Goldman Sachs vuole far rivotare gli inglesi e l’UE tace

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mannaggia questi popoli, si sbagliano sempre. Possibile che siano così ignoranti da non affidarsi ad illuminati affaristi che sanno loro cosa è meglio per le masse? Ma chissà perché non si fidano sti populisti..

Dal momento che i grandi giornali nazionali hanno curiosamente trascurato la notizia, che in caso contrario avrebbero avuto la scocciatura di dover commentare, tocca ancora a questo piccolo sito darvi conto dell’ultima uscita di Lloyd Blankfein che, per chi non lo conoscesse, è dal 2006 il Chief Executive Officer di Goldman Sachs.
 
Infastidito dallo scherzetto della Brexit ma ancor più, si direbbe, dall’infantile ostinazione britannica a non voler disattendere il voto, Mr Blankfein ha approfittato di twitter – che, non essendo di cittadinanza russa, può usare liberamente per influenzare gli affari interni altrui – per suggerire alla signora May una soluzione choc.Riluttante a dirlo – premette, esibendo un insospettabile candore, il grande capo di Goldman Sachs -, ma molti si augurano un voto di conferma su una decisione così monumentale e irreversibile. La posta in gioco è alta. Perché non assicurarci che ci sia ancora consenso?”.
Eh già, perché prenderla tanto sul serio? In fondo lo sappiamo tutti che gli inglesi hanno dato la risposta sbagliata. Dunque organizziamo una bella rivincita e vediamo se, a ripetergli la domanda, questi zucconi stavolta votano come si deve…
E’ uno scherzo, direte voi. In effetti ci sarebbe di che ridere, se invece non ci fosse di che preoccuparsi pensando a cosa rappresenta Blankfein nel mondo globale e a cosa ha fatto la nosta cara Unione Europea con altri due referendum finiti nel modo “sbagliato”.
Mi riferisco ovviamente al referendum irlandese del 2008 sul Trattato di Lisbona, vinto dai “no” e fatto ripetere nel 2009 fino alla sospirata vittoria dei “sì”, ed all’orgoglioso “no” espresso nel 2015 dai greci contro il memorandum della Trojka che fortissime pressioni di Bruxelles indussero, poi, il fragile governo Tsipras ad ignorare.
Quanto all’influenza internazionale di Goldman Sachs e del suo capo, bé, c’è una lunga storia che parla per loro. Mr Blankfein, in effetti, meriterebbe un’attenzione maggiore di quella che sono soliti dedicargli i nostri media, se non altro per quel malcelato vezzo di ergersi a portavoce dell’Olimpo finanziario globale: il Dio di tutti gli Dei. In una famosissima intervista del 2009, del resto, fu lo stesso Blankfein a scomodare l’Altissimo. Eravamo alle prime fasi della crisi dei subprime ed un giornalista del Sunday Times gli chiese conto degli indecenti stipendi erogati ai super-manager da quelle stesse banche che, per opinione ormai generale, avevano innescato la catastrofe. “Noi – rispose Blankfein, regalando al movimento degli indignati la frase-manifesto di Occupy Wall Street – aiutiamo le aziende a crescere aiutandole a raccogliere capitali. Le aziende che crescono creano ricchezza. E ciò, in ritorno, permette alla gente di avere lavori che creano ancora più crescita e più ricchezza. Noi abbiamo uno scopo sociale. Noi facciamo il lavoro di Dio…”.
L’opinione pubblica americana, che solo un anno prima aveva maldigerito il salvataggio di Goldman Sachs con 10 miliardi di dollari di fondi pubblici, non la prese affatto bene. Blankfein fu costretto a scusarsi, a precisare che scherzava, ed un anno dopo, tornando sull’argomento davanti alle telecamere della Cnn, dovette pure ammettere che il lavoro di Dio non era stato fatto poi così bene: “Sì, abbiamo contribuito alla crisi finanziando progetti immobilliari con un livello di indebitamento troppo importante”.
Eppure c’era del vero in quel lapsus dal sapore freudiano. Avendo in mano il timone di Goldman Sachs, può capitare davvero di sentirsi onnipotenti. In primo luogo per la vertigine dei soldi, i tantissimi soldi che la super-banca americana può scommettere sul tavolo verde dei mercati, ma anche per la fitta rete di relazioni istituzionali che Goldman Sachs negli anni è stata in grado di allestire, dal momento che si fatica a tenere il conto dei suoi ex collaboratori diventati amministratori pubblici e degli ex amministratori pubblici diventati suoi collaboratori.
L’ultimo eclatante episodio di revolving doors, porte girevoli, riguarda, come noto, Josè Manuel Barroso. Dopo un decennio alla guida della Commissione Europea, speso a somministrarci testardamente la cura neo-liberista del rigore, il politico portoghese ha accettato l’incarico di presidente non esecutivo prontamente offertogli, alla scadenza del mandato, da Goldman Sachs International.
Ce n’era abbastanza da accreditare la screanzata vulgata populista “dell’Europa delle banche e dei banchieri”. L’imbarazzo, in effetti, fu tale che persino Jean Claude Juncker e l’intero corpo dei funzionari Ue dovettero stigmatizzare pubblicamente la disinvoltura di Barroso, il quale, dal canto suo, andò avanti serenamente per la propria strada. Con qualche buona ragione, essendo, l’ex presidente della Commissione Europea, in eccellente compagnia.
Prima di lui, infatti, numerosi altri personaggi avevano intrattenuto collaborazioni professionali, precedenti o successive alla carriera pubblica, con Goldman Sachs: il futuro governatore della Bce Mario Draghi, il futuro Commissario Europeo alla Concorrenza nonché presidente del Consiglio Mario Monti, il futuro premier e presidente della Commissione Europea Romano Prodi, l’ex membro del consiglio della Bundesbank e della Bce Otmar Issing, l’ex commissario europeo alla concorrenza Karel van Miert e l’ex procuratore generale d’Irlanda Peter Sutherland. Dunque che aveva fatto di tanto particolare il povero Barroso? Nulla, tanto più che passare dalla porta girevole è persino legale.
Inutile dire che è alla Casa Bianca, tuttavia, che Goldman Sachs ha consolidato la propria influenza sulla politica mondiale, avendo sacrificato alla patria risorse professionali del calibro di Henry Paulson (amministrazione Bush jr), Robert Rubin (Clinton), Timothy Geithner (Obama), Gary D. Cohn e Steven Mnuchin (Trump). Certo, finanziare generosamente le campagne elettorali dei candidati ha il potere di aumentare la considerazione dei manager di Goldman – come dei manager di tutte le altre grandi banche che finanziano la politica – ma il sistema democratico americano funziona così. E’ in Europa, semmai, che siamo abituati a pensare che il potere politico debba mostrarsi autonomo e indipendente dal potere finanziario.
Dico “siamo” per non arrendermi a dire “eravamo”. Oggi infatti il capo di Goldman Sachs propone pubblicamente di ripetere il voto sulla Brexit e la politica europea, anziché reagire a questa duplice ingerenza (della Finanza sulla Politica e dell’America sull’Europa), si rifugia in un imbarazzante silenzio. Come se non osasse scegliere tra la vox populi e la vox dei. Come se Blankfein, quella volta, non l’avesse poi spiegato …che scherzava.
di Alessandro Montanari – 21/11/2017 Fonte: Interesse Nazionale

La Polonia riduce l’età pensionabile, sfidando il trend europeo

Fornero piangentesi può allora fare diversamente, meno male che in Italia questi pensionandi oltre a decenni di contribuzione li indebitiamo con le banche per accedere a quello che un tempo era un diritto. EVOLUZIONE europea, fantastica, LE BANCHE RINGRAZIANO.

