Perchè l’Occidente sta aiutando l’Isis a diffondere l’isterismo

Il Washington Post – insieme ad altri – si è gettato con slancio nella scia di un presunto attacco terroristico nella capitale tedesca prima che fosse stata diffusa alcuna prova e perfino prima che la polizia tedesca arrestasse un sospetto.
 
Un camion è piombato su un affollato mercatino di Natale, uccidendo 12 persone e Risultati immagini per tagliagole siria Usaferendone molte altre in un attacco molto simile a quello di Nizza, in Francia, dove un camion ha falciato la folla uccidendo 86 persone e ferendone diverse centinaia.
 
Divulgare la propaganda dell’ISIS
 
L’articolo del Washington Post e altri simili ad esso hanno seguito la linea secondo cui l’auto-proclamato “Stato Islamico” (ISIS) è stato il presunto responsabile dell’attentato. Senza lasciarsi scoraggiare dalla mancanza di prove, il Washington Post e altre fonti di informazione – desiderosi di capitalizzare l’attacco per dare seguito alla narrativa occidentale [sul terrorismo] – sono saltati alla conclusione che l’attacco avesse l’obiettivo di “inasprire la divisione tra i musulmani e tutti coloro che non lo sono”.
 
La rivendicazione dell’agenzia di stampa ufficiale Amaq è stata breve e penosamente familiare: un “soldato dello Stato Islamico” è stato l’artefice di un nuovo attacco ai danni di civili in Europa, questa volta ad un festoso mercatino di Natale a Berlino.
 
La fondatezza della rivendicazione è stata sollevata martedì, mentre le autorità tedesche erano alla ricerca tanto di un sospetto quanto di una motivazione alla base dell’attacco contro le persone che festeggiavano l’arrivo delle vacanze natalizie. Ma sembra che l’attentato avesse già raggiunto uno degli obiettivi dichiarati dello stato Islamico: diffondere la paura e il caos in un paese occidentale, nella speranza di rendere più marcato il divario tra i musulmani e tutti gli altri.
 
L’“analisi” del Washington Post non spiega il motivo per cui l’ISIS dovrebbe colpire una nazione che finora ha giocato solo un ruolo minore nelle operazioni anti-ISIS, né la logica che starebbe dietro al provocare una frattura ancora più ampia tra i musulmani e l’Occidente. Ad un certo punto, il Washington Post suggerisce che l’ISIS starebbe cercando di bloccare il flusso di rifugiati dai loro territori d’origine verso nazioni come la Germania che hanno una politica di porte aperte ad accoglierli.
 
In realtà, il Washington Post e gli “esperti” che ha intervistato stanno solo cercando di perpetuare il mito di ciò che ISIS è e quali sono i suoi obiettivi e le sue motivazioni.
 
Comprendere cos’è veramente l’ISIS e quale scopo sta davvero servendo, va oltre lo spiegare perché l’accaduto sia stato così impazientemente etichettato come “attacco terroristico” e perché è probabile che si verifichino altri episodi del genere.
 
L’ISIS è stato creato da e per il cambio di regime in Siria e altrove
Il governo degli Stati Uniti, in un memorandum della Defense Intelligence Agency (DIA) datato 2012 e rivelato grazie a una fuga di notizie, avrebbe ammesso che “alcune potenze”, incluso “l’Occidente” supportavano la nascita di ciò che a quel tempo veniva chiamato un “regno salafita” nell’est della Siria, esattamente dove l’ISIS ha oggi la propria base.
Il report del 2012 trapelato (.pdf) dichiara (grassetto aggiunto):
Se la situazione si sviluppa c’è la possibilità di stabilire un dichiarato o non dichiarato regno salafita nell’est della Siria (Hasaka e Der Zor), e questo è esattamente ciò che le potenze che supportano l’opposizione vogliono, in modo tale da isolare il regime siriano, che è considerato il fulcro strategico dell’espansione sciita (Iraq e Iran).
Giusto per chiarire chi fossero le “potenze che supportavano” la creazione di un regno (Stato) salafita (Islamico), il report della DIA spiega:
 
L’Occidente, i Paesi del Golfo e la Turchia supportano l’opposizione, mentre Russia, Cina e Iran supportano il regime.
Nel 2014, in un’email tra il Consigliere USA del Presidente, John Podesta, e il precedente Segretario di Stato americano Hillary Clinton, essi avrebbero ammesso che due dei maggiori alleati americani nella regione – Arabia Saudita e Qatar – stavano fornendo supporto finanziario e logistico all’ISIS.
L’ email, rivelata al pubblico grazie a Wikileaks, affermava…dobbiamo usare i nostri mezzi diplomatici e l’intelligence più tradizionale per fare pressioni sui governi di Qatar e Arabia Saudita, che stanno fornendo sostegno finanziario e logistico all’ISIS e ad altri gruppi radicali sunniti della regione in modo clandestino.
 
