigrare negli Stati Uniti per essere pagata il giusto. Poiché Trump ha annunciato l’intenzione di far recedere gli Stati Uniti dal NAFTA, nei prossimi anni la situazione dovrebbe tornare alla normalità, con soddisfazione sia dei messicani che degli statunitensi [1].
3. Per quanto riguarda l’aborto (23 gennaio), il presidente Trump ha vietato le sovvenzioni federali alle associazioni specializzate che ricevono finanziamenti dall’estero. In tal modo Trump le obbliga a scegliere fra la loro ragion d’essere (soccorrere le donne in difficoltà) o continuare a essere pagate da George Soros per manifestare contro la sua amministrazione – com’è accaduto il 21 gennaio. Questo decreto non vuole ledere il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza, bensì prevenire una “rivoluzione colorata”.
 
4. Per quanto riguarda i decreti anti-immigrazione (25-27 gennaio), Trump ha annunciato che avrebbe applicato la legge, ereditata dall’amministrazione Obama, che implica l’espulsione di 11 milioni di stranieri irregolari. Ha sospeso gli aiuti federali alle città che hanno dichiarato di volersi rifiutare di applicare la legge (come si potrà avere personale di servizio a basso costo se si sarà obbligati a dichiarare gli immigrati?).
Trump ha precisato che comincerà con l’espulsione di 800.000 criminali già condannati per reati penali negli Stati Uniti, in Messico o altrove.
Inoltre, per evitare l’ingresso di terroristi, ha sospeso i permessi d’immigrazione negli Stati Uniti e per tre mesi ha vietato l’ingresso di persone provenienti da Paesi in cui non è possibile verificarne identità e la situazione. La lista di questi Paesi non è stata redatta da Trump, ma da lui ripresa da un testo del presidente Obama. In Siria, per esempio, non ci sono più né ambasciata né consolato americani. Dal punto di vista della polizia amministrativa, è dunque logico includere i siriani in tale lista. A ogni modo, questi provvedimenti riguarderanno un flusso minimo di persone.
Nel 2015 la “carta verde” statunitense è stata rilasciata a 145 siriani solamente. Nella consapevolezza del gran numero di casi particolari che potrebbero sorgere, il decreto presidenziale ha attribuito al dipartimento di Stato e quello della Difesa interna (Homeland Security) massima libertà di accordare dispense. Il fatto che funzionari in contrasto con Trump abbiano sabotato questi decreti, applicandoli in maniera brutale, non fa del nuovo presidente un razzista e tantomeno un islamofobo.
La propaganda anti-Trump della stampa atlantista è dunque ingiustificata. Pretendere che il presidente abbia dichiarato guerra ai mussulmani, nonché invocare pubblicamente una sua possibile destituzione, persino una sua uccisione, non è più malafede, è propaganda di guerra.
L’obiettivo di Donald Trump
Trump è stato la prima personalità in tutto il mondo a contestare la versione ufficiale degli attentati dell’11 settembre; l’ha fatto il giorno stesso, alla televisione. Dopo aver ricordato che gli ingegneri che avevano costruito le Twin Tower ora lavoravano per lui, dichiarò su Canal 9 di New York che era impossibile che dei Boeing avessero potuto trapassare le strutture in acciaio degli edifici. Aggiunse anche che era altrettanto impossibile che dei Boeing avessero provocato il crollo delle torri: altri fattori dovevano essere intervenuti, al momento sconosciuti.
 
Da quella data, Trump non ha fatto che opporsi a quelli che avevano commesso un tale crimine. Durante il suo discorso di investitura, ha sottolineato che la cerimonia non significava un semplice passaggio di potere tra due amministrazioni: si trattava di restituire il potere al popolo degli Stati Uniti, che ne era stato spogliato [da 16 anni] [2].
Durante la campagna elettorale, indi durante il periodo di transizione, e poi dal momento in cui ha assunto le funzioni di presidente, Trump ha ripetuto che il sistema imperiale degli ultimi anni non ha portato beneficio agli Stati Uniti, ma alla ristretta cricca di cui la Clinton è figura emblematica. Ha dichiarato che gli Stati Uniti non avrebbero più cercato di essere i “primi”, ma i “migliori”. I suoi slogan sono: «America di nuovo grande» (America great again) e « L’America per prima cosa » (America first).