Per fortuna da noi la tecnica resposabile Fornero ha “protetto” i conti pubblici (mo a sta balla ci credono in pochi)

Ma siamo matti pensare al popolo, sa di xenofobia e populismo…salviamo le banche

Dai che abbiam problemi seri, tipo Cristoforo Colombo e le guerre puniche di sto passo..

La Polonia riduce l’età pensionabile, sfidando il trend europeo

Come riporta Reuters, pare che nel mondo sia possibile essere un’economia più piccola di quella italiana, permettersi una propria moneta, crescere a ritmi del 3,9 per cento, fare politiche demografiche attive e addirittura abbassare l’età della pensione. Fortunatamente ci pensano gli austeri banchieri a ricordare a tutti il più grande pericolo per l’umanità, ossia che gli stipendi dei lavoratori crescano troppo velocemente. E che è proprio un peccato che certi governi tengano addirittura fede alle proprie promesse elettorali.
 
Varsavia (Reuters) – Lunedì la Polonia abbasserà l’età pensionabile, onorando una costosa promessa elettorale che il partito conservatore al governo aveva fatto, e andando controcorrente rispetto alle tendenze europee a incrementare gradualmente l’età della pensione, mentre le persone vivono più a lungo e rimangono più in salute.
L’abbassamento dell’età pensionabile a 60 anni per le donne e a 65 per gli uomini è un provvedimento caro soprattutto ai sostenitori del governo di centro-destra (sì, avete letto bene, anche in Polonia è il centro-destra a preoccuparsi degli interessi dei lavoratori NdVdE) del Partito della Legge e della Giustizia (PiS), e inverte un provvedimento che l’aveva portata a 67 anni, approvato nel 2012 dal governo centrista allora in carica.
 
Il provvedimento dovrebbe avere impatti immediati limitati sull’economia, che è in fase di boom, ma potrebbe mettere sotto pressione il bilancio statale in futuro.
 
Questa mossa avviene mentre la disoccupazione in Polonia è scesa ai livelli più bassi dai tempi dell’abbandono del comunismo all’inizio degli anni ’90, e potrebbe aumentare la tensione sui salari che stanno già crescendo al ritmo più alto da cinque anni a questa parte (Orrore! I salari crescono e l’età della pensione cala! È proprio vero che fuori dall’eurozona c’è solo l’inferno NdVdE).
 
“Il mercato del lavoro polacco deve affrontare una disponibilità sempre più limitata di lavoratori” ha dichiarato Rafal Benecki, un economista di Varsavia che si occupa dell’Europa Centrale presso ING Bank.
 
La popolazione della Polonia è di 38 milioni di abitanti e sta invecchiando a uno dei ritmi più rapidi all’interno dell’Unione Europea.
 
“Il governo sta buttando via uno degli strumenti più efficaci per aumentare la partecipazione al mercato del lavoro”, ha detto Benecki (commovente come un banchiere si preoccupi che non ci sia abbastanza concorrenza – da parte dei loro nonni – per i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro NdVdE).
  • I lavoratori che vengono dall’Ucraina
Gli economisti e i banchieri centrali dicono che il crescente afflusso in Polonia di centinaia di migliaia di lavoratori provenienti dall’Ucraina potrebbe ridurre la tensione sui salari (ecco un’altra tendenza che accomuna i banchieri: la tutela degli immigrati quando questi possono fare concorrenza ai lavoratori locali NdVdE).
I numeri del ministero del Lavoro mostrano che i datori di lavoro polacchi hanno richiesto più di 900.000 permessi a breve termine per i lavoratori ucraini nella prima metà del 2017, rispetto a 1.260.000 permessi totali nell’anno 2016.
 
“Con l’arrivo di lavoratori dall’Ucraina, finora il problema che alcuni avevano previsto – mancanza di lavoratori, tensioni sul mercato del lavoro – sta diminuendo” ha detto il Governatore della Banca Centrale  Adam Glapinski all’inizio di settembre.
Il governo ucraino del partito PiS ha stimato che il costo della riduzione dell’età pensionabile è di circa 10 miliardi di zloty (eh già, perché in Polonia gli euro non ce li hanno, poveri loro… NdVdE), ossia 2,74 miliardi di dollari, nel 2018, all’incirca lo 0,5 per cento del PIL.
Da quando è andato al potere, nel 2015, l’attuale governo ha velocemente aumentato la spesa pubblica per tenere fede alle promesse elettorali di aiutare le famiglie e ridistribuire i frutti della crescita economica in modo più equo (già scorgiamo gli austeri anti-populisti nostrani scuotere la testa con veemenza di fronte a questi sciagurati provvedimenti NdVdE).
 
Nonostante la crescita della spesa pubblica, il bilancio pubblico ha registrato il primo surplus da più di due decenni nel periodo gennaio-agosto, principalmente grazie a un intervento governativo contro l’evasione fiscale e grazie ai bonus concessi per i nuovi nati, che hanno alimentato i consumi (intollerabile: non solo la Polonia fa politiche di aiuto alle famiglie per risolvere i problemi demografici, ma addirittura osa sfruttare il moltiplicatore keynesiano! NdVdE).
 
La crescita economica ha raggiunto il 3,9 per cento nel secondo trimestre, ma gli economisti avvertono che l’aumentato costo delle pensioni potrebbe causare problemi, se l’economia dovesse rallentare.
 
“Sono preoccupato di quello che succederà quando il ciclo economico si invertirà” dice Marcin Mrowiec, capo economista presso Bank Pekao.
 
“Potremmo svegliarci con salari superiori a quelli che le società possono permettersi e… spese permanentemente più alte per le pensioni” (fortunatamente invece, nell’eurozona potremo affrontare la prossima recessione con una disoccupazione vicina ai massimi storici, un’età pensionabile sulla soglia della demenza senile e uno stato sociale che ha fatto passi indietro di decenni. Evviva! NdVdE).
Di Marcin Goettig, 1 ottobre 2017 – di Malachia Paperoga – ottobre 4, 2017

Ferrara, uccide moglie e figlio e si toglie vita in strada: aspettava sfratto

ferrara omicidio suicidionon capiscono il disagio. Eh già, gli amministratori ed i cosiddetti uffici per i servizi sociali che fanno, dormono? Non hanno idea chi nel loro comune è sotto sfratto? Tanto che fanno? Case per loro NON CI SONO. Per loro l’italiano è ricco ed evasore. Le vite da salvare? Certo non degli italiani che pagano lo stipendio DEI LORO ASSASSINI


Ferrara, uccide moglie e figlio e si toglie vita in strada: aspettava sfratto
A Ferrara, un 77enne ha sparato e moglie e figlio prima di dare fuoco alla casa e poi, in strada, togliersi la vita

Ha sparato alla moglie 73enne Mariella Mangolini e al figlio Giovanni, 48 anni, uccidendoli. Poi ha dato fuoco all’abitazione, in pieno centro a Ferrara, quindi è sceso in strada e si è tolto la vita con un colpo di pistola. Un dramma familiare che ha come protagonista un antiquario di 77 anni, Galeazzo Bartolucci. Il suo corpo è stato trovato intorno alle 7.30 sotto i portici dell’Oca Giuliva, in via Boccacanale di Santo Stefano, di fronte al civico 32: un commerciante in zona ha sentito l’esplosione dei colpi di pistola e ha avvertito le forze dell’ordine. Per terra, accanto al corpo, c’era una pistola a tamburo calibro 38 con al quale l’uomo si era appena sparato. Trovati anche i corpi senza vita di due gatti.

