Svezia, Rfid: il chip sottopelle che ‘trasforma’ i dipendenti in “cyborg”

rfidÈ grande come un chicco di riso ed è in grado di sostituire il documento d’identità, la carta di credito, il badge, può aprire porte e attivare pc e stampanti: si tratta di un chip che, impiantato sotto pelle, può trasformare gli uomini in “cyborg”.
Nell’azienda svedese Epicenter è boom di adesioni per il chip Rfid. Da quando è stato lanciato il programma nel 2015, già 150 dipendenti hanno aderito e si sono fatti impiantre il chip sottopelle.
L’adesione è esclusivamente su base volontaria: chi, tra i 2 mila dipendenti del complesso, lo desidera può sottoporsi all’intervento, che è indolore. Il chip Rfid, grande quanto un chicco di riso, viene iniettato sotto la pelle tra il pollice e l’indice grazie a una siringa con un microago. In pochi secondi i dipendenti diventano in grado di timbrare il cartellino, interagire con le macchine dell’azienda, ma anche fare aquisti semplicemente avvicinando la mano a un lettore.
C’è però il risvolto della medaglia: il microchip offre alla società che lo installa la possibilità di controllare dove si trovano i dipendenti, quanto spesso vanno al lavoro e anche che cosa acquistano. Tuttavia, i sostenitori dell’iniziativa non sono preoccupati per eventuali violazioni della privacy per via delle severissime leggi svedesi in materia. Inoltre, i l chip è biologicamente sicuro.
L’ E picenter è un complesso che ospita diverse aziende di information technology e startup che costituiscono il motore della veloce crescita svedese e dei record di occupazione giovanile. L’iniezione è praticata solo ai dipendenti che lo chiedono: accettarla o rifiutarla non ha alcun influsso sulla carriera, assicurano dalla sede. In poco tempo, il chip è diventato molto popolare.
“Il maggiore beneficio offerto dal chip è convenienza e praticità – spiega Patrick Mesterton, cofondatore e amministratore delegato di Epicenter – perché ti offre funzioni multiple senza ricorrere a carte di credito, documenti d’identità o chiavi”.
via Informazione Consapevole – Di Ginevra Spina

Cosa c’è che non va nel globalismo?

globalismIn base a quello che sino ad ora ho capito, il globalismo è uno schema elaborato dalle elites per distruggere la classe operaia e quella media attraverso la finanza globale imperialista.
Ho anche il sospetto che il globalismo sia una trama ordita per eliminare le culture nazionali e le vere differenze umane sotto le ingannevoli spoglie del «multiculturalismo» e della «diversità».
E’ per questa ragione che mi confondo ogni volta mi capiti di sentire una persona dire di odiare «i ricchi», di essere opposta «all’imperialismo» e di supportare «la classe operaia», pur sostenendo incondizionatamente allo stesso tempo le frontiere aperte ed un governo globale.
Come il sogno irrealizzabile del Marxismo (un’inevitabile ed irreversibile dittatura del proletariato), la seduzione più pericolosa del globalismo consiste nell’idea della sua assoluta necessità storica. La tecnologia ci ha resi un pianeta sempre più interconnesso, per cui (così dicono) l’unica vera soluzione realmente logica e morale dovrebbe essere l’istituzione su scala globale di un’autorità governativa benevola, dotata dell’autorità di tassare, imprigionare, torturare ed abusare.
 