 
Questa svolta politica a 180° stravolge un sistema costruito negli ultimi 16 anni, che trova origine nella Guerra fredda voluta dagli Stati Uniti nel 1947. Questo sistema ha incancrenito numerose istituzioni internazionali, come la NATO (con Jens Stoltenberg e il generale Curtis Scaparrotti), l’Unione europea (con Federica Mogherini), e le Nazioni unite (con Jeffrey Feltman [3]). Ammesso che Trump ci riesca, gli occorreranno comunque anni per raggiungere l’obiettivo.
 
Verso lo smantellamento pacifico dell’impero statunitense
In due settimane Trump ha avviato molte cose, spesso nella più grande discrezione. Le sue dichiarazioni tonitruanti nonché quelle della sua squadra hanno scientemente seminato confusione, permettendogli di far confermare da un Congresso in parte ostile le nomine dei suoi collaboratori.
Teniamo ben presente che la guerra cominciata a Washington è una guerra all’ultimo sangue tra due sistemi. Lasciamo perciò alla stampa atlantista il compito di commentare propositi spesso contraddittori e incoerenti di entrambe le parti per attenerci unicamente ai fatti.
Innanzitutto, Trump s’è assicurato il controllo degli organi di sicurezza. Le prime tre nomine (il consigliere per la Sicurezza nazionale Michael Flynn, il segretario della Difesa James Mattis e il segretario per la Sicurezza interna John Kelly) sono altrettanti generali che hanno contestato il “governo di continuità” instaurato dal 2003 [4]. Ha poi riformato il Consiglio per la Sicurezza nazionale per escluderne il capo di stato-maggiore interarmi e il direttore della CIA [5].
Anche se quest’ultimo decreto venisse emendato in futuro, al momento non lo è. Segnaliamo che avevamo annunciato la volontà di Trump e del generale Flynn di sopprimere la funzione di direttore dell’intelligence nazionale [6]. Alla fine, la carica è stata mantenuta e assegnata a Dan Coats. Potrebbe trattarsi di una tattica per esigere che la presenza in seno al Consiglio del direttore dell’intelligence nazionale sia motivo sufficiente a giustificare l’esclusione del direttore della CIA.
La sostituzione de « i migliori » con «i primi » implica che la volontà di distruggere Russia e Cina si converta nella volontà di concludere un partenariato con questi Paesi.
Per impedirlo, gli amici della Clinton e della Nuland hanno rilanciato la guerra contro il Donbass. Le cospicue perdite subite dall’inizio del conflitto hanno indotto l’esercito ucraino a ripiegare e a spedire in prima linea le milizie militari para-naziste. I combattimenti hanno inflitto pesanti danni alla popolazione della nuova Repubblica popolare. Nel medesimo tempo, in Medio Oriente Clinton e compagnia sono riusciti a consegnare blindati ai curdi siriani, come aveva disposto l’amministrazione Obama.
Per risolvere il conflitto ucraino, Trump sta cercando un modo per aiutare a destituire il presidente Petro Porochenko. Per questo, ancor ancora prima di accettare di parlare al telefono con Porochenko, ha ricevuto alla Casa Bianca il capo dell’opposizione, Ioulia Tymochenko.
In Siria e in Iraq, Trump ha già avviato operazioni comuni con la Russia, sebbene il suo portavoce lo neghi. Il ministero russo della Difesa che, imprudentemente, l’ha rivelato, in seguito non ha più proferito parola sull’argomento. Washington ha rivelato allo stato maggiore russo la dislocazione dei bunker jihadisti nel governatorato di Deir ez-Zor. Bunker che la scorsa settimana sono stati distrutti con bombe penetranti.