Mentre l’email ritrae gli Stati Uniti impegnati in una lotta proprio contro quel regno (Stato) salafita (Islamico) che hanno contribuito a creare e ad usare come asset strategico nel 2012, il fatto che Arabia Saudita e Qatar siano entrambi riconosciuti come stati che supportano le organizzazioni terroristiche – e che entrambi godano ancora di un enorme sostegno militare, economico e politico da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati europei – rivela quanto la “guerra” all’ISIS sia in realtà ipocrita.
L’attacco relativamente recente alla città siriana orientale di Palmira ha avuto luogo lungo un fronte di 10 chilometri e ha visto in campo armamenti pesanti, centinaia di combattenti, ed è stato possibile solo grazie ad un gigantesco e continuativo appoggio statale, come è stato per ogni conquista dell’ISIS nella regione.
L’ISIS e gli “altri gruppi radicali sunniti” rimangono l’unica opposizione armata di un certo rilievo in campo contro il governo siriano.
 
Già nel 2007, come rivelato dal giornalista vincitore del Premio Pulitzer Seymour Hersh nel suo articolo del 2007, “Il Cambio di Rotta: la nuova politica del governo sta avvantaggiando i nostri nemici nella guerra al terrorismo?,” era chiaro che gli Stati Uniti fossero intenzionati ad armare e sostenere i militanti collegati ad Al Qaeda per rovesciare i governi di Siria e Iran, e a farlo attraverso il riciclaggio di armi, denaro e altre forme di supporto, servendosi di intermediari tra cui l’Arabia Saudita.
L’ISIS non è altro che la piena manifestazione di questa cospirazione documentata ormai da molto tempo.
Quindi cosa mirava davvero a raggiungere l’attacco di Berlino?
Se aggiriamo le false narrative facilmente verificabili che circondano il mito delle origini e delle motivazioni che guidano l’ISIS, e riconosciamo che l’Occidente ha creato tutto di sana pianta per raggiungere i propri obiettivi geopolitici, intravvediamo come gli attacchi di Nizza, in Francia, e a quanto pare anche quello di Berlino, in Germania, siano volti ad alimentare una vantaggiosa strategia della tensione in cui i musulmani sono sempre più presi di mira e isolati in Occidente, prontamente ingaggiati da terroristi a cui viene permesso di operare proprio sotto il naso delle agenzie di sicurezza e di intelligence occidentali, e inviati a combattere le guerre per procura dell’Occidente in Siria, Iraq e, prima o poi, in Iran.
 
Mentre le spiegazioni intessute da quotidiani come il Washington Post cambiano con il mutare del vento e danno ogni giorno un’interpretazione diversa alla creazione e alle azioni dell’ISIS, il calcolo dell’Occidente – messo in luce da Seymour Hersh nel 2007, documentato in un memorandum della DIA nel 2012, ammesso in un’email trapelata nel 2014, nonché evidente nelle attuali operazioni su vasta scala dell’ISIS in Siria, possibili solo con un supporto statale sostanziale – è unico nella sua natura e ormai palese da anni – perfino prima che il conflitto in Siria avesse inizio.
Fino a quando Washington e i suoi alleati riterranno conveniente dal punto di vista geopolitico mantenere l’ISIS in vita – da usare sia come una forza mercenaria nelle guerre per procura sia come pretesto per un intervento militare diretto dell’Occidente ovunque le organizzazioni terroristiche opportunamente “appaiono”, attacchi come quelli di Bruxelles, Parigi, Nizza, e ora – come sembra – Berlino, continueranno a verificarsi.
In qualsiasi momento Washington e Bruxelles lo decidessero, potrebbero smascherare il ruolo di sostegno all’ISIS di Arabia Saudita e Qatar. In qualsiasi momento lo decidessero, potrebbero anche denunciare e smantellare la rete globale di madrasa che entrambe le nazioni – con la collaborazione delle agenzie di intelligence occidentali – usano per ingrossare i ranghi di organizzazioni terroristiche come ISIS e Al Qaeda.
Invece, l’Occidente aiuta segretamente l’Arabia Saudita e il Qatar ad espandere e indirizzare queste reti terroristiche – utilizzandole come forze mercenarie nelle guerre per procura e come un pretesto pronto all’uso per giustificare interventi militari in territori stranieri e come strumenti per dividere e distrarre costantemente l’opinione pubblica nazionale.
Se gli stati che sponsorizzano il terrorismo venissero smascherati e tolti dall’equazione, gli Stati Uniti e i loro alleati europei si ritroverebbero impegnati sul campo di battaglia ai quattro angoli del mondo, coinvolti in rovesciamenti di regimi, invasioni e occupazioni senza alcun credibile casus belli.
Con gli Stati Uniti e i loro alleati determinati a ribadire e mantenere l’egemonia globale ovunque dal Medio Oriente e Nord Africa all’Asia centrale e orientale, la minaccia prefabbricata del terrorismo sponsorizzato dallo stato – cioè sponsorizzato dai più antichi e maggiori alleati arabi dell’Occidente e dall’Occidente stesso – persisterà negli anni a venire.
Tony Cartalucci è un ricercatore di geopolitica e scrittore che vive a Bangkok e scrive in particolare per la rivista online New Eastern Outlook”
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ELEONORA FORNARA