Ma il comunismo ci ha mostrato di essere tutt’altro che inevitabile. Dopo l’apogeo raggiunto il secolo scorso, è praticamente scomparso dalla faccia della terra. Vorrei tanto pensare la stessa cosa dei progetti di un governo monolitico mondiale sottesi a quanto viene amabilmente definito come «globalismo».
Suppongo che feticizzare una sciocca astrazione internazionalista della «classe operaia» globale permetta al globalismo stesso di adattarsi perfettamente alle vostre istanze emozionali e ai vostri complessi borghesi incentrati su un «senso di colpa da ricchi». Tuttavia, se si supporta concretamente la classe operaia statunitense (o ancora meglio: se si appartiene a questa classe), non si può non comprendere che il globalismo è il nostro peggior nemico. Chi ha passato la maggior parte della propria esistenza sotto la pressione di una scelta tanto semplice quanto triste (lavorare o morire di fame) avverte distintamente il disprezzo che le subdole élite globali provano non solo verso la sua persona, ma anche per la sua cultura, la sua umanità e la sua stessa esistenza.
Indipendentemente dai posti di lavoro che questi schizofrenici resi folli dall’avidità confezionino e spediscano all’estero, il loro sogno maggiore è ridurre drasticamente i salari negli stessi USA importando (per vie sia legali che illegali) «migranti» che non hanno niente in comune con la vostra cultura e sono stati istruiti a deridervi come uno scarto evolutivo se vi permettete di lamentarvi che le elites si stanno prendendo gioco di voi mentre distruggono le basi su cui si regge la vostra vita.
Il globalismo sostituisce operai del Mondo Sviluppato con operai provenienti dal Terzo Mondo e chiama i primi «razzisti» (l’equivalente moderno di «negri») se osano avanzare la minima protesta a riguardo. Quindi… se il globalismo può essere una manna dal cielo per le multinazionali e gli operai malesi, per quelli occidentali si è rivelato una botola da cui possono pendere impiccati in qualsiasi istante.
Per la classe operaia occidentale, il globalismo significa regresso, disfatta, dislocazione.  Dopo le elezioni di novembre, il maggiore stratega della Casa Bianca, Steve Bannon, ha descritto cosa è realmente successo: «I globalisti hanno distrutto la classe operaia statunitense ed hanno creato una classe media in Asia. Il problema principale ora consiste in come gli statunitensi possano evitare di essere definitivamente rovinati».
Ma come molti di noi stanno imparando, il semplice comprendere che si sta venendo rovinati (non dico cercare di evitarlo attivamente!) ci rende automaticamente dei nazisti, degli antisemiti, dei suprematisti bianchi e dei patetici provinciali che devono essere sostituiti nella linea di produzione da gente con più melanina e meno soldi.
 
 Quanto più le elites finanziarie perdono le proprie radici e si internazionalizzano, tanto meno fanno finta di trovare un legame comune con gli zotici e le bestie dei paesi che le ospitano. Al contrario, deridono ormai apertamente queste masse.
Ma con sommo orrore e sgomento di questi cosmopoliti ultra-arroganti, i provinciali dei paesi di transito finanziario si stanno svegliando ed hanno realizzato che, nel migliore dei casi, sono visti come un ostacolo al progresso. Nel peggiore dei casi, invece, realizzano che gli architetti globali non avrebbero problemi di sorta a schiacciarli con le asfaltatrici pur di tracciare la via maestra per la loro versione di «progresso».
Chi critica aspramente «i ricchi» pur accettando ingenuamente il globalismo e tutte le sciocchezze utopistiche piazzate in rete non comprende che, quasi senza eccezione, la finanza globale, i mezzi di informazione globali e la cultura accademica globale sono solidamente dietro questo idiota movimento monolitico che predica il commercio libero, le frontiere aperte e la psicopolizia informatica.
Fondazioni umanitarie, organismi o gruppi analitici apparentemente indipendenti e le ONG affermano di perseguire una missione che dovrebbe alleviare i problemi delle masse e mettere i ricchi sotto controllo, tuttavia pochissime persone sembrano dubitare della sincerità dei loro intenti. «I ricchi» infatti stanno appoggiando dei movimenti da cui vengono demonizzati solo superficialmente: in realtà, le strutture appena menzionate stanno rendendo «i ricchi» ancora più ricchi, ma chi dice qualcosa a riguardo viene subito tacciato di nazismo.
Ma a parte la sfrenata ipocrisia economica, l’aspetto più odioso del globalismo selvaggio è il disprezzo infestante che i suoi divulgatori mostrano per le culture nazionali, soprattutto per quelle europee. Nonostante il tributo convenzionale offerto ai cosiddetti diritti di uomini che ritengono di essere donne e quindi vogliono fare i loro bisognini nei bagni delle signore, questi divulgatori mostrano una disinvolta indifferenza verso il seguente fatto: le loro devastazioni finanziarie e culturali, che nessuno ostacola, stanno spazzando via intere culture sul pianeta e le stanno sostituendo con una cultura consumatrice piatta, sradicata, omologata, ideologicamente caotica e compiacente.
Tuttavia, nella loro folle tensione ad un livellamento globale, le forze mondialiste non potranno mai risolvere definitivamente i motivi di conflitto. Il globalismo può solo sostituire le guerre tra nazioni con guerre tra ex-nazioni, trasferendole dai confini, dove prima tali conflitti avevano luogo, alle strade delle città. E’ possibile che, invece di un’armonia globale, sia proprio questo lo scopo finale del globalismo: un conflitto interminabile ed insanabile.
 