Per quanto riguarda Beijing, il presidente Trump ha messo fine alla partecipazione statunitense al Trattato trans-Pacifico (TPP), un trattato concepito contro la Cina. Durante il periodo di transizione ha ricevuto Jack Ma, il secondo uomo più ricco della Cina – lo stesso che ha dichiarato: «Nessuno vi ha portato via posti di lavoro, spendete troppo in guerre». Si sa che i colloqui hanno riguardato l’eventualità di un’adesione di Washington alla Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture. Se ciò accadesse, gli Stati Uniti dovrebbero accettare di cooperare con la Cina e cessare di ostacolarla. Prenderebbero parte alla costruzione delle due vie della seta. In tal modo, le guerre di Donbass e di Siria diventerebbero inutili.
In materia finanziaria, il presidente Trump ha avviato lo smantellamento della legge Dodd-Frank, un tentativo di risolvere la crisi del 2008 prevenendo il fallimento brutale delle grandi banche (« too big to fail »). Benché questa legge di ben 2.300 pagine presenti aspetti positivi, essa statuisce una tutela del Tesoro sulle banche che, evidentemente, ne frena lo sviluppo. Donald Trump pare si appresti anche a restaurare la distinzione tra banche di deposito e banche di investimento (Glass-Steagall Act).
E, per finire, è iniziato anche il repulisti delle istituzioni internazionali. La neo-ambasciatrice all’ONU, Nikki Haley, ha chiesto un audit sulle 16 missioni di “mantenimento della pace” e dichiarato che vuole mettere fine a quelle inefficaci. Ossia, alla luce della Carta delle Nazioni unite, a tutte, senza eccezioni. In effetti, i fondatori dell’ONU non prevedevano un tale impegno militare (oggi superiore a 100.000 uomini).
 
L’ONU è stato creato per prevenire e risolvere conflitti tra Stati, non conflitti interni. Quando due parti in conflitto concludono un cessate-il-fuoco, l’Organizzazione può inviare osservatori per verificare il rispetto dell’accordo. Le attuali operazioni di “mantenimento della pace” mirano, al contrario, a imporre il rispetto di una risoluzione imposta dal Consiglio di sicurezza e rifiutata da una delle parti in conflitto; si tratta di un prolungamento del colonialismo.
In realtà, la presenza delle forze dell’ONU non fa che protrarre i conflitti, la loro assenza lascia invece immodificata la situazione. Per esempio, le truppe della FINUL, dispiegate alla frontiera fra Israele e Libano – però solo su territorio libanese – non prevengono né un’azione militare israeliana, né un’azione militare della Resistenza libanese, così com’è stato più volte dimostrato. Servono unicamente a spiare i libanesi per conto degli israeliani, dunque a perpetuare il conflitto. Così come, dopo che le truppe della FNOUD, dispiegate sulla linea di demarcazione tra Golan e Siria, sono state cacciate da Al Qaeda, il conflitto tra Israele e Siria è rimasto immutato.
 
Porre fine a un tale sistema implica quindi un ritorno allo spirito e alla lettera della Carta costitutiva dell’ONU, rinunciare ai privilegi coloniali e pacificare il mondo.
Nonostante le polemiche mediatiche, le manifestazioni di piazza e le contese politiche, il presidente Trump mantiene la propria rotta.
Feb 09, 2017
Thierry Meyssan
Traduzione: Rachele Marmetti
Il Cronista

Antipolitici sarete voi

Alain de benoist SputnikChe il clivage destra-sinistra stia diventando obsoleto, Alain de Benoist, intellettuale e storico delle idee francese, lo dice da almeno vent’anni. E ora che anche quegli osservatori che lo demonizzavano si sono accorti della progressiva caduta in desuetudine delle vecchie categorie politiche, ci si ritrova ancora una volta a constatare che il padre della destra metapolitica d’Oltralpe aveva anticipato tutto. Anche se lui, con eleganza d’antan, dice semplicemente di aver guardato in faccia la realtà, di non essere, a differenza di una certa Francia benpensante, affetto dal “deni de realité”, da quella propensione al rifiuto di ammettere che il mondo sta cambiando volto, che le vecchie ideologie stanno sparendo e che ci sono nuove “richieste di democrazia”, nuove istanze provenienti da popoli che vogliono riprendere il proprio destino in mano.
