Vite bruciate

Inps donna fuocola terra della democrazia e dei diritti per tutti, TRANNE CHE PER I DISOCCUPATI. (si fa finta che esista un sussidio, ma bisogna rientrare in mille paletti e restrizioni) Bisogna tutelare questa bella democrazia dai “populismi”

Vite bruciate
Una donna di 46 anni, ad uno sportello dell’INPS di Torino, nel quartiere popolare di Barriera di Milano, stamattina ha tirato fuori dalla borsa una bottiglia di alcool, se l’è versata addosso e si è data fuoco, fra gli sguardi allucinati degli impiegati (che con prontezza di spirito si sono prodigati per spegnere le fiamme) e degli astanti in coda intorno a lei.
Di questa disgraziata signora si sa poco, solamente che vive in una cittadina dell’hinterland torinese, ha perso il proprio lavoro sei mesi fa perché l’azienda in cui era occupata ha chiuso i battenti, da allora è disoccupata e stava disperatamente cercando di ottenere un qualche sussidio che le permettesse di tirare avanti….
 
Un qualche sussidio che anche stamattina era stato procastinato nel tempo in attesa di nuove verifiche, probabilmente impantanato nei meandri della burocrazia e della scarsa propensione di questo Stato ad aiutare le persone a rialzarsi qualora cadano a terra.
 
La signora, nonostante il tempestivo intervento degli impiegati, è stata trasferita in condizioni gravissime al CTO di Torino con ustioni sul 70% del corpo e anche qualora riuscisse a sopravvivere avrà sicuramente la vita rovinata dalle lesioni subite.
 
La classe politica e quella dirigente verserà nel migliore dei casi qualche lacrima di coccodrillo in attesa che la vicenda scompaia (molto velocemente) dalle pagine dei giornali, senza neppure tentare di prendere coscienza del fatto che anche la “povera gente” deve sedersi a mangiare intorno al tavolo un paio di volte al giorno, pagare le bollette e l’affitto, senza che le sia concesso di procastinare alcunché.
 
Poi torneranno ad occuparsi delle cose serie, dello Ius soli, dei diritti dei gay e della nuova legge elettorale, tutti temi scottanti sul tappeto riguardo ai quali non si può perdere tempo se si vuole evitare di pregiudicare il futuro del Paese.

Le priorità della Ue: “Trovare lavoro ai profughi entro 9 mesi”. E agli italiani?

migranti lavoromafia capitale estende il business…formazione ed ancora dumping sociale. Dato che la mafia dell’accoglienza percepisce 35 euro al giorno per persona, che queste persone lavorino a gratis, dicono i promotori dello sfruttamento, che sono gli stessi che guardacaso si oppongono al reddito di cittadinanza UNIVERSALE, ossia senza paletti che non essere senza reddito.
Le priorità della Ue: “Trovare lavoro ai profughi entro 9 mesi”. E agli italiani?
Bruxelles,  – Non trovi lavoro? Fatti tuoi. Se però sei un immigrato, l’Ue si farà in quattro per trovarti un impiego, senza tanti problemi burocratici. Ce lo dice la commissaria Marianne Thyssen, che, in un’intervista alla Stampa, mostra perfettamente il vero volto delle istituzioni di Bruxelles.
Il discorso parte da un falso storico riportato nella domanda del quotidiano torinese: “lavoro e inclusione possono aiutarci a battere la jihad in Europa? I killer occasionali di solito sono nati in Europa. Forse se non si fossero sentiti esclusi non sarebbero arrivati a scelte così tragiche”.
Idiozie: i killer di Londra si sono conosciuti perché lavoravano nello stesso ristorante, non hanno fatto amicizia sotto ai ponti. Avevano un impiego dignitoso. Salah Abdeslam gestiva un locale, era perfettamente integrato. Non ci sono storie di vera miseria e disperazione, nella biografia dei soldati del Califfato. Ad ogni modo, la Thyssen non la pensa così, e anzi replica: “Non c’è dubbio che sia così. Bisogna riformare il sistema di istruzione per preparare le nuove generazioni alle competenze del futuro”.
E se gli immigrati non trovassero lavoro lo stesso, allora bisogna agire con la forza: “Ogni paese europeo che accoglie un profugo ha il dovere di dargli l’accesso al mercato del lavoro entro nove mesi, cancellando qualunque ostacolo burocratico. Abbiamo proposto di scendere a sei mesi, qualche Paese fa già meglio di sua iniziativa”. Un impegno che stona con l’assenza di qualsivoglia politica in favore del lavoro degli autoctoni. E poi cosa vuol dire “cancellare qualunque ostacolo burocratico”? Che bisogna passare sopra alle leggi? Se la burocrazia è troppa, la si elimini, ma per tutti, non solo per gli immigrati.
Notare, inoltre, che la conversazione è iniziata parlando delle seconde generazioni, mentre ora si parla di “profughi”, cioè di gente appena arrivata, che spesso non sa la lingua, non conosce la cultura, non ha specializzazione alcuna. In Germania ci hanno già provato a riempirsi di immigrati sperando che fossero i nuovi operai a sostenere la crescita tedesca. Solo dopo ci si è accorti che la gran parte degli immigrati accolti non parlano il tedesco, hanno scarse qualifiche e spesso sono molto giovani.
Le confederazioni dei datori di lavoro hanno proposto di mandarli di nuovo a scuola, il che significa nuove spese a carico dello Stato. Fatto sta che, mesi fa, Continental ha avviato un programma di stage per 50 lavoratori migranti, ma dopo un anno solo il 30% dei posti è stato assegnato. Deutsche Post ha offerto 1.000 posti per uno stage indirizzato in modo specifico ai rifugiati, ma ha ricevuto solo 235 richieste di partecipazione. Se ne contano a centinaia di casi simili. Ma l’Europa, a quanto pare, continua a fare gli stessi sbagli.
di  Giorgio Nigra Giu 09, 2017

L’Espresso vs Diego Fusaro

Lespresso-vs-Diego-Fusaro-copertinaIl settimanale L’Espresso ha recentemente dileggiato Diego Fusaro dandogli del filosofo da talk show. Abbiamo simpaticamente deciso di rispondere agli amici di De Benedetti.
Era purtroppo inevitabile. Dalle parti di La Repubblica e L’Espresso hanno una specie di preoccupante coazione a ripetere: non essendo abbastanza obiettivi da schifarsi l’un l’altro, quando si incontrano durante le riunioni di redazione, si compiacciono di spalmare il fango che li lorda sul volto altrui. Ciò non stupisce. Chi non ha niente da dire e, quando parla, non è in grado di articolare alcun tipo di pensiero compiuto, passa solitamente la vita a criticare l’operato altrui.
Un nemico è del resto necessario e utilissimo per nascondere la propria nefandezza, oltre che la miseria intellettuale. Soprattutto se si è costruita la propria fortuna demonizzando gli altri, nella logica del che s’ha da fa’ pe’ campà.
L’hanno fatto con Berlusconi – avendo gioco facile, sia ben chiaro! Poi, essendo venuto a mancare l’ex Cavaliere, che avrebbero potuto combinare? Diventare grandi e trovarsi un lavoro vero? Magari dimostrare di poter andare a costituire un’alternativa credibile? Il sentiero risultava impervio e piuttosto ripido. Si sono pertanto guardati in faccia, col sudore che gli colava lungo le tempie, dicendosi: “Signori, qui dobbiamo trovare un altro da mettere alla gogna”. Detto fatto: Diego Fusaro. Tanto sta sulle scatole a tutti… quelli che essendo troppo poco si consumano nel livore contro chi è migliore di loro. I più non possono certo permettersi di dire con Nietzsche: “Voi, quando dovete elevarvi, guardate verso l’alto, io verso il basso: sono sopraelevato”.
 
Naturalmente, però, queste sono tutte argomentazioni di un pennivendolo a libro paga di Diego Fusaro. È bene, invece, soppesare la logica stringente delle argomentazioni avanzate da Guido Quaranta (secondo me, più trenta denari che quaranta!), il giornalista che si è fatto carico di sbrigare l’obbrobriosa pratica. Analizziamole dunque con ordine:
Fusaro appare spesso in televisione. In effetti, entrare in quel rettangolo di pixel, che di solito occupa il salone delle case degli italiani, non è esattamente motivo di gran vanto. Tutti ci vogliono, o vorrebbero, andarci, ma è comunque oramai assunto dal comune sentire che la cosa sia esecrabile. Solo, non si capisce perché la stessa reprimenda non venga mossa nei confronti di Mario Calabresi; del fu Ezio Mauro, dal carisma di uno sportellista delle Poste Italiane; o, prima ancora, di Massimo Giannini, con quella sua faccia impettita da primo della classe che segnala alla maestra i bambini che hanno fatto chiasso, mentre lei era in bagno.
Non parliamo poi di Sua Eminenza (Occulta?) Nostro Signore Eugenio Scalfari. Rammentate quella sua aria a metà tra il saggio stoico e il vecchio lupo di mare scampato a mille naufragi? E la sua rubiconda gioia quando la Gruber, come una figlia che accolga il vecchio padre solo la notte di Natale, lo riceve nel suo studio? Meglio non aggiungere altro.
“Fusaro è un bel giovanotto sui trent’anni, torinese, dagli occhi azzurri e dal ciuffo bruno. Non sorride mai, di solito, quando parla, sogguarda i presenti in studio con aria sufficiente e, dal tono monocorde della voce, sembra voler dare lezioni a tutti”Eh no, caro il mio burlone di un Quaranta! Uno, il giovane Diego non è un giovanotto, ma un professore universitario di filosofia. Capìta l’antifona? Non si deve vergognare come la maggior parte di voi giornalisti! Quindi, ne stia certo, lui non solo sembra voler dare lezioni, ma è pagato da un’università, e tra le più prestigiose, per farlo. E poi, scusi, cosa ci sarebbe di male nell’essere giovani e piacenti? Ci avete fatto due palle così con la storia che Renzi era giovane e cool e adesso vorreste tirarvi indietro?
Notate poi la finezza logica di Quaranta: “Fusaro non sorride”. Caspita, certo che sarebbe credibile un filosofo che va in televisione a parlare di disoccupazione, poteri occulti e neoliberismo, con il sorriso da idiota stampato in faccia. “E il tono monocorde?”, soggiungerà lei. Personalmente non l’ho notato, ma ho idea che Scalfari legga anche la bolletta della luce con tono grave, più o meno come faceva Gassman in televisione. Solo che quella di Gassman era una provocazione, mentre secondo me nonno Eugenio è serio quando lo fa. Dott. Quaranta, ma sul serio non si vergogna a essere così meschino?
Andiamo infine alla mirabile chiusa del pezzo:
 
