1945-2018 UOMINI, CAPORALI E BASTIAN CONTRARI UN ’68 LUNGO UNA VITA

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MONDOCANE

DOMENICA 18 MARZO 2018

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Non fosse che sui due eventi, il ’68 e l’uccisione di Moro, che hanno cambiato l’Italia più di ogni altro, dal dopoguerra ad oggi, a dispetto dei tentativi messi in atto nei successivi 50 e 40 anni dall’establishment, sempre quello, di offuscarli, deformarli, seppellirli nelle menzogne, stanno sbracando in maniera indecente tutti, me ne sarei rimasto zitto. Consapevole che la mia singola e debolissima voce, per quanto testimonianza diretta del tempo, diversamente da quella dei tanti figuranti, comparse