Lo sfratto
Sono ancora da chiarire le ragioni, ma per gli investigatori si tratterebbe di un omicidio suicidio. Ma l’origine dela tragedia familiare è forse da cercare nelle condizioni economiche dell’ex antiquario, molto noto in città. L’uomo attendeva lo sfratto esecutivo dall’abitazione in piazzetta privata Fratelli Bartolucci: a mezzogiorno, l’ufficiale giudiziario avrebbe dovuto dare corso al provvedimento. Un mese fa era avvenuto il primo accesso di sfratto non eseguito perché la casa era piena di mobili e da svuotare.

L’assessore, «amarezza per non aver capito il disagio»
«La famiglia Bartolucci non si è mai rivolta all’ufficio abitazioni» del Comune di Ferrara «per richiedere un’eventuale assistenza dovuta ad emergenza abitativa, come non risultano contatti negli ultimi anni con l’Asp per problematiche sociali». Lo chiarisce l’assessore comunale al Welfare di Ferrara Chiara Sapigni, intervenendo con una nota sulla tragedia avvenuta nel centro storico. «Resta pertanto – prosegue l’assessore – una grande amarezza e il rammarico di non aver potuto capire il grande disagio che la famiglia stava vivendo ma che, forse, per dignità ed orgoglio non si è avvicinata ai servizi comunali preposti».
4 agosto 2017 (modifica il 4 agosto 2017 | 16:39)
http://www.corriere.it/cronache/17_agosto_04/ferrara-uccide-moglie-figlio-si-toglie-vita-strada-34f1eb3a-78f2-11e7-9267-909ddec0f3dc.shtml

 

Istat: “In Italia cinque milioni di poveri assoluti”

Poverta-assoluta-raddoppiata-in-9-anniaggiungiamo a questo numero anche chi vive in condizioni di povertà relativa e peggio ancora i working poors (ossia i lavoratori che percepiscono un reddito incapace di garantire una minima sopravvivenza)?. Non contiamoli, fingiamo che non esistano mi raccomando, noi dobbiamo salvare i profughi economici da altrove. Questo sì che è civile. Bisogna poi salvare le BANCHE, GUAI A “SPRECARE” SOLDI PER IL REDDITO DI CITTADINANZA.
Abbiamo un tasso di occupazione del 57% (sorvoliamo sul fatto che vengano inclusi anche chi lavora 1 ora in un anno con i voucher et similia) chi se ne frega di come vive SENZA REDDITO il 43%, saran tutti ricchi figli di papà, con le LAUTISSIME PENSIONI elargite agli italiani c’è di che spassarsela, 63% delle pensioni SOTTO I 750 EURO.
In questo quadro, si deve ancora subire anatemi e paternali da parte di politicanti da 20 MILA EURO AL MESE sulla loro indignazione a fronte delle basse cifre dichiarate nei redditi da parte degli italiani? Ma cos’è scherzi a parte? Ormai pare che lo sport che le sanguisughe al potere amano di più sia OFFENDERE gli italiani mentre li condannano a morte per fame.
 
In 6 anni 85 MILIARDI ALLE BANCHE, solo nel DEF 2017 quasi 5 MILIARDI (sono molti di più considerate le voci scorporate per le varie operazioni collegate) per gli indigenti italiani? 2 miliardi per 400 mila famiglie, per essere un reddito di inclusione DI POVERI NE ESCLUDE PARECCHI.
 
L’Istat ha stimato in 17 milioni 469 mila le persone a rischio povertà o esclusione sociale in Italia nel 2015. Una percentuale pari al 28,7% degli abitanti. Secondo la Strategia Europea contro la povertà, entro il 2020, l’Italia dovrebbe ridurre gli individui a rischio sotto la soglia dei 12 milioni 882 mila FONTE
Istat: “In Italia cinque milioni di poveri assoluti”
 
In situazione di indigenza 1,6 milioni di famiglie. Peggiora la situazione dei giovani
 
La povertà in Italia non scende. Anzi per le famiglie con tre e più figli aumenta in maniera drammatica. La fotografia dell’Istat, in attesa che decollino concretamente le nuove iniziative del governo (il nuovo Sia, il Sostegno di inclusione attiva andrà a regime solo dopo l’estate), è desolante. Nel 2016, infatti, si stima siano ancora 1 milione e 619 mila le famiglie residenti in condizione di povertà assoluta, nelle quali vivono 4 milioni e 742 mila individui. Rispetto al 2015 si rileva una sostanziale stabilità della povertà assoluta in termini sia di famiglie sia di individui, segno che la situazione economica del paese stenta a migliorare. Tant’è che l’incidenza di povertà assoluta sul totale delle famiglie è pari al 6,3%, praticamente in linea con i valori stimati negli ultimi quattro anni. Per gli individui, l’incidenza di povertà assoluta si porta al 7,9% rispetto al 7,6% del 2015, una variazione che però l’Istat definisce “statisticamente non significativa”.
Tra le famiglie con tre o più figli minori l’incidenza della povertà assoluta aumenta quasi del 50% passando dal 18,3 al 26,8%. Ad essere coinvolte sono così 137.711 famiglie ovvero 814.402 individui. Aumenta anche l’incidenza fra i minori che sale dal 10,9% al 12,5% e nel complesso interessa 1 milione e 292 mila soggetti. L’incidenza della povertà assoluta, specifica l’Istat nel suo ultimo rapporto, aumenta al Centro in termini sia di famiglie (5,9% da 4,2% del 2015) sia di individui (7,3% da 5,6%), a causa soprattutto del peggioramento registrato nei comuni fino a 50mila abitanti al di fuori delle aree metropolitane (6,4% da 3,3% dell’anno precedente).
 
Rispetto al 2015 la povertà relativa risulta stabile: nel 2016 riguarda il 10,6% delle famiglie residenti (10,4% nel 2015), per un totale di 2 milioni 734mila, e 8 milioni 465mila individui, il 14,0% dei residenti (13,7% l’anno precedente). Anche questa condizione è più diffusa tra le famiglie con 4 componenti (17,1%) o 5 componenti e più (30,9%) e colpisce di più i nuclei giovani: raggiunge infatti il 14,6% se la persona di riferimento è un under 35 mentre scende al 7,9% nel caso di un ultra sessantaquattrenne. Ultimo dato: l’incidenza di povertà relativa si mantiene elevata per gli operai e assimilati (18,7%) e per le famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione (31,0%).
Pubblicato il 13/07/2017
Ultima modifica il 13/07/2017 alle ore 15:58 paolo baroni

Francia: la sinistra mondialista acclama il nuovo “enfant prodige” Macron, paladino della finanza cosmopolita.

epa05948994 Supporters of French presidential election candidate for the 'En Marche!' (Onwards!) political movement Emmanuel Macron (not pictured) gather at the Carrousel du Louvre to discover the results of the second round of the French presidential elections in Paris, France, 07 May 2017. EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON

Tutto come previsto il risultato al primo turno delle elezioni presidenziali in Francia: vincono i due candidati largamente favoriti, Emmanuel Macron e la Marine Le Pen.