“Ripudia l’euro e considera euroservi o euroinomani coloro che lo difendono. Avverte che l’emigrazione è una deportazione di massa che giova ai signori della mondializzazione capitalistica. Aborre l’aristocrazia bancaria e la talassocrazia del dollaro. Rampogna la tv per il suo effetto anestetizzante sulle coscienze. Deplora l’insinuarsi crescente di vocaboli inglesi nel lessico italiano. Diversi politici, durante i suoi dotti sermoni, approvano. Altri si urtano, qualcuno ridacchia. Lui, lì per lì, piccato, reagisce con battute sferzanti. Poi, imperturbabile, riprende a esecrare tutto o, quasi, tutto.”.
Ma ci volete prendere per i fondelli, o cosa? All’Europa ci crederanno sì e no cinque ingenui, il resto si sottomette perché in un modo o nell’altro ci guadagna. Ergo, sì, sono dei servi. Che l’immigrazione sia necessaria ai signori della mondializzazione capitalistica, mi rendo conto, Dott. Quaranta, a furia di stare chiuso in redazione, le deve essere sfuggito. Provi a fare un giro nei cantieri edili e in campagna. Come scusi, non sa cosa siano? Lo supponevo! E l’attacco alle televisioni che anestetizzerebbero le coscienze? Sa che lo diceva anche un certo Pasolini e ancora nessuno è riuscito seriamente a smentirlo? E la presa di posizione contro l’inglese?
Quanta malafede c’è in lei, Dottore! Ciò che Fusaro critica è un uso strumentale e manipolatorio di un’altra lingua per confondere l’opinione pubblica. Lei sa benissimo che si dice Spending Review, ma si legge ti taglio i viveri e la sanità pubblica. Lei lo sa ed è colpevole perché non lo ammette. Si vergogni e taccia, per favore. Sostiene che Fusaro passa sopra le critiche e procede oltre imperturbabile? E fa bene! Grazie al cielo ci pensa lui a svolgere attività di denuncia, pur non essendo il suo mestiere, ma quello che dovrebbe appartenere a lei Dott. Quaranta, che crede di scrivere dieci righe – forse addirittura meno – ed essersi guadagnato il pane che ha impunemente messo in tavola.
Matteo Fais -09.06.2017

Chi controlla i controllori?

robotLa nuova rivoluzione industriale è quindi una spada a doppio taglio. Essa può essere usata per il benessere dell’umanità [.]. Ma se noi continueremo a muoverci sui binari liberi ed ovvi del nostro comportamento tradizionale, e a seguire il nostro tradizionale culto del progresso e della quinta libertà – la libertà di sfruttare – è certo che dovremmo  aspettarci un decennio ed anche più di rovina e disperazione.
N. Wiener, 1950[1]
 
Tema caldo, di recente lanciato e rilanciato, è la prossima catastrofe nell’ambito del lavoro determinata dall’erosione della funzione umana da parte delle macchine. La retorica tecno-futurista induce a pensare che l’intelligenza artificiale stia per replicare l’umano ma piuttosto che replicare le funzioni superiori  sono invece quelle inferiori, il calcolo, la elaborazione dei dati, la sequenza lineare di if.than ad essere replicate e visto che le macchine non hanno disturbi emotivi o limiti biologici, le svolgeranno senz’altro meglio degli umani stessi. Potremmo allora dire che più che scoprire quanto intelligenti stanno diventando le macchine, stiamo verificando quanto ancora è stupida ed alienante la routine di molti lavori umani.  Senz’altro però, questa componente routinaria ed esecutiva che compone ancora la totalità o grande parte o piccola parte di molti lavori, vedrà l’implacabile sostituzione dell’umano con l’informatico-meccanico.
 
Sebbene inizialmente molti lavori non saranno cancellati ma progressivamente mixati tra umano e info-maccanico, alla fine il saldo netto sarà in termini di posti di lavoro. Quello che giustamente preoccupa è la stretta relazione  tra l’enorme quantità di ore lavoro umane sostituibili, l’incentivo del profitto che deriva dalla comparazione tra costo del lavoro umano e costo del lavoro info-meccanico e il tempo estremamente breve in cui tutto ciò sta accadendo.
Ulteriore preoccupazione, sembra che gli esperti del problema prevedano a breve una sorta di salto quantico delle performance dei robot e dei software[2], una di quelle rivoluzioni stile “periodo Cambriano”[3] per le quali, ricombinandosi i fattori, il risultato è di molti gradi superiore alla somma delle parti[4]. Lo stato interconnesso delle nostre economie intorno la principio di concorrenza, imporrà il cambiamento come nuovo standard planetario, lo si desideri o meno.
Il libro inchiesta di Riccardo Staglianò, Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, Einaudi, Torino, 2016, è un competente ed onesto lavoro sul tema, al posto tuouna aggiornata overview sul fenomeno su cui l’autore, già centrato da anni sui temi delle nuove tecnologie, ha raccolto informazioni negli ultimi cinque anni. La posizione di Staglianò è critica verso il tecno-entusiasmo[5] e cerca di indagare fattivamente quanto il fenomeno sia in effetti preoccupante[6], soprattutto in via previsionale.
 
Ma al di là delle ancora non stabilizzate previsioni c’è anche un segnale indiretto che avverte con chiarezza di dove la bilancia stia pendendo. Ci riferiamo alla mobilitazione dei grandi del settore (Google, Facebook, Amazon, Apple etc.), in favore di un set di idee che vanno dal reddito  di base, alla partecipazione azionaria diffusa al capitale delle imprese che sfornano innovazioni di modo che quegli stessi che perdono il lavoro o parte del reddito ne recupererebbero almeno un po’ in quanto azionisti[7], alle spinte a rivedere a fondo la formazione scolastica in direzione meno specializzata e più complessa, alla commissione di studi (Deloitte, Forrester research, PWC ed altri) che cerchino di ribilanciare le previsioni più allarmate ed allarmanti. Stante che -comunque- nessuno di loro ha la minima intenzione di mettere in discussione quei 100-130 miliardi di dollari di sottrazione fiscale dovuta alla ricca offerta di tassazioni di favore di cui approfittano con implacabile sistematicità. Così, le previsioni sul futuro espanso dell’economia digitale, oltre a prevedere consistente crescita della disoccupazione tecnologica, indicano anche l’ennesima creazione di valore ristretta a sempre meno persone[8] con conseguente ulteriore radicalizzazione di quella diseguaglianze che ci sembravano già insopportabili ma il cui fondo insondabile siamo -pare- ancora ben lungi dal toccare.
Se a tutto ciò, uniamo i quarti di luna su i “web nazionali” che secessionano dall’impero delle signorie della Valle del Silicio[9], i propositi di web tax che aleggiano in molte parti d’Europa (con il significativo distinguo del nostro ex Presidente del Consiglio ormai colonna portante dell’internazionale libertarian-liberista-liberale, di recente proprio a prendere il brief in Silicon Valley), il sempre più vasto movimento di conflitto contro le ricadute perverse di Uber, Airbnb, Foodora e company e da ultimo, la certificazione pubblica data da Wikileaks (Vault 7) sull’utilizzo dei device personali e casalinghi (Internet of Things, IoT) da parte della Cia e dei suoi 15 tra fratelli e sorelle (più amici privati che ne hanno comprato le tecnologie sottobanco tanto tutto ha un prezzo), allora vediamo che il problema c’è, ci sarà sempre di più e le reazioni che s’annunciano preoccupano quelli stessi che prosperano sul fenomeno che crea e sempre più creerà tali problemi.
 
Loro sanno, prevedono e si preoccupano, quindi vanno presi sul serio e non come taluni hanno fatto, pensando che Bill Gates che si danna per propagare la “sua” idea di tassare i robot (guadagnare meno, guadagnare a lungo), ha i neuroni deteriorati dall’età e si è trasformato in un tecno-luddista. Questa gente si vede, si parla, fa piani e strategie comuni salvo poi azzannarsi nell’agone competitivo e pare evidente che questa cupola di tecnologi è preoccupata degli effetti del proprio stesso agire, stante che su questi effetti ne sanno senz’altro più di noi, avendo sdoganato fondi massicci su ricerche che hanno previsto gli effetti finali di ciò che si ripromettevano di produrre.
Non certo preoccupati al punto da fermarsi, ma al punto da spingere gli stati a fornire le migliori condizioni di possibilità sociali affinché loro possano continuare a sfornare salti quantistici di performance tecnica. Addirittura disponibili a far tassare i loro clienti, cioè le aziende che comprano robot e software per sostituire lavoro umano, stante che i margini sono così abbondanti (il caso medio sembra essere un vantaggio di costo di 1.10 se non di più) che un po’ di redistribuzione non fa male a nessuno[10].
Si preoccupano loro e con loro, l’industria finanziaria che li sorregge, i servizi d’informazione dello stato da cui provengono (sono tutti americani), il complesso militar-industriale che sulle loro invenzioni prospera, il complesso educativo-intellettuale che fornisce loro il personale e la giustificazione culturale nonché l’attraente immagine di mondo, l’area politica lib-dem che scambiando il concetto di progresso come incremento dell’emancipazione umana con la Legge di Moore, li coccola e li protegge. Ecco quindi la mobilitazione in direzione dell’ampio ventaglio di soluzioni-vasellina, sempre che Zukerberg, Bezos, Page e company non meditino di scendere direttamente in campo se le cose dovessero mettersi davvero male.
 
