Tav, Costa: “Con Torino-Lione emissioni per 10 milioni tonnellate di CO2”

https://nuovasocieta.it/tav-costa-con-torino-lione-emissioni-per-10-milioni-tonnellate-di-co2/?fbclid=IwAR1RpEaminxDY3Zjz8cBo23RLBgTYj0NbzJLDZfvN4LaP1SC-684HTRcFXM

La valutazione ambientale fatta dal gestore francese, per quanto riguarda la costruzione del Tav, Treno ad Alta Velocità, il cui passante, dalla Francia in Italia, è in Piemonte, produrebbe nell’aria una quantità pari a 10 milioni di tonnellate di CO2.

“Il gestore dell’infrastruttura francese ha stimato che la costruzione del collegamento Lione-Torino genererà 10 milioni di tonnellate di emissioni di CO2″. Lo ha detto il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, in una conferenza stampa via web con alcuni corrispondenti stranieri.
Costa ha inoltre osservato che: “Poche settimane fa la Corte dei conti europea ha sottolineato che ci vorranno almeno 50 anni per compensare queste emissioni, ben al di la’ degli obiettivi europei per la riduzione delle emissioni”.

La piccola (ma libera) Repubblica dei Mulini. Un racconto della nuova onda No Tav e di come si è formata

https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/07/llibera-repubblica-dei-mulini/?fbclid=IwAR1qmB9q-0h49m4OHnIl9x8gD4zorUJ6LgYuft6iFMY6tG2rFZgmK7EMq6o

di Wu Ming 1 *

La sera del 5 luglio, tornando dalla “battitura” al cancello della zona rossa, il pensiero: qualcuno avrebbe dovuto scriverne, di quella nuova generazione No Tav. Ventenni e anche adolescenti che avevano imparato a stare insieme e organizzarsi nei campeggi del festival Alta Felicità, s’eran fatti le ossa nelle grandi mobilitazioni per il clima del 2019, nella primavera 2020 avevano partecipato ai flash mob planetari seguiti all’uccisione di George Floyd, e al principio di quell’estate erano i protagonisti della rinascita del movimento valsusino. L’ennesima rinascita, dopo alcuni anni difficili.

Chi seguiva le vicende in Valsusa aveva già visto un grosso spezzone «Giovani No Tav» aprire la marcia da Susa a Venaus dell’8 dicembre 2019. Che era stata un successo: perfino La Stampa aveva dovuto scrivere «gli organizzatori […] sono riusciti a portare nella borgata simbolo della lotta No Tav una marea di persone».

Quel giorno Alberto Perino aveva dedicato il suo discorso ai «ragazzi in prima linea».

E adesso erano anche più avanti. Da due settimane tenevano un estremo avamposto in val Clarea: il presidio permanente ai Mulini.

Ai Mulini c’era passato chiunque, dal 2011 in poi, fosse andato a vedere coi propri occhi come andava la lotta No Tav. Era un borghetto abbandonato, lungo la via a mezzacosta che da Giaglione portava al famigerato cantiere, quello che la controparte voleva allargare.

Il nuovo presidio non solo richiamava antichi fasti, ma li citava in modo esplicito: quasi dieci anni dopo lo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena, in val Clarea erano tornate le case sugli alberi, usate come torri d’osservazione.

Anche l’Entità osservava i presidianti, ventiquattr’ore al giorno, e spesso li tormentava, tanto che dormire era un’impresa. Nel cuore della notte le guardie suonavano allarmi, o accendevano un faro all’improvviso, illuminando con violenza tende e sacchi a pelo. E se qualcuno s’allontanava di pochi passi dai Mulini per pisciare, poteva incontrare il guanto dei Biechi Blu. Eppure, oltre alla giusta rabbia, nei resoconti di chi era stato al presidio c’era gioia.

E ormai c’erano stati in parecchi. I presidianti riuscivano a darsi il cambio ogni giorno, a gruppi di trenta-cinquanta, aggirando l’assedio dall’alto dei boschi, con la copertura di una «passeggiata solidale». Si partiva da Giaglione in duecento e a un certo punto la banda del cambio-turno s’infrattava e saliva per sentieri, portando con sé viveri, acqua e adrenalina in corpo. Il resto del corteo andava al cancello, a battere il ferro coi sassi e gridare slogan. Quel 5 di luglio, avevo appena assistito alla scena. L’età media di chi percuoteva le sbarre non superava i 22 anni, ed erano in gran parte giovani donne.

Oltre al presidio, la nuova generazione era stata in prima fila nelle recentu iniziative di lotta, alcune delle quali clamorose, come le contestazioni del 24 e del 27 giugno davanti al ristorante di Susa dove pranzavano le forze dell’ordine. La seconda volta, subissati di fischi e slogan, i celerini erano scappati dal paese imboccando un vicoletto, le code tra le gambe.


La notte tra l’1 e il 2 luglio c’era poi stato un cacerolazo – concerto diffuso per tegami e padelle – di fronte all’Hotel Ninfa di Avigliana, dove la polizia alloggiava. «In questo hotel», diceva un comunicato, «alcune truppe d’occupazione pernottano per poi fare blocchi, controlli e intimidazioni lungo tutta la valle durante il giorno. Noi qui non vi vogliamo, voi da qui ve ne dovete andare!».

Come la riapparizione delle case sugli alberi, anche la ripresa di quelle tattiche di disturbo, tipiche del periodo 2012-2014, segnalava che il movimento aveva riafferrato diversi fili della propria storia e li stava dipanando.

Sì, qualcuno avrebbe dovuto raccontarla, l’ennesima – e per molti sorprendente – nuova vampata di conflitto in valle. I media mainstream fingevano di non essersene accorti. Gli azionisti di riferimento volevano tenere il profilo basso. Dopo anni a spacciare wishful thinking del tipo «la lotta No Tav è finita, il movimento è in crisi, l’opera è necessaria ed è a buon punto, indietro non si torna», era spiacevole e difficile fare i conti con certi dati di fatto: la lotta era viva eccome, il movimento si stava rinnovando, la Grande Opera era ferma come al solito, e la sua presunta utilità contestata più che mai, anche dalla nuova amministrazione di Lione e perfino dalla Corte dei Conti europea.

Chi aveva creduto alla propaganda e dato la lotta per morta, avrebbe faticato a capire come – facendo leva su cosa – il movimento avesse superato gli ostacoli del 2018-2019.

2018-2019: un biennio di crisi e nuovi inizi

«Nomi separatori e nomi omologanti»

Contro il movimento No Tav, nel corso degli anni, si erano usate due strategie retoriche: una incentrata sui «nomi separatori» – concetto proposto dal filosofo francese Alain Badiou –, l’altra su quelli che avevo proposto di chiamare «nomi omologanti».

Per poter usare contro un movimento un nome separatore, occorre fare riferimento a un oggetto identitario fittizio: il «cittadino onesto», la «gente normale», «gli italiani»… Chi non somiglia abbastanza all’oggetto identitario fittizio viene marcato con un nome che «permette allo Stato di separare dalla collettività un certo numero di gruppi e giustificare il ricorso a particolari misure repressive» (Badiou, Il risveglio della storia, 2011).

Esempi alla rinfusa di nomi separatori: «i violenti», «gli estremisti», «gli autonomi», «i black block» (scritto proprio così, con l’errore di ortografia), «gli immigrati», «i musulmani, «gli zingari», «gli ebrei», «i terroristi»…

Il ricorso a nomi separatori per diffamare il movimento No Tav e isolarlo dalla popolazione non aveva mai funzionato. L’emblema di quel fallimento era la maglietta «Siamo tutti Black Bloc» indossata da madame in pensione, che la compravano anche in formato bebè per i nipotini. E che dire dell’anziana manifestante in sedia a rotelle con il cartello «Anarco-insurrezionalista valsusina»?

Sin dall’inizio, però, contro il movimento No Tav si erano usati anche nomi omologanti, epiteti che lo avvicinavano all’oggetto identitario fittizio, cioè la maggioranza degli italiani, ma dando a quest’ultima una connotazione negativa, come quando si dice: «la solita cosa fatta all’italiana». Il ricorso a nomi omologanti serviva a presentare la lotta contro la Grande Opera come la solita faccenda di egoismi locali, campanilismi, pastette… Roba da «uomo medio», insomma.

Il primo nome omologante era stato «nimby», ma nemmeno quello aveva funzionato. Anzi, nel corso degli anni il lemma «No Tav» aveva acquisito significati plurimi, ben oltre la vertenza territoriale specifica. Aveva acquisito un carattere di universalità. Essere «No Tav», come aveva fatto notare Serge Quadruppani nel suo Le monde des grands projets et ses ennemis (La Découverte, Parigi, 2018), significava essere contro il Tav e il suo mondo, il mondo capitalistico la cui logica imponeva – tra le molte altre cose – le Grandi Opere Inutili. Rifiutare il sistema delle Grandi Opere era tutto fuorché «nimby». Not in anyone’s backyard.

Contro i nomi omologanti, tuttavia, bisognava stare in guardia. Potevano essere più pericolosi di quelli separatori, perché potevano ottundere e smorzare, smussare e dilavare il conflitto.