DA PARIGI A BERLINO, QUEL GIALLO DEI PASSAPORTI DEGLI ATTENTATORI “RITROVATI” SUI LUOGHI DEGLI ATTENTATI

Sul camion assassino di Berlino è stato ritrovato un documento che porta sulle tracce del killer. Sarebbe un tunisino e ora lo stanno cercando. È anche trapelato il nome ma non lo riportiamo per senso di pudore.
Spieghiamo: questa storia di documenti ritrovati su macchine usate per gli attentati è roba abusata. Fin dall’11 settembre, da quando il documento di Mohamed Atta fu ritrovato tra le rovine fumanti delle Torri gemelle (l’incendio fu domato solo due mesi dopo), va avanti questa improbabile reiterazione.
Così a Nizza, così nell’attentato al giornale Charlie Hebdo, i documenti dei terroristi appaiono magicamente sul luogo del delitto chiudendo l’inchiesta prima che inizi.
In realtà le indagini di Berlino avevano già portato a un risultato, il famoso pakistano arrestato ieri, che poi si è scoperto essere del tutto innocente. Una falsa pista che ha fatto perdere un giorno prezioso. Utile all’assassino per far perdere le sue tracce, e magari abbandonare il Paese.
 
Come per Charlie Hebdo l’attentato è opera di professionisti. L’uomo, o gli uomini che hanno colpito a Berlino, hanno sequestrato il camionista polacco verso le quattro del pomeriggio. Per poi prendere dimistichezza con il mezzo, come indicano le accensioni del motore multiple registrate dal gps.
 
Presumibilmente hanno motivato il loro gesto come un tentativo di furto, che ha consentito loro di convincere il conducente a seguirli sotto minaccia delle armi.
 
Particolare importante, appunto, che indica l’opera di professionisti: se avessero ucciso l’uomo prima dell’azione c’era il rischio che il corpo fosse scoperto, mandando all’aria tutto (sarebbe scattata la caccia al camion).
 
Né per lo stesso motivo è ipotizzabile sia stato ucciso molto prima del fatto, ché girare con un cadavere nell’abitacolo può destare attenzione.
Come per Charlie Hebdo anche a Berlino non si riscontra l’opera di kamikaze, come usano i jihadisti, altro indizio di professionismo.
 
Professionisti che non hanno agito secondo le istruzioni del perfetto attentatore riportate nel dettaglio sulle riviste patinate del Terrore (Dabiq, Rumiyah).
 
Secondo tali istruzioni, una volta che il camion lanciato sulla folla si è arrestato, il guidatore killer dovrebbe scendere e continuare la mattanza con armi da taglio (più facili da reperire e da far passare inosservate).
 
Nulla di tutto questo è successo a Berlino. L’attentatore o gli attentatori dopo aver lanciato il camion sulla folla si sono dileguati, anzi per usare un termine più corretto sono esfiltrati tramite una via di fuga. Conservando in questo frangente un perfetto sangue freddo (altro che pazzo esaltato…).
 
Nessun urlo “Allah Akbar” o altro, come d’uso. Chi ha ucciso si è semplicemente eclissato, come un criminale comune che tiene alla sua vita e alla sua libertà.
 
Ma veniamo a un particolare oggi molto pubblicizzato, che fa ipotizzare un’esfiltrazione un po’ più complessa di quella che si era immaginato ieri, quando si è inseguito il richiedente asilo poi risultato innocente.
 