Le operazioni di basic lobbyng ovvero usare gli utenti per premere sulle istituzioni locali in favore di questo o quel servizio-azienda della sharing economy, prefigurano, nei fatti, un potenziale elettorato[11]. Potenziale elettorato affascinato dalla disintermediazione, la partecipazione diretta e dal basso che si veste di idealismo democratico quando, in assenza di concrete condizioni per una reale democrazia, si rivela  solo come demagogia sfocata preda della sindrome da petizione stile Change.org et affini.  Petizioni che fanno bene all’animo del “democratico indignato” che lascia poi la sua mail che verrà venduta al mercato dello spam.
Se quindi i nostri dioscuri si agitano tanto, vuol dire che i rischi sono all’orizzonte degli eventi. Staglianò apre ogni capitolo evidenziando la categoria che rischia l’impatto distruttivo delle innovazioni di cui poi ci fornisce il racconto aggiornato delle possibili minacce. Commercianti e vari addetti, distribuzione, logistica, trasporti, call center, traduttori, giornalisti, insegnanti e professori, industria già pesantemente aggredita ed anche la più esposta allo standard di concorrenza internazionale, giornalisti, fotografi, bancari, assicurativi, finanziari, medici, infermieri, farmacisti, tassisti, addetti alle attività turistiche, moltissimi lavoratori autonomi, sono solo le principali categorie che vanno variamente incontro al big bang info-tecnico.
 
Per l’Italia, sono poco meno di 20 milioni di occupati a fonte ISTAT che vanno a rischio. Il rischio è rappresentato da una sempre più vasta rete di innovazioni che allargano il dilemma tra il vantaggio del consumatore e lo svantaggio del lavoratore stante che i due aspetti si riuniscono nello stesso individuo. La rete di innovazioni è fatta di laser, scanner ottici, braccia e mani servo-meccanici, robot antropomorfi e non, nano-tecnologie, reti di sensori auto-diagnostici, stampanti 3D che ormai stampano case, algoritmi imputati ma anche quelli che auto-apprendono, quel deep learning o learning machine che con il rientro dell’informazione che corregge o incrementa se stessa porta l’info-elettro-meccanico ad una soglia prima della soggettività. Tutto ciò messo in rete, una rete che convoglia tutte le informazioni uso-performance-utente in enormi stoccaggi di dati (Big Data) che fanno la memoria delle menti-corporation della Valley a cui l’intelligenza strategica del governo americano ha normalmente pieno accesso sebbene si premurino di farci sapere il contrario (tanto siamo in regime di post verità).
 
Un Internet che ci sta penetrando psico-biologicamente, costituendo un nuovo sistema accanto a quello respiratorio, circolatorio, nervoso, immunitario con la differenza che diversamente da questi, non fa capo a noi ma noi a lui. Un progetto che a sua volta aspetta di potersi congiungere alla biologia tecno-sintetica per aumentare la sua potenza strutturale. Lo sgretolamento progressivo del sociale e soprattutto dei suoi aspetti lavoro-reddito, inclusione-esclusione, identità-nullità, autonomia-eteronomia porterà i più ad un pulviscolo di lavoretti a cottimo, di collaborazioni gratuite che dovremo fornire per sperare di aumentare la nostra awareness dato che a quel punto ognuno di noi diventerà una marca (brand) col suo patrimonio di like e stelline e dovrà curare la sua reputazione, una marca che compete in un mercato globale di concorrenze al ribasso.
Se di questo mercato globale sino ad oggi abbiamo temuto i concorrenti cinesi e vietnamiti de-sindacalizzati e sotto-pagati, in quello che viene dovremo temere le macchine che costano meno dei vietnamiti e fanno comunque di più e meglio di noi e di loro messi assieme. Macchine nate sofisticate ma che apprendono da noi e dai loro stessi sempre più residui sbagli fino all’errore zero, guasti zero, manutenzione zero, costo quasi zero quando ripartito su indici di produttività da distopia fantascientifica.  Una realtà che non si chiama più “virtuale” ma “aumentata” e che punirà critici eccessivi ed eventuali ribelli con la più antica delle pene sociali: l’ostracismo (la de-connessione).
A questo punto, facendo perno sulla fallacia della linearità che postula che questa distruzione sarà pur sempre e come sempre è stato (dove “sempre” vale centosettanta anni o poco più[12]), sì una distruzione ma anche creatrice di nuove opportunità, ci si spiega con paterna accondiscendenza che l’umano evolverà sviluppando di più se stesso e che tutti dovremo acquisire capacità creative e di cognizione complessa, di modo da far del problema una opportunità[13]Ci sono tre errori in questa linea di ragionamento.
Il primo è proprio la linearità, cigni neri, salti non lineari che portano emergenze, tempi compressi, reti di feedback dicono che la previsione del “come è stato sempre sarà” è puro wishful thinking proiettato sull’indomabile disordine del mondo. Anche la globalizzazione doveva garantirci il migliore dei mondi possibili, anche la finanziarizzazione di massa, anche l’-Europa della conoscenza- promessa a Lisbona nel 2000. 
La seconda è che la prima distruzione di lavoro già avvenuta, ha devastato proprio l’ambito creativo e culturale (giornali, edicole, librerie, case editrici, case discografiche, musicisti, fotografi, riproduzioni gratuite e senza diritti) e proprio Staglianò indagando sulle promesse di farci diventare tutti youtuber o self-published-star, mostra le ridicole proporzioni tra le migliaia che ci provano per l’uno che ci riesce, forse. La piramide dell’auto-successo, al di là della critica che se può fare sul piano socio-culturale, ha invero una forma ben poco attraente anche rispetto alle sue stesse promesse.
 
Il terzo è che la cultura dell’info-digitale va di sua natura dalla parte opposta a quella della creazione di un vasta e diffusa cultura complessa che si reclama come necessaria visto che ormai la cultura semplice verrà portata avanti dalle macchine[14]. Il diluvio della quantità informativa non si traduce in qualità conoscitiva. Insomma promesse infondate, esagerate, sbagliate. Infine, che sia la distribuzione di ricchezza individuale, che sia la distribuzione della ricchezza imprenditoriale e finanziaria, che sia la distribuzione della  share of market[15], la geometria della piramide di questo macro-fenomeno è invece una certezza: base larghissima, sezione media in contrazione, punta sottile e sempre più affilata. Sempre più Pochi su sempre più Molti[16], la statica della società-Eiffel su cui si basa la geometria gerarchica contemporanea.
 
Ma vediamo meglio il punto tre di questa impalcatura di promesse traballanti. Oggi siamo letteralmente annegati nell’informazione ma stiamo scoprendo che questa inflazione di informazione, disorienta e non fertilizza la conoscenza. La prima ragione di questa paradossale ricchezza sterile è che, con l’accesso individuale alle fonti del nuovo e potente informadotto che è Internet, ognuno di noi si trova in una bolla solipsistica. Il nostro “daily me” sarà anche tagliato a pennello sui nostri gusti e tendenze ma -nel tempo- tende a scavare un solco di reciproca incomunicabilità. Sia perché la fruizione dell’informazione è viepiù solitaria, sia perché temi e linguaggi specialistici formano il nostro vocabolario e la nostra mentalità senza alcun filtro, determinando menti “isola” che hanno forma, linguaggi ed aspettative sempre meno comuni, sia perché tendiamo a confermare i nostri interessi tanto da farli diventare “manie” e tendiamo a diventare del tutto alieni a quelli degli altri.
 
Semplicemente, la modalità Internet + social network, tende a costituirci come mondi separati, il che, nell’epoca della comunicazione, è davvero un paradosso. Anche la complessità del mondo che in sé è un unico sistema, è rifratta in un caleidoscopio di frammenti di cui ognuno di noi conosce sempre più la parte ma ignora sempre di più il tutto. Emittenti e distributori generalisti dell’informazione, vanno perdendo ruolo e con essi, la nostra possibilità di capitare -per caso- nei pressi di una conoscenza inaspettata. Di contro, emittenti e distributori di informazione on line sono per molti versi, pre-decisi dall’architettura dei link quando non dall’offerta dei semimonopolisti della rete . Questi architetti invisibili decidono ex ante che in base al nostro profilo, ci potrebbe interessare questo o quello ma così facendo la vantata libera individualizzazione diventa invece massificazione poiché i profili previsti sono sempre di meno dell’effettiva varietà sociale, sono “medie” di comportamento, definizioni statistiche, incasellamento in un numero prefissato di cluster idealtipici. Cluster definiti poi in base a specifici interessi commerciali.  Questa continua riconferma narcisistica  ci sta modellando nel profondo e da qui discende sia la violenza verbale di alcune discussioni su i social che presto deragliano in due paralleli ”tu non hai capito che .”, sia la base cognitiva sempre meno in comune sulla quale prospera l’egotismo narcisistico. Così come la scrittura modificò sensibilmente i modi di trasmettere l’informazione rispetto all’oralità e modificò la forma ed anche il contenuto del messaggio, la sua fruizione, la struttura stessa dell’apparato cognitivo che come tutte le componenti biologiche rinforza i sottosistemi più usati e fa decadere e disconnette parzialmente quelli meno usati (o usati molto saltuariamente), c’è da aspettarsi che i formati espressivi molto brevi, il primato dell’immagine, la sintesi grafica, la seduzione musicale, daranno il format prevalente di ogni possibile messaggio.
Spesso, chi scrive sul computer, non calcola che il suo messaggio sarà letto su uno smartphone, magari camminando o in attesa di qualcos’altro.  Con ciò, un nuovo primato dell’emozione, dell’attention getting ed una progressiva decadenza della riflessione e con essa della razionalità[17]. Inoltre, si sta presentando anche lo spettro della perdita storica di informazione affidata a supporti che poi diventano obsoleti, a siti che poi verranno cancellati, a bisogni di “memoria” semplicemente impossibili da fornire stante una produzione ormai quantitativamente fuori controllo. Nel decidere cosa trattenere e cosa lasciar evaporare nell’entropia, si fisserà una certa memoria del tempo ma a chi deleghiamo questo compito storico?
 