«Grillini»: trappola contro l’autonomia No Tav

Dal 2005 alla seconda metà degli anni Dieci la lotta no tav aveva anticipato direzioni e impresso svolte alla politica nazionale, curvando più volte lo spazio-tempo, costringendo tutte le forze in campo a posizionarsi sulla questione: o di qua o di là. Tutto questo le era stato possibile perché aveva tenuto il punto di un no incondizionato, e aveva tenuto quel punto perché era sempre stata una lotta autonoma.

Il progetto a cui il movimento si opponeva non era altro che il risultato della lotta stessa, della continua pressione No Tav. Senza la lotta, si sarebbe realizzato il progetto sulla sinistra idrografica della Dora, quello ritirato a fine 2005 dopo la riconquista del presidio di Venaus. La controparte aveva poi riconosciuto che quel progetto era sbagliato, troppo impattante, dispendioso, e ne aveva proposto uno suppostamente «low cost». Quello che dal 2010 continuava a perdere pezzi e subire varianti.

In Valsusa era stato il capitale a dover rispondere alla lotta. La lotta aveva costretto il capitale al rattoppo, al rabberciamento, a tagli e ridimensionamenti continui. Ogni volta si riconosceva, implicitamente, che prima il progetto non andava bene, adesso invece… Su ciascun singolo punto si recepiva la critica No Tav, ma senza ammetterlo, perché ai No Tav non si potevano riconoscere ragioni. La risposta alla pressione dal basso era dunque presentata come iniziativa presa dall’alto, riconsiderazione, «intelligente rivisitazione» (così il ministro Delrio sulla rinuncia a ben sessanta chilometri di nuova linea, 1 luglio 2016).

Il movimento aveva ottenuto tanti più risultati quanto più era percepito come alieno al teatrino della politica. Evitando di smarrirsi nelle nebbie luccicanti della cronaca partitica spicciola, la lotta aveva saputo rifuggire la «politica politicata», con la sua superficie increspata da polemiche fittizie e il suo fondo di intese trasversali a tutela del sistema.

In quel modo, il movimento No Tav aveva fatto politica vera. Si era anche riappropriato di nessi amministrativi territoriali – in parole povere: aveva fatto eleggere sindaci e giunte – ma sempre concependoli come strumenti e senza credere che una vittoria elettorale fosse già un esito, che ora si potesse «lasciar fare ai nostri eletti». Al contrario, il rapporto tra amministratori No Tav e comitati era una corda tesa.

Nel corso degli anni Dieci, si era definita una nuova strategia di normalizzazione fondata sull’epiteto «grillini», usato come nome omologante per ricondurre il movimento No Tav a una delle forze partitiche in campo, rappresentarlo come forza subalterna nella cornice stereotipata del presunto scontro tra «progressisti» e «populisti».

L’ostentato ma ambiguo appoggio del Movimento 5 Stelle alla lotta No Tav aveva causato discussioni interne e polemiche, e fornito ai nemici buoni appigli, ma finché il partito di Grillo e Casaleggio era rimasto all’opposizione, il movimento era riuscito a non farsi ghermire né dividere.

A partire dal giugno 2018, invece, con l’approdo del M5S al governo e l’insediamento del governo Conte I, la strategia aveva pagato. Il movimento No Tav era stato messo in difficoltà come mai prima.

In parte, ci si era messo da solo, con l’iniziale apertura di credito al governo da parte di alcune sue anime e il prevalere di una linea «attendista»: vediamo se fermano l’opera. Così la soggettività No Tav era rimasta intrappolata nella narrazione delle «tensioni tra forze politiche»: tensioni interne alla coalizione «gialloverde», e tensioni tra il governo e l’opposizione-per-modo-di-dire, cioè il PD, che su Tav e Grandi Opere aveva la stessa posizione della Lega e in fondo, come si sarebbe visto una volta dispersa la fuffa, del M5S.

Quest’ultimo aveva a lungo ostentato il proprio sostegno a svariate battaglie sociali e lotte territoriali. Ma con l’andata al governo le pose barricadere avevano presto lasciato il posto ai completi Gucci o Ermenegildo Zegna, e l’opposizione alle Grandi Opere era evaporata come urina sotto il sole, lasciando solo un lezzo pungente. Nel giro di pochi mesi, i ministri e leader grillini avevano dato il benservito ad almeno tre lotte territoriali affini a quella No Tav: No Terzo Valico, No Tap e No Passante di Bologna.

Tuttavia, il nodo valsusino aveva tardato a sciogliersi. Una certa «desistenza» si era prolungata, e le compagne e i compagni di strada del movimento No Tav – incluso il sottoscritto – si erano trovate in difficoltà. Avevamo sentito il movimento meno vicino, impacciato nel prendere parte alla lotta contro quel governo, che pure era il governo della repressione, dei decreti sicurezza, del razzismo sistematico, degli attacchi ai diritti civili e sociali.

Tra l’estate 2018 e il febbraio 2019 si erano registrati un calo di autonomia nell’immagine della lotta e un calo di universalità del significante «No Tav». Quest’ultimo aveva oscillato pericolosamente verso la caricatura che della lotta aveva sempre fatto il nemico: una vertenza locale e particolaristica.

L’immagine del movimento No Tav aveva perso una parte di autonomia anche perché si era parlato più dell’iter dell’opera che della lotta per fermarla. O meglio: la lotta era parsa dipendere dell’iter anziché, come era accaduto fino ad allora, viceversa.

Ovviamente era giusto e indispensabile parlare dell’iter, fare le pulci anche sul piano tecnico-procedurale: fin dai primordi del comitato Habitat, quella era stata una delle buone pratiche del movimento No Tav. Ma non erano state le «barricate di carta» a rendere «No Tav» un significante per tutte le lotte territoriali: era stata la riconoscibilissima autonomia della soggettività No Tav.

Le barricate di carta funzionavano solo se c’erano anche quelle vere. La “normalizzazione” del movimento No Tav era consistita nell’impantanarlo, nello spingerlo a concentrarsi solo su aspetti procedurali, nel costringerlo a focalizzare sul rinvio dei bandi, ad attendersi chissà cosa dalla nuova analisi costi-benefici, e quant’altro.

Se i nomi separatori nulla avevano potuto contro la libera repubblica dei No Tav, un nome omologante – «grillini» – aveva rischiato di disgregarla.

Ma non c’era riuscito.

L’ultimo tentativo di usare un nome omologante contro i No Tav lo avevano compiuto proprio le schiere di troll del M5S, dopo che la rottura s’era consumata e il partito di Di Maio non poteva più chiedere ai valsusini alcuna desistenza.

Il nome omologante, in quel caso, era stato «leghisti». Alla panzana sui No Tav che alle Europee del 2019 avevano «votato Lega», Davide Gastaldo e il sottoscritto avevano dedicato una disamina su Giap.

L’autonomia riconquistata e il ritorno dei «violenti» (alla buon’ora)

Persino in quella fase di parziale confusione il movimento aveva dato prove di forza, come la manifestazione oceanica dell’8 dicembre 2018, a Torino, in risposta alle «madamine» sìTav.

Torino, 8 dicembre 2018.

Nel frattempo, molto meno visibili delle polemiche, erano cominciate altre storie, si erano esercitate diverse influenze e sviluppate nuove tendenze.

Dentro il grande calderone del festival Alta Felicità – evento cresciuto di anno in anno fin quasi a “sbordare” e risultare gestibile con grande fatica – si erano avviati quelli che una certa tendenza teorica avrebbe chiamato «processi di soggettivazione». Detta più prosaicamente: nei giorni del festival la nuova generazione No Tav, troppo piccola ai tempi delle Libere Repubbliche, aveva vissuto esperienze formative e fondative.

Nel mentre, gli exploit del movimento Fridays For Future facevano prendere coscienza a migliaia di giovani e giovanissime. In Valsusa, quella gioventù si era guardata indietro e intorno, rendendosi conto che lì non si era aspettata Greta Thunberg: la lotta contro il sistema ecocida e climaticida durava da trent’anni. Nell’ottobre 2019, l’assemblea nazionale di FFF Italia aveva preso una posizione nettissima contro la Torino-Lione e altre Grandi Opere.

Intanto si svolgeva la gioiosa epopea della resistenza di Nicoletta Dosio, storia che avrebbe meritato un testo a parte, e che aveva fornito a molte giovani una vera e propria role model, esempio vivente di coerenza e determinazione.

A Bologna, per tutta la fase dello #stareincasa e della paranoia da Covid, nelle strade era rimasta affissa, monito di resistenza, un’immagine di Nicoletta a pugno chiuso. Si trattava di un manifesto di solidarietà realizzato dall’Associazione Bianca Guidetti Serra.

Nei primi mesi del 2019, un rinnovato ricorso a nomi separatori aveva annunciato un’inversione di tendenza. In quel periodo, in un intervento intitolato «Fuori dalle secche», avevo detto che presto sarebbero tornate le accuse di violenza, e il senso era: «Ben vengano!».

Insomma, i semi del rinnovamento e della «ripartenza» No Tav erano germogliati proprio negli anni in cui il movimento era parso più in crisi. Se per vederne i frutti si era dovuta attendere l’estate 2020, era perché c’era stata l’emergenza Covid.