C’è un lato tremendamente ironico in tutto questo. Non so se per caso o destino. Il globalismo spesso è un antidoto umano ed una forma di retribuzione karmica in atto contro il colonialismo europeo. Durante i vari dibattiti, il fatto che la Francia abbia colonizzato parti del Maghreb in maniera criminale viene utilizzato come una giustificazione morale dei magrebini che stanno colonizzando demograficamente e culturalmente la Francia. Apparentemente, nessuno ha mai insegnato a questi scaltri sofisti del globalismo che la somma di due mali non dà mai il bene, il risultato sarà piuttosto un inasprirsi dei conflitti e degli spargimenti di sangue.
Essendo io un anticollettivista per natura, trovo orrendo lo spettro di un governo globale retto da figure ufficiali non elette che non tengano in conto alcuno la volontà mia e quella della maggioranza degli esseri umani. Non ho assolutamente voglia di far controllare ogni microsecondo della mia esistenza a persone che si trovano a 5000 miglia lontano da me. Persone a cui non delegherei nemmeno il compito di scaccolarmi.
 
John Lennon può essere ritenuto a buon diritto la prima pop-star globalista, il suo candido «Imagine» del 1971 è venerato come un vero inno al globalismo. In questa canzone Lennon immagina un mondo senza nazioni, senza proprietà privata, senza omicidi, un mondo dove tutti gli uomini cooperano. Mentre immaginava tutto questo, un pazzo ha premuto il grilletto e lo ha ucciso. Lennon cantava che abbiamo bisogno solo d’amore. In realtà, il giorno del suo omicidio lui aveva bisogno solo di un’arma per difendersi.
di Tyler Durden – 01/03/2017 – Fonte: oltrelalinea
(di Tyler Durden, ZeroHedge – Traduzione a cura di Claudio Napoli)

“L’epoca della globalizzazione ha finito il suo tempo ”

ma che terribile prospettiva, populisti populisti!!