Sulla fine dello schema droite-gauche, la crescita dei movimenti cosiddetti populisti e il divorzio brutale tra il popolo e le élite, De Benoist ha deciso di consacrare il suo ultimo libro, il 103esimo della sua lunga vita di studi e riflessioni. Si intitola Le Moment populiste. Droite-gauche, c’est fini! ed è stato pubblicato da Pierre-Guillaume de Roux, l’“editore degli infrequentabili”, come lo ha definito recentemente il Monde.
Tra questi “infrequentabili” pensatori del dibattito intellettuale francese, non poteva certo mancare il padre della Nouvelle Droite, che in un colloquio con Tempi spiega perché è ora di fare chiarezza sul concetto di “populismo”, sull’espansione dei fenomeni populisti nel mondo, e sui troppi errori di approccio nell’analizzare una forma politica che ha alle spalle una storia molto più complessa e sfaccettata di quella che ci raccontano gli opinionisti da salotto televisivo.
«Osservo che il termine populismo è utilizzato sistematicamente in maniera negativa, peggiorativa, per designare movimenti o correnti di pensiero completamente differenti tra loro. I cantori del pensiero dominante dicono che questi movimenti sono principalmente demagogici, per nulla seri, e che costituiscono una minaccia per la democrazia. Ma sono analisi a dir poco superficiali, che passano completamente a lato della questione. Per la stesura di questo libro ho voluto adottare un approccio che parte dalla scienza politica, cercando di capire cos’è il populismo e qual è la sua storia», dice a Tempi De Benoist. «Dall’altro lato – spiega l’intellettuale francese – mi sono interessato ai continui tentativi di denigrazione del populismo, al perché questa parola è diventata una “parola-caucciù”, ossia una parola strattonata in tutti i sensi, utilizzata abusivamente, con il solo obiettivo di delegittimare certe organizzazioni politiche.
Il 2016 è stato l’anno dell’ascesa del Front National, della Brexit in Inghilterra, dell’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, della crescita di Podemos in Spagna, e dell’espansione dei Cinque Stelle in Italia, senza dimenticare il grande risultato ottenuto dall’Fpö alle ultime elezioni austriache. Stiamo assistendo a un fenomeno generalizzato che va studiato nella sua complessità».
Per De Benoist, animatore della rivista antimoderna Eléments, fucina di idee della destra intellettuale francese, «bisogna partire dalla base per capire cos’è il populismo e quali sono le ragioni del suo successo».
La prima ragione, spiega, è «l’enorme diffidenza della stragrande maggioranza delle popolazioni nei confronti della classe politica al potere e delle élite economiche, finanziarie e mediatiche. A questo, si aggiunge una profonda crisi della rappresentanza. Le persone sentono di non essere più rappresentate e che i partiti di governo costituiscono una casta che utilizza il potere soltanto per difendere i propri interessi: c’è una spaccatura tra i rappresentanti e i rappresentati».
Oltre a questo fattore, analizza De Benoist, «c’è il divario che si è aperto da trent’anni a questa parte tra il popolo e la sinistra. Sinistra che storicamente aveva professato di voler difendere le classi popolari più dei leader dei movimenti di destra».
E qui De Benoist raggiunge nell’analisi un altro intellettuale controcorrente del panorama francese, Jean-Claude Michéa, che nei suoi libri ha raccontato meglio di ogni altro la fine della luna di miele tra la gauche e la Francia d’en bas.
«Ora – prosegue De Benoist – la sinistra classica si è unita all’economia di mercato e alle logiche del capitalismo neoliberale, e il popolo subisce pienamente le conseguenze di questa scelta con le politiche di austerità, la restrizione del potere di acquisto e la crescita della disoccupazione. Infine, il successo dei movimenti populisti è legato al recentrage dei programmi dei partiti di destra e sinistra. In altre parole: i partiti di destra e sinistra si succedono ma hanno praticamente la stessa politica, si distinguono nella scelta dei mezzi, ma gli obiettivi sono i medesimi. Le nozioni di destra e sinistra perdono la loro specificità, e lo testimoniano anche i sondaggi: la gente non vede più quale sia la differenza tra queste due categorie politiche».
