Grecia: i lavoratori costretti a restituire la tredicesima

grecia-crisi-debitodirei sia assai evidente perché le borse, i magnati liberisti, il capitalismo ami tantissimo i governi di sinistra e detesti i “populisti”. Da noi la situazione non è affatto diversa. Date un’occhiata ai fallimenti del 2017.


Grecia: i lavoratori costretti a restituire la tredicesima
 
Continuare a parlare della Grecia è più che mai cruciale, dopo che abbiamo letto post come questo e come questo. Ora dal blog Keep Talking Greece arriva un’altra testimonianza raggelante sulle condizioni dei lavoratori in questo paese, dove, per citare l’antropologo Panagiotis Grigoriou, è in corso un processo “che renderà i lavoratori greci schiavi dei padroni rimasti”. Questo articolo ne mostra i segni con inoppugnabile evidenza, scontrandosi con chi sproloquia di “ripresa della crescita greca” e di “cura dell’austerità che ha funzionato”. In un paese dove la disoccupazione giovanile supera il 40% e i salari sono precipitati fino a garantire a mala pena la sussistenza, la capacità dei lavoratori di resistere ai ricatti è praticamente sparita: fino al punto che si è obbligati a restituire in contanti quello che era stato messo per legge in busta paga.
Diversi datori di lavoro hanno trovato una “ricetta” per riempire i loro registratori di cassa durante i giorni di Natale: hanno chiesto indietro la tredicesima che sono obbligati – per legge – a pagare ai dipendenti.
 
Le proteste dei dipendenti sono atterrate una dopo l’altra negli uffici dei sindacati.
 
Patrasso, i lavoratori nei negozi di vendita al dettaglio, ristoranti e imprese di pulizia si sono lamentati con il sindacato dei dipendenti del settore privato che i loro datori di lavoro hanno richiesto indietro il bonus di Natale.
Diverse denunce hanno raggiunto i sindacati anche a Larissa, nella Grecia centrale. Il presidente del Centro per il lavoro locale ha affermato che “non credo di esagerare se dico che nel settore della ristorazione il fenomeno ha toccato l’80% dei lavoratori”.
 
Tra l’altro ha aggiunto che “una grande catena di negozi ha preteso che fosse restituita la tredicesima, minacciando di licenziare i lavoratori se non avessero obbedito”, aggiungendo che “purtroppo i datori di lavoro richiedono indietro anche parte degli stipendi, adducendo come pretesto le difficoltà economiche”.
Il problema è che i dipendenti non possono dimostrare di aver dovuto restituire il piccolo extra, poiché nella maggior parte dei casi sono costretti a restituire il bonus in contanti subito dopo averlo ritirato al bancomat.
Episodi simili sono stati segnalati anche nell’isola di Creta.
 
Secondo quanto riferito, alcune catene di supermercati hanno costretto a restituire il bonus natalizio, dando in cambio agli impiegati un sacchetto di prodotti alimentari.
Non è il primo anno che i datori di lavoro richiedono indietro il bonus natalizio, equivalente a uno stipendio mensile.
 
La Grecia è in crisi economica, e questo rende i datori di lavoro creativi in modo decisamente pessimo, a prescindere da quello che impone la legge sul lavoro.
di Rododak – gennaio 9, 2018 – di Keep Talking Greece, 28 dicembre 2017

Grecia fase finale: all’asta sul web tutto ciò che si può vendere, anche le case private

TSIPRAS RIDEe bravo il mio kompagno anti troika dalla parte dei poveri e degli ultimi, il vero volto delle sinistre, servi della finanza. Ma quali valori di Ventotene, questa è sempre stata la vera natura della UE.

Grecia fase finale: all’asta sul web tutto ciò che si può vendere, anche le case private
 
La Grecia di Alexis Tsipras affronta l’ultima parte della svendita totale del suo patrimonio e della sua civiltà. Sul mercato finisce la stessa democrazia.
 