Evo-Morales

Evo Morales, pres. Bolivia
La frenesia per un imminente mondo senza frontiere, il frastuono per la constante erosione degli stati-nazionali in nome della libertà d’impresa e la quasi religiosa certezza che la società mondiale finirà per amalgamarsi in un unico spazio economico, finanziario e culturale integrato, sono appena crollate di fronte all’annichilito stupore delle èlites globaliste del pianeta.
La rinuncia della Gran Bretagna a continuare nell’Unione Europea – il progetto più importante di unificazione statale degli ultimi cento anni – e la vittoria elettorale di Trump – che ha innalzato le bandiere di un ritorno al protezionismo economico, ha preannunciato la rinuncia ai trattati di libero commercio ed ha promesso la costruzione di mesopotamiche mura di frontiera –, sono tutti elementi che hanno annichilito l’illusione liberista e globalista che è stata quella più grande e di maggiore successo dei nostri tempi.
E che tutto questo provenga dalle due nazioni che 35 anni fa, protette dalle loro corazze di guerra, annunciavano l’avvento del libero commercio e la globalizzazione come l’inevitabile redenzione dell’umanità, ci parla di un mondo che si è capovolto o, ancor peggio, dove sono venute meno le illusioni che lo hanno mantenuto sveglio per un secolo.
La globalizzazione come meta-narrazione, è questo, come orizzonte politico ideologico in grado di canalizzare le speranze collettive verso un unico destino che permettesse di realizzare tutte le possibili aspettative di benessere, oggi va esplodendo in mille pezzi. E attualmente non c’è al suo posto niente di mondiale che articoli quelle aspettative comuni. Quello che esiste è uno spaventato ripiego all’interno delle frontiere e il ritorno a un tipo de tribalismo politico, alimentato dalla rabbia xenofoba, di fronte a un mondo che ormai non è il mondo di nessuno.
L’estensione  geopolitica del capitalismo
Chi ha iniziato lo studio della dimensione geografica del capitalismo è stato Karl Marx. Il suo dibattito con l’economista Friedrich List sul capitalismo nazionale, nel 1847, e le sue riflessioni sull’impatto della scoperta delle miniere d’oro della California nel commercio transpacifico con l’Asia, lo collocano come il primo e più meticoloso analista dei processi di globalizzazione economica del regime capitalista. Di fatto, il suo contributo non è fondato sulla comprensione del carattere mondializzato del commercio che inizia con l’invasione europea dell’America, ma sulla natura planetariamente espansiva della stessa produzione capitalista. (………………)
La globalizzazione economica (materiale) è un fatto inerente al capitalismo. Il suo inizio si può datare, a partire da 500 anni fa, da quando poi andrà rafforzando, in modo frammentario e contraddittorio, ancora molto di più.
Se seguiamo gli schemi di Giovanni Arrighi, nella sua proposta di cicli sistemici di accumulazione capitalista a capo di uno Stato egemone: Genova (secoli XV-XVI), Paesi Bassi (secolo XVIII), Inghilterra (secolo XIX) e Stati Uniti (secolo XX), ciascuna di queste egemonie è stata accompagnata da un nuovo rafforzamento della globalizzazione (prima commerciale, poi produttiva, tecnologica, cognitiva e, infine, ambientalista) e da un’espansione territoriale delle relazioni capitaliste. Invece, quello che costituisce un avvenimento recente all’interno di questa globalizzazione economica è la sua costruzione come progetto politico-ideologico, speranza o senso comune; cioè, come orizzonte d’epoca capace di unificare ed omologare le credenze politiche e le aspettative morali di uomini e donne appartenenti a tutte le nazioni del mondo.
La fine della storia
La globalizzazione come storia o ideologia d’epoca non ha più di 35 anni. Era iniziata con i presidenti Ronald Reagan e Margaret Thatcher, liquidando lo Stato del welfare, privatizzando le imprese statali, annullando la forza sindacale operaia e sostituendo il protezionismo del mercato interno con il libero mercato, elementi che avevano caratterizzato le relazioni economiche dalla crisi del 1929.
Certo, è stato un ritorno amplificato alle regole del liberismo economico del XIX secolo, inclusa la connessione in tempo reale dei mercati, la crescita del commercio in relazione al prodotto interno lordo (PIL) mondiale e l’importanza dei mercati finanziari, che già erano stati presenti in quel momento. Invece, ciò che ha differenziato questa fase del ciclo sistemico da quella che aveva prevalso nel XIX secolo, è stata l’illusione collettiva della globalizzazione universale, la sua funzione ideologica leggittimatrice e la sua ascesa come supposto destino naturale e finale dell’umanità.
Coloro i quali si sono affiliati emotivamente a quel credo del libero mercato come pretesa salvezza finale non sono stati semplicemente i governanti dei partiti politici progressisti, ma anche i mass media, i centri universitari, opinionisti e leader sociali. Il crollo dell’Unione Sovietica e il processo che Antonio Gramsci chiamò trasformismo ideologico degli ex socialisti divenuti convinti neoliberisti, ha chiuso il cerchio della vittoria definitiva del neoliberismo globalizzatore.
Certo! Se davanti agli occhi del mondo l’URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche), che era considerata fino allora il referente alternativo al capitalismo di libera impresa, abdica dalla lotta e si arrende davanti alla furia del libero mercato – e se per di più quelli che erano i combattenti por un mondo diverso, pubblicamente e in ginocchio, abiurano le loro precedenti convinzioni per proclamare la superiorità della globalizzazione sul socialismo di Stato –, ci troviamo di fronte alla costruzione di una narrativa perfetta del destino naturale e irreversibile del mondo: il trionfo planetario della libera impresa e del mercato.
L’enunciazione della fine della storia hegeliana con cui Francis Fukuyama ha caratterizzato lo spirito del mondo, aveva tutti gli ingredienti di un’ideologia d’epoca, di una profezia biblica: la sua formulazione come progetto universale, il suo scontro contro un altro progetto universale demonizzato (il comunismo), la vittoria eroica (fine della guerra fredda), la sconfitta degli Stati Nazionali e la conversione degli infedeli.