Il primo, il giovane Macron, rappresenta largamente l’establishment della grande finanza e dell’elite politica dominante in Francia, quella collegata con la massoneria ed i circoli dei potentati finanziari sovranazionali.
Che sia di centro o che sia di destra o che appartenga alla sinistra social democratica (quella stessa sinistra squalificata del presidente uscente Francois Hollande), conta poco o nulla. Si tratta soltanto di distinzioni formali dei vecchi schemi del 900 ormai obsoleti.
Infatti non a caso tutti i partiti e gli altri candidati, da Fillon al candidato socialista Benoit Hammon, tutti sconfitti nella contesa elettorale, hanno già proclamato l’intenzione di creare un fronte comune contro la candidata Marine Le Pen, del Front National, considerata un “pericolo” per l’establishment visto il suo programma di uscita dall’euro, abbandono della NATO, difesa delle frontiere e riavvicinamemto alla Russia.
L’unica eccezione il candidato dell’estrema sinistra, Jean-Luc Mélenchon, quello che veniva considerato il Tsipras francese, non ha ancora dato al momento indicazioni precise su chi votare al ballottaggio del secondo turno. Lui è fuori dai giochi ma il suo elettorato non è detto che dia necessariamente i suoi voti al condidato della finanza ipercapitalista Macron. Esiste quindi un margine di rischio per una possibile vittoria di Macron.
In ogni caso, il fronte unito dei globalisti che si andrà a coalizzare contro la Le Pen è caratterizzato dal neoliberismo, quale elemento comune ed ideologia di base.
Si tratta di quel fronte che aborrisce qualsiasi forma di allontanamento della Francia dalla UE e dal sistema dell’euro e che vuole fermamente continuare a mantenere la Francia al servizio degli interessi della grande finanza e della politica di dominazione egemonica USA, quella che vede le nazioni europee come vassalli di Washington, inesistenti sul piano internazionale. In una parola il fronte della conservazione.
Bisogna considerare che Il proletariato e la piccola borghesia francese, vittime della globalizzazione finanziaria, attraverso un voto alternativo ai denominati “populisti” come la Le Pen, stava tentando di uscire dal paradigma liberal-libertario e da quello del pensiero unico. Il panorama politico nazionale francese sta di fatto crollando, con i vecchi partiti storici ormai squalificati ed alcun forze come il FN ed altre, cercano di ricomporlo sulla base di una nuova presa di coscienza dei ceti produttivi marginalizzati dalle politiche neoliberiste dei governi asserviti agli interessi dei potentati finanziari.
 
A questo tentativo di ricomposizione, con tutti i limiti dati dalle caratteristiche della Le Pen e dalle sue ambiguità su alcune tematiche della contrapposizione al sistema globalista, il fronte neoliberista ha risposto ricompattandosi e presentando il suo candidato “enfant prodige”, Emanuel Macron.
Questo giovane “rampollo dell’alta borghesia”, vanta poca esperienza ma dispone di molti titoli: banchiere presso la potente banca Rothshild, specializzato nella Ena, l’alta scuola per quadri amministrativi da cui è uscita una buona parte della elite politica transalpina, con un professato impegno a sinistra, milionario grazie ai buoni affari realizzati con le multinazionali (Nestlè e Pfizer), membro dei circoli liberali che contano, come l’Istituto Montaigne, vicino alla Confindustria, sostenitore dell’immigrazione, della società multiculturale e cosmopolita, fervente sostentore dell’atlantismo e dell’interventismo francese a seguito degli USA (il vecchio “sub imperialismo” praticato dalla Francia in Africa e Medio Oriente).
Su di lui punta il fronte neoliberista, quello della grandi banche, della Confindustria e della oligrarchia europea di Bruxelles per mantenere sistema e privilegi della classe dominante. Non a caso a Macron sono già arrivate le congratulazioni della Merkel e dei responsabili della UE che vedono il lui lo “scampato pericolo” (se proseguirà ad avere i consensi al secondo turno).
 
Esiste però un problema: questo giovane candidato non sembra possedere carisma, al contrario i discorsi li legge e lui stesso dice che a volte non capisce cosa gli scrivono, si limita a ripetere frasi banali e generiche come “innovazione” e “riforme” mentre dimostra una certa prevenzione e disprezzo verso gli strati popolari della società francese definiti da lui in più occasioni come “illetterati” o “avvinazzati”. Macron loda i vantaggi dell’ipercapitalismo ed esalta la corsa all’arricchimento individuale, oltre a sostenere che non esiste una cultura francese ma piuttosto una cultura multipla.
Sarà davvero questo il personaggio a cui gli strati popolari francesi, quelli dei piccoli produttori, agricoltori, artigiani e piccoli commercianti, rovinati dalle politiche di Bruxelles e dalla globalizzazione, daranno il loro voto? Qualche dubbio esiste e qualche speranza per la Marine Le Pen al secondo turno.
Apr 24, 2017 di  Luciano Lago

Ancora sulla necessaria fine di questa “Europa”

guerraun pò come per l’unità d’Italia, la favella che i popoli decisero spontaneamente di unirsi d’amore e d’accordo è assai desueta. I popoli non vogliono le guerre, le decidono sempre quella stessa gentaglia che decise anche la nascita della UE, quella gente parassita dell’elite


Leggo sul profilo Facebook di un amico, storico di professione, studioso dell’Africa e buon conoscitore delle vicende mediorientali, un amaro e preoccupato commento suscitato dall’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea nel quale egli paventa il rischio, dopo “decenni di pace”, d’impugnare di nuovo le armi uno contro l’altro dopo un crescendo di attriti e rivendicazioni frontaliere e doganali. Teme – conclude l’amico – una Terza guerra mondiale alimentata anche dagli “istinti delle masse”.
 