A quanto ripetono i media, fonte polizia, la cabina del camion risulta inondata di sangue. Particolare che denota, secondo tali ricostruzioni, una lotta interna: il conducente del camion avrebbe combattuto contro il suo/i assalitore/i prima di essere ucciso.
 
Usiamo il plurale perché l’autista polacco era un colosso (così il fratello e le foto), e ci volevano due uomini a tenerlo a bada. Anzi uno armato, mentre l’altro guidava. D’altronde immaginare un ladro di camion che guida per ore con a fianco, libero, un energumeno ostile è alquanto difficile.
 
Come è difficile ipotizzare, come fanno tante ricostruzioni, che sia stato proprio il conducente eroe a deviare il camion, impedendo che la strage fosse maggiore.
 
Presupporrebbe che l’assassino, o gli assassini, si siano lanciati sulla folla con il colosso ancora vivo a bordo, cosa invero bizzarra da immaginare per dei professionisti che ben sanno che a quel punto sarebbe scattata una reazione spontanea dettata dalla disperazione, che poteva far fallire tutto.
Più probabilmente la lotta è avvenuta un momento prima che il camion fosse avviato al suo ultimo appuntamento. Il conducente polacco doveva essere eliminato per tacitare un testimone scomodo, altro segno di professionismo.
 
Il rapito deve aver reagito e ne è nata una colluttazione, terminata con la sua morte. Deve esser avvenuto poco prima, si è detto, e per avere la meglio, il sequestratore ha utilizzato, oltre che l’arma da taglio, anche una pistola. E questa col silenziatore perché non si deve sentire la detonazione (che non si è sentita). Arma non usuale nelle operazioni dei jihadisti.
 
A questo punto il camion è stato lanciato sulla folla, con uno o due uomini a bordo. Uno dei due, infatti, potrebbe esser sceso subito dopo l’omicidio del conducente, per dileguarsi (magari usando un’automobile, come vedremo di seguito).
 
Quindi la corsa assassina, appunto. Dopo la quale l’autista-assassino semplicemente scompare. C’è sangue nella cabina, si è detto, tanto sangue. Tanto che il primo indiziato è stato scagionato proprio dal fatto che i suoi abiti erano puliti (e dalla prova dello stub, che ha escluso abbia sparato).
Davvero difficile immaginare qualcuno che cerca di nascondersi tra la folla, prendere un mezzo o la metro, coperto di sangue. Più probabile che, sul luogo, vi fosse un’automobile pronta ad accoglierlo/i e a farlo/i esfiltrare.
Insomma, un’operazione un po’ più sofisticata e complessa di quanto viene raccontato. Che prevede l’opera gente spietata, sì, ma non esaltata. Professionisti, appunto.
 
Che non vanno a compiere attentati portandosi dietro un passaporto o, se anche fosse, non lo perdono sul luogo del delitto, dal momento che è tra le cose più importanti da evitare.
 
Un passaporto comparso peraltro, magicamente, solo il giorno successivo alla strage, altrimenti non avrebbero arrestato subito un innocente.
 
Possibile che siamo davanti, per l’ennesima volta, a dei professionisti oltremodo sbadati. E però qualcuno potrebbe avanzare il sospetto che magari si sia cercato un capro espiatorio per chiudere la vicenda e per evitare che dilagasse il panico. O altro e più oscuro. A pensar male, purtroppo, spesso ci si azzecca.
Fonte: qui 22/12/2016

State calmi, è strategia della tensione + Omicidio Karlov: un’esecuzione in diretta, opera di cani rabbiosi

Ankara, Zurigo, Berlino.  Il più grosso è ovviamente a Berlino, 9 morti una cinquantina di feriti – modus operandi simile all’attentato di Nizza del 14 luglio;  è la prima volta che un vero attentato “alla francese” colpisce la Germania. La Francia ha ed ha avuto le mani in pasta in Siria, fa i giochi sporchi da anni; Berlino è rimasta neutrale.   A Zurigo, uno sconosciuto ha sparato in  un centro islamico.  State calmi, è strategia della tensioneAd Ankara, ucciso da un poliziotto l’ambasciatore russo.
 