ATENE – La Grecia di Alexis Tsipras è entrata nella «fase laboratorio»: vedere cosa succede ad un paese lasciato nelle mani dei creditori. Disse Milton Friedman: «Lo shock serve a far diventare politicamente inevitabile quello che socialmente è inaccettabile»: lo shock della Grecia risale al’estate del 2015 quando con la giacca gettata sul tavolo al grido di «prendetevi anche questa» il primo ministro Alexis Tsipras firmò la resa senza condizioni della sua nazione sconfitta. Umiliato di fronte al proprio paese e al mondo da Angela Merkel, volutamente. Sul tavolo, quella notte, non finì solo la Grecia, ma la stessa democrazia che l’occidente ha vissuto in quelli che il grande storico Hobsbawm ha definito «i gloriosi trent’anni». Il voto greco, consapevole, che rifiutava il commissariamento della Trojka ad ogni costo, ad ogni costo veniva tradito in cambio di un piano lacrime e sangue, ancor più punitivo perché doveva sanzionare l’ardire di un popolo intero che osava ribellarsi alla volontà suprema dell’Europa finanziaria. Che solo in quel caso e per pochi giorni gettò la maschera della finta solidarietà, dei traditi valori di Ventotene, e si manifestò nella pura essenza del terrorismo finanziario.
Senza un governo, comandano i tedeschi
 
Nel nuovo reame globalizzato la Grecia è il primo esperimento compiuto di «stato disciolto»: il governo della sinistra, solo pochi anni fa definito estremista, ha assunto il ruolo finale: l’assorbimento del conflitto sociale che si scatena a fronte di una colonizzazione. Il 2018 sarà l’anno dove l’esproprio della ricchezza pubblica e privata diventerà in Grecia molto più veloce, e aggredirà i rimasugli di patrimonio restanti.
Gli immobili vengono messi all’asta e i compratori stranieri – banche, privati e perfino istituzioni – possono prendersi un’isola, un appartamento, una spiaggia, un’opera antica: qualsiasi cosa. Il tutto a prezzi stracciati, a meno del 5% del loro valore.
Anche le case all’asta sul web
Finiscono all’asta, sul web, come una cosa qualsiasi, perfino le prime case se superano una determinata superficie. Il tutto nel plauso della parte ricca del paese, che potrà accaparrarsi i beni della classe media, per non parlare di quella povera, a prezzi stracciati. Nella democrazia di facciata del governo Tsipras i poveri sono sempre più poveri, e i ricchi sono sempre più ricchi. Sembra di parlare degli Stati Uniti, e invece è la Grecia, un paese nobile e antico, su cui si fonda l’intera cultura occidentale, che si trova ad un passo dalle nostre coste. Per molti aspetti laddove è fondato il nostro passato si vede il nostro futuro. C’è una qualche differenza tra un comune italiano, come quello di Torino ad esempio, e lo stato greco? Entrambi sono assediati dai debiti, contratti per mitigare l’impatto della deindustrializzazione globalizzante, entrambi sono sotto il controllo delle banche che dettano i piani di governo: a suon di privatizzazioni, svendite di patrimonio e licenziamenti collettivi. La trappola del debito è una tagliola, entro la quale viene ferita la democrazia. I piani di rientro sono agende incontrovertibili, totali, spietate. Rispetto i quali ogni programma elettorale è soccombente.
Ultimo sforzo, poi il deserto
I commentatori filo governativi sottolineano che il 2018 sarà l’anno «dell’ultimo sforzo» per arrivare alla fine del commissariamento da parte dei creditori. Per dare un’idea di cosa si parla: un governo di estrema sinistra, si fa per dire, ha approvato delle norme che restringono la libertà di sciopero. Di fatto in Grecia diventa illegale, perché per la proclamazione degli scioperi dovrà partecipare alle assemblee il 50% degli iscritti ai vari sindacati di categoria. E questa è solo l’ultima parte di un processo che ha già pesantemente colpito lo stato sociale, le pensioni, i salari, i beni pubblici, e il diritto del lavoro. Imbarazzante, tra l’altro, l’asse politico tra Alexis Tsipras e Emmanuel Macron: ennesima prova dello sbandamento culturale della sinistra incapace di inquadrare un orizzonte politico differente da quello dei banchieri.
Italia come la Grecia?
Ovviamente il governo greco confida che nell’agosto del 2018 la Trojka, in virtù del piano di rientro greco, vada via, e lasci il paese libero di finanziarsi sul mercato globale. Ma se anche fosse, questo non migliorerebbe la situazione della Grecia, ormai allo stremo. Il debito pubblico greco, da «vendere» sul mercato obbligatoriamente a tassi elevati, finirebbe nuovamente all’estero. E il processo si ripeterebbe esattamente uguale agli ultimi sette anni. Ovviamente vi sarà un’espansione del Pil e una ripresa dei contratti di lavoro a prezzi stracciati. Il governo, la democrazia, non servirebbe più a nulla: se non a creare un simulacro. L’esperimento greco, la palla di cristallo in cui si può vedere il futuro dell’Italia se non vi sarà una drastica inversione politica, è davanti a noi.
28 gennaio 2018 diariodelweb.it
di Maurizio Pagliassotti.