Nella fase dello #stareincasa molte e molti giovani avevano accumulato frustrazione nei confronti della vita «a distanza» – dalla finta didattica agli affetti impossibili – e molta collera peuna gestione dell’emergenza «adolescentofobica», in generale aggressiva nei confronti dei più giovani (lo spauracchio della «movida») e soprattutto perbenista (i lapsus su «congiunti» e «affetti stabili»). Tra chi aveva appena scoperto l’attivismo, durante la reclusione domestica era cresciuta, invisibile a molti radar, la voglia di agire, di tornare a lottare mettendoci il corpo, i corpi. Come al presidio permanente ai Mulini.

[Notazione en passant: l’iniziale “desistenza” No Tav nei confronti del governo Conte I era stata niente se paragonata al vero e proprio collateralismo di certe aree «di movimento» nei confronti del Conte II durante l’emergenza Covid.]

Tornando al giugno-luglio 2020

Il 16 giugno 2020 una relazione della Corte dei Conti Europea aveva espresso seri dubbi sulla Torino-Lione, sul suo iter, sui suoi costi in perenne lievitazione e sui suoi supposti benefici ambientali. Il passaggio più interessante era questo:

«[…] vi è un forte rischio che gli effetti positivi multimodali di molte [infrastrutture di trasporto] siano sovrastimati. Ad esempio, nel 2012 il gestore dell’infrastruttura francese ha stimato che la costruzione del collegamento transfrontaliero Lione-Torino, insieme alle relative linee di accesso, avrebbe generato 10 milioni di tonnellate di emissioni di CO2. Secondo le sue stime, [l’opera] non produrrà un beneficio netto in termini di emissioni di CO2 prima di 25 anni dopo l’inizio dei lavori. Invece, sulla base delle medesime previsioni di traffico, gli esperti consultati dalla Corte hanno concluso che le emissioni di CO2 verranno compensate solo 25 anni dopo l’entrata in servizio dell’infrastruttura. Per di più, quella previsione dipende dai livelli di traffico: se i livelli di traffico raggiungono solo la metà del livello previsto, occorreranno 50 anni dall’entrata in servizio dell’infrastruttura prima che le emissioni di CO2 prodotte dalla sua costruzione siano compensate.»

Negli stessi giorni, quasi fosse una stizzita risposta a tali considerazioni, era giunta la notizia di un’imminente estensione del cantiere, con sbancamento del Clarea all’altezza dei Mulini e realizzazione di una passerella sul torrente. Lavori preliminari alla costruzione di un nuovo svincolo di servizio sull’autostrada A32.

Per contrastare quella mossa, il 20 giugno era nato il nuovo presidio. La sera dopo, un grosso dispiegamento di truppe aveva cercato di sgomberarlo, senza riuscirvi. Alcuni No Tav si erano incatenati alle baite, altri erano saliti sugli alberi.

La sera di lunedì 22 si era svolta la prima marcia di solidarietà al presidio, durante la quale c’era stato il primo cambio-turno. La polizia aveva cercato di impedirlo, sparando anche lacrimogeni nei boschi.

Il 26 giugno, al PalaNoTav di Bussoleno, c’era stata una grande assemblea popolare, come non se ne vedevano da tempo.

Il 28 giugno le Fomne No Tav [Donne No Tav] si erano presentate in massa al cancello del cantiere e avevano eseguito la performance femminista internazionale «Un violador en tu camino», con parole adattate alla situazione in Valsusa.

L’1 luglio il nuovo sindaco di Lione, il verde, Grégory Doucet, aveva dichiarato, senza giri di parolela propria netta opposizione al Tav.

Il giorno dopo era cominciato il campeggio itinerante No Tav, intorno al cantiere, in luoghi comunicati giorno per giorno, con iniziative varie.

Il pomeriggio del 4 luglio, tornato in Valsusa dopo lunghi mesi, avevo assistito a un’assemblea sotto il tendone del campeggio, su un prato lungo la statale 24 da cui si vedeva il forte di Exilles, e partecipato a un piccolo corteo spontaneo. La sera, cenando alla «Locanda del Priore» di Vaie, Maurizio mi aveva raccontato per filo e per segno le ultime settimane.

In cielo, proprio accanto alla luna piena, erano visibilissimi Giove e Saturno. Ero felice di essere di nuovo in valle, sia pure per un solo weekend.

La mattina dopo era domenica, e ci eravamo concessi un’escursione. Diretti al rifugio Avanzà e poi al Lago della Vecchia (che, avremmo scoperto, non si vedeva più: lo aveva riempito una frana), camminavamo proprio sopra la val Clarea. Volgendo lo sguardo a est potevo vedere l’intera Valsusa, stretta e lunga, con le sue vie di comunicazione serpeggianti fino a Torino. La città era visibile là in fondo, vaga ma punteggiata di riflessi.

5 luglio 2020, dando le spalle al Lago della Vecchia. Quota 2671 mt.

Mentre eravamo lassù, i siti di informazione locale sparavano titoli allarmistici e smodati, perché di fronte all’uscita del cantiere qualcuno aveva seminato chiodi a quattro punte, i famosi «triboli», che avevano bucato qualche pneumatico.

Molti anni prima, operai e braccianti avevano usato regolarmente i triboli contro i mezzi motorizzati della Celere di Scelba. Nel 2020, di fronte a qualche gomma forata, si gridava scompostamente. La deputata renziana Silvia Fregolent parlava addirittura di «terrorismo» e «forze eversive». Nelle ore successive, la notizia sarebbe arrivata in cronaca nazionale.


Di tutto quel che stava capitando in valle, la miseria del mondo-del-TAV fingeva di vedere solo una manciata di chiodi.

Eppure era un sollievo: meglio «violenti» che «grillini».

Se con quei chiodi pensavano di dividere il movimento, beh, allora soffrivano di gravi amnesie. Il dibattito sul «terrorismo» e sul «sabotaggio» i No Tav lo avevano già fatto nel 2013-14, e non era andato come sperava la controparte.

Risonanze

Ridiscesi a fondovalle, avevamo partecipato alla passeggiata con battitura e cambio-turno, poi eravamo andati a cena da Simone e Laura. La chiacchierata aveva preso una piega musicale, e s’era parlato molto di Franco Battiato. Nel descrivere una sua composizione del 1977, intitolata Za, avevo trovato una similitudine con la storia dei No Tav.


Za
 si basava principalmente sulla ripetizione, per quasi venti minuti, di un accordo di pianoforte, un accordo in mi maggiore suonato variando gli intervalli, la pressione sui tasti e – soprattutto – l’ordine e i tempi di rilascio delle dita dalla tastiera. Ogni volta l’accordo produceva risonanze che ancora aleggiavano quando le dita tornavano a battere, producendo risonanze leggermente diverse che si aggiungevano al ricordo acustico delle precedenti, in una progressiva stratificazione.

Dopo qualche minuto, se si ascoltava senza preconcetti, quasi ci si dimenticava dell’accordo: si ascoltavano le sue risonanze. Si capiva che erano queste ultime a formare la melodia. Battiato aveva composto musica non con le note, ma con gli aloni intorno alle note.

Se invece si restava bloccati all’accordo e si ascoltava solo quello, magari scuotendo la testa e ridacchiando, facendo battutine, citando Le vacanze intelligenti con Sordi, non si percepiva nessuna variazione, non si capiva cosa stesse accadendo.

La storia dei No Tav era come quella composizione. Era una storia di risonanze, ogni azione ne produceva di nuove che interagivano col ricordo di quelle precedenti. A produrre senso non erano tanto le azioni stesse, ma le loro risonanze, ciò che si stratificava nel tempo.

Le case sugli alberi, le azioni di disturbo davanti a ristoranti e alberghi… Ai detrattori poteva sembrare soltanto revival, ripetizione di accordi già sentiti. Ma a suonare quegli accordi era una nuova generazione, e producevano nuove risonanze.

Wu Ming 1 è autore di Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte No Tav (Einaudi, 2016) e di svariati reportage, articoli e interventi su storia e presente del movimento.

Questo reportage è dedicato a Emilio Scalzo, storico attivista No Tav arrestato mentre impaginavamo.