La storia era arrivata alla sua meta: la globalizzazione neoliberista. E, a partire da quel momento, senza avversari antagonisti da affrontare, la questione ormai non era lottare per un mondo nuovo, ma semplicemente aggiustare, amministrare e perfezionare il mondo attuale, perché non c’erano alternative ad esso. Per quel motivo, nessuna lotta valeva la pena strategicamente, poiché tutto ciò che si fosse tentato di fare per cambiare il mondo avrebbe finito per arrendersi di fronte al destino inamovibile dell’umanità, che era la globalizzazione.
È sorto così un conformismo passivo che si è impossessato di tutte le società, non solo delle élites politiche e imprenditoriali, ma anche di ampi settori sociali che hanno aderito moralmente alla narrativa dominante.
La storia senza fine né destino
Oggi, quando ancora echeggiano gli ultimi petardi dl la lunga festa della fine della storia, risulta che proprio quella che era uscita come vittoriosa, la globalizzazione neoliberista, è morta lasciando il mondo senza finale né orizzonte vittorioso; cioè senza alcun orizzonte. Donald Trump non è il boia dell’ideologia trionfalista della libera impresa, bensì il medico legale al quale tocca ufficializzare una morte clandestina.
I primi passi falsi dell’ideologia della globalizzazione si fanno sentire agli inizi del XXI secolo in America Latina, quando operai, plebe urbana e ribelli indigeni non ascoltano il comando della fine della lotta di classe e si mettono insieme per prendere il potere dello Stato. Combinando maggioranze parlamentari con azioni di massa, i governi progressisti e rivoluzionari implementano una varietà di opzioni post-neoliberiste, mostrando che il libero mercato è una perversione economica suscettibile di essere rimpiazzata da modi di gestione economica molto più efficienti e solidali per ridurre la povertà, generare uguaglianza e dare impulso alla crescita economica.
Con questo, la fine della storia comincia a mostrarsi come una singolare truffa planetaria e di nuovo la ruota della storia – con le sue infinite contraddizioni e opzioni aperte – si mette in marcia. Successivamente, nel 2009, negli Stati Uniti, il tanto vilipeso Stato, che era stato oggetto di scherno in quanto considerato ostacolo alla libera impresa, è tirato per la giacchetta da Barack Obama per statalizzare parzialmente le banche e salvare dalla bancarotta i banchieri privati. L’efficientismo imprenditoriale, colonna vertebrale dello smantellamento statale neoliberista, è così ridotto in polvere dalla propria incompetenza nell’amministrare i risparmi dei cittadini.
Poi arriva il rallentamento dell’economia mondiale, in particolare del commercio delle esportazioni. Durante gli ultimi 20 anni, questo cresce al doppio del prodotto interno lordo (PIL) annuale mondiale, però a partire dal 2012 a stento riesce a raggiungere la crescita di quest’ultimo, e già nel 2015 è persino minore, e con questo la liberalizzazione dei mercati ormai non è più il motore dell’economia planetaria né la prova della irresistibilità dell’utopia neoliberista.
Infine, i votanti inglesi e statunitensi inclinano la bilancia elettorale in favore di un ripiegamento verso Stati protezionisti – possibilmente chiusi da mura –, oltre a rendere visibile un malessere ormai planetario contro la devastazione delle economie operaie e della classe media, causato dal libero mercato planetario.
Oggi, la globalizzazione ormai non rappresenta più il paradiso desiderato nel quale riposano le speranze popolari né la realizzazione del benessere familiare agognato. Gli stessi paesi e basi sociali che la sbandieravano decenni fa, sono diventati i suoi maggiori detrattori. Siamo di fronte alla morte di una delle maggiori truffe ideologiche degli ultimi secoli.
È certo che nessuna frustrazione sociale resta impunita.
Esiste un costo morale che, in questo momento, non illumina alternative immediate, anzi – è il cammino tortuoso delle cose – le chiude, almeno temporaneamente. E c’è che alla morte della globalizzazione come illusione collettiva non si può contrapporre l’emergenza di un’opzione capace di catturare e incanalare la volontà desiderosa e la speranza mobilitante dei popoli colpiti.
La globalizzazione, come ideologia politica, connaturata al grande capitale, ha trionfato sulla sconfitta dell’alternativa del socialismo di Stato, della statalizzazione dei mezzi di produzione, il partito unico e l’economia pianificata dall’alto. La caduta del muro di Berlino, nel 1989, rappresenta teatralmente questa capitolazione.
Pertanto, nell’ immaginario planetario è rimasta una sola strada, un solo destino mondiale. Quello che sta succedendo ora è che pure quell’unico destino trionfante muore. Cioè: l’umanità rimane senza destino, senza direzione, senza certezza. Però non è la fine della storia – come preconizzavano i neoliberisti –, bensì la fine della fine della storia. È il nulla della storia.
Ciò che resta oggi nei paesi capitalisti è un’inerzia senza convinzione che non seduce, un mucchietto decrepito di illusioni marcite e, nella penna degli scrivani fossilizzati, la nostalgia di una globalizzazione fallita che non illumina più i destini.
Perciò, con il socialismo di Stato sconfitto e il neoliberismo morto suicida, il mondo resta senza orizzonte, senza futuro, senza speranza mobilitante. È un tempo di incertezza assoluta nella quale, come ben intuiva William Shakespeare, tutto il solido svanisce nell’aria. Ma proprio per questo è pure un tempo più fertile, perché non si hanno certezze ereditate alle quali aggrapparsi per ordinare il mondo. Queste certezze bisogna costruirle con le particelle del caos di questa nube cosmica che si lascia dietro la morte delle narrazioni passate.
Quale sarà il nuovo futuro mobilitante delle passioni sociali? Impossibile saperlo. Tutti i futuri sono possibili a partire dal niente ereditato. Il comune, il comunitario, la comunità solidale, è una di quelle possibilità che è radicata nell’azione concreta degli esseri umani e nella loro imprescindibile relazione metabolica con la natura.
In ogni caso, non esiste società umana capace di fare a meno della speranza. Non esiste essere umano che possa prescindere da un orizzonte, e oggi siamo costretti a costruirne uno. Questo è comune agli umani e questo comune è ciò che può condurci a disegnare un nuovo destino distinto de questo emergente capitalismo erratico che ha appena perduto fiducia in se stesso.
* vicepresidente della Repubblica di  Bolivia
Fonte: La Jornada di Alvaro Garcia Linera*
Feb 04, 2017
Traduzione: Juan Manuel De Silva