Riprendersi l’autonomia
Sugli errori di analisi dei molti editorialisti ed “esperti” che affollano giornali e televisioni bollando tutto ciò che non è di loro gradimento come “populista”, De Benoist tiene a soffermarsi. «Il primo errore è quello di credere che il populismo sia un’ideologia, quando invece è una forma politica, uno stile politico, un nuovo modo di articolare le richieste sociali e politiche che può combinarsi con qualsiasi ideologia. È la ragione per cui ci sono dei populismi liberali, dei populismi antiliberali, dei nazional-populismi, dei populismi di sinistra e dei populismi di destra», dice l’autore di Vu de droite.
«Il secondo errore è quello di pensare che il populismo sia un fenomeno intrinsecamente antipolitico, perché è vero il contrario. Il populismo è una reazione contro una politica che oggi è dominata dalla gestione, dall’economia, dall’espertocrazia, dalla morale dei diritti dell’uomo, da tutta una serie di cose che tendono a far sparire l’autonomia della politica. Il populismo è una “demande de politique”, una richiesta indirizzata alle classi dirigenti affinché facciano politica, invece di limitarsi alla gestione e all’amministrazione».
Il terzo errore individuato da De Benoist è credere che il populismo sia un movimento antidemocratico. «Anche qui, è l’esatto contrario di quanto proclamato dalla doxa mediatica. Ciò che il populismo contesta è la democrazia liberale, parlamentare e rappresentativa, che oggi non rappresenta più nulla. I movimenti populisti chiedono più democrazia, una democrazia partecipativa, diretta, nel senso che la gente deve essere maggiormente protagonista, che il loro potere non si deve ridurre all’andare a votare ogni quattro o cinque anni per delle persone che una volta elette difendono soltanto i loro interessi. I movimenti populisti combattono per una democrazia dove le persone possono decidere il più possibile autonomamente e per loro stesse».
Troppe promesse non mantenute
Secondo De Benoist, la critica del populismo si è sviluppata attraverso tre stadi. «In un primo momento sono stati definiti “populisti” dei movimenti che venivano principalmente dall’estrema destra o dall’estrema sinistra, ma che avevano alcune caratteristiche nuove: accettavano il gioco della democrazia, per esempio. In un secondo momento, la qualifica di populismo si è estesa a tutti i movimenti che avevano come caratteristica comune quella di far leva sul popolo per accusare le élite. In un terzo momento, la critica del populismo si è rivelata una critica del popolo. Ciò si vede molto bene con il disprezzo, che è un disprezzo di classe, delle élite contro i popoli che hanno votato Trump, il Front National, e a favore della Brexit. Quando ha vinto la Brexit, ci hanno detto che ha votato il popolo degli idioti, degli imbecilli, dei vecchi, dei provinciali».
E ancora: «Questo disprezzo di classe è estremamente rivelatore perché poggia sulla confusione esistente intorno al significato di competenza. La competenza in politica non è una competenza tecnica, non è la competenza degli esperti. La competenza politica si riassume nell’attitudine a prendere decisioni e alla capacità di giudicare ciò che nel quotidiano è buono o cattivo per il popolo.
Quando si oppone al popolo “coloro che sanno”, si fa un errore drammatico perché “quelli che sanno”, gli “esperti”, non sanno quello che bisogna fare: sanno come fare quello che si è deciso di fare. Sta ai politici dire quello che bisogna fare, e agli esperti in un secondo momento dire come raggiungere questo obiettivo. Quando si dà agli esperti il monopolio della decisione, questi uccidono la politica, perché considerano che ci sia una sola soluzione razionale al problema politico: trasformano il problema politico in un problema tecnico. È lì che vediamo la vecchia formula: “L’amministrazione delle cose si sostituisce al governo degli uomini”».