Lancio di lacrimogeni sul presidio No Tav

24 LUGLIO 2020

LINKEMBED

Lacrimogeni

Ancora tensioni in Val Susa | CorriereTv

In Valsusa un’altra giornata di battaglia. Dopo un pomeriggio di tregua è stato lanciato un altro appello e alle 18,30 un centinaio di persone si sono radunate sotto la tettoia di Giaglione per raggiungere il presidio. Tanti giovani e qualche volto storico della protesta. Dopo una breve assemblea, gli zaini si sono riempiti di bottiglie di acqua, scatolette e provviste. E il corteo è partito per una passeggiata improvvisata nei boschi, seguendo due percorsi diversi. Dopo mezz’ora di camminata un gruppetto di No Tav ha tentato di ripristinare la barricata sul lato cantiere, ma la polizia ha reagito lanciando i lacrimogeni. Molti sono tornati al campo sportivo, ma qualcuno è rimasto a presidio. E c’è da scommettere che domani sarà un’altra giornata di lotta (massimo massenzio)

No TAV Comunicato Stampa 22 luglio 2020 ||| GRANDI OPERE: ILLUSIONI, INGANNI, ALTERNATIVE

Comunicato Stampa

PresidioEuropa

Movimento No TAV

22 luglio 2020

http://www.presidioeuropa.net/blog/?p=22114

GRANDI OPERE: ILLUSIONI, INGANNI, ALTERNATIVE

Giovedì 23 luglio, dalle 15.00 alle 19.00

Conferenza web organizzata da

Controsservatorio Valsusa, Centro Studi Sereno Regis e Volere la luna

L’iniziativa si terrà a Torino presso la Sala Poli del Centro Studi Sereno Regis di Torino con interventi in presenza e collegamenti da remoto (per le regole di distanziamento e sicurezza i posti in sala sono limitati, per prenotare vedi le info dopo il programma).

L’incontro potrà essere seguito in streaming https://youtu.be/kxAFrKR7oIc.

L’iniziativa inaugura un percorso teso a costruire un cartello di realtà dell’ambientalismo, del sociale, del mondo del lavoro, del mutualismo decise a voltare davvero pagina, abbandonando il modello, sbagliato e fallimentare, delle Grandi Opere, e ad aprire una stagione propositiva e un confronto-scontro con una politica vecchia e incapace di dare risposte adeguate alla gravità della crisi in atto.

Sono previste comunicazioni introduttive di Marco Bersani, Angelo Tartaglia, Francesco Ramella, Marco Revelli.

Presentazione

L’epidemia di Covid-19 ha prodotto nel Paese e nel mondo una crisi economica e sociale gravissima. L’evidenza dei collegamenti tra epidemia e modello di sviluppo ha fatto dire a molti, nei mesi scorsi, che nulla sarebbe più stato come prima e che le risposte alla crisi avrebbero dovuto avvenire all’insegna di un cambiamento profondo di strategie, modelli economici, priorità. Oggi, con la fine del lockdown e l’allentamento delle limitazioni imposte dall’emergenza, quelle indicazioni sembrano tramontate e tutto sembra tornato come prima. Lo confermano il “decreto semplificazioni” e i provvedimenti connessi varati in questi giorni dal Governo in cui il volano della ripresa viene indicato in un’incredibile sequenza di Grandi Opere da mettere in cantiere senza freni e senza regole: l’elenco è sempre più lungo fino a comprenderne 130, lo guidano il TAV e la Nuova linea ferroviaria Torino-Lione, rispunta finanche il ponte sullo stretto di Messina. La rappresentazione simbolica di tutto questo sta nel gesto e nelle parole del presidente del Consiglio che schiaccia il pulsante per l’innalzamento delle paratie del Mose a Venezia, commentando – di fronte alle proteste degli ambientalisti – che la politica deve assumersi le proprie responsabilità e augurarsi (proprio così, augurarsi) che l’opera funzioni.

In questo desolante panorama (che vede coinvolto l’intero ceto politico del nostro Paese) emergono, a vari livelli, segnali di discontinuità importanti: cresce nei movimenti la consapevolezza che giustizia sociale e giustizia ambientale sono inscindibili; sono sempre più chiare l’entità e l’origine da attività umane (a cominciare dalle Grandi Opere) dei cambiamenti climatici e i loro effetti devastanti; al Parlamento europeo, in sede di discussione della proposta di legge sul clima, è stato presentato un emendamento che subordina i finanziamenti di ogni grande opera all’accertamento – da parte di una commissione indipendente ‒ del suo effetto di riduzione delle emissioni di CO2; la Corte dei Conti europea, pronunciandosi su otto Grandi Opere tra cui la Torino-Lione ne contesta, pur in un’ottica non certo contraria all’attuale modello di sviluppo, la convenienza dal punto di vista economico, trasportistico e ambientale; lo schieramento contrario alle Grandi Opere cresce a livello locale e vede, da ultimo, la netta presa di posizione contro la Nuova Linea Ferroviaria Torino-Lione del neoeletto sindaco di Lione Grégory Doucet.

Ormai è documentato da innumerevoli studi che le Grandi Opere sono tra i maggiori responsabili dei cambiamenti climatici, producono lavoro in misura di gran lunga inferiore a molte piccole opere di risanamento del territorio, sono in contrasto con le necessità di un futuro rispettoso dell’ambiente, hanno costi insostenibili per la collettività. A sostenerle restano solo gli interessi di una imprenditoria senza progetto e di una politica istituzionale ad essa subalterna. Questi interessi sembrano oggi vincenti grazie soprattutto alle risorse economiche (sempre pubbliche) di cui dispongono e alla connessa capacità di produrre consenso. Ma il loro respiro corto è sempre più evidente.

Per questo occorre costruire nel Paese un cartello di realtà dell’ambientalismo, del sociale, del mondo del lavoro, del mutualismo consapevoli della necessità di girare davvero pagina e di abbandonare il modello, sbagliato e fallimentare, delle Grandi Opere. L’obiettivo è quello di aprire una grande stagione propositiva e un confronto-scontro con una politica vecchia e incapace di dare risposte adeguate alla gravità della crisi.

Di qui l’iniziativa di un primo momento di confronto, a Torino il 23 luglio prossimo. Altri confronti seguiranno per integrare la rete degli interlocutori.

Programma

Centro Studi Sereno Regis – Controsservatorio Valsusa – Volere la Luna

GRANDI OPERE: ILLUSIONI, INGANNI, ALTERNATIVE

Torino, via Garibaldi 13, sala Poli (e videoconferenza)
23 luglio 2020 – orario 15.00-19.00

coordinano
Angela Dogliotti (Centro Studi Sereno Regis) e
Livio Pepino (Controsservatorio Valsusa)
____________

orario 15.15-16.30 comunicazioni introduttive

Marco Bersani (Attac) *
Quanto costano le grandi opere? Chi le paga, possono essere un volano per l’economia?

Angelo Tartaglia (Politecnico di Torino)
Le grandi opere e i cambiamenti climatici

Francesco Ramella (Università di Torino)
Infrastrutture e trasporti: le fantasie e la realtà

Marco Revelli (Università del Piemonte orientale)
Creare lavoro: grandi opere e progetti alternativi
____________

orario 16.30-19.00 interventi programmati – elenco non definitivo

Jean-Louis Aillon (Rete Clima Torino)
Emilio Delmastro (Pro Natura Piemonte e Valle d’Aosta)
Giuseppe De Marzo (Rete dei Numeri Pari) *
Duccio Facchini (Altreconomia) *
Edi Lazzi (Fiom)
Maria Maranò (Legambiente e Forum Disuguaglianze e Diversità) *
Tomaso Montanari (Storico dell’arte) *
Giorgio Prino (Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta) *
Mariangela Rosolen (Acqua pubblica Torino)
Cosimo Scarinzi (CUB Piemonte)

Fabio Viotti (Fridays for future)

(*) I nomi con l’asterisco corrispondono a interventi da remoto.

Autostrade, altro testacoda del pilotastro di Casa Chigi TANTO TUONÒ CHE NON PIOVVE

Chi si aspettava che un premier speditoci dalla Caverna di Ali Baba, dove i duchi Benetton di Casa Magliara alla tavola rotonda danno di gomito

a re Artù de Rothschild, potesse davvero revocare la concessione ai devastatori della rete autostradale italiana, ha davvero bisogno del tampone che lo riveli positivo al minchionevirus. 

Dopo aver fatto il pazzariello tonitruante, alla Landini, per far credere agli affetti da quel virus che  lui, sì, che avrebbe stritolato l’intera schiattaccia di Treviso, torcendogli attorno al collo i guardrail marci della Salerno-Reggio, è tornato in se’ e ha chiesto scusa. Anzi, ha chiesto se non ci fosse un posto a tavola anche per lui, nella festa di famiglia da tenersi a Cortina dopo il prossimo crollo di ponte, con quella quarantina di commensali che, più o meno, corrispondevano al numero degli scomparsi nelle polveri del Morandi.
Riuniti nella notte i suoi nanetti da giardino con il capino che annuisce  automaticamente, il conte delegato dall’alto consesso di Ali Babà, ascoltata sull’attenti e a mani giunte l’intemerata della nanetta De Micheli, nata Salini-Impregilo e poi adottata Benetton, che minacciava, in caso di revoca, di non lasciare agli italiani neppure la catenina della mamma, il miracolato di Padre Pio si è esibito in un’ elegantissima inversione a U, con tanto di pochette. 
Tranquilli, ha promesso, scherzavo per far contento Di Maio. I Benetton non verranno privati del privilegio di tutti gli ammessi alla Tavola Rotonda. Resteranno a mandare in malora le autostrade d’Italia,  a inghirlandarle di guardrail a favore di tonfi di pullman, a osservare ponti che si trascinano sotto spericolati viaggiatori e, se ciò non bastasse, a fargli precipitare addosso gallerie fatiscenti e a trastullarne l’esistenza in liete giornate di coda, che consentano di prendere il sole, o di fare pupazzi di neve.
Infatti, cosa dice il gatekeeper di Ali Babà, mentre garantisce il flusso in entrata del sangue e della bile degli italiani sotto forma di dobloni marchiati “Luciano Benetton “? Dice che la riduzione della quota Benetton in Autostrade per l’Italia avverrà MOLTO LENTAMENTE E MOLTO GRADUALMENTE! Che nessuno si preoccupi, manco ce ne accorgeremo.
Del resto, come dicono i francesi, tout se tien. I morti e menomati da terapie Covid e relativi trattamenti socioeconomici, le decimazioni in atto e in potenziamento da eliminazione elettromagnetica tramite 5G, le guerre e missioni militari testé confermate, da 80 milioni di euro al giorno (al giorno di recessione e miseria nazionali), i 400 milioni di vaccini comprati a Bill Gates grazie alla vendita delle scarpe di noi tutti….. Tout se tien.
 Non è la riduzione della popolazione umana (e, visto che ci siamo, anche di quella animale e vegetale) l’obiettivo supremo dei saggi che ci governano (dalla caverna di Ali Babà)? 
Fulvio