Stabilito che su quest’ultimo punto non posso non dargli ragione in quanto “le masse”, composte da individui non qualificati a decidere ma illusi di saperlo fare, sono effettivamente una delle sciagure del mondo moderno (purché non ce se ne preoccupi solo quando sostengono i “populismi”), passo ad una rispettosa critica, o meglio una messa a punto su quella che pare essere una comprensibile preoccupazione di chi scorge all’orizzonte, deluso da questa Europa ma ancora “europeista”, foschi scenari, per non dire apocalittici.
I “decenni di pace” sono stati garantiti non dall’UE o dai suoi prodromi (CECA, CEE…), bensì dal fatto che dopo la Seconda guerra mondiale (“secondo tempo” della Prima, che non è possibile attribuire solo alla “competizione interimperialistica” come sostiene una certa storiografia) l’Europa propriamente detta (occidentale ed orientale) è stata divisa in un “condominio” (Usa/Urss) che ha spostato la conflittualità armata negli altri continenti facendosi guerre per interposta persona. Nel frattempo, mentre godevamo della “pace” (intesa come assenza di guerra), internamente le popolazioni europee (in specie quelle occidentali) si sono sfaldate fino a giungere all’odierno triste spettacolo di una società di “nuovi barbari” (o “selvaggi con telefonino”, per dirla alla Blondet), mentre almeno quelle dell’Europa orientale conservano alcuni valori basilari che le rendono ancora maggiormente “vitali” dimostrando con ciò che il sovietismo, se incarcerava i corpi, almeno lasciava liberi gli “spiriti” (l’esatto contrario dell’americanismo).
Dunque, si deve aver paura che, con un’eventuale fine dell’UE, torneremo alle guerre in Europa? Ci può anche stare. Ma questo non avverrà per congenite “tare” degli europei, bensì per il semplice fatto che l’Europa tornerà ad essere campo di battaglia di chi (gli Usa) non sarà disposto a mollarla perché la considera “terra nostra o di nessuno” (per questo è disseminata di ordigni nucleari puntati contro la Russia).
L’unica speranza per noi sarebbe un’alleanza (da pari) con la Russia, in una prospettiva non meramente euro-russa, ma eurasiatica, poiché la Russia è effettivamente il perno del cosiddetto “vecchio mondo” (come lo chiamano gli americani).
L’UE, in definitiva, è una specie di occasione perduta (nella migliore delle ipotesi), ma assai più probabilmente è stata la “gabbia” che, nel torno di tempo tra fine anni Ottanta e inizio Novanta, è stata approntata affinché gli europei, liberi finalmente dal ricatto del “pericolo comunista”, non andassero liberamente verso una collaborazione coi territori immediatamente confinanti, ovvero quelli dell’immenso spazio eurasiatico e, perché no, quelli al di là del Mediterraneo, dove qualcuno come Gheddafi aveva una visione “africana” e, in prospettiva, euro-africana.
Che cosa resta oggi di questo “sogno europeo” dei cosiddetti “padri fondatori” (molto cosiddetti in quanto non rappresentavano nessuno) dell’Europa Unita?
Restano l’inclusione nella Nato di tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia; resta una moneta-merce strutturalmente debito che in pratica ci ha rovinato; restano le “regole”, assurde e paranoiche di questa burocrazia europoide che con la sua “Corte di Giustizia” sanziona a destra e a manca se non ci si adegua alla pseudo-religione dei “diritti”. E mi fermo qui perché l’elenco dei “fallimenti” (se ci fosse stata buona fede) è lungo.
Qualcuno mi deve spiegare perché mai l’UE dovrebbe rimanere in piedi: per farci fare le vacanze senza passaporto? Per non dover cambiare i soldi? Le imprese, da quando è stata adottata (dai più fessi) la “moneta unica” hanno subito solo un salasso, in quanto l’euro è di proprietà di privati che lo vendono (lo “prestano”) agli Stati e dunque alle imprese (e alle famiglie). Stanno cercando addirittura d’imporci un terrificante TTIP, che adeguerebbe tutta la nostra normativa vigente al livello più “liberista”, cioè quello d’Oltreatlantico.
Il concetto di “frontiera” così come quello di “nazionalità” (sostituito da quello di “cittadinanza”) è diventato talmente fluido che sembra di stare in un circolo dove si paga la quota e si ottiene la tessera.
La sicurezza, senza alcun vaglio della posizione di chi ottiene un “permesso di soggiorno”, è diventata chimerica. Non parliamo poi di come, dagli anni Novanta, questa “fortezza Europa” (in verità un colabrodo) ha permesso a un sacco di gente che non ne aveva diritto di spacciarsi per “profugo” (categoria giornalistica in quanto giuridicamente si parla di “rifugiati”), con la ciliegina finale caduta sulla torta quando abbiamo subito (dopo anni di autogol: Iraq 1991 e 2003, passando per l’embargo assassino; Jugoslavia anni Novanta con attacco della Nato nel 1999) la cosiddetta “primavera araba” targata Cia in un modo che definire autolesionistico è puro eufemismo.
 
La disamina qui accennata per sommi capi e in ordine sparso non induce a considerare l’UE un qualche cosa di necessario. Certo, va ripensato il tutto, cioè la questione di una confederazione continentale nell’era della politica dei grandi spazi (altrimenti si finisce nelle “piccole patrie” subito fagocitate dalla globalizzazione), ma si deve cominciare dall’alto, da ciò che qualitativamente è superiore, e cioè dal senso dell’operazione che s’intende compiere; non dal basso, solleticando le masse “desideranti” illudendole delle magnifiche sorti e progressive di un progetto senz’anima strombazzato come un prodotto da supermercato.
 
Posted on marzo 31, 2017 – di Enrico Galoppini

 

Sganciato dalla moneta unica L’ euro perde un altro pezzo: la Repubblica Ceca si sgancia

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Praga come Berna. Il governo della Repubblica Ceca ha imitato la Svizzera tagliando il cordone ombelicale che legava la sua valuta all’ euro. Niente più cambio fisso a 27 corone per un euro come negli ultimi tre anni. Dopo l’ annuncio la moneta unica si è svalutata 3% a 26,6. Secondo gli esperti si stabilizzerà intorno a 26,1 Ovviamente il gesto compiuto dal governo del piccolo stato dell’ est ha un significato politico molto alto. Niente a che vedere con la Banca centrale svizzera che ha fatto un semplice calcolo di convenienza finanziaria.
 
La decisione del premier Bohuslav Sobotka ha una forte valenza simbolica. Un’ altra picconata alla costruzione europea. La Repubblica Ceca fa parte della Ue: vuol dire che la sua corona, prima o poi era destinata a finire nel calderone della moneta unica. Invece il governo di Praga ha deciso di riguadagnare la libertà di fluttuazione. Non è un gesto paragonabile alla Brexit però all’ orecchio dei mercati suona come una nuova presa di distanza da Bruxelles.
Ora tutta la partita è in mano ai francesi che votano fra due settimane. Al primo turno la vittoria di Marine Le Pen appare scontata. Bisognerà vedere il ballottaggio. L’ anno scorso non andò benissimo. I candidati del Front Nationale Avevano vinto al primo turno ma poi sono stati battuti dal vecchio “patto repubblicano” che unisce gollisti e socialisti.
 
La missione della Le Pen questa volta non appare impossibile. Sia per la maturazione dell’ elettorato francese sia perchè Emmanuel Macron il suo più accreditato rivale non appare irresistibile La decisione della Repubblica Ceca per quanto il Paese sia marginale nell’ ambito dell’ economia della Ue sembra il canto del canarino nella gabbia. Indica l’ avvicinarsi di un grande pericolo.
 
Tre anni fa la Banca centrale ceca aveva deciso di introdurre il cambio fisso con l’ euro per evitare che un eccessivo rialzo della propria moneta inasprisse la deflazione. La Bce, come qualche anno prima la Fed, ha azionato nel 2015 il quantitative easing per tenere basso l’ euro. La Banca di Praga ha risposto (muovendosi anche in anticipo) creando un ancoraggio artificiale. In questa maniera ha evitato la gelata sui prezzi.
 
«Bloccare il cambio però comporta dei costi – spiega Vincenzo Longo, strategist di Ig. Per questa ragione Praga ha deciso di lasciare fluttuare liberamente la corona dopo tre anni di interventi». In quattro anni l’ istituto centrale ha acquistato 47,8 miliardi di euro. Tanto è costato mantenere il cambio fisso a 27. Adesso le sue riserve valutare ammontano a 110 miliardi di euro. Un tesoro sufficiente per dormire tranquilli.
 
Due anni fa la Svizzera si era dissanguata per bloccare il franco a 1,20. Poi, però, la speculazione ha vinto come sempre in questi casi. Se le divergenze fra le diverse economie diventano troppo grandi è impossibile tenere il cambio. E difatti negli ultimi anni i risultati della Repubblica ceca sono stati costantemente migliori dell’ eurozona. I prodotto interno lordo è cresciuto del 2,3% nel 2016. Certo è calo rispetto al +3,5% del 2016, ma più in alto del +1,7% esibito dall’ area euro.
 