E’ troppo presto per dire qualcosa di più preciso. L’assassinio di Ankara è stato rivendicato, più precisamente esaltato, dall’IS e da Al Qaeda, certo come no:  attraverso il SITE di  Rita Katz. E’ un indizio abbastanza precisoAnche Obama, anche al Dipartimento di Stato, e alla Cia, hanno ottime ragioni per esaltare l’omicidio,  prima   di dover traslocare.
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A che scopo?, mi chiede qualcuno. Che domanda: uno degli scopi  della strategia della tensione,  l’ondata sincrona di attentati l’ha già ottenuto  dentro di  voi: vulnerabili, esposti ad un’aggressione che può colpirvi in ogni momento, perché il nemico, musulmano, è folle . Lo è, infatti; solo pensate che è quel nemico musulmano che vi hanno imposto di accettare a centinaia di migliaia,  masse troppo subitanee  che manca il tempo di integrare, giovani maschi per lo più, per cui le fanciulle europee sono una provocazione sessuale; quanti di loro sono criminali e pregiudicati? Jihadisti?
 
Ma  se provate a fare questa domanda siete razzisti, egoisti, privi di carità.
La centrale che vi obbliga ad accoglierli tutti, è la stessa che vuol farvi paura –e giustamente – per questa invasione inassimilabile. Contraddizione? Ma questa  è uno dei suoi strumenti più preziosi nella strategia della tensione, vi lacera fra due pulsioni opposte,   due discrasie cognitive, fra senso di colpa e urto irrazionale di rabbia, voglia di uccidere. E’ un successo.
Perché la strategia della tensione in Europa, in queste ore? Mentre Aleppo è liberata? Mentre Obama fa’  le valige?
 
Putin,  limpido, ha spiegato: “L’assassinio (dell’ambasciatore) è una provocazione mirante a impedire il miglioramento delle relazioni russo-turche, minare il processo di pace in Siria promosso da Russia, Turchia, Iran ed altri paesi interessate a risolvere il conflitto in Siria”.
 
Per noi europei, la strategia della tensione ha uno scopo quasi tradizionale:  farci  travolgere dal terrore  che è dovunque,  odiare i musulmani mentre ci obbligano ad accoglierli, significa che ci sentiamo insicuri – e perciò chiediamo un governo forte, autoritario, con una polizia che censuri i siti – non solo gli islamici, anche i nostri: ne va  della nostra vita!  Leggi speciali d’emergenza, legge marziale.  O stringiamoci tutti sotto l’ombrello della NATO, che ci  difende dai jihadisti…
L’oligarchia di Bruxelles  travolta dalle critiche e contestazioni,  dal crescere del “populismo”,  l’Unione Europea   che vede incagliato il suo progetto sovrannazionale, può trovarvi il suo  tornaconto: imporre ordine e disciplina, recuperare “autorità”.  E’ presto per dirlo. Aspettiamo i media di domani, cosa dicono, quali ricette invocano, quale capo o “fratello”  per l’emergenza, capace di calmare i nostri terrori: sono le parole d’ordine  a cui  ci faranno obbedire.  Quale il prossimo “Je suis Charly”? Aspettiamo domani.
 
Un  camion chiamato Ariel
 
(dall’Ansa: l camion era partito dall’Italia per fare rientro in Polonia. Lo scrive il Guardian, per il quale il mezzo doveva fermarsi a Berlino per consegnare il carico ed il conducente, cugino del proprietario dell’azienda di trasporti polacca, aveva detto di volersi fermare per la serata. Ci sono forti sospetti, afferma il Guardian online, che il mezzo si stato rubato durante il viaggio. L’autocarro è di un’azienda di trasporti di Danzica, che dice di aver perso il contatto con il mezzo attorno alle 16 del pomeriggio.
 
Il proprietario dell’azienda, identificato solo come Ariel Z, è stato intervistato dall’emittente polacca Tvn24 e ha detto che il mezzo era guidato da suo cugino, che aveva intenzione di passare la serata a Berlino. Ha escluso che il suo parente, che guida camion da 15 anni, possa aver provocato lo schianto.
FonteBlondet & Friends dicembre 20 2016
Omicidio Karlov: un’esecuzione in diretta, opera di cani rabbiosi
È stato vittima di un’esecuzione quasi in diretta l’ambasciatore russo in Turchia, Andrei Karlov, freddato con una raffica di colpi alla Galleria d’Arte Moderna d’Ankara: le grida dell’omicida, un poliziotto poco più che 20enne, inducono i media a parlare di terrorismo di matrice islamista, una vendetta per le vicende di Aleppo. Diversi elementi suggeriscono che la pista dell’esOmicidio Karlov: un’esecuzione in diretta, opera di cani rabbiositremismo religioso sia solo un paravento e che dietro l’assassinio si nascondano i servizi atlantici, ancora radicati in Turchia grazie alla rete dell’imam Fethullah Gülen. Difficilmente tra Russia e Turchia scenderà il gelo, perché così facendo il Cremlino il gioco dei mandanti: l’omicidio dell’ambasciatore Karlov è però una spia dell’attuale clima internazionale. L’establishment atlantico agisce sempre più come un cane rabbioso.
 