Infine, il pur limitatamente positivo proliferare delle fonti informative sta portando le élite a introdurre la pericolosa nozione di “falsa verità” che se non prendesse le forme di un ostracismo repressivo della spontaneità informativa, sarebbe semplicemente da sbeffeggiare ricordando che i più ampi cultori del pensiero umano -i filosofi- si interrogano senza soluzione di continuità da più di due millenni sul sfuggente concetto di “verità”, del “fatto” e della sua “interpretazione”. Che ora sia la banda Zuckerberg a dirci quale sia la verità, ci pare segno dei tempi, brutti tempi, tempi in cui sbeffeggiare non basta più[18].
Tutto lo sviluppo info-digitale è figlio di una intuizione originaria di Norbert Wiener, il fondatore della nuova scienza cibernetica, da lui stesso definita:  scienza del controllo. Ma lo stesso Weiner, passò il resto della sua vita ad ammonire che per usare e non esser usati dalla scienza del controllo, occorreva averne il controllo[19]. Questo controllo, che siano capitali, tasse, flussi di merci o di persone, distribuzione dei redditi, monopoli commerciali, programmi di ricerca, conseguenze ambientali del nostro agire, decisioni da prendere su i conflitti e la pace, rilievi etico – sociali – culturali e politici dell’innovazione tecno-scientifica, censure, non è nelle mani di nessuno che faccia l’interesse generale. Tutto ciò è sempre e solo nella mano invisibile del mercato ed in quelle visibilissime della Prima potenza geopolitica planetaria.
 
Per controllare questo che non è che l’ennesimo fenomeno di cambiamento profondo delle forme della nostra vita associata (oltre quello geopolitico, quello demografico, quello ambientale, quello distributivo), mancano due cose: la sufficiente conoscenza e l’istituzione della volontà generale che lo governi secondo il più ampio e responsabile interesse.
Il deficit di conoscenza che si rivela qui come altrove è proprio relativo alla complessità intrinseca di questo come di altri fenomeni. Ho letto analisi di economisti, tecnologi, sociologi, filosofi prima di scrivere questo articolo, ma rimane sempre insoddisfatto il senso di completezza, di completa definizione della cosa. Come lavorano tutti questi fatti messi assieme nel reale? L’informazione non produce conoscenza se non fertilizzando un intelletto già ben formato. Ed è proprio la coincidenza tra massima produzione e diffusione dell’informazione e minima strutturazione e capacità dell’intelletto contemporaneo di processarla, il dato di prima preoccupazione.
 
Da cui consegue che un vero soggetto generale in grado di valutare il suo interesse non c’è. La formazione è sempre più spezzettata in sottodiscpline e specialismi, il dibattito pubblico è sempre ostaggio di opinionisti al servizio dello status quo, le forme stesse dell’interrelazione sociale date dalle nuove tecnologie portano a stereotipie, semplificazioni, riduzionismi, esaltazioni a priori e sfoghi di rabbia impotente, la politica oscilla tra ignoranza, visione tattica a breve termine e sudditanza nei confronti dell’ordinatore economico che è il primo agente di disordine. La domanda di benessere economico, in tempi difficili, si fa sempre più isterica e quelle sull’adeguatezza del nostro modo di pensare e delle strutture sociali che dovrebbero riflettere le nostre consapevoli intenzioni è accolta col sorriso e l’indulgenza che si riserva all’ingenuità dei fanciulli.
Controllare la scienza del controllo è l’ennesimo punto in agenda per la democrazia che non c’è.
[1] N. Wiener, Introduzione alla cibernetica, Bollati Boringhieri, Torino, 1966-2001, pp. 203.204
[2] BANG = Bit, Atomi, Neuroni, Geni, messi in interrelazione, genereranno il nuovo macro-sistema.
[3] S. Jay Gould, La vita meravigliosa, Feltrinelli, Milano, 2008
[4] Personaggio inquietante. Ray Kurzweil, autore di La singolarità è vicina (Maggioli PDE, 2013), ha profetato che la “legge dei ritorni esponenziali” (qui)  ci porterebbe alla nascita di macchine autocoscienti entro il 2050. Kurzweil che di primo acchito può sembrare un tipo eccentrico, ha lanciato la Singularity University in California con la partnership di Google, NASA, Nokia, LinkedIn ed altri ed è membro influente dell’Army Science Board  (qui) snodo di incontro tra gli alti vertici dell’esercito americano e la più avanzata parte della comunità scientifica. L’impasto di genetica, nanotecnologie e robot lo fa l’esponente di punta del trans-umanesimo.
[5] L’atteggiamento verso la rivoluzione info-tecnica, è stato definito non senza malizia epistemica come tecno-entusiasta o tecno-scettico. Non si vede la necessità di apporre categorie dell’emotività al giudizio su i fatti. I fatti sono l’insieme degli aspetti coinvolti e componenti la rivoluzione info-tecnica, semmai le analisi si dividono tra ingenui e critici, tra coloro che accettano la narrazione del migliore dei mondi possibili e coloro che assumo un atteggiamento più critico, leggendo non solo gli aspetti migliori ma anche quelli peggiori e derivandone indicazioni per altri mondi possibili oltre a quello sfornato dalle dinamiche del mercato. Qui Staglianò intervista Eughenji Morozov (secondo filmato della pagina) sull’argomento:
[6] Due professori del MIT, A.McAfee e E.Brynjolfsson, in Race Against Machine (2011), dimostrano che dal 2000 le curve dell’incremento della produttività e dell’occupazione, cominciano a divergere. Classica ormai, la citazione del The Future of Employment: How Susceptible Are Jobs to Computerisation 2013, C.B. Frey e M. A. Osborne della Oxford University che dimostrerebbero fondate preoccupazioni per poco meno del 50% dei mestieri, da qui a venti anni. Nel 2013 l’Economist, in Rise of the Software Machines  (qui) decreta la prossima fine di tutte le imprese  prosperate sulla tendenza all’outsourcing. Federal Reserve Economic Data, certifica che negli USA, dal 1987, si producono l’85% dei beni in più con due terzi della forza lavoro di allora.  UNCTAD-ONU, prevede impatti molto negativi sulla forza lavoro dei paesi emergenti (qui). Anche se con stime meno tragiche, il tema di come “gestire” la quarta rivoluzione industriale di cui si ammette sia l’impatto occupazione, sia l’aggravio delle diseguaglianze, è stato al centro dell’annuale Forum di Davos 2017.  Link commentati attraverso cui approdare ai rapporti Bank of America e Merrill Lynch (qui) e McKinsey (qui) . Economisti quali Jeffrey Sachs e L. Kotikoff, T. Cowen e Larry Summers (ex rettore di Harvard, tra le altre cose) ma anche P. Krugman, R. Reich e N. Roubini, oltre a R. Prodi, hanno sviluppato punti interrogativi sull’argomento.
[7] Idea promossa da R. B. Freeman economista di Harvard.
[8] I rapporti tra impiegati e capitalizzazione di borsa di queste imprese è ridicolo, specie se raffrontato con quello delle industrie o dei servizi “tradizionali”.
[9] Cina, Corea del Sud, Russia, Iran, Bielorussia, Arabia Saudita hanno già un loro Internet nazionale o pesanti firewall che ne limitano il libero accesso. L’India ha mostrato crescente nervosismo per certe invadenze esterne, l’hackeraggio e la pirateria internazionale ma anche lo spionaggio dati, privato o industriale, preoccupano più o meno tutti. La Germania, è capofila dell’idea di creare in Internet europeo. Poiché l’infosfera tende a coincidere con l’anglosfera è ovvio che in un processo di riconfigurazione multipolare del mondo, anche Internet “rete delle reti” diventerà un po’ meno la prima cosa ed un po’ più la seconda. Il BRICS Cable, 34.000 km di cavo sottomarino con portanza di 12,8 Tbit/s, prefigura la volontà di creare proprie reti da parte del mondo emergente.
[10] E’ il classico aggiustamento della mano invisibile che riguarda sempre gli altri. Gli stati spendano un po’ di più in welfare, le aziende acquirenti di robot vengano un po’ tassate, i lavoratori accettino un po’ meno ed un po’ di precarietà creativa in più, così noi possiamo continuare a prosperare.
[12] La datazione del cuore esplosivo della Rivoluzione industriale, ha subito varie oscillazioni. Oggi si ritiene che il più decisivo impatto (ciò che segna il tempo in cui accade effettivamente una “rivoluzione”) sia da collocare tra il 1850 ed il 1870 e non prima.
[13] C’è anche chi vede solo opportunità come Michael Nielsen, (Le nuove vie della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 2012) per il quale “La conoscenza scientifica non è piú il frutto dell’avventura, eroica e solitaria, del grande uomo e dell’intelligenza singolare, o delle diverse convergenze fra industria, apparati militari, capitale finanziario e istituti di ricerca. La cultura scientifica contemporanea ha incorporato ormai come parte integrante degli stessi oggetti, obiettivi e protocolli della ricerca, fin dall’atto della loro primitiva elaborazione, il criterio della necessaria, e il piú possibile ampia, condivisione di teorie, scoperte, modelli e paradigmi”. Ma se la fase di ricerca è sharing, lo è anche quella dell’applicazione brevettata?
[14] Ne accenna J.C. De Martin nell’introduzione a L. Floridi, La rivoluzione dell’informazione, Codice edizioni, Torino, 2015 e credo lo riaffermi nel suo Università futura, Codice edizioni, Torino, 2017. “Credo” perché non l’ho ancora letto ma ne ho desunto tesi da vari articoli.
[16] Come ripete Jeremy Rifkin, la sharing economy è speculativa almeno quanto l’economia classica” riporta in una intervista a Wired, Andrew Keen autore di “Internet non è la risposta” Egea, 2015 (qui). In verità ha una struttura più simile a quella dell’economia finanziaria.
[18] Clamoroso il caso di censura operato dagli algoritmi di Facebook della famosa foto di Nick Ut/1972 (premio Pulitzer) dei bambini vietnamiti piangenti in fuga da un bombardamento al napalm perché compare una bambini nuda. (Qui)
[19] L’anello controllato – controllore prefigura una tipica situazione quale descritta nella cibernetica di second’ordine, si veda H. von Foerster, Sistemi che osservano, Astrolabio, Firenze, 1987
Fonte: Megachip di Pierluigi Fagan – 22/03/2017

La seconda gamba del Jobs Act: l’Anpal e il management della precarietà di massa

copertina-300x300per fortuna che ci sono tante lotte dure senza paure. SE SI E’ ARRIVATI FIN QUI QUALCUNO COMPLICE E’ STATO. Ed ad ogni SUICIDIO per indigenza CENSURIAMO bel paese dominato dai giusti moralmente superiori
SOLO SE LA COSIDDETTA SOLIDARIETA’ SI TRASFORMA IN UN SISTEMA MAFIOSO-TANGENTISTA VIENE INTRODOTTA IN STA FOGNA DI PAESE

Non solo voucher. Il Jobs Act è un mondo. L’agenzia nazionale delle politiche attive (Anpal) è la sua seconda gamba. Anticipazione del futuro in Italia. Quello che saranno le politiche neoliberali del lavoro e il management della precarietà di massa.  Non senza problemi: l’Anpal che dovrà organizzare i servizi per reinserire i lavoratori precari o disoccupati è tenuta in piedi da 760 precari i cui contratti scadranno il 31 luglio. E’ l’immagine speculare della forza lavoro che dovrebbero aiutare a “ricollocarsi”.
 