Decreto Semplificazione-Sblocca cantieri-Rilancio Italia

Sinergie: Covid 19 – Semplificazioni

DIFATTI GLI ITALIANI
SI DISFA L’ITALIA
Uno che è nato quando il Futurismo insegnava al mondo come rinnovare la rappresentazione di cose, pensiero e azione; quando ancora c’erano Pirandello e il Vate e gli unici rapporti non corpo a corpo, non occhio nell’occhio, non mano nella mano, o lettera a lettera, erano per telefono e, raramente, per telegrafo; uno che ha avuto la fortuna di vivere quasi tutta la sua vita di scapestrato prima dell’apocalisse della smaterializzazione-digitalizzazione dell’umanità e perciò oggi si rifugia tra le zampe del suo bassotto a cui, come a tutti gli animali, questo abominio non può essere inflitto, costui può ben avere i titoli per dire una cosa incontrovertibile. 
Si perde nelle nebbie di una memoria a momenti centenaria, forse addirittura in evi lontani, l’esistenza di un regime più nefasto, infausto e letale di quello che, al servizio di orchi stranieri, globali e composto da sciagurati apprendisti orchi, sta cancellando il paese e il popolo di Virgilio, Dante, Michelangelo, Pisacane, Garibaldi, le sue camicie rosse e le bandiere rosse della sua Brigata. 
Rinchiuso, imbavagliato, annichilito e in parzialmente liquidato il popolo, togliendo di mezzo i diritti e le salvaguardie che esso si era guadagnato a forza di secoli e sangue, questo regime è passato ora a raccoglierne i frutti sul territorio.
Il principio guida essendo che, annientati i produttori di ricchezza e bellezza, si può completare l’opera appropriandosi della residua ricchezza mediante la distruzione di una bellezza fisica, naturale e storica di cui nessuno, nell’era del vaccino e dell’identità digitale, ha più bisogno.
Questo è il decreto PDCM (a conferma che di un parlamento non sentono più il bisogno neppure i parlamentari) chiamato, nel solito stile magliaro-mafioso, Semplificazioni, Sblocca cantieri, Rilancio.
Ci sarebbe da ridere, una volta strappattici tutti i capelli, a vedere come ciò che neanche a Prodi e neanche a Berlusconi era riuscito in termini di devastazione, ora si farà alla grande grazie al patto 5Stelle-Italia Viva. Un’altra tacca sul lancia-napalm dello stregone Grillo e del suo patetico garzone (e anche uno sputo in faccia ai loro elettori).
I dettagli di questo spaventoso deragliamento
da una cura del territorio che ha impiegato millenni per donarci il “Bel paese”, li potete trovare solo in rete, estrema ridotta, o, parzialmente, nei media delle cosche che si sentono deprivate del loro boccone. Qui basti dire che, se per anni, a forza di Sardine, Grete e fasulloni vari dipinti di verde, ci hanno scassato la minchia con la farsa del “green new deal”, e se da decenni questo paese si sbriciola e affoga, tra i regali a tipi come quelli del MOSE, o delle mafie, o delle grandi consorterie delle Grandi Opere, non c’è neanche una lira per la lotta al dissesto idrogeologico. Ma c’è il “tana liberi tutti” per 130 Opere deregolamentate: semplificate sul percorso di una devastazione di vite e territori, ma verso i dividendi di manager, azionisti e boss. Dei quali solo questi ultimi possiamo vantare come connazionali.
130 abominii stradali e di alta velocità-capacita’, del tipo che non hanno mai portato progresso, sviluppo, ma solo crescita… degli spazi pieni nei caveau. Una minoranza elitaria arriverà 15 minuti prima a destinazione, quelli delle Audi potranno sfrecciare a 200 all’ora, ma i pendolari si schiacceranno addosso le loro fetide mascherine, affollate di germi, meglio che mai. E le città strizzate dai distanziamenti e strozzate dal traffico privato? Grande rilancio, grandi cantieri per tram e metro? Gli stanziamenti per questa roba retrograda stanno a quelli per il trasporto der ricchi e delle merci fantasma (che qui nessuno produce più, ma che importeremo dalla Germania), come il miliardario Tav Terzo Valico sta a un porto di Genova che ormai basta appena per qualche cacicco del Qatar. 
 Sotto i 150mila euro, l’appalto lo puoi rifilare tranquillamente al soggetto dei tuoi affetti, o delle tue tangenti, o dei tuoi voti elettorali. Quelli sopra quel livello li spacchetti in tanti da 150 ed è fatta. Quando vai sui milioni, ci pensa il Commissario Straordinario, di nomina politica, cioè inequivocabilmente l’amico degli amici. Dicono, sbandierando la foglia di fico, che trattasi del Modello Genova. Figurarsi, quello aveva addosso gli occhi del mondo e non potevi sgarrare. Macché, è il modello Expo, il modello frittura di pesce, il modello Mose, il modello Lunardi di berlusconiana memoria.
E, per sommo coronamento del sogno a 5 Stelle, è perfino il nuovissimo “modello Tav”. Primo della lista. Tanto per sfottere. 
E a sfottere, con grande eleganza troikiana, serviranno i 36 miliardi del Mes, già “Salvastati”, nel senso che prima te li da e poi ti si piglia. Sbavano tutti per averli, anche, vedrete, i 5 Stelle. Come rifiutarlo? Sono gratis (come quelli di Ciccio il cravattaro) e servono tutti alla nostra (?) sanità! Già, come faremmo altrimenti a pagare i 400 milioni di vaccini ordinati a Bill Gates &Co e gli altri, per i tubi di ventilazione che servono a far morti “da virus ” con i polmoni bruciati, in occasione della seconda ondata e della terza e della quarta. Che festeggeremo in digitale, parlando come Al.
Fulvio

La piccola (ma libera) Repubblica dei Mulini. Un racconto della nuova onda No Tav e di come si è formata

https://www.infoaut.org/approfondimenti/la-piccola-ma-libera-repubblica-dei-mulini-un-racconto-della-nuova-onda-no-tav-e-di-come-si-e-formata?fbclid=IwAR07PzCthuucn80P84pp07s5vWhrgmK_i_M_IW3GZtQQ77BBJuammM-PQ_c

07 LUGLIO 2020 

di Wu Ming 1 *

La piccola (ma libera) Repubblica dei Mulini. Un racconto della nuova onda No Tav e di come si è formata
 

La sera del 5 luglio, tornando dalla “battitura” al cancello della zona rossa, il pensiero: qualcuno avrebbe dovuto scriverne, di quella nuova generazione No Tav. Ventenni e anche adolescenti che avevano imparato a stare insieme e organizzarsi nei campeggi del festival Alta Felicità, s’eran fatti le ossa nelle grandi mobilitazioni per il clima del 2019, nella primavera 2020 avevano partecipato ai flash mob planetari seguiti all’uccisione di George Floyd, e al principio di quell’estate erano i protagonisti della rinascita del movimento valsusino. L’ennesima rinascita, dopo alcuni anni difficili.

Chi seguiva le vicende in Valsusa aveva già visto un grosso spezzone «Giovani No Tav» aprire la marcia da Susa a Venaus dell’8 dicembre 2019. Che era stata un successo: perfino La Stampa aveva dovuto scrivereaveva dovuto scrivere «gli organizzatori […] sono riusciti a portare nella borgata simbolo della lotta No Tav una marea di persone».

Quel giorno Alberto Perino aveva dedicato il suo discorso ai «ragazzi in prima linea».

E adesso erano anche più avanti. Da due settimane tenevano un estremo avamposto in val Clarea: il presidio permanente ai Mulini.

Ai Mulini c’era passato chiunque, dal 2011 in poi, fosse andato a vedere coi propri occhi come andava la lotta No Tav. Era un borghetto abbandonato, lungo la via a mezzacosta che da Giaglione portava al famigerato cantiere, quello che la controparte voleva allargare.

Il nuovo presidio non solo richiamava antichi fasti, ma li citava in modo esplicito: quasi dieci anni dopo lo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena, in val Clarea erano tornate le case sugli alberi, usate come torri d’osservazione.