NO, NON CI SARÀ NESSUNA ROTTURA RUSSO-TURCA
 
Lunedì 19 dicembre, Ankara, Galleria d’Arte moderna: l’ambasciatore russo in Turchia, Andrei Karlov, sta tenendo un discorso all’inaugurazione della mostra “la Russia vista dai Turchi”. Prima che inizi a parlare, si posiziona alle sue spalle unassassino-spalle uomo: è vestito con camicia bianca e cravatta nera, giovane, ben rasato e composto. L’ambasciatore russo si cimenta nel classico discorso di routine per simili occasioni.
 
 
Il ragazzo alle sue spalle estrae la pistola e gli scarica diversi colpi in corpo, in una drammatica sequenza immortalata dalle telecamere rivolte verso Karlov1.
 
L’attentatore non fugge, né esce dal campo delle telecamere, ma rivendica platealmente il gesto: “Allaha Akbahar”, “Non dimenticate Aleppo, non dimenticate la Siria”, “noi moriamo in Siria voi morite qua”, etc. etc. A quel punto il racconto video si interrompe: intervengono le forze di sicurezza, liquidano il terrorista e, per soddisfare il pubblico che ama il feticcio dei cadaveri, sarà pubblicata solo la sua foto dopo il blitz, riverso a terra e sanguinante, sullo sfondo di un muro crivellato.
Andrei Karlov è dichiarato ufficialmente morto poco dopo, ottenendo così il triste primato di primo ambasciatore russo ucciso in servizio in quasi due secoli di storia: bisogna infatti risalire all’assalto alla delegazione russa a Teheran, nel 1829, per trovare un caso analogo. Trascorrano poche ore ancora e anche l’omicida riceve un nome: è Mevlut Mert Altintas, 22enne, di professione poliziotto. Sfruttando il tesserino, Altintas ha potuto introdursi armato in sala, posizionarsi alle spalle dell’ambasciatore e freddarlo al momento opportuno.
 
A corroborare la pista jihadista interviene, come sempre in questi casi, l’israeliana Rita Katz e la sua società Site Intelligence Group, che sondano la rete alla ricerca di ciò che l’ISIS pensa e dice: il loro lavoro è così prezioso che, in sua assenza, il Califfato sarebbe senza voce. La galassia dell’ISIS, dice la Katz, è in grande fermento per l’assassinio di Karlov e saluta il terrorista come un eroe, caduto difendendo gli eroi di Aleppo.
site-karlov
La matrice “islamista” dell’attentato è credibile? L’assassinio è il secondo, drammatico, atto di un’escalation tra Russia e Turchia dopo l’abbattimento del Su-24 russo nel novembre 2015? C’è da attendersi un repentino deterioramento delle relazioni russo-turche?
La risposta a tutte le domande è: no.
 
Seguendo il classico ragionamento deduttivo, partiremo dal generale per scendere al particolare, dimostrando come la clamorosa uccisione dell’ambasciatore russo in Turchia non sia opera di un fanatico isolato, ma dei servizi atlantici, decisi a sabotare qualsiasi intesa tra Mosca ed Ankara in un momento cruciale del conflitto siriano. Partiremo quindi dall’analisi geopolitica per scendere ai dettagli dell’omicidio di Karlov: sarà un percorso agevole e lineare, che non lascerà alcun dubbio sulla matrice “NATO” dell’attentato.
 
La Russia e la Turchia sono state, per quasi cinque anni, sul lato opposto della barricata nella guerra siriana: Mosca a sostegno di Bashar Assad, Ankara a fianco dell’insurrezione armata e poi dell’ISIS. La prima difendendo uno storico alleato regionale, la seconda allettata da sogni neo-ottomani, sapientemente alimentati dagli angloamericani che hanno sfruttato la Turchia per i loro piani di destabilizzazione del Medio Oriente. Dalla Turchia, partono armi e terroristi, verso la Turchia, viaggiano i camion cisterna carichi di petrolio da cui il Califfato trae il suo sostentamento.
 
Mosca, nell’autunno 2015, scende direttamente in campo inviando una spedizione militare che nel volgere di poche settimane sposta gli equilibri del conflitto a favore di Damasco. Ankara, sobillata dagli angloamericani (che promettono probabilmente a Recep Erdogan di schierarsi a fianco dell’alleato NATO qualsiasi cosa capiti), reagisce abbattendo il Su-24 russo nei cieli siriani: i rapporti tra Ankara e Mosca precipitano ed il Cremlino adotta una serie di misure economiche in rappresaglia.
 