Dal 2008 il confronto tra le due aree è ancora più ampio.
 
Il Pil dell’ area euro è riuscito a riportarsi in positivo (dopo il crollo del 2009) e oggi vale il 4,6% in più. Nello stesso arco temporale la Repubblica Ceca ha archiviato una crescita del 9,2%. Alla fine la piccola tigre dell’ est si stancata delle lentezze del resto d’ Europa e ha deciso di correre per i fatti suoi.
di Nino Sunseri

Londra: attentato contro la Brexit

attentato BrexitIsis, la creatura dell’Occidente per servirlo.


Ormai pare accertato: a colpire Londra è stato il Terrore. Ancora non si sa se l’assassino di turno abbia agito da solo o in collegamento diretto con la rete dell’Isis, ma il suo scopo è stato raggiunto egualmente. L’attentato segue il quasi-attentato in Francia di una settimana fa, quando a Orly un tizio ha rubato l’arma a una soldatessa ed è stato prontamente freddato. Queste ultime iniziative del terrorismo sono ben diverse dalle precedenti, molto più elaborate e ben più tragiche (vedi Nizza e Charlie Hebdo in Francia e Orlando negli Stati Uniti).

Il che segnala una certo indebolimento della rete del Terrore, che risulta meno efficace di un tempo (anche se può riprendere vigore). D’altronde di colpi ne ha subiti, e molti: in Siria e Iraq gli sciiti (iracheni, siriani e iraniani) e i russi stanno flagellando le bande armate affiliate alla jihad globale.

Un’azione martellante nella quale stanno trascinando anche, sebbene a strappi, gli Stati Uniti, il cui intervento è stato finora alquanto ambiguo e contrastato, forse perché l’azione di tale jihad nei due Paesi, per una eterogenesi dei fini alquanto palese, collimava con i piani dei neconservatori (alquanto influenti nell’esercito Usa) che prevedono, tra le altre cose, la partizione di Iraq e Siria in più Stati.

Nonostante questo, la rete del Terrore ha dimostrato di essere purtroppo ancora vitale, capace cioè di iniziative come quella londinese.
A essere preso di mira è stato il Parlamento, che è il cuore della democrazia in quanto simbolo della sovranità popolare. Quella sovranità popolare che si era espressa nel referendum dello scorso giugno, decretando la Brexit. Un esito imprevisto della consultazione popolare, che ha trovato non poche forze ostative alla sua attuazione, a vari livelli.

Proprio in questi giorni, vinte a fatica tali forze ostative, la premier Theresa May ha annunciato l’avvio della procedura per tagliare il cordone ombelicale che lega Londra alla Ue, che inizierà il 29 marzo. Si può immaginare che la coincidenza temporale dell’avvio vero e proprio della Brexit con l’attentato a Londra sia una mera coincidenza. Ma il Terrore globale non conosce coincidenze, solo obiettivi e simbolismi (esoterici, come detta la sua natura). Nel caso specifico si è voluta colpire la sovranità popolare, che si è affermata contro le ragioni della Finanza globale, che aveva puntato tutto sul Remain. Non che tutti i broker e i dipendenti di banca inglesi abbiano votato Remain, anzi. Ma la Finanza in quanto tale non poteva accettare l’opzione Brexit perché mina alla radice la globalizzazione, quell’ordine costituito ormai dato per permanente che l’ha resa forza egemone del mondo, relegando la politica (e la sovranità popolare) alla marginalità.

Non solo la Finanza, anche il Terrore ha nella Brexit un nemico esistenziale. Il Terrore globale, infatti, è nato proprio a seguito e grazie alla globalizzazione. Ne è un prodotto necessitato.La globalizzazione, almeno quella conosciuta finora, vampirizza il ceto medio, crea masse di emarginati, abbatte barriere, confini, destabilizza società e Stati, creando l’humus perfetto nel quale può allignare e alimentarsi la Paura e il terrorismo. Non solo, se la Finanza non è più libera di vagare a suo piacimento, anche la Finanza oscura, quella creata dal Terrore globale e ad esso destinata, vede erodere i propri margini di manovra.

Ancora: la fine della globalizzazione, che si compirebbe se l’onda di marea iniziata con la Brexit e montata con la vittoria di Trump si abbattesse sull’Europa, creerebbe nuovi scenari geopolitici.

Uno di questi scenari vede la possibile convergenza dell’Occidente e dell’Oriente, Russia e Cina in particolare, contro il Terrore globale. Scenario peraltro probabile, se si sta ad esempio a quanto annunciato da Trump nella campagna elettorale che l’ha visto vittorioso. Per una bizzarra eterogenesi dei fini, infatti, la globalizzazione crea una rete di Terrore globale ma, allo stesso tempo, alimenta divergenze tra Est e Ovest.

Alla radice di tale divergenza la volontà di Mosca e Pechino di non subordinate le ragioni di Stato a quelle della Finanza globalizzata, della quale pure usano.

Il Terrore globale ha una capacità di elaborare molto sofisticata. Sa bene chi sono i propri nemici irriducibili. E sa bene le conseguenze della Brexit. Così ha colpito al cuore dell’Inghilterra. A monito e futura memoria (a breve si decide il destino della Francia: le elezioni possono determinare la Frexit e quindi la fine della Ue). Gli agenti della Paura sanno perfettamente che la Brexit, ponendo non poche criticità alla globalizzazione, mina anche la loro sopravvivenza. Da qui il suo nervoso attivismo.

Un attivismo che ha ricordato un po’ l’infausto 11 settembre, con la povera premier Theresa May portata via dalla sicurezza come allora avvenne per l’imbelle George W. Bush. Ma l’Inghilterra ha alle spalle una storia diversa da quella degli Stati Uniti. Durante la seconda guerra mondiale il Parlamento continuò a riunirsi anche sotto i bombardamenti nazisti. Un pregresso che conforta.
Notizia del: 24/03/2017 PICCOLE NOTE

http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-londra_attentato_contro_la_brexit/16658_19443/

 