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La stagione delle politiche attive del lavoro in Italia è iniziata ad Avellino. Il Presidente del Consiglio Gentiloni e il presidente dell’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro (Anpal) Maurizio Del Conte hanno visitato il Centro per l’Impiego della città campana per lanciare un’operazione ambiziosa: introdurre anche nel Belpaese un sistema di workfare secondo i canoni più stringenti del neoliberismo applicato al mercato del lavoro. Un’operazione che può essere compresa in relazione all’approvazione del “reddito di inclusione” nell’ambito di un intervento sottofinanziato, vessatorio e incompleto contro la povertà.
Questo reddito riguarda i poverissimi, capofamiglia di nuclei numerosi al di sotto dei 3 mila euro di Isee; l’assegno di ricollocazione che sarà gestito dai centri dell’impiego monitorati dall’Anpal interessa invece i disoccupati.
La logica è la stessa: il soggetto che non accetta un’offerta di lavoro, e non rispetta il “patto” con lo Stato (o con le agenzie private titolari di un progetto di ricollocazione), sarà penalizzato fino alla perdita del sussidio stesso.
Il set è un centro per l’impiego del Sud, dove ci sono i tassi di disoccupazione e di povertà più alti del paese. Gli attori – Gentiloni e Del Conte (bocconiano, e già autore del Ddl lavoro autonomo) – hanno annunciato le seguenti misure: 30 mila lettere ai disoccupati per “ricollocarli” sul mercato del lavoro; rilancio del fallimentare programma sulla “Garanzia giovani” e del Bonus assunzioni Sud per il 2017, parte superstite degli sgravi erogati dal governo Renzi alle imprese che assumono con il contratto precario “a tutele crescenti”, 18 miliardi in tre anni con esiti deludenti. Sarà creato un nuovo bacino di precari: mille “tutor” garantiranno il sistema del lavoro gratuito dei liceali nelle aziende nell’ambito del sistema “alternanza scuola-lavoro” strutturato da un’altra riforma renziana: la “Buona scuola”. Previsti interventi a supporto della ricollocazione di 1.666 licenziati di Almaviva Contact.
 
Esperimento Almaviva
Il ricollocamento degli ex Almaviva è una sperimentazione che prevede tre strumenti di incentivazione per una somma da investire sui lavoratori licenziati fino a 15mila euro: alle società private che formeranno il lavoratore andranno fino a 2mila euro; alle società di collocamento ma solo nel caso di esito positivo del percorso, un assegno di ricollocazione fino a 5mila euro;  alle aziende che assumeranno il lavoratore con contratto a tempo indeterminato fino a 8mila euro.
I disoccupati continueranno ad usufruire, per tutto il percorso di ricerca di lavoro, della Naspi. in alternativa, sono previsti incentivi per l’auto-impiego fino a 18mila euro a lavoratore, 15mila sul capitale e 3mila per il percorso di accompagnamento all’auto-imprenditorialità, oltre a risorse per la ricollocazione degli over 60, fino a 10mila euro a testa per l’accompagno verso un lavoro di pubblica utilità. L’accesso ai programmi disegnati dal governo sarà volontario. Nella regione Lazio apriranno 5 sportelli, in collaborazione con la regione, per gestire un’operazione complessa. Dal 9 al 16 aprile inizieranno i colloqui individuali con i lavoratori “ricollocandi”.
 
Le proposte di lavoro dovranno essere “congrue” e in linea con le competenze e il salario dell’esperienza precedente del lavoratore. Tutto dipende dalla “domanda che emergerà dal territorio” e dall’interesse di imprese pubbliche e private, società parastatali o amministrazioni pubbliche, ad occupare gli ex licenziati Almaviva. Se il lavoratore rifiuterà l’occupazione perderà il diritto all’indennità di disoccupazione. Su questa operazione il governo investirà 8 milioni di euro rimborsati dal fondo europeo Feg.
Questa sperimentazione permette di squadernare la logica governamentale già presente nelle politiche del lavoro in Italia e che il JobsAct ha cercato di sistematizzare in quella che è stata definita “seconda gamba”. I 30 mila destinatari delle lettere sono stati individuati tra i percettori della Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (Naspi) da almeno 4 mesi. Queste persone avranno a disposizione un buono fino a un massimo di 5.000 euro per usufruire di servizi di assistenza intensiva alla ricollocazione, presso un centro per l’impiego o un’agenzia per il lavoro accreditata. Va specificato che questa somma non è erogata direttamente al disoccupato, ma agli operatori – pubblici e privati – attraverso un meccanismo che viene definito “incentivante”. L’operatore sarà retribuito solo a risultato raggiunto, cioè alla firma di un contratto di lavoro da parte del lavoratore. L’intervento ha una durata di sei mesi, prorogabile per altri sei nel caso non sia stato consumato l’intero ammontare dell’assegno di ricollocazione.
Management del mercato del lavoro
Su questa base è possibile ipotizzare che per reciproco interesse il lavoratore e l’agenzia a cui si è rivolto possano avere interesse a mantenere in vita la prestazione di disoccupazione. Il primo potrebbe mantenere il sussidio per la sua intera durata; la seconda continuare a prendere il voucher. Nel primo caso, il diritto fondamentale della libera scelta – e il corrispettivo principio costituzionale -saranno aggirati dall’approccio prestazionale e produttivistico proprio del dispositivo del management by objective. Nel secondo caso si rischia di alimentare comportamenti opportunistici nelle strutture private.
 
I “soggetti accreditati” possono anche spingere il loro “cliente” ad accettare qualsiasi offerta che riterranno congrua rispetto al curriculum del lavoratore. Dal numero di ricollocamenti dipende sia la riscossione della percentuale sul fondo destinato al lavoratore sia il rating dell’agenzia interinale che è in concorrenza con le altre, così come lo saranno gli stessi centri per l’impiego in un sistema “misto” dove l’Anpal dovrebbe giocare un ruolo di arbitro e di coordinatrice-monitoratrice delle attività  del pubblico e del privato, dello stato e delle regioni.
Al lavoratore spetterà la scelta di accettare un lavoro oppure ricevere la penalità da parte dello Stato. Per lui le “politiche attive” prevedono una serie micidiale di sanzioni nel caso di rifiuto di un’offerta “congrua” di lavoro, fino alla punizione finale: il rifiuto del sussidio.Su questo concetto di “congruità” si giocherà, presumibilmente, la partita esistenziale, politica ed epistemologica delle “nuove” politiche del lavoro. Il contrasto tra la logica del rating -seguita dal sistema di collocamento scelto dal JobsAct – e quella della libera scelta è palese.
Alla base della “politica attiva del lavoro” esiste l’approccio sanzionatorio e parossistico del work first: il “lavoro purchessia”, basato sui requisiti quantitativi e non qualitativi. Questa logica incide sia sul lavoratore che sui soggetti che li seguono. L’obbligo della scelta può arrivare a negare la libertà del soggetto che ha stretto un “patto” con lo Stato. Il ricollocamento, l’occupazione, la disoccupazione diventano un caso morale, ovvero uno dei dispositivi che governano la vita delle persone oggi nella società, e non solo nel lavoro.
 
Esistono altre ipotesi. Ad esempio, una volta entrati in vigore a livello sistemico, i voucher potrebbero essere liberamente versati nelle casse delle multinazionali private e non in quelle pubbliche, date le attuali e future inefficienze. Il governo elargirà fondi pubblici a privati, ma sarà rimborsato con i fondi europei. La politica, che molto sta puntando sulla finzione delle “politiche attive” potrà comunque appendersi una medaglietta al petto. I giornali potranno titolare sul successo dell’operazione.
 
L’Unione Europea – ispiratrice di questo sistema neoliberale di workfare – potrà brindare al miglioramento delle statistiche sull’occupazione. E i lavoratori? I lavoratori troveranno un altro modo per vivere la loro condizione di disoccupazione attiva o di attivazione occupazionale permanente restando, in fondo, intermittenti del reddito e delle tutele.
E ancora: il soggetto potrebbe preferire non entrare nel quasi-mercato dei sussidi e delle politiche attive istituito con l’Anpal per evitare di essere ricattato, monitorato e disciplinato. In Italia sembra quasi inconcepibile questa eventualità, data l’assenza di una reale politica attiva. Casi simili si registrano in tutta Europa, dalla Francia all’Inghilterra e in Germania. Paesi dove il sistema di ricollocamento esiste. Il restringimento punitivo dei parametri, avvenuto nell’ultimo decennio, sta causando una fuga dal workfare da parte di soggetti che rifiutano di assoggettarsi alle nuove condizioni.
Le politiche attive del lavoro sono un concentrato di politiche neoliberiste con lo scopo di creare un “quasi mercato” dell’offerta di lavoro sia nel pubblico che nel privato. Il loro obiettivo è trasformare la governance inefficiente attuale in un dispositivo manageriale che funziona con premi, obiettivi e competizione tra istituzioni e imprese del reclutamento di forza-lavoro. La politica attiva del lavoro è un governo della vita.
 