Anche l’Entità osservava i presidianti, ventiquattr’ore al giorno, e spesso li tormentava, tanto che dormire era un’impresa. Nel cuore della notte le guardie suonavano allarmi, o accendevano un faro all’improvviso, illuminando con violenza tende e sacchi a pelo. E se qualcuno s’allontanava di pochi passi dai Mulini per pisciare, poteva incontrare il guanto dei Biechi Blu. Eppure, oltre alla giusta rabbia, nei resoconti di chi era stato al presidio c’era gioia.

presidio

E ormai c’erano stati in parecchi. I presidianti riuscivano a darsi il cambio ogni giorno, a gruppi di trenta-cinquanta, aggirando l’assedio dall’alto dei boschi, con la copertura di una «passeggiata solidale». Si partiva da Giaglione in duecento e a un certo punto la banda del cambio-turno s’infrattava e saliva per sentieri, portando con sé viveri, acqua e adrenalina in corpo. Il resto del corteo andava al cancello, a battere il ferro coi sassi e gridare slogan. Quel 5 di luglio, avevo appena assistito alla scena. L’età media dei battitori non superava i 22 anni, ed erano in gran parte giovani donne.

Oltre al presidio, la nuova generazione era stata in prima fila nelle recentu iniziative di lotta, alcune delle quali clamorose, come le contestazioni del 24 e del 27 giugno davanti al ristorante di Susa dove pranzavano le forze dell’ordine. La seconda volta, subissati di fischi e slogan, i celerini erano scappati dal paese imboccando un vicoletto, le code tra le gambe.


La notte tra l’1 e il 2 luglio c’era poi stato un cacerolazo – concerto diffuso per tegami e padelle – di fronte all’Hotel Ninfa di Avigliana, dove la polizia alloggiava. «In questo hotel», diceva un comunicato, «alcune truppe d’occupazione pernottano per poi fare blocchi, controlli e intimidazioni lungo tutta la valle durante il giorno. Noi qui non vi vogliamo, voi da qui ve ne dovete andare!».

Come la riapparizione delle case sugli alberi, anche la ripresa di quelle tattiche di disturbo, tipiche del periodo 2012-2014, segnalava che il movimento aveva riafferrato diversi fili della propria storia e li stava dipanando.

Sì, qualcuno avrebbe dovuto raccontarla, l’ennesima e per molti sorprendente nuova vampata di conflitto in valle. I media mainstream fingevano di non essersene accorti. Gli azionisti di riferimento volevano tenere il profilo basso: dopo anni a spacciare wishful thinking del tipo «la lotta No Tav è finita, il movimento è in crisi, l’opera è necessaria ed è a buon punto, indietro non si torna», era spiacevole e difficile fare i conti con certi dati di fatto: la lotta era viva eccome, il movimento si stava rinnovando, la Grande Opera era ferma come al solito, e la sua presunta utilità contestata più che mai – anche dalla nuova amministrazione di Lione e perfino dalla Corte dei Conti europea.

Chi aveva creduto alla propaganda e dato la lotta per morta, avrebbe faticato a capire come – facendo leva su cosa – il movimento avesse superato gli ostacoli del 2018-2019.

2018-2019: un biennio di crisi e nuovi inizi
«Nomi separatori e nomi omologanti»

Contro il movimento No Tav, nel corso degli anni, si erano usate due strategie retoriche: una incentrata sui «nomi separatori» – concetto proposto dal filosofo francese Alain Badiou –, l’altra su quelli che avevo proposto di chiamare «nomi omologanti».

Per poter usare contro un movimento un nome separatore, occorre fare riferimento a un oggetto identitario fittizio: il «cittadino onesto», la «gente normale», «gli italiani»… Chi non somiglia abbastanza all’oggetto identitario fittizio viene marcato con un nome che «permette allo Stato di separare dalla collettività un certo numero di gruppi e giustificare il ricorso a particolari misure repressive» (Badiou, Il risveglio della storia, 2011).

Esempi alla rinfusa di nomi separatori: «i violenti», «gli estremisti», «gli autonomi», «i black block» (scritto proprio così, con l’errore di ortografia), «gli immigrati», «i musulmani, «gli zingari», «gli ebrei», «i terroristi»…

Il ricorso a nomi separatori per diffamare il movimento No Tav e isolarlo dalla popolazione non aveva mai funzionato. L’emblema di quel fallimento era la maglietta «Siamo tutti Black Bloc» indossata da madame in pensione, che la compravano anche in formato bebè per i nipotini. E che dire dell’anziana manifestante in sedia a rotelle con il cartello «Anarco-insurrezionalista valsusina»?

 anarcoinsurrezionalista

Sin dall’inizio, però, contro il movimento No Tav si erano usati anche nomi omologanti, epiteti che lo avvicinavano all’oggetto identitario fittizio, cioè la maggioranza degli italiani, ma dando a quest’ultima una connotazione negativa, come quando si dice: «la solita cosa fatta all’italiana». Il ricorso a nomi omologanti serviva a presentare la lotta contro la Grande Opera come la solita faccenda di egoismi locali, campanilismi, pastette… Roba da «uomo medio», insomma.

Il primo nome omologante era stato «nimby»«nimby», ma nemmeno quello aveva funzionato. Anzi, nel corso degli anni il lemma «No Tav» aveva acquisito significati plurimi, ben oltre la vertenza territoriale specifica. Aveva acquisito un carattere di universalità. Essere «No Tav», come aveva fatto notare Serge Quadruppani nel suo Le monde des grands projets et ses ennemis (La Découverte, Parigi, 2018), significava essere contro il Tav e il suo mondo, il mondo capitalistico la cui logica imponeva – tra le molte altre cose – le Grandi Opere Inutili. Rifiutare il sistema delle Grandi Opere era tutto fuorché «nimby». Not in anyone’s backyard.

Contro i nomi omologanti, tuttavia, bisognava stare in guardia. Potevano essere più pericolosi di quelli separatori, perché potevano ottundere e smorzare, smussare e dilavare il conflitto.

«Grillini»: trappola contro l’autonomia No Tav

Dal 2005 alla seconda metà degli anni Dieci la lotta no tav aveva anticipato direzioni e impresso svolte alla politica nazionale, curvando più volte lo spazio-tempo, costringendo tutte le forze in campo a posizionarsi sulla questione: o di qua o di là. Tutto questo le era stato possibile perché aveva tenuto il punto di un no incondizionato, e aveva tenuto quel punto perché era sempre stata una lotta autonoma.

Il progetto a cui il movimento si opponeva non era altro che il risultato della lotta stessa, della continua pressione No Tav. Senza la lotta, si sarebbe realizzato il progetto sulla sinistra idrografica della Dora, quello ritirato a fine 2005 dopo la riconquista del presidio di Venaus. La controparte aveva poi riconosciuto che quel progetto era sbagliato, troppo impattante, dispendioso, e ne aveva proposto uno suppostamente «low cost». Quello che dal 2010 continuava a perdere pezzi e subire varianti.

In Valsusa era stato il capitale a dover rispondere alla lotta. La lotta aveva costretto il capitale al rattoppo, al rabberciamento, a tagli e ridimensionamenti continui. Ogni volta si riconosceva, implicitamente, che prima il progetto non andava bene, adesso invece… Su ciascun singolo punto si recepiva la critica No Tav, ma senza ammetterlo, perché ai No Tav non si potevano riconoscere ragioni. La risposta alla pressione dal basso era dunque presentata come iniziativa presa dall’alto, riconsiderazione, «intelligente rivisitazione» (così il ministro Delrio sulla rinuncia a ben sessanta chilometri di nuova linea, 1 luglio 2016).

Il movimento aveva ottenuto tanti più risultati quanto più era percepito come alieno al teatrino della politica. Evitando di smarrirsi nelle nebbie luccicanti della cronaca partitica spicciola, la lotta aveva saputo rifuggire la «politica politicata», con la sua superficie increspata da polemiche fittizie e il suo fondo di intese trasversali a tutela del sistema.

In quel modo, il movimento No Tav aveva fatto politica vera. Si era anche riappropriato di nessi amministrativi territoriali – in parole povere: aveva fatto eleggere sindaci e giunte – ma sempre concependoli come strumenti e senza credere che una vittoria elettorale fosse già un esito, che ora si potesse «lasciar fare ai nostri eletti». Al contrario, il rapporto tra amministratori No Tav e comitati era una corda tesa.

Nel corso degli anni Dieci, si era definita una nuova strategia normalizzante fondata sull’epiteto «grillini», usato come nome omologante per ricondurre il movimento No Tav a una delle forze partitiche in campo, rappresentarlo come forza subalterna nella cornice stereotipata del presunto scontro tra «progressisti» e «populisti».

L’ostentato ma ambiguo appoggio del Movimento 5 Stelle alla lotta No Tav aveva causato discussioni interne e polemiche, e fornito ai nemici buoni appigli, ma finché il partito di Grillo e Casaleggio era rimasto all’opposizione, il movimento era riuscito a non farsi ghermire né dividere.

A partire dal giugno 2018, invece, con l’approdo del M5S al governo e l’insediamento del governo Conte I, la strategia aveva pagato. Il movimento No Tav era stato messo in difficoltà come mai prima.