DOPO I SACRIFICI PER ENTRARE NELL’EURO E I SACRIFICI PER RESTARE NELL’EURO, I SACRIFICI PER USCIRE DALL’EURO

k1426303La cronaca “europea” della scorsa settimana è stata segnata dalle dichiarazioni, poi parzialmente rimangiate, del cancelliere tedesco Angela Merkel su una “Europa a due velocità” da formalizzare già al prossimo vertice di Roma. I media hanno sbrigativamente tradotto le posizioni della Merkel con l’ossimoro di una “doppia moneta unica”, una per i Paesi del nord ed un’altra per i Paesi del sud. Non sono mancati i consueti commenti circa l’influenza della campagna elettorale in Germania su questa presa di distanze della Merkel dalla consueta dogmatica dell’Unione Europea.
In realtà i Tedeschi sono scontenti dell’UE perché gli è stato fatto credere che il crollo dei loro redditi sia causato dalla necessità di sacrificarsi per soccorrere i cosiddetti PIIGS. Dato che così non è, alla Merkel basterebbe consentire un aumento dei salari in Germania per fare tutti contenti, all’interno come all’esterno. Un aumento della domanda in Germania stimolerebbe l’economia dei Paesi UE più in difficoltà ed il contestuale aumento del costo del lavoro nella stessa Germania renderebbe le merci tedesche un po’ meno competitive, diminuendo così il destabilizzante surplus commerciale tedesco.
Ma ciò non accadrà, poiché l’UE non era affatto nata per favorire l’integrazione economica dell’Europa. Gli interessi erano soltanto finanziari e militari. La deflazione causata dall’euro rende più forti i creditori nei confronti dei debitori, e quindi va a favore delle multinazionali finanziarie. Gli USA sono stati determinanti nella nascita dell’euro e nella sua conservazione, poiché l’euro consente di compattare in funzione anti-russa Paesi che, come l’Italia, rischiavano di farsi risucchiare economicamente nell’orbita della Russia. Sino a qualche anno fa gli USA erano disposti a pagare il prezzo salato che l’euro comportava in termini di depressione dell’economia mondiale. Pare che non siano più disposti oggi, dato che le merci tedesche hanno invaso il mercato statunitense a causa della sottovalutazione dell’euro rispetto all’effettivo potenziale dell’economia della Germania. D’altro canto il presunto “disimpegno” americano in Europa potrebbe davvero cambiare qualcosa? E’ vero che gli USA non sono riusciti a mettere Putin all’angolo, che i costi dei loro impegni militari sono mostruosi, ma sembra esserci la necessità di una riorganizzazione della gerarchia internazionale senza la quale il “protezionismo coloniale” avrebbe qualche difficoltà. Senza una ostentazione di forza militare da parte degli USA, altri paesi potrebbero rispondere a loro volta col protezionismo. Certo è che l’UE e l’euro sarebbero travolti non tanto dai dazi ma da una svalutazione del dollaro che, per ora, non è arrivata.
Non sarebbe comunque la prima volta che gli USA distruggono ciò che essi stessi hanno creato perché non gli fa più comodo. Nel 1919 il presidente USA, Woodrow Wilson, impose la nascita della Jugoslavia per impedire all’Italia il controllo del Mare Adriatico. Per sostenere la sua posizione Wilson non esitò ad accusare l’Italia di imperialismo (per la serie del bue che dice cornuto all’asino). La stessa Jugoslavia negli anni ‘90 è stata poi distrutta dagli USA in concerto con la Germania e, grazie ad una notevole manipolazione mediatica, anche le “sinistre radicali” furono indotte a plaudire al “risveglio etnico” che dissolveva Stati che erano apparsi prima inamovibili.
Pur collocata dagli USA sul maggiore scranno della UE, la Germania non ha mai mostrato di credere realmente in questa costruzione. Nel 2003 tramontava l’illusione del governo francese di poter usare l’euro per acquistare direttamente materie prime sui mercati internazionali, poiché l’invasione USA dell’Iraq servì appunto a punire Saddam Hussein per il fatto che vendeva petrolio in cambio di euro invece che di dollari. Nello stesso 2003 il governo tedesco lanciò il piano Hartz per ridurre i salari in Germania. Il governo tedesco non si accontentava quindi del vantaggio che l’euro consentiva alle merci tedesche, ma apriva addirittura una corsa a comprimere il costo del lavoro in modo da accumulare il maggior surplus commerciale possibile.
Ciò indica che i governi tedeschi non hanno mai creduto alla sopravvivenza dell’UE e dell’euro; e che l’UE e l’euro, nati come armi da guerra contro la Russia, venivano usati dalla Germania anche per deindustrializzare il suo principale concorrente commerciale, cioè l’Italia, non a caso bersaglio preferito della Commissione Europea. La Germania non deve neanche affannarsi più di tanto per raggiungere il suo scopo, poiché ci pensa la lobby dello spread. La moneta “unica” è infatti un inganno. La moneta è composta di banconote e di debito pubblico, cioè di titoli del Tesoro: nel caso dell’euro le banconote sono controllate dalla Banca Centrale Europea, mentre i titoli del Tesoro sono ancora emessi dagli Stati, che però pagano interessi diversi. In questa tenaglia è stata stritolata la Grecia e si può stritolare l’Italia.
Risulta quindi fuori luogo la sorpresa suscitata dalla minaccia della Commissione Europea di mettere l’Italia in procedura d’infrazione per il famoso “zero virgola due”. La Brexit e CialTrump non hanno per niente indotto Juncker e colleghi a maggiore prudenza e buonsenso poiché la Commissione Europea, e l’apparato che la supporta, non si pongono affatto problemi di sopravvivenza dell’UE, ma ragionano esclusivamente in base agli interessi della lobby dello spread, cioè la lobby di finanzieri internazionali che esige alti interessi sul debito pubblico da Paesi che sono ancora in grado di pagarli, come l’Italia.
L’Unione Europea è un allevamento di lobbisti e costituisce il paradiso delle porte girevoli tra cariche pubbliche e carriere nel privato, ed il tutto è rigorosamente documentato da tempo, con dovizia di dettagli. La porta girevole che ha portato l’ex presidente della Commissione Europea, Manuel Barroso, alla dirigenza di Goldman Sachs dovrebbe costituire una preoccupazione urgente per tutti gli “europeisti”, i quali insistono invece a distrarci con voli pindarici. Ma gli europeisti non esistono, i lobbisti invece esistono, eccome. La delegittimazione delle istituzioni europee è tale che oggi la vera domanda che tutti si pongono è in quali multinazionali finanziarie concluderanno felicemente la loro carriera gli autori della lettera dello “zero virgola due”, Juncker e Moscovici.
 
A proposito di lobbisti mascherati, ci si è chiesti da più parti come si collochi l’ultima sortita del Super-Buffone di Francoforte in questo contesto di sfaldamento dell’UE. Mario Draghi farnetica di trecentoquaranta miliardi di euro di tangente da versare per permettere all’Italia di uscire dall’euro, quando ormai sarebbe evidente che è l’euro che sta uscendo dall’Europa.
 
La farneticazione del presidente della BCE contiene comunque un messaggio recondito, e cioè che la vita dell’euro dovrà perpetuarsi oltre la sua morte, con una scia di ulteriori sacrifici da imporre a lavoratori e risparmiatori.
La risposta immediata a Draghi dovrebbe essere quella di sottrarre il debito pubblico ai cosiddetti “mercati” (cioè la lobby dello spread) per usare i titoli del Tesoro solo all’interno, per effettuare i pagamenti della Pubblica Amministrazione e per mettere al sicuro il risparmio delle famiglie. Si tratta di una vecchia proposta, ripresa qualche giorno fa – non si sa quanto seriamente – anche dalla Lega. A rendere improbabile una tale misura di autonomia finanziaria non sono soltanto gli enormi rischi personali di chi dovrebbe adottarla, ma anche il fatto che lo spread e l’austerità si avvalgono di una lobby interna, tutta italiana, che lucra sugli alti interessi del debito pubblico, sul credito al consumo (e sul relativo recupero crediti), sul caporalato istituzionalizzato, sulle privatizzazioni e sull’intermediazione per la svendita all’estero dei patrimoni immobiliari. 09/02/2017

Dall’euro si può uscire, Merkel e Draghi hanno paura. E la Sinistra mette a rischio la democrazia

bagnai no euroalla sinistra il popolo fa schifo. Ama l’elites, che succhiano la vita dei popoli.