L’appoggio angloamericano, però, non supera all’atto pratico qualche tiepido pronunciamento da parte del segretario della NATO, Jens Stoltenberg, e del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama: Ankara è sostanzialmente lasciata sola dinnanzi ad una superpotenza nucleare, avvelenata per la pugnalata alle spalle. Non solo. Più i mesi passano e più Recep Erdogan intuisce quali siano i progetti più reconditi “dell’Occidente”: smembrare Siria ed Iraq, a vantaggio di un nascente Kurdistan nel cuore del Medio Oriente. La prospettiva è inquietante per Ankara, perché una simile entità finirebbe, presto o tardi, col cannibalizzare le regioni turche a maggioranza curda.
Tradito ed isolato, il “sultano” Erdogan cambia radicalmente strategia: licenzia Ahmet Davutoglu, artefice della politica neo-ottomana ed anti-russa, e nomina un nuovo premier che, il 13 luglio, apre alla riconciliazione con la Siria e Bashar Assad. Come impedire la defezione di Ankara ed una ricomposizione tra Erdogan e Putin? Semplice:destabilizzando la Turchia. Scatta così il colpo di Stato del 15 luglio che, come analizzammo a suo tempo, non mirava tanto a defenestrare Erdogan per sostituirlo con una giunta militare quanto, piuttosto, a scatenare una guerra civile così da gettare il Paese nel caos, sul modello delle insurrezioni in Libia e Siria.
 
C’è chi dice che durante le concitate ore del golpe Erdogan fosse nascosto in una base russa; chi dice che Mosca abbia giocato un ruolo di primo piano nello sventare il putsch: di certo sappiamo soltanto che Recep Erdogan, represso col pugno di ferro il colpo di Stato, vola il 9 agosto a San Pietroburgo per incontrarsi con Vladimir Putin, per la prima visita dopo la rottura diplomatica dell’anno precedente. In parallelo, i rapporti con gli USA precipitano: ministri e giornali vicino al governo accusano direttamente Washington di essere all’origine del putsch, mentre lo stesso Erdogan chiede con insistenza l’estradizione dell’imam Fethullah Gülen, suo vecchio padrino politico oggi residente in Pennsylvania e padrone di un impero mediatico-religioso benedetto dalla CIA.
Lo scenario per gli strateghi angloamericani volge al peggio: si è passati dall’auspicato guerra civile tra sciiti e sunniti ad riappacificazione tra Ankara e Teheran, benedetta da Mosca, in chiave anti-curda ed anti-occidentale. “Iran and Turkey agree to cooperate over Syria” scrive con rammarico la qatariota Aljazeera nell’agosto 20162, presagendo il rischio di un’intesa tra i due Paesi a discapito dell’ISIS e dell’insurrezione islamista.
Grazie al disimpegno di Ankara dal dossier siriano (non totale, perché urterebbe troppi interessi nazionali ed internazionali, ma comunque determinante), russi ed iraniani possono infatti stringere il cerchio intorno ad Aleppo, sino alla totale riconquista del 12 dicembre. Il colpo per Washington e le altre cancellerie occidentali che hanno investito un enorme capitale politico sulla caduta di Assad (Londra, Parigi e Tel Aviv) è durissimo: il “regime di Bashar” riporta una vittoria decisiva e Mosca, galvanizzata dal successo, si afferma come il nuovo dominus del Medio Oriente a discapito delle vecchie potenze occidentali. Gli equilibri regionale si decidono ormai al Cremlino che si assume l’onore e l’onore di conciliare gli interessi, spesso divergenti, dei diversi attori.
A distanza di poco più di una settimana dalla liberazione di Aleppo, è in programma infatti a Mosca una trilaterale tra Russia, Iran e Turchia per discutere sul conflitto siriano alla luce degli ultimi sviluppi: “Russia, Iran and Turkey to hold Syria talks in Moscow on Tuesday” scrive la Reuters il 19 dicembre. Nelle stesse ore in cui esce l’agenzia, l’ambasciatore russo Andrei Karlov è ucciso ad Ankara, nella Galleria d’Arte Moderna, per mano del poliziotto Mevlut Mert Altintas.
 