In parte, ci si era messo da solo, con l’iniziale apertura di credito al governo da parte di alcune sue anime e il prevalere di una linea «attendista»: vediamo se fermano l’opera. Così la soggettività No Tav era rimasta intrappolata nella narrazione delle «tensioni tra forze politiche»: tensioni interne alla coalizione «gialloverde», e tensioni tra il governo e l’opposizione-per-modo-di-dire, cioè il PD, che su Tav e Grandi Opere aveva la stessa posizione della Lega e in fondo, come si sarebbe visto una volta dispersa la fuffa, del M5S.

Quest’ultimo aveva a lungo ostentato il proprio sostegno a svariate battaglie sociali e lotte territoriali. Con l’andata al governo, le pose barricadere avevano presto lasciato il posto ai completi Gucci o Ermenegildo Zegna, e l’opposizione alle Grandi Opere era evaporata come urina sotto il sole, lasciando solo un lezzo pungente. Nel giro di pochi mesi, i ministri e leader grillini avevano dato il benservito ad almeno tre lotte territoriali affini a quella No Tav: No Terzo Valico, No Tap e No Passante di Bologna.

Tuttavia, il nodo valsusino aveva tardato a sciogliersi. Una certa «desistenza» si era prolungata, e le compagne e i compagni di strada del movimento No Tav – incluso il sottoscritto – si erano trovate in difficoltà. Avevamo sentito il movimento meno vicino, impacciato nel prendere parte alla lotta contro quel governo, che pure era il governo della repressione, dei decreti sicurezza, del razzismo sistematico, degli attacchi ai diritti civili e sociali.

Tra l’estate 2018 e il febbraio 2019 si erano registrati un calo di autonomia nell’immagine della lotta e un calo di universalità del significante «No Tav». Quest’ultimo aveva oscillato pericolosamente verso la caricatura che della lotta aveva sempre fatto il nemico: una vertenza locale e particolaristica.

L’immagine del movimento No Tav aveva perso una parte di autonomia anche perché si era parlato più dell’iter dell’opera che della lotta per fermarla. O meglio: la lotta era parsa dipendere dell’iter anziché, come era accaduto fino ad allora, viceversa.

Ovviamente era giusto e indispensabile parlare dell’iter, fare le pulci anche sul piano tecnico-procedurale: fin dai primordi del comitato Habitat, quella era stata una delle buone pratiche del movimento No Tav. Ma non erano state le «barricate di carta» a rendere «No Tav» un significante per tutte le lotte territoriali: era stata la riconoscibilissima autonomia della soggettività No Tav.

Le barricate di carta funzionavano solo se c’erano anche quelle vere. La “normalizzazione” del movimento No Tav era consistita nell’impantanarlo, nello spingerlo a concentrarsi solo su aspetti procedurali, costringerlo a focalizzare sul rinvio dei bandi, ad attendersi chissà cosa dalla nuova analisi costi-benefici, e quant’altro.

Se i nomi separatori nulla avevano potuto contro la libera repubblica dei No Tav, un nome omologante – «grillini» – aveva rischiato di disgregarla.

Ma non c’era riuscito.

L’ultimo tentativo di usare un nome omologante contro i No Tav lo avevano compiuto proprio le schiere di troll del M5S, dopo che la rottura s’era consumata e il partito di Di Maio non poteva più chiedere ai valsusini alcuna desistenza.

Il nome omologante, in quel caso, era stato «leghisti». Alla panzana sui No Tav che alle Europee del 2019 avevano «votato Lega», Davide Gastaldo e il sottoscritto avevano dedicato una disamina su Giap.

L’autonomia riconquistata e il ritorno dei «violenti» (alla buon’ora)

Persino in quella fase di parziale confusione il movimento aveva dato prove di forza, come la manifestazione oceanica dell’8 dicembre 2018, a Torino, in risposta alle «madamine» sìTav.

8dicembre2018

Torino, 8 dicembre 2018.

Nel frattempo, molto meno visibili delle polemiche, erano cominciate altre storie, si erano esercitate diverse influenze e sviluppate nuove tendenze.

Nel grande calderone del festival Alta Felicità – evento cresciuto di anno in anno fin quasi a “sbordare” e risultare gestibile con grande fatica – si erano avviati quelli che una certa tendenza teorica avrebbe chiamato «processi di soggettivazione». Detta più prosaicamente: nei giorni del festival la nuova generazione No Tav, troppo piccola ai tempi delle Libere Repubbliche, aveva vissuto esperienze formative e fondative.

Nel frattempo, gli exploit del movimento Fridays For Future facevano prendere coscienza a migliaia di giovani e giovanissime. In Valsusa, quella gioventù si era guardata indietro e intorno, rendendosi conto che lì non si era aspettata Greta Thunberg: la lotta contro il sistema ecocida e climaticida durava da trent’anni. Nell’ottobre 2019l’assemblea nazionale di FFF Italia aveva preso una posizione nettissima contro la Torino-Lione e altre Grandi Opere.

Intanto si svolgeva la gioiosa epopea della resistenza di Nicoletta Dosio, storia che avrebbe meritato un testo a parte, e che aveva fornito a molte giovani una vera e propria role model, esempio vivente di coerenza e determinazione.

 nicoletta

A Bologna, per tutta la fase dello #stareincasa e della paranoia da Covid, nelle strade era rimasta affissa, monito di resistenza, un’immagine di Nicoletta a pugno chiuso. Si trattava di un manifesto di solidarietà realizzato dall’Associazione Bianca Guidetti Serra.

Nei primi mesi del 2019, un rinnovato ricorso a nomi separatori aveva annunciato un’inversione di tendenza. In quel periodo, in un intervento intitolato «Fuori dalle secche», avevo detto che presto sarebbero tornare le accuse di violenza, e il senso era: «Ben vengano!».

Insomma, i semi del rinnovamento e della «ripartenza» No Tav erano germogliati proprio negli anni in cui il movimento era parso più in crisi. Se per vederne i frutti si era dovuta attendere l’estate 2020, era perché c’era stata l’emergenza Covid.

Nella fase dello #stareincasa molte e molti giovani avevano accumulato frustrazione nei confronti della vita «a distanza» – dalla finta didattica agli affetti impossibili – e molta collera per una gestione dell’emergenza «adolescentofobica», in generale aggressiva nei confronti dei più giovani (lo spauracchio della «movida») e soprattutto perbenista (i lapsus su «congiunti» e «affetti stabili»). Tra chi aveva appena scoperto l’attivismo, durante la reclusione domestica era cresciuta, invisibile a molti radar, la voglia di agire, di tornare a lottare mettendoci il corpo, i corpi. Come al presidio permanente ai Mulini.

[Notazione en passant: l’iniziale “desistenza” No Tav nei confronti del governo Conte I era stata niente se paragonata al vero e proprio collateralismo di altre aree «di movimento» nei confronti del Conte II durante l’emergenza Covid.]

Tornando al giugno-luglio 2020

Il 16 giugno 2020 una relazione della Corte dei Conti Europea aveva espresso seri dubbi sulla Torino-Lione, sul suo iter, sui suoi costi in perenne levitazione e sui suoi supposti benefici ambientali. Il passaggio più interessante era questo:

«[…] vi è un forte rischio che gli effetti positivi multimodali di molte [infrastrutture di trasporto] siano sovrastimati. Ad esempio, nel 2012 il gestore dell’infrastruttura francese ha stimato che la costruzione del collegamento transfrontaliero Lione-Torino, insieme alle relative linee di accesso, avrebbe generato 10 milioni di tonnellate di emissioni di CO2. Secondo le sue stime, [l’opera] non produrrà un beneficio netto in termini di emissioni di CO2 prima di 25 anni dopo l’inizio dei lavori. Invece, sulla base delle medesime previsioni di traffico, gli esperti consultati dalla Corte hanno concluso che le emissioni di CO2 verranno compensate solo 25 anni dopo l’entrata in servizio dell’infrastruttura. Per di più, quella previsione dipende dai livelli di traffico: se i livelli di traffico raggiungono solo la metà del livello previsto, occorreranno 50 anni dall’entrata in servizio dell’infrastruttura prima che le emissioni di CO2 prodotte dalla sua costruzione siano compensate.»

Negli stessi giorni, quasi fosse una stizzita risposta a tali considerazioni, era giunta la notizia di un’imminente estensione del cantiere, con sbancamento del Clarea all’altezza dei Mulini e realizzazione di una passerella sul torrente. Lavori preliminari alla costruzione di un nuovo svincolo di servizio sull’autostrada A32.

Per contrastare quella mossa, il 20 giugno era nato il nuovo presidio. La sera dopo, un grosso dispiegamento di truppe aveva cercato di sgomberarlo, senza riuscirvi. Alcuni No Tav si erano incatenati alle baite, altri erano saliti sugli alberi. La sera di lunedì 22 si era svolta la prima marcia di solidarietà al presidio, durante la quale c’era stato il primo cambio-turno. La polizia aveva cercato di impedirlo, sparando anche lacrimogeni nei boschi.