Questa critica del popolo, per l’intellettuale francese, «disconosce ciò che bisogna intendere per popolo». Secondo De Benoist «ci sono tre grandi significati di popolo: il popolo come “demos”, ossia il popolo politico, il popolo in quanto potere costituente; c’è il popolo come “etnos”, ossia il popolo come risultato di una storia culturale, nozione prepolitica; e c’è il popolo come “plebs”, ossia il popolo considerato come classe sociale, come classe proletaria e popolare. La grande caratteristica del populismo è quella di riunire queste tre accezioni del termine “popolo”».
In merito a quello che è successo negli ultimi trent’anni, conclude l’autore de Le Moment populiste, «ci sono tre grandi fenomeni sui quali il popolo non è mai stato consultato: l’immigrazione, la mondializzazione e la costruzione europea con il potere delle commissioni di Bruxelles. Ci hanno detto che l’immigrazione era un’opportunità per l’Europa, che la mondializzazione era felice e avrebbe prodotto vantaggi per tutti, e ci hanno detto che l’Europa avrebbe risolto tutti i problemi. Oggi le persone si rendono invece conto che l’immigrazione provoca molti problemi, patologie sociali, scontri culturali e religiosi di grandi dimensioni, che la mondializzazione si sviluppa a loro detrimento in ragione delle delocalizzazioni, della messa in concorrenza dei lavoratori europei con i lavoratori del Terzo mondo che ricevono salari irrisori, e si accorgono che l’Europa non è divenuta la soluzione a tutti i problemi, bensì un problema che si aggiunge agli altri. Il tutto in un contesto di crisi generalizzata, crisi dei valori, sparizione dei punti di riferimento, crisi di civiltà, crisi finanziaria, indebitamento pubblico di cui non si vede la fine, aumento della disoccupazione strutturale e non più congiunturale. Questo è il terreno fertile sul quale il populismo ha prosperato».
di Alain de Benoist – 12/02/2017
Fonte: Tempi

Il colonialismo di oggi si chiama globalizzazione

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Forse il primo compito di un pensiero autenticamente critico dovrebbe consistere oggi nel favorire la deglobalizzazione dell’immaginario. Impiego questa formula – “deglobalizzazione dell’immaginario” – richiamandomi a Serge Latouche, che ha parlato a più riprese di “decolonizzazione dell’immaginario”: su questo punto, condivido la sua prospettiva, precisando però che oggi il nuovo colonialismo si chiama globalizzazione.
È, per così dire, il “colonialismo 2.0”: con cui si coartano tutti i popoli del pianeta all’inclusione neutralizzante del modello unico liberal-libertario globalista. Si tratta – come ho detto – di una “inclusione neutralizzante”, giacché la mondializzazione include e insieme neutralizza: include, giacché tutto riassorbe e nulla lascia fuori di sé (ciò che ancora non è incluso è diffamato come antimoderno, reazionario, populista, totalitario, ecc.); e neutralizza, perché, nell’atto stesso con cui annette, disarticola le specificità plurali dei costumi, delle culture, delle lingue. Le sacrifica sull’altare livellante del modello unico classista e reificante del consumatore individuale e senza radici, anglofono e senza identità.
Il mondialismo si caratterizza, in effetti, anche per questo: aspira a vedere ovunque il medesimo, ossia se stesso, il piano liscio del mercato senza barriere e senza frontiere, nei cui spazi stellari tutto scorre senza impedimento nella forma della merce e dei capitali finanziari: è anche e soprattutto per questa ragione che la tarda modernità assume la forma, per citare il compianto Zygmunt Bauman, di una “società liquida” a scorrimento illimitato dei capitali, delle merci e degli esseri umani ridotti a “merci” o a “capitale umano”.
Deglobalizzare l’immaginario – sia chiaro – non significa tornare alla società di “ancien régime”: non significa, cioè, far tornare indietro la ruota della storia. Significa, al contrario, riscontare l’insufficienza e le contraddizioni del mondo globalizzato: e, di lì, articolare un pensiero che si ponga a base di una nuova fondazione del vivere comunitario, andando al di là tanto della cattiva universalità del globalismo, quanto delle forme premoderne nel frattempo tramontate. Ben sapendo, ovviamente, quant’è difficile sistematizzare ciò che ancora non c’è.
di Diego Fusaro – 22/01/2017
Fonte: Fanpage