Sono precari coloro che aiutano i disoccupati a trovare un lavoro
Ad oggi l’intero sistema dell’Anpal si regge sul precariato di 760 operatori i cui contratti sono stati da poco prorogati al 31 luglio 2017. E poi? Dovrebbero ripetere una selezione che hanno già fatto tra il 2015 e il 2016 per continuare a fare un lavoro che in molti casi svolgono da anni. E’ l’immagine speculare della forza lavoro che dovrebbero aiutare a “ricollocarsi”.
Il caso dei 760 precari di Anpal è significativo. Sono loro che dovrebbero seguire la “ricollocazione” dei licenziati Almaviva. Senza contare i mille “tutor” che dovrebbero seguire e formare le attività dell’alternanza scuola lavoro: una pedagogia neoliberale obbligatoria che serve ad addestrare gli studenti al lavoro inteso come stage permanente o vero e proprio lavoro gratuito che avrà un peso sul voto della maturità.
“È inaccettabile – scrivono gli interessati – che le risorse impegnate in progetti di ricollocazione, come il Piano Almaviva, garantiscano servizi a disoccupati vivendo sulla propria pelle una forte incertezza sul proprio futuro professionale e lavorativo. È necessario che Anpal e il Governo garantiscano l’inizio di un percorso di stabilizzazione che passi attraverso il rispetto dell’intesa quadro del 22 luglio 2015, la salvaguardia della continuità occupazionale dei lavoratori e delle attività di Anpal Servizi e la proroga dei contratti fino al 2020 senza passare per ulteriori selezioni visto che abbiamo già superato vacancies sulla programmazione 2014-2020”.
Non bisogna mai credere agli annunci degli aspiranti stregoni del mercato del lavoro. Sotto la patina dell’ottimismo tecnocratico, dentro le pieghe della neo-lingua, c’è sempre un’intenzione di controllo e governo. C’è sempre il precariato. Un dato può essere utile per dare un senso alle prospettive delle “politiche attive del lavoro” in Italia. Solo in Germania – stella polare delle classi dirigenti italiane sul workfare i mini-jobs e le politiche contro i poveri – nelle politiche del lavoro e nelle politiche attive sono impiegate circa 110 mila persone, oltre 11 volte in più rispetto ai circa 9 mila italiani, di cui circa 2 mila precari.
 
Roberto Ciccarelli 17.03.2017

Jobs Act, anche il centro studi di Biagi certifica flop: “Sempre più lavoratori a termine. Boom occupati? Solo over 50”

El-paro-aumenta-el-riesgo-de-pobreza.-Luis-SerranoA due anni dalla riforma, un working paper della fondazione Adapt fa il bilancio. Nonostante gli sgravi contributivi, costati circa 20,3 miliardi di euro, “non può dirsi oggi raggiunto l’obiettivo principale”, cioè invertire il rapporto tra i nuovi contratti a tempo determinato e quelli stabili. Nel 2007 erano a termine 13,7 lavoratori su 100, nel 2016 si è toccato il record di 14,4. Inoltre gli incentivi hanno giocato a sfavore dei giovani, il cui tasso di occupazione resta 8 punti sotto il livello pre-crisi
 
Che il Jobs Act abbia mancato gli obiettivi di diminuire la precarietà e rendere stabilmente più appetibili per i datori di lavoro i contratti a tempo indeterminato è ormai molto più che un sospetto dei sindacati o un’accusa delle opposizioni: basta guardare gli ultimi dati Inps sull’andamento di assunzioni e licenziamenti nel 2016. Ma ora, a due anni esatti dal suo varo, a sancire il flop di una delle riforme simbolo del governo di Matteo Renzi è un working paper della Fondazione Adapt, il centro studi fondato dal giuslavorista Marco Biagi due anni prima del suo assassinio per mano delle Nuove Brigate Rosse. La valutazione arriva dunque da una fonte cui non si può imputare un pregiudizio negativo nei confronti della flessibilità, considerato che porta il nome di Biagi la legge che ha introdotto in Italia i contratti a progetto, il lavoro occasionale e quello a chiamata.
Le conclusioni dell’analisi, firmata dal direttore generale di Adapt Francesco Seghezzi e dal ricercatore Francesco Nespoli, sono nette: per prima cosa, alla luce dei dati disponibili “non può dirsi oggi raggiunto l’obiettivo principale del Jobs Act, più volte comunicato, di invertire il rapporto tra il flusso dei contratti a tempo determinato e quello dei contratti a tempo indeterminato”, nonostante i generosi sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato concessi dal gennaio 2015 al dicembre 2016 proprio per spingere le stabilizzazioni siano costati alle casse dello Stato una cifra che l’articolo stima in “circa 20,3 miliardi di euro“, l’equivalente di una manovra finanziaria. Infatti appena la decontribuzione si è ridotta, nel 2016, “abbiamo assistito ad una crescita netta di 221mila contratti a tempo determinato (+187%)”.
Nel 2016 record di lavoratori a tempo determinato – Risultato: “Complessivamente sia nel 2015 che nel 2016 la percentuale degli occupati a tempo determinato sul totale dei lavoratori dipendenti è cresciuta. Se infatti nel 2007 13,2 lavoratori dipendenti su 100 avevano un contratto a termine, il numero è calato lievemente durante la crisi per poi tornare a crescere arrivando a 13,7 nel 2015 e al valore record di 14,4 nel 2016“. Tutto considerato, i dati finora disponibili mostrano secondo il paper come “l’investimento fatto non abbia portato ad un cambio strutturale delle preferenze delle imprese e come esso possa prefigurarsi come legato tuttalpiù a una modifica strutturale dei rapporti di convenienza economica delle due diverse tipologie contrattuali”. Per di più, il legame tra decontribuzione e attivazione di contratti suggerisce che le imprese favorite dal Jobs Act siano state “quelle che competono sui costi fissi piuttosto che sull’innovazione“.
“Ripresa occupazionale concentrata nella fascia più anziana” – Se poi si va a guardare quali fasce di età hanno beneficiato maggiormente delle stabilizzazioni, il risultato è quasi paradossale nel contesto di un Paese che ha un tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti d’Europa (per non parlare dei Neet): l’unica crescita consistente del tasso di occupazione si è registrata nel gruppo 50-64 anni. Andando ancora più a fondo, si scopre che “la ripresa occupazionale alla quale abbiamo assistito negli ultimi anni si è concentrata quasi totalmente sulla fascia più anziana della popolazione lavorativa italiana”. Una constatazione che “getta una diversa luce sulle possibili cause”, scrivono i ricercatori: vale a dire che “è quantomeno possibile introdurre tra i fattori l’aumento dell’età pensionabile e la conseguente diminuzione del numero dei pensionati italiani, diminuzione che ha fatto sì che il numero di occupati nella fascia 50-64 aumentasse, contribuendo quindi all’aumento complessivo degli occupati”. Più del Jobs Act, dunque, poté la riforma Fornero. Del resto, il fatto che gli incentivi non fossero differenziati – per esempio più alti per i giovani al primo impiego – “pare avere giocato addirittura a sfavore dei giovani, facendo propendere le imprese verso l’assunzione dei più esperti” anziché puntare su ragazzi da formare.
I contratti a tempo determinato nel 2016 hanno ricominciato ad aumentare – Le conclusioni del paper sono ovviamente basate sui dati ufficiali di Inps e Istat. Si parte dalle rilevazioni dell’istituto previdenziale sui nuovi contratti. Nel 2015 si sono registrati, al netto delle cessazioni e includendo le trasformazioni, 934mila contratti a tempo indeterminato in più. “È indubbio quindi che i provvedimenti, soprattutto quello della decontribuzione, abbiano generato nel 2015 una vera e propria impennata di contratti di lavoro”. Purtroppo però è altrettanto indubbio “che nel 2016 questo trend abbia subito una brusca frenata“: nel 2016 sono stati 82mila (-91%). Al contrario “sul fronte dei contratti a tempo determinato, la cui diminuzione era tra gli obiettivi di policy principali (se non quello primario) del Jobs Act, si assiste ad una dinamica opposta”. Se nel 2015 erano diminuiti di 253mila unità, l’anno scorso (quando lo sgravio contributivo è stato ridotto dal 100 al 40%) sono aumentati di 221mila, +187%.
 
Rispetto a prima della crisi 264mila lavoratori in meno – Passando alla panoramica del mercato del lavoro prima e dopo la riforma, il quadro è altrettanto negativo: “Alla fine del 2016 avevamo in Italia 22.783mila occupati, con un tasso di occupazione pari al 57,3% della forza lavoro. Un dato che confrontato con il 2007 pre-crisi mostra la diminuzione di 264mila lavoratori e soprattutto (considerando anche la crescita della popolazione e la forza lavoro cresciuta di 1,2 milioni di unità) la diminuzione dell’1,5% del tasso di occupazione“.
L’anno scorso 217mila nuovi occupati su 293mila sono stati over 50 – Quanto alla ripartizione dei benefici degli incentivi tra le diverse fasce di età, il tasso di occupazione dei 15-24enni che nel 2007 era al 24,2% e nel 2013 era sceso al 15,6% ha conosciuto solo un mini recupero, arrivando al 16,3% nel 2016: circa 8 punti in meno rispetto al periodo pre-crisi. Dinamica simile per la fascia della prima maturità, tra i 25 e i 34 anni: “se nel 2007 lavoravano 70,6 persone su 100 in tale coorte anagrafica, nel 2013 erano scese a 59,1 per risalire debolmente a 60,5 nel 2016”. Stesso andamento, anche se più contenuto nelle variazioni, per la fascia 35-49 anni. Al contrario, “l’unica crescita consistente si è verificata nel gruppo 50-64 anni che ha visto una crescita costante che ha portato la percentuale degli occupati dal 46,8% del 2007 al 53,8% del 2013 per poi salire ancora al 58,5% del 2016“. Depurare i dati dall’effetto della demografia, che “svuota” le corti più giovani, non migliora la situazione, anzi: “In una stima sul 2016 si evince che su un totale di 293mila occupati in più, sarebbero 217.000 quelli tra i 50 e i 64 anni, 49.000 coloro tra i 35 e i 49 anni e 27.000 tra i 15 e i 34 anni. Nell’ultimo anno quindi ad ogni nuovo occupato tra i 15 e i 49 anni sono corrisposti 2,8 nuovi occupati tra i 50 e i 64 anni”.
Sui licenziamenti troppo pochi dati. Ma sono aumentati quelli per giusta causa e giustificato motivo soggettivo – Meno schiaccianti le evidenze sul fronte dei licenziamenti: ancora oggi, spiegano Seghezzi e Nespoli, “mancano i dati che possano dirci con chiarezza se i contratti cessati in questo modo fossero o meno contratti stipulati dopo l’introduzione delle norme istitutive delle tutele crescenti. Per questo motivo non si può oggi ragionevolmente sostenere né che il Jobs Act abbia generato un aumento di licenziamenti, né il contrario”. Si può però prendere atto del fatto che tra 2014 e 2016 c’è stato un aumento costante dei licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, mentre è stato più altalenante l’andamento di quelli per giustificato motivo oggettivo e dei licenziamenti collettivi, diminuiti nel 2015 e aumentati nel 2016.
 