Cyberspionaggio. E’ nata una figura ibrida di controllore-controllato

Intervistata da Intelligonews  Enrica Perucchietti, giornalista, scrittrice e opinionista, commenta senza giri di parole il caso cyberspionaggio. Nel mirino degli hacker sembra ci fossero, da anni, imprenditori e personaggi politici di spicco tra cui Renzi, Monti e Draghi.
Che idea si è fatta della vicenda?
 
“E’ la punta dell’iceberg di un fenomeno, molti ricercatori ne parlano da anni ma sono stati bollati come delle cassandre. Siamo tutti violati quotidianamente, non esiste più la privacy, il cyberspionaggio è diventato ormai endemico ed è l’arma per tenere sotto controllo un po’ tutti”.
 
Materiale quindi da utilizzare per ricatti.
 
Sicuramente. Stanno emergendo anche dei rapporti  con la massoneria. Bisogna vedere quali gruppi avessero dietro. Se sono stati aperti dei faldoni per spiare costantemente delle persone c’è dietro un sistema per poter ricattare qualcuno. Mi sembra che la forma del ricatto sia diventata un’arma quotidiana della politica, un metodo normale”.
Si parla anche di possibili incroci tra la P3 e le P4?
 
“E’ morta la P2 e non ci siamo mai chiesti che fine avesse fatto la P1. Probabilmente una struttura è sopravvissuta ed è difficilissima da debellare perché chiunque si avvicina viene combattuto o pubblicamente deriso e bollato come dietrologo. Poi quando scoppiano questi scandali sembra che si parli di trame dei film ma in realtà sono fatti che avvengono quotidianamente”.
 
Vede dei collegamenti tra questa vicenda è quanto accaduto in America nel caso delle elezioni con l’accusa di Obama di interferenze da parte di hacker russi?
 
“Secondo me no, i fantomatici hacker russi sono una buffonata. Da mesi si sta cercando di ostacolare e deligittimare Trump agli occhi dell’opinione pubblica perché è uno che ha attaccato i gruppi di potere, mentre la Clinton era la rappresentante perfetta dell’establishment. La questione americana è un modo per sviare l’attenzione dalla debacle che hanno avuto alle elezioni. Obama è stato uno dei peggiori presidenti della storia americana, ha deluso tutte le promesse e ora se ne va nel modo peggiore, battendo i piedi come i bambini. Sono due situazioni completamente diverse”.
Oggi chi sono gli spioni e chi gli spiati?
 