Possiamo quindi dedurre senza difficoltà l’identità dei mandanti dell’attentato: ad armare la mano dell’assassino di Karlov sono gli stessi che dal 2011 in avanti hanno tentato di rovesciare Assad, gli stessi che hanno inoculato il germe dell’ISIS in Siria, gli stessi che hanno ordito il putsch militare in Turchia della scorsa estate, gli stessi che sognavano un zona d’interdizione di volo sopra la Siria, gli stessi che hanno interesse a sabotare un’intesa tra Turchia, Russia ed Iran. Sono Washington ed i suoi alleati.
 
Il nostro ragionamento si sposta quindi sulla dinamica dell’omicidio: afferrata le realtà a scala generale, grazie all’analisi geopolitica, non ci resta che calarla nel particolare, evidenziando tutte le peculiarità dell’omicidio Karlov che rivelano l’inconfutabile “zampino” dei servizi segreti atlantici:
  • il poliziotto Mevlut Mert Altintas non avrebbe mai potuto introdursi armato nella Galleria d’Arte moderna e posizionarsi alle spalle dell’ambasciatore, né quest’ultimo essere separato dai propri guardaspalle, se un’attenta regia non avesse pianificato nel minimo dettaglio l’operazione: qualcuno ha agito perché tutte le misure di sicurezza fossero aggirate;
  • la presenza di una regia nell’omicidio di Karlov è testimoniata dalla sua esecuzione “a favore di telecamera” e dalla velocità con cui il video ha lasciato la Galleria d’Arte Moderna per invadere la rete ed i media: è stato quasi un omicidio in diretta, così da aumentarne esponenzialmente l’impatto. Il filmato, in altre circostanze, difficilmente avrebbe lasciato la scena del crimine, certamente non così in fretta. Il killer è stato attentamente istruito per agire dentro il campo della telecamera, così da confezionare un video sulla falsariga di quelli prodotti dall’ISIS o da Al Qaida: il poliziotto Mevlut Mert Altintas è nell’inquadratura delle camere prima, durante e dopo l’omicidio;
  • l’attentatore non è un funzionario di polizia qualsiasi: membro delle unità anti-sommossa, ha fatto parte anche della scorta di Recep Erdogan3. Per avvicinare il presidente turco ed essere assegnato al suo corpo di sicurezza personale, Mevlut Mert Altintas deve aver superato un accurato esame psicofisico e politico. Ciò corrobora la tesi del sindaco di Ankara, Melih Gokcek, secondo cui l’attentatore fosse un membro della rete dell’imam Fethullah Gülen, radicata sia nella magistratura che nelle forze dell’ordine. Ricordiamo che Gülen, mentore di Erdogan e suo alleato fino al 2015, ha orchestrato dall’esilio dorato in Pennsylvania il putsch militare della scorsa estate;
  • la concomitanza dell’omicidio di Karlov con l’attentato di Berlino, una riedizione della strage di Nizza del luglio scorso, indica una comune regia ed un’attenta pianificazione: una serie di attacchi terroristici simultanei o separati da poco tempo, hanno un effetto stordente sull’opinione pubblica, che non ha il tempo per metabolizzare gli avvenimenti né la possibilità di porsi interrogativi su quanto stia realmente avvenendo. Lo si è già visto quest’estate in Francia: il 14 luglio muoiono un’ottantina di persone ed il 26 luglio, quando le domande senza risposta sulla strage abbondano ancora, l’attenzione è già dirottata sulla barbara uccisione del parroco di Rouen.
Quali conclusioni si possono quindi trarre dall’omicidio Karlov?
Difficilmente Mosca ed Ankara romperanno i rapporti come lo scorso novembre dopo l’abbattimento del Su-24, perché così facendo agirebbero secondo i piani di chi ha orchestrato l’attentato. L’assassinio dell’ambasciatore è però una spia del clima internazionale che si respira. Il 2016 è stato un annus horribilis per l’establishment euro-atlantico: il referendum inglese di giugno ha decretato l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, le presidenziali americane hanno incoronato il populista e filo-putiniano Donald Trump, le forze centrifughe in seno all’eurozona hanno raggiunto livelli allarmanti, la Russia si è imposta come potenza di primo piano in Medio Oriente, la guerra siriana ha svoltato a favore di Bashar Assad.
Cresce l’impotenza dell’oligarchia e ed aumenta, di conseguenza, la sua ferocia: attentati, omicidi e stragi sono ormai tanto frequenti e clamorosi quanto approssimativi e spudorati. L’esecuzione in diretta dell’ambasciatore Andrei Karlov confermare la sensazione che, avvicinandosi la fine, il Potere si comporti sempre più come un cane rabbioso.
 
policeman
Federico Dezzani dicembre 20 2016
 
 
20.12.20161
DI FEDERICO DEZZANI
 
federicodezzani.altervista.org