Il 26 giugno, al PalaNoTav di Bussoleno, c’era stata una grande assemblea popolare, come non se ne vedevano da tempo.

Il 28 giugno le Fomne No Tav [Donne No Tav] si erano presentate in massa al cancello del cantiere e avevano eseguito la performance femminista internazionale «Un violador en tu camino», con parole adattate alla situazione in Valsusa.

L’1 luglio il nuovo sindaco di Lione, il verde, Grégory Doucet, aveva dichiarato, senza giri di parole, la propria netta opposizione al Tav.

Il giorno dopo era cominciato il campeggio itinerante No Tav, intorno al cantiere, in luoghi comunicati giorno per giorno, con iniziative varie.

Il pomeriggio del 4 luglio, tornato in Valsusa dopo lunghi mesi, avevo assistito a un’assemblea sotto il tendone del campeggio, su un prato lungo la statale 24 da cui si vedeva il forte di Exilles, e partecipato a un piccolo corteo spontaneo. La sera, cenando alla «Locanda del Priore» di Vaie, Maurizio mi aveva raccontato per filo e per segno le ultime settimane.

In cielo, proprio accanto alla luna piena, erano visibilissimi Giove e Saturno. Ero felice di essere di nuovo in valle, sia pure per un solo weekend.

La mattina dopo era domenica, e ci eravamo concessi un’escursione. Diretti al rifugio Avanzà e poi al Lago della Vecchia (che, avremmo scoperto, non si vedeva più: lo aveva riempito una frana), camminavamo proprio sopra la val Clarea. Volgendo lo sguardo a est potevo vedere l’intera Valsusa, stretta e lunga, con le sue vie di comunicazione serpeggianti fino a Torino. La città era visibile là in fondo, vaga ma punteggiata di riflessi.

Mentre eravamo lassù, i siti di informazione locale sparavano titoli allarmistici e smodati, perché di fronte all’uscita del cantiere qualcuno aveva seminato chiodi a quattro punte, i famosi «triboli», che avevano bucato qualche pneumatico.

Molti anni prima, operai e braccianti avevano usato regolarmente i triboli contro i mezzi motorizzati della Celere di Scelba. Nel 2020, di fronte a qualche gomma forata, si gridava scompostamente. La deputata renziana Silvia Fregolent parlava addirittura di «terrorismo» e «forze eversive». Nelle ore successive, la notizia sarebbe arrivata in cronaca nazionale.

Torino-Lione, parla Virano: “In corso ci sono gare per 4 miliardi di euro. Vogliamo lasciare i territori migliori di come li abbiamo trovati”

https://www.torinoggi.it/2020/07/03/leggi-notizia/argomenti/viabilita-1/articolo/torino-lione-parla-virano-in-corso-ci-sono-gare-per-4-miliardi-di-euro-vogliamo-lasciare-i-terri.html?fbclid=IwAR0uxE3LVJUUJgpOLDW45nmqMNLUYHF0MNl4rZThMUvO05UKjVgfyeYYHQ4

Il direttore generale di Telt fa il punto sulla situazione dopo le recenti tensioni tra No Tav e forze dell’ordine e le operazioni per ampliare il cantiere di Chiomonte

Torino-Lione, parla Virano: "In corso ci sono gare per 4 miliardi di euro. Vogliamo lasciare i territori migliori di come li abbiamo trovati"

Quattro miliardi di euro. E’ il valore delle gare d’appalto attualmente in atto per la realizzazione della Torino-Lione. A fare il punto è Mario Virano, direttore generale di Telt, la società responsabile delle operazioni. E lo fa attraverso una serie di video che arrivano proprio nelle ore in cui si riaccende la polemica tra chi è contrario all’opera e chi invece la sostiene, con tanto di disordini (limitati, fortunatamente) tra No Tav e forze dell’ordine.

Ma proprio nei giorni scorsi è arrivata anche dal nuovo sindaco di Lione, l’ecologista Grégory Doucet, una nuova fonte di polemiche, avendo rimesso in discussione l’utilità dell’opera. E i riflessi politici sono arrivati fin sul nostro territorio nel giro di qualche clic. Proprio stamattina, in piazza Castello, l’ultima manifestazione contraria al treno veloce.

Intanto, sottolinea Virano parlando di un’infrastruttura realizzata al 18%, “Telt è uno dei più grandi operatori che possono muovere l’economia in Italia e in Francia. Per quanto riguarda la tutela dell’ambiente, l’obiettivo non è quello dell’impatto zero, ma di creare valore aggiunto. E’ una grande sfida lasciare i territori in cui interveniamo migliori di quelli che abbiamo trovato: dal punto di vista ambientale, naturalistico e paesaggistico, ma soprattutto dal punto di vista sociale”.

“La Torino-Lione è un progetto necessario alla nostra rete – aggiunge Adina Valean, commissaria europea per i Trasporti – e lo consideriamo uno dei valori aggiunti dei corridoi europei, che non può mancare perché abbiamo l’esigenza di spostarci il più possibile con il treno. Quindi dobbiamo realizzare queste interconnessioni”.

No Tav, il cuore è vivo e batte il ritmo della lotta…

https://contropiano.org/interventi/2020/07/04/no-tav-il-cuore-e-vivo-e-batte-il-ritmo-della-lotta-0129731?fbclid=IwAR0aL5jsEsijH7dWQsd2fJ7wvEro_Jn_9gr0oWBz7IqMXMZaLfHRWBc16sw

La lotta NO TAV si rimette in cammino lungo i sentieri della Clarea. Da giorni arrivavano scampoli di notizie su un’imminente ripresa dei lavori. Da tempo materiali si andavano ammassando oltre le reti, lungo il torrente, ai piedi dei piloni autostradali.

Intanto in Valle aumentavano i controlli; gli alberghi collaborazionisti si preparavano ad ospitare le truppe, ogni mattina si sentiva il rombo dell’elicottero che saliva da Torino.

Ieri il movimento NO TAV si è ritrovato a Giaglione e si è messo in marcia. E’ nato il presidio permanente ai Mulini di Clarea. Le foto ci raccontano la bella giornata di sole, la costruzione delle barricate, l’allegria che accompagna la vita anche nei momenti più duri, quando si attende e si sa che il difficile sta per venire, ma si è anche consapevoli che, nonostante tutto, non si può disilludere un sogno ed abdicare al senso di responsabilità verso il futuro

Sono arrivati, di notte, come sempre. Hanno circondato il presidio, alzato barriere sui sentieri, ma non sono ancora riusciti a piegare i resistenti, alcuni saliti sugli alberi, altri sui tetti dei mulini, qualcuno incatenato ai cancelli. Le bandiere NO TAV garriscono con le rondini, al vento della Clarea.

In Valle volano incessanti le notizie, gli appuntamenti del fare concretamente, gli appelli alle realtà solidali: come sempre si deve partire insieme, con una risposta che sia di tutti e per tutti.

La rabbia è tanta: non si può che provare odio per i lobbisti che, rinchiusi nel Palazzo, continuano a presentare come pubblica utilità la devastazione sociale e ambientale legata a questa e alle altre Grandi Opere, inutili, costosissime, mortali.

Questo è il CuraItalia messo in piedi dalla folle bulimia dei nostri nemici di sempre che siedono nelle istituzioni e non rinunciano a trasformare in oro per i loro forzieri aria, acqua, suolo, salute, cultura, bellezza… e la memoria del passato, la vita del presente, la speranza del futuro di tutti.

Care compagne, cari compagni, per la prima volta non sono con voi nei luoghi della resistenza. Questi arresti domiciliari mi pesano insopportabilmente e più che mai in questi momenti, quando tutte e tutti sarebbero indispensabili, anche chi come me ha ormai poco da dare in forza fisica… ma il cuore è vivo e batte il ritmo della lotta…

Ha violato divieto di dimora, finisce ai domiciliari storico leader No Tav

https://torino.repubblica.it/cronaca/2020/07/06/news/ha_violato_divieto_di_dimora_finisce_ai_domiciliari_storico_leader_no_tav-261092097/?fbclid=IwAR0qz9qzQkYQMNnOGVplI71qwlCv7v9IZpH4gytYXBf9LSomj8iaEBu8vIM

Scalzo identificato dalla Digos nei boschi della Clarea 

06 luglio 2020
 

Ha violato il divieto di dimora nei comuni  di Chiomonte e Giaglione che gli era stato imposto dopo gli scontri del 27 luglio di un anno fa. Ora è ai domiciliari. Emilio Scalzo, 65 anni, storico del Movimento No Tav valsusino  e residente a Bussoleno, è stato identificato dagli uomini della digos  di Torino mentre frequentava i boschi della Clarea, durante le manifestazioni che in queste settimane hanno riacceso la protesta in valle di Susa in occasione del nuovo ampliamento del cantiere di Chiomonte. Per questo motivo è stato disposto un aggravamento della misura cautelare disposta nei suoi confronti. Questa mattina la Digos lo ha arrestato e messo ai domiciliari.
A dicembre quando erano arrivate le prime disposizioni contro i registi e i responsabili delle proteste violente del 27 luglio 2019, erano state 14 le misure cautelari disposte dal gip ed eseguite dalla polizia