In realtà siamo un po’ tutti spioni e spiati perché, grazie anche ai social network, si è creata questa figura ibrida del controllore-controllato. Ci sono degli spioni che sono ormai ovunque e fanno parte dei gruppi di poteri, anche dei governi. Ci sono modalità di controllo che fanno parte del potere e sono esercitate nei confronti di tutti i cittadini. In Italia noi conosciamo poco queste tecniche mentre in altri Paesi, come ad esempio gli Stati Uniti, l’evoluzione della sorveglianza tecnologica è molto avanzata. Pensiamo inoltre che più viene sponsorizzato l’allarme terrorismo più si stringeranno le maglie del controllo sociale che passa anche attraverso il controllo tecnologico. Noi stessi circondandoci di cellulari e satellitari diamo la possibilità di essere controllati. C’è quindi una forma ibrida, siamo controllati dal potere e ci hanno abituato per comodità ad abdicare alla nostra privacy che cediamo tramite i social e la tecnologia senza rendercene conto”.
di Enrica Perucchietti – 11/01/2017
 
Fonte: intelligonews
Occhionero, Occhio-Piramide, occhio a Ravasi.
Mi hanno telefonato in cento: il mio parere sui fratelli spioni Occhionero, che hanno infiltrato le mail di Mario Draghi, Ravasi, Monti, massoni sciolti e a pacchetti. Cosa ne penso. Cosa volete ne pensi. E’ troppo presto   per capire i media riempiono il vuoto con fuffa e polvere negli occhi, interviste a  Genchi e altri depassés,   il consueto rumore di fondo utilissimo.
 
Io dico: aspettiamo. La sola cosa che sembra certa è che i due Occhionero sono: amici dell’ambasciatore  Usa a Roma. Residenti a Londra. Interni a potenti ditte finanziarie della City.  Con aiuti tecnici e politici in Usa per la loro impresa di hackeraggio.  La moglie, cittadina americana. Il fratello Occhionero, oltre che gran maestro della loggia romana, è anche introdotto nella gran loggia dell’illinois.occhionero
“E’ stato beccato grazie alla collaborazione dell’Fbi con la polizia italiana, ma NON delle altre agenzie americane”, mi dice il noto amico di Washington: “il repulisti dell’intelligence Usa”! (voluto da Trump e dal suo quartier  generale)  “ha raggiunto l’Italia?”. Si noti il punto di domanda.   E’ troppo presto per farne a meno.
Ricordiamo solo che una parte dell’Fbi ha forzato il suo direttore, Comey, ad aprire controvoglia le indagini sulla Clinton in piena campagna elettorale (Comey poi le ha subito chiuse: lì si arrivava al Pizzagate attraverso il computer del marito sessuomane di Huma Abedin). E’ quell’ FBI che oggi apre agli  inquirenti italiani i servi dell’occhio della piramide? Sembra ragionevole.
A me personalmente interesserebbe molto vedere le liste che  ing. Occhionero  ha stilato, in ordine  alle caratteristiche dei  personaggi: “politici”,  “cardinali”,”massoni”…  Per esempio monsignor Ravasi è catalogato come massone? E Monti? E  Draghi?
Ma soprattutto Ravasi. Forse si ricorderà che pubblicò su 24 Ore, il 14 febbraio 2016, un inatteso invito ai “cari  fratelli massoni”  a cui la nuova Chiesa di Begoglio, dopo 500 condanne in due secoli, allarga le braccia  tutte misericordia.    Il papa che è stato salutato ufficialmente dal Grande  Oriente  a poche ore dalla sua elezione, come quellologgia pensiero e azione  sotto il quale “la Chiesa non sarebbe  più stata come prima”.  Il papa  che, quando atterra in qualche paese estero, la massoneria locale gli fa trovare manifesti di benvenuto.  Il  Papa che pochi giorni fa  ha    di nuovo  invocato   (come l’ha già fatto in Laudato Si)  “una autorità politica mondiale” nuova, “per ridurre l’inquinamento”,  munita di una banca centrale globale emettitrice di  una moneta unica, “per la salvezza dell’umanità”   e “lo sviluppo”.  Il Papa che  ha compassione per l’ambiente e nessuna per  i Francescani dell’immacolata…
 
Secondo una vocina interna al Vaticano, sarebbe Ravasi, in realtà, il grande promotore degli  eventi che portarono alle dimissioni di Benedetto XVI. La sua appartenenza alla lista Massoneria sarebbe di notevole significato.
 
Lo sapremo presto? Lo sapremo mai?
 
di Mauruizuo Blonet – 11/01/2017
Fonte: Mauruizuo Blonet