IL FAZIOSO FAZIO “ESTORCE” 11,2 MILIONI DI CONTRATTO E “SUBISCE VIOLENZA”

Fabio FazioMA RESTA PER RAGIONI “EMOTIVE”
” La proposta è di circa 11,2 milioni di euro – a quanto apprende l’AdnKronos – per 4 anni: ovvero circa 2,8 milioni l’anno.”
Rai, taglieggia il canone pesando sulle famiglie che faticano a pagare le ESOSE BOLLETTE italiote, INCASSA dalla pubblicità e non si può manco provare DISGUSTO???
Ma SPARISCI RAI, inguardabile ed indecente FURTO LEGALIZZATO. Non doveva essere privatizzata??
Italiani senza reddito di cittadinanza, persone che si danno fuoco all’Inps per il diritto NEGATO ad un sussidio, precari e stagisti costretti a lavorare gratis altrimenti son choosy, e sto qua che fa di straordinario per il paese da meritarsi cifre da CAPOGIRO che sono un insulto?
 
Rai, ok a contratto Fazio: ecco quanto guadagnerà
Il Cda Rai ha approvato nella seduta di oggi ancora in corso e dedicata prevalentemente allo schema dei palinsesti autunnali 2017 anche la proposta di contratto per Fabio Fazio che passerebbe su Rai1 per condurre 32 prime serate e 32 seconde serate l’anno. La proposta è di circa 11,2 milioni di euro – a quanto apprende l’AdnKronos – per 4 anni: ovvero circa 2,8 milioni l’anno.
Da ambienti Rai si fa notare che l’aumento dell’importo annuale (quello precedente era di 1,8 milioni) avviene a fronte di un impegno maggiorato e sulla rete ammiraglia e che quindi in proporzione ci sarebbe una flessione del compenso. La proposta, presentata dal dg al Cda (come prevede lo statuto per contratti superiori ai 10 mln di euro) è stata approvata a larga maggioranza, con l’astensione del consigliere Giancarlo Mazzuca e l’assenza del consigliere Carlo Freccero, che ha lasciato la seduta prima del voto.
La cifra complessiva – a quanto si apprende – sarebbe inoltre comprensiva del contratto per l’acquisizione della licenza sul format di ‘Che tempo che fa’ per 4 stagioni. La proposta di contratto di esclusiva con Fazio si aggirerebbe sui 2.2 milioni di euro l’anno e quello per il format sui 2,8 milioni per tutti i 4 anni.
MAGGIONI – “Lo sforzo fatto per non perdere il valore e la capacità di racconto di Fabio Fazio è direttamente connesso alla volontà di garantire un futuro all’azienda tenendola ancorata al mercato”. Lo afferma la presidente della Rai, Monica Maggioni, in una nota diffusa da Viale Mazzini al termine del Consiglio di amministrazione che ha approvato i palinsesti previsti per la prossima stagione autunnale.

Apocalisse Unicredit. Milioni di risparmiatori a rischio del più grande bail-in della storia

e che non vogliamo salvare anche Unicredit? Un’altra stangata la paghiamo volentieri tutti no? NON MANIFESTIAMO CONTRO i salvataggi, sarebbe da populisti. Ma prodighiamoci per impedire manifestazioni di questi ultimi, così i poteri forti poi ci ricompensano del lavoro svolto (per la democrazia si intende)
Apocalisse Unicredit. Milioni di risparmiatori a rischio del più grande bail-in della storia
Apocalisse. Unicredit è la seconda banca italiana ed è sull’orlo del disastro. Per Risultati immagini per unicredit salvataggiorimettere in sesto Unicredit servirebbero almeno 9 miliardi di euro. Il problema è che nessuno li ha, e non sarebbero nemmeno sufficienti a mettere in salvo la banca in maniera definitiva. Procediamo  con ordine, e proviamo a raccontare la storia, tutta italiana,  di questo istituto di credito, che potrebbe avere un finale drammatico per tutto il Paese, ed esporre ad un salvataggio bancario milioni di italiani. Si può asserire che Unicredit ha imboccato la strada dell’apocalisse fin da quando l’allora CEO, Profumo, forgiò la Banca aggregando realtà italiane, a partire dal Credito Italiano e da Banca di Roma, e tedesche. La banca crebbe velocemente, è inutile ricordare tutte le aggregazioni e le acquisizioni, e Profumo divenne l’alfiere della finanza Ulivista, politicamente schierata senza pudori. Il gigante, però, aveva i piedi di argilla. I dipendenti erano (e sono) troppi, mal organizzati, pagati in maniera eccessiva e con una bizzarra organizzazione del lavoro. In questo contesto, il management spinse in modo forsennato per aumentare la redditività della Banca con metodi che possiamo definire al limite della legalità e che, in alcuni casi sanzionati dalla magistratura, questo limite lo hanno più che abbondantemente superato.
 
In ogni caso la gestione Profumo terminò non tanto per la sua cattiva gestione ma perché si trasformò in una specie di lacchè dell’allora dittatore libico Gheddafi che entrò in forza nel capitale della banca. Dopo la defenestrazione di Profumo la situazione non migliorò di molto: non si è mai avuto il coraggio di incidere in una situazione di sprechi faraonici, sovrapposizioni di filiali frutto delle aggregazioni, dipendenti costosi e poco efficienti. Una banca ben gestita, avrebbe potuto superare la crisi con qualche doloretto ma senza danni. Unicredit non era in queste condizioni. I clienti fallivano (alcuni come nel caso di Divania, vennero fatti fallire per derivati capestro proprio dalla stessa Unicredit) o iniziavano a non restituire i prestiti. Le sofferenze quindi, salivano in maniera esponenziale e oggi siamo arrivati alla somma mostruosa di oltre 80 miliardi di crediti in sofferenza. Anche a voler immaginare che si riesca a recuperarne il 20%, significa per Unicredit una perdita secca di più di 65 miliardi. E’ vero che ci sono stati accantonamenti e che gli utili generati dall’attività bancaria sono stati utilizzati in parte per coprire questi crediti. Ma è come voler svuotare l’oceano utilizzando un cucchiaino, bucato per di più. Gli utili delle banche italiane sono in picchiata. La colpa è di Draghi che ha abbassato fino ad annullarli i tassi di interesse ma questo ha distrutto anche il margine di intermediazione delle banche. A questo punto Unicredit ha dovuto fare i conti con la realtà. Il management ha deciso di  provare a cambiare rotta scaricando l’Ad Ghizzoni. Quello che servirebbe subito sono almeno 10 miliardi di euro. Tale aumento, avrebbe però un effetto devastante: diluirebbe il peso delle Fondazioni Bancarie.
 
Ma nel caso di Unicredit, l’aumento di capitale avrebbe l’effetto di diluire la quota azionaria delle fondazioni per rafforzare il primo azionista, il fondo Aabar degli Emirati Arabi Uniti. O il quarto azionista, il fondo sovrano libico che malgrado la guerra civile che infuria in Libia ha trasferito la sede a Malta e continua i suoi oscuri traffici sui mercati finanziari oltre che a finanziare milizie di ogni tipo in patria. Insomma, non proprio una bella situazione. Le fondazioni si oppongono, dunque all’aumento, forse potrebbero essere disposte a sottoscrivere pro quota un aumento di capitale da appena 5 miliardi. Ma le sofferenze sono mostruose, un aumento da 5 miliardi non servirebbe a molto, al massimo permetterebbe alla banca di continuare a galleggiare per qualche mese. Poi saremmo punto e a capo. Loro non hanno soldi, i fondi libico o degli Emirati Arabi sì e si prenderebbero la banca per meno, molto meno di un piatto di lenticchie. Cosa ne farebbero poi questi moderni predoni non è dato sapere. La soluzione che qualcuno ha proposto e la vendita di una serie di banche ad alta redditività che operano in centro e est Europa. Un’idea che ha una serie di controindicazioni. In primo luogo, non si tratterebbe di una vendita ma di una svendita a prezzi così bassi da non risolvere assolutamente il problema. Unicredit in effetti ci ha provato, cedendo la sua controllata Ucraina. Risultato? Ha dovuto mettere nel bilancio 600 milioni di euro di perdite dovute anche al crollo della valuta locale. Conti alla mano, la cessione delle controllate europee di Unicredit potrebbe, se le cose vanno bene, lasciare invariata la situazione patrimoniale. Ma siccome siamo realistici, diciamo che molto probabilmente se Unicredit si mette a vendere per un piatto di lenticchie o meno queste banche, la situazione peggiorerebbe. E se intervenisse Atlante? Ormai è una figura quasi mitologica del panorama bancario italiano. In effetti, diciamo subito che Atlante ha già salvato Unicredit. Lo ha fatto quando ha sottoscritto interamente il capitale della Banca Popolare di Vicenza, evitando quindi che a farlo fosse Unicredit che aveva garantito l’aumento stesso. E se Unicredit avesse dovuto sborsare più di un miliardo di euro, avrebbe dovuto deliberare il giorno dopo a sua volta un aumento di capitale. Perché Atlante non può sottoscrivere l’aumento di capitale di Unicredit? Semplicemente perché non ha i soldi.
 
Se Atlante volesse sottoscrivere l’aumento, dovrebbe andare prima sul mercato a cercare altri soldi. Ci sono banche piene di liquidità che potrebbero sottoscrivere altre quote di Atlante? No, al massimo potrebbe essere la famigerata Cassa Depositi e Prestiti, cioè il custode del risparmio postale degli italiani. Insomma, se alla fine la soluzione sarà quella di Atlante, a tenere aperto per qualche altro mese la seconda banca italiana saranno i risparmi delle vecchiette (e meno male che sono un sacco di soldi grazie al generosissimo sistema pensionistico retributivo). Una forma mascherata all’italiana, di nazionalizzazione, che servirebbe a tenere aperto il carrozzone. La soluzione vera, l’unica definitiva e sostenibile, sarebbe l’acquisto dell’intera banca da parte di un cavaliere bianco con un patrimonio solido e capacità gestionali, oltre che dotato del pugno di ferro necessario per riformare la banca e ridurre i costi tagliando filiali e personale. Questo cavaliere bianco oggi in Italia non esiste. Un’alba rossa si sta per alzare su Unicredit, un’alba tinta dal sangue dei risparmiatori colpiti ferocemente da quello che potrebbe essere il più grande bail in della storia europea. Chi può, si salvi, anche perché il Fondo di garanzia Interbancario ha le casse vuote e non potrebbe intervenire per coprire i depositi, non solo sopra i 100 mila euro, ma neanche al di sotto.
Written by Roberto Casalena, 31/12/2016