La conclusione del paper è che se un governo intende davvero promuovere le assunzioni a tempo indeterminato è inutile “armarsi e scendere nel campo di battaglia dei numeri che ogni mese vengono diffusi”. Bisogna “discutere l’idea profonda del mercato del lavoro che vogliamo costruire, senza pensare di poter affrontare una grande trasformazione, ormai ammessa da tutti, rinverdendo un poco strumenti vecchi. Una rivoluzione implica risposte all’altezza della sfida, o quanto meno domande per un’analisi meno approssimativa possibile”.
di Chiara Brusini | 14 marzo 2017

DEMENZA DIGITALE

lavoro tecIl ras di quello che una volta era il partito dei lavoratori si è recato recentemente in visita negli Stati Uniti, alla Corte dei capitalisti della Silicon Valley.
L’ ex premier Matteo Renzi, come nel suo stile, ha trionfalisticamente annunziato l’iniziativa transcontinentale motivandola con la necessità di dovere apprendere da quelli che, per capirci, con l’informatizzazione, la digitalizzazione, la robotizzazione e la rete informatica guadagnano denari a palate. E così mandano sul lastrico milionate di aziende e lavoratori.
Chi vi scrive non appartiene di certo alla ristretta cerchia del giglio magico. Allorquando opportunamente interpellato lo scrivente, comunque, si sarebbe adoperato per evitare al leader piddino la defatigante esperienza californiana.
 
Non è. invero, necessario recarsi di persona nella lontana Silicon Valley per intuire i meccanismi che determinano il formidabile successo di aziende come Amazon, Microsoft, Apple, Google, Netflix twitter, starbucks, Adobe. Bisogna però avere l’onestà intellettuale di riconoscere che tale successo fonda su un modello sociale ed economico nefasto.
Pochi sanno che, insieme, tali imprese capitalizzano in borsa oltre 2718 miliardi di dollari. Molto di più del prodotto interno lordo italiano che vale, invece, 1961 miliardi. I vertici di tali colossi del web sono quelli che recentemente si sono messi anche a far politica. Come un sol uomo sono insorti contro la decisione di Trump che aveva bloccato gli ingressi negli Stati Uniti provenienti da stati canaglia.
 
Queste aziende, per capitale e fatturato di questo settore, contano oltre 900.000 dipendenti. Amazon, da sola, impiega 306.800 persone per smistare, a basso costo, pacchi in 14 paesi. Mentre Starbucks, con fatturato decisamente più basso, si serve di 238.000 dipendenti per recapitare dolcetti e caffè americani in tutto il mondo. E’ intuitivo comprendere che costoro si oppongono, allora, alle scelte di contrasto dei flussi immigratori incontrollati non certamente per ragioni umanitarie.
Le ondate di disperati, disponibili a lavorare a basso costo, rappresentano un ineliminabile pilastro del loro successo. Il dumping commerciale che tale aziende praticano postula la disponibilità di un elevatissimo numero di dipendenti disponibili a farsi sfruttare per salari da fame. E l’immigrazione alimenta l’offerta di manodopera disponibile a lavorare a basso costo. Renzi, di ritorno dalla Silicon Valley, avrà finalmente compreso l’ arcano della new economy. Ed a sinistra i nodi giungono al pettine.
 
Sul tema del lavoro, da che parte sta la sinistra? Con Uber, per esempio, o con i tassisti? La questione va correttamente affrontata in termini di principio. Stare con Uber significa accettare quella sharing economy che sta progressivamente annientando il mercato ed il mondo del lavoro. Si tratta di un progressismo peculiare, che piace molto alla grande finanza, agli intellettuali politicamente corretti, foraggiati da contratti che a loro riservano le reti pubbliche o le maggiori testate giornalistiche.
Chiunque non sia in malafede non può più negare che la robotizzazione e la digitalizzazione determinano la drastica riduzione di posti di lavoro e un progressivo aumento della disoccupazione.
Nell’arco di dieci anni, stando ad autorevoli stime, il tasso di disoccupazione passerà dal 10 al 47%. Di fronte a tale stato di cose, ed alle conseguenti prospettive, siamo ormai chiamati tutti ad consapevole presa di posizione universale: o si sta a favore del lavoro oppure ci si schiera a beneficio dei visionari dell’ultratecnica.
La sinistra renziana, invece, promette di tutelare i lavoratori ma intraprende politiche di governo che favoriscono la precarizzazione di tutte le forme di lavoro. Renzi poi una scelta definitiva sembra averla fatta: pubblicamente celebra Google, Apple, Amazon.
Negli Stati Uniti incontra Musk, imprenditore miliardario della new economy, profeta del transumanesimo, che progetta ed investe nella produzione di veicoli senza guidatore e preconizza che uomini l’ibridazione dell’umanità.
Nel frattempo, mentre i vertici del Pd si gingillano ad eludere temi centrali per le prospettive del mondo del lavoro, secondo i dati del Viminale, gli sbarchi segnano un inquietante aumento del 44% rispetto all’anno scorso. Gli immigrati in arrivo sono in gran parte della Nuova Guinea, Costa d’avorio, Nigeria e Senegal, Gambia. Nessuno proviene da scenari di guerra. Si calcola che nel 2017 possa essere superata la cifra dei 200.000 sbarchi. Coloro che si riempiono la bocca di retorica dell’accoglienza – ed il portafoglio di contributi destinati alle strutture di scopo – possono riferirci quali realistiche prospettive di assorbimento, in un mercato del lavoro che va rapidamente assottigliandosi, siamo in condizione di garantire a questi disperati ed ai nostri disoccupati ?
Mar 06, 2017 di Carmine Ippolito
Fonte: Katehon

Greci che mangiano gli avanzi dei profughi

cibo migrantigli indigeni, soprattutto quelli dell’europa dei popoli possono schiantare, non è razzismo. L’importante che i “richiedenti” asilo non debbano soffrire la fame, i greci non sono umani degni di essere nutriti e curati.
Greci che mangiano gli avanzi dei profughi
Da Ritsona (Eubea, Grecia). Per arrivare al campo profughi di Ritsona occorre prendere il treno che da Atene porta a Salonicco, cambiare ad Inoi e scendere nella minuscola stazione di Avlida. Quindi una corsa di dieci minuti in macchina fra le colline punteggiate di ulivi conduce a una vecchia base militare dell’aeronautica greca sperduta nella campagna, fra la polvere e il fango. Qui stanno, da marzo, settecentotrenta profughi scappati dal Medio Oriente, in attesa di documenti che li riconoscano come rifugiati politici. Quasi nessuno è partito con l’idea di restare in Grecia, ma la chiusura delle frontiere li ha sorpresi a metà del cammino verso l’Europa più ricca, bloccandoli in un limbo senza senso.
In tutto il Paese sono oltre sessantaduemila i migranti che aspettano di conoscere il proprio destino. Dopo il controverso accordo con fra Ue e Turchia per porre un freno ai flussi migratori, il governo di Ankara ha fermato sì le partenze dall’Anatolia, ma la pressione sulla Grecia non è diminuita. In base al Regolamento di Dublino III, i migranti sono obbligati a presentare la domanda di asilo nel primo Paese Ue in cui mettono piede: una scelta politica che scarica l’onere dell’accoglienza su Italia e Grecia, in prima linea nel fronteggiare l’emergenza.
I profughi dunque non possono proseguire, perché hanno già presentato richiesta di asilo alle autorità elleniche – e non possono tornare indietro, poiché la Turchia non li vuole. Le condizioni di vita variano da campo a campo e i Greci fanno di tutto per prodigarsi nell’accoglienza.
A Ritsona è stato fatto molto per alleviare le sofferenze dei profughi, che per il 95% dei casi provengono dalle regioni della Siria più colpite dalla guerra civile.
Con l’aiuto delle ong e di molte sigle del volontariato internazionale, da novembre i container hanno preso il posto delle tende, del tutto inadatte ad affrontare le rigide temperature invernali dell’Eubea. Il terreno in terra battuta, che alle prime piogge si trasformava in una palude, è stato ricoperto di ghiaia e grazie ai volontari sono state allestite una palestra e un asilo.
 
Il campo ospita infatti anche trenta neonati e duecentocinquanta bambini, che nel pomeriggio vanno a lezione nella scuola del paese, lasciata libera dai bimbi greci.
 
Gli adulti, invece, con moltissimo tempo a disposizione e quasi nulla da fare, si ingegnano per ingannare il tempo. Alcuni siriani collaborano alla gestione di un piccolo bar interno al campo. Qualcuno si è reinventato carpentiere, altri hanno aperto piccoli negozi per vendere qualche ortaggio o un pacchetto di sigarette.
 
Una volta presentata la richiesta di asilo possono passare anche sei mesi prima di ottenere una risposta. Il nemico principale diventa allora la noia.
“Le persone che vivono qui sono perlopiù stanziali – spiegano i responsabili di Echo100Plus, l’organizzazione no profit che si occupa della distribuzione dei beni di prima necessità – La stragrande maggioranza vuole andarsene: bisogna accelerare le procedure per definire lo status giuridico di queste persone. Anche per la Grecia si tratta di un carico molto pesante da sopportare”.
La regione di Ritsona è infatti pesantemente colpita dagli effetti della crisi economica e in molti, rimasti senza lavoro, faticano a procurarsi il necessario per vivere.
La fotografia più nitida di questo difficile stato di cose è forse la piccola folla di persone che ogni settimana si mettono in fila per ricevere il cibo in eccesso avanzato al campo profughi. Quando i migranti avanzano parte del cibo sono i volontari legati della chiesa ortodossa che ritirano il tutto, perché sia distribuito ai poveri.
“Io stesso sono senza lavoro – spiega il venticinquenne Adonis, mentre carica in macchina gli scatoloni con gli avanzi – In questa regione come in tutta la Grecia non c’è lavoro e la gente non ha da mangiare. Ma sarebbe un peccato se questo cibo venisse sprecato, così lo portiamo ai senzatetto.”
 