“Il governatore voleva incutere timore, ma in realtà ha indicato la via d’uscita. Segno che il potere non è più in grado di parlare”. “Sono preoccupato dal desiderio di censura travestito da crociata contro le fake news. I principi democratici sono in pericolo
Alberto Bagnai, docente di Politica economica, punta di diamante della schiera (sempre più folta) di economisti contrari alla moneta unica: fino a poco tempo fa auspicare o anche solo immaginare l’uscita dall’euro era considerato folle, bizzarria qualunquista e irrealizzabile. E invece…
Fino a due mesi fa solo la verità era dalla nostra parte. Ora anche Trump. L’establishment ha fatto male i calcoli. Prima ha creduto che non potesse vincere, sottovalutandolo. E lui ha vinto. Poi ha creduto che non mantenesse le promesse. E lui ha cominciato a mantenerle. Così ora è emerso il segreto di pulcinella. Ovvero che Trump nel suo programma economico, che io avevo letto a settembre, accusa la Germania di essere una manipolatrice di valuta. Questo ha suscitato una quantità di interpretazioni poco approfondite, ma è un dato riconosciuto come sostanzialmente giusto dalla letteratura scientifica e anche dalla stampa anglosassone distante da Trump, come il Financial Times. Soprattutto questa posizione ha seminato panico tra le “fila nemiche”.
In che modo?
Due dichiarazioni provenienti dal potere si sono rivelate un boomerang. Mi riferisco a quanto detto da Mario Draghi e Angela Merkel.
Partiamo da Draghi e dalle sue dichiarazioni contraddittorie sull’euro irreversibile.
Draghi ha fatto una sparata sui 358 miliardi da pagare nel caso in cui si decidesse di uscire dalla moneta unica. Lo ha fatto chiaramente con intenti minacciosi. Ma quell’affermazione si è rivelata un boomerang, perché Draghi ha fatto capire che uscire è tecnicamente possibile. Tant’è vero che è stato costretto a smentire, dicendo che l’euro è irreversibile. Ma la smentita, come dice il detto, è una notizia data due volte.
Draghi dunque ha ammesso che si può uscire dalla moneta unica. Non male direi…
Sappiamo ora che si può uscire dall’euro, visto che l’ha ammesso persino lui. Sulla natura dei saldi target 2 è in corso un dibattito, ma se fossero veramente debito pubblico li contabilizzeremmo lì e invece non lo stiamo facendo. Inoltre nei confronti di questa Europa non abbiamo solo debiti ma anche crediti, pensiamo ai 65 miliardi stanziati per salvare la Grecia, o meglio le banche francesi e tedesche che avevano fatto prestiti alla Grecia. Il punto politico è che Draghi voleva incutere paura ma in realtà ha indicato la via d’uscita. Segno che il potere non è più in grado di parlare.
Poi c’è la Merkel che dopo anni a cianciare di integrazione europea e destino unico, se ne esce con la teoria dell’Europa a due velocità, come una “populista” d’antan.
Merkel ha parlato di Europa a due velocità per rispondere a Trump, ma in questo modo ha reso evidente a tutti che questa Ue ha paura del presidente americano. E bisognerebbe chiedersi perché. Ma soprattutto parlando di Europa a due velocità ha messo in luce il vero problema dalla Ue.
Ovvero, la Francia andrebbe con il Nord o con il Sud? Tutti danno per scontato che vada con il Nord. Ma occorre ricordare che dal punto di vista macroeconomico la Francia sta addirittura peggio dell’Italia. Ha un deficit di bilancio pubblico che è circa due volte il nostro, e mentre noi siamo in surplus di bilancio nei pagamenti la Francia è in deficit, cioè non è un Paese abbastanza competitivo sui mercati internazionali.
Sarebbe la fine della Ue?
Se applicassero le famose regole dei tedeschi, la Francia dovrebbe andare nell’Europa più lenta, quella mediterranea, del cosiddetto “Club Med”. In realtà non ci andrà. Perché contano i rapporti di forza. La Francia ha la bomba atomica e la Germania no. Dunque si capisce che questa Unione si regge sui rapporti di forza, sulla violenza, sul dire io ho la bomba atomica e salgo in prima classe, tu non ce l’hai e vai in seconda. Si capisce che questa Unione nasce per risolvere una questione che non ha nulla a che vedere con i nostri problemi. La Ue nasce per il secolare conflitto tra Francia e Germania. Il problema è loro. Ma l’hanno risolto in un modo che soffoca anche noi. A mio avviso questo spiega che per l’Europa e segnatamente per l’euro le velocità giuste sono almeno 19 e non 2. Ed è lì che si arriverà.
La fine dell’euro è una prospettiva più attuabile di quanto si pensi, magari a partire dalla Germania?
La proposta che oggi tutti riscoprono, cioè che la Germania esca e lasci l’euro agli altri Paesi, la facemmo nel 2013 con Claudio Borghi e gli altri economisti del Manifesto di solidarietà europea. Ma va intesa come primo passo verso lo smantellamento dell’euro. Perché non ha alcun senso un euro di serie B, dove convivano con la forza Francia e Italia, due Paesi completamente diversi: si riprodurrebbero le tensioni attuali. Con l’uscita della Germania ci sarebbe un sollievo temporaneo, ma i problemi si ripresenterebbero.
Uscire dall’euro non è mai stata fantascienza o fantapolitica?
È fantascienza l’idea che noi potessimo restare dentro. Rimanere nell’euro aggrava tutti i nostri problemi, a partire dal debito pubblico.
Il sistema oltre a oscurare mediaticamente le teorie No euro, e quelle alternative all’establishment, potrebbe persino includerle tra le bufale e le “fake news”, i cui confini sono appositamente tutt’altro che definiti.
Per la prima volta da anni si delinea un quadro in evoluzione. E proprio per questo la situazione è molto pericolosa.
La democrazia è in serio pericolo. E non mi sarei mai sognato di dover imputare questo, io persona progressista, all’opera delle forze di sinistra. Molti politici del PD e di Sinistra Italiana, sulla falsariga di certa sinistra internazionale, stanno bandendo una crociata contro le cosiddette fake news, con l’idea che il processo politico sia determinato dal fatto che alcuni siti diffondano bufale.
Che Trump non sia il frutto di 30 o 40 anni di disuguaglianze e di schiacciamento della classe media, ma di 3 mesi di bufale su internet è un’analisi che mi umilia in quanto progressista. Mi umilia due volte. La prima è perché a sinistra un tempo si ragionava in termini di lotta di classe e non ci si baloccava con queste scemenze.
La seconda è che pare evidente come lo scopo del gioco sia il ministero della verità. Hanno paura che le persone vengano a sapere determinate cose.
Censura e dileggio viaggiano insieme…
Sono preoccupato da questo desiderio di censura, dallo screditamento del suffragio universale. La democrazia viene vilipesa quando non si comporta secondo le loro intenzioni. Questi meccanismi li abbiamo visti con la Brexit, con Trump, con il referendum costituzionale e forse li vedremo con Marine Le Pen. Se mai dovesse vincere assisteremmo al j’accuse contro il voto democratico da parte degli intellettuali. I quali non si chiedono perché le persone votano per dei politici che tutti i media propongono come impresentabili.
Lei poche settimane fa è stato tra i protagonisti del convegno “Oltre l’euro”, che bilancio fa di quell’esperienza?
Il convegno ha avuto partecipazione traversale. La Lega sta facendo informazione su temi cruciali, di interesse generale. Uno può anche non riconoscersi in altri valori della Lega, ma questo è un dato di fatto. Questo è fare politica. Sarebbe bello che fosse constatato e anche emulato. La verità è che l’intero sistema partitico e mediatico, il sistema di potere italiano, non seguirà la Lega sulla strada del fare informazione, perché ha tutto l’interesse nel non farla.
di Alberto Bagnai – 11/02/2017
Fonte: stopeuro