Intendiamoci, gettare il cibo nella spazzatura è un delitto che grida vendetta. Dar da mangiar agli affamati è viceversa un dovere morale che non sempre lo Stato greco riesce ad assolvere. In altre città sono stati i profughi stessi a portare il cibo ai senzatetto greci, raccogliendone entusiasmo e gratitudine.
 
Ma questo affollamento di disperazione e miseria non può che porre in luce – ancora una volta, casomai ce ne fosse ancora bisogno – l’ipocrisia di un’Europa che a parole si proclama solidale e nei fatti costringe la maggior parte dei profughi in un Paese che più di ogni altro è piegato da una crisi senza precedenti e che esso stesso è ormai alla fame. Anche questo è un peccato che grida vendetta.
posted by Redazione febbraio 2, 2017

Emergenza abitativa

blocco sfrattistronzate. Gli italiani sono ricchi ed hanno tutte le tutele e diritti immaginabili. Famiglie e disabili che dormono in macchina? Solo propaganda populista.


Quello alla casa è un diritto. Per tutti. Anche per chi è sprovvisto di risorse economiche. A tutela dei quali, a partire dagli anni novanta, diverse leggi – la prima nel 1993, la numero 560 – hanno imposto la vendita del patrimonio residenziale pubblico per sopperire alla carenza degli alloggi. Lodevole se non fosse  che la scelta sembrerebbe, alla luce dei fatti successivi, essere stata partorita per fare cassa e mettere in ordine i conti pubblici piuttosto che con il buon proposito di raccogliere risorse per ristrutturare o costruire nuove strutture. A conferma di ciò, negli stessi anni, lo Stato ha, man mano, ridotto i suoi interventi in materia di politiche abitative, lasciando che se ne occupassero regioni e comuni.
 
Con le leggi numero 449 del 1997 e numero 388 del 2000, gli alloggi di proprietà dello Stato sono stati ceduti gratuitamente ai comuni. Che mantengono prerogative fondamentali, vedi stilare le graduatorie e assegnare le case conseguentemente. Ma, a oggi, sono seicentocinquantamila, con un incremento di quarantaseimila negli ultimi tre anni, le domande inevase di alloggi popolari, non riuscendo, gli enti locali, ad arginare il disagio abitativo, sempre più stringente.
 
Un po’ perché la crisi economica ha aumentato i potenziali destinatori degli alloggi sociali un po’ per l’attuazione di pratiche negative derivanti da criticità nelle politiche. Tipo: la disparità di trattamento fra i cittadini delle varie Regioni, la difficoltà di far coincidere i bandi e la relativa tempistica con la disponibilità degli alloggi o la rigidità delle regole per la formazione e la gestione delle graduatorie.
Sebbene ogni comune abbia, nel suo bilancio, una voce che finanzia le attività relative all’edilizia economica e popolare che comprende anche i costi per mantenere gli uffici che se ne occupano, il quadro è molto variegato e cambia da città a città. Il comune che spende di più per l’edilizia pubblica è Milano con settantacinque euro pro capite, seguito da Venezia con quarantadue euro e da Firenze con poco più di trentotto euro. Roma si piazza all’ottavo posto mentre, nelle ultime posizioni della classifica, stanziano Palermo, Genova e Trieste, tutte con meno di cinque euro per residente.
 
E per avere una misura dell’emergenza abitativa, non si può prescindere dai dati sugli sfratti (spesso per morosità e, perciò, con la conseguente immediata necessità di una sistemazione). La città più colpita dal fenomeno, con uno sfratto ogni duecentosettantadue famiglie, è Roma e Milano è al settimo posto. Al secondo, Genova, con uno sfratto ogni trecentodiciassette famiglie, ma penultima per spesa pro capite in edilizia popolare.
Che la morosità sia colpevole o incolpevole, che ci sia la tendenza a nascondere una parte del reddito per rientrare negli scaglioni più bassi con il conseguente sconfinamento nell’evasione fiscale o che, per la forte tensione abitativa tipica di certe aree urbane, la faccia da padrone l’abusivismo, sostenuto da periodici provvedimenti di sanatoria per regolarizzare posizioni non proprio legali, il malfunzionamento della macchina lascia, in troppi, senza casa.
 
Lunedì 30 Gennaio 2017
di Tania Careddu

Il suicidio di Michele da Udine e la necessità di riscoprire vita&politica

michele-suicida-a-30-anni-perche-precario-lutto-allorientalePochi giorni fa Michele da Udine decideva di togliersi la vita e prima di farlo ha scritto una delle più belle lettere che si possano leggere (se non la conoscete ancora, la trovate qui.). Michele aveva trent’anni ed era un ragazzo friulano e se i friulani hanno un vizio è quello che non riescono a raccontarsi balle; sono impermeabili agli edulcoranti sociali, talvolta incastrati nella rigidità, ruvidezza delle cose, per quanto possano essere sensibili, quindi Michele, questo ragazzo dal nome di un angelo, non riusciva a raccontarsi che la vita che stava vivendo era degna di essere vissuta e ha preso la decisione più ferma, estrema, crudele che si potesse prendere.
Michele non era un migrante e nemmeno una persona con problemi di genere. Non ambiva ad adottare un bambino insieme a un compagno omosessuale e nemmeno a sposarcisi insieme con rito civile nella Capitale. Per questo, evidentemente, non era alla moda, e quindi i suoi bisogni, come quelli di tutti i suoi coetanei o dei ragazzi delle generazioni precedenti, non andavano presi troppo in considerazione.
Quanti altri ragazzi come Michele devono prendere decisioni simili perché qualcuno si renda conto che siamo noi quelli da tutelare e non sempre e solo i “diversi” o chi viene da tutt’altra parte del mondo?
Di quante tragedie si deve lastricare la storia italiana perché ci rendiamo conto che noi, prima degli altri, siamo il bene più prezioso e che c’è una gerarchia di importanza delle cose da rispettare?
E ovviamente non ci saranno manifestazioni per Michele. La gente non scenderà in piazza come contro Trump. Non si faranno assemblee. Il massimo, una scritta, a Bologna: “Per Michele e la nostra generazione l’unica garanzia è la vendetta”. Che però è stata debitamente cancellata.
Michele si è ucciso nella settimana di Sanremo, mentre Carlo Conti prende 650.000 euro per la conduzione e direzione artistica del festival, Tiziano Ferro 250.000 (o forse ancora qualcosa di più) e mentre le amabili arpie della televisione si scambiano frecciate a mezzo Twitter sul tema spacchi-e-scollature.
Ma voi che leggete questo pezzo, voi potreste fare qualcosa. Iniziate con lo spegnere la televisione. Spegnetela, spegnetela e basta, e vedrete che se tutti quanti la spegniamo comincerà a essere difficile che Carlo Conti percepisca 650.000 euro. Rai, Mediaset e poi tutti i canali a pagamento, e il grande successo delle serie TV, e il calcio milionario senza più significato e le forme d’arte concepite come prodotti da discount e internet che ci ossessiona e il telefono sempre connesso. Dio, non ne avete abbastanza?
Guardiamo in faccia tutta la realtà, spalanchiamo i nostri occhi su tutto questo vuoto, finché non ci spaventeremo a sufficienza. E smettiamo di lasciare la politica a mafiosi, cinici, incapaci, corrotti; smettiamo di farci incantare dai toni e dalle sfumature e da un bell’abbigliamento o una buona pronuncia inglese. Riprendiamo a parlare tra di noi, a immaginarci strade nuove, a cercare soluzioni pratiche per i nostri desideri, ad aiutarci, a costruire alternative indipendenti, a impegnarci non solo per questioni egoistiche – perché poi, alla fine dei conti, l’egoismo è la cosa meno egoista che ci sia.
 
Laceriamo questo manto di droghe che ci hanno apparecchiato davanti da quando andiamo a scuola. Le parole che non si possono dire, le questioni che non si possono toccare, le storie da imparare a memoria e una massa, un intrico di problemi e vincoli con cui ci fanno credere che governare è cosa assai complessa, una specie di slalom per gente in gamba, e quindi meglio lasciarla a gruppi maturi e con buone relazioni. Facciamola finita con questa religione delle Buone Relazioni, impariamo a uscire dal torpore e dalla comodità, a prendere l’iniziativa, a valutare con la nostra testa persone e capacità.
Torniamo a cercare la vita, la vita al massimo, come ha scritto Michele, la vita fatta di carne e respiro, quella che non si trova né nel telefonino né tra i download di internet.
 
Ma da quant’è che non vi sentite il sangue pulsare come quando eravate bambini? Da quant’è che avete smesso di innamorarvi di qualcosa? Di respirare, di sperare, di credere in idee che non siano immediatamente tangibili, monetizzabili? Da quanto avete relegato l’idealismo nello spazio delle cose inutili e addirittura dolorose? Fate che i vostri battiti non si alzino solo per un film al cinema o per un video su YouTube. Questa è la vita che deve esistere e che dobbiamo cercare. Questa è la politica, la politica bella, vera, non quella che stanno facendo da decine di anni centinaia di burocrati inutili impegnati in calcoli da settimana enigmistica, tra polizze e bidoni delle immondizie.
Da questi possiamo aspettarci poco, è evidente. Siamo noi che abbiamo il diritto e il dovere di inventarci un’alternativa. Di dare un senso alla vita. Come volete il vostro futuro? Cosa preferite rischiare, di fare uno sforzo ora oppure di non cambiare nulla e poi accorgervi troppo tardi del male che vi siete fatti?   Facciamo che Michele non si sia ucciso per niente, che ci possa insegnare qualcosa: è il minimo che gli dobbiamo.
di Silvia Valerio – 10/02/2017
Fonte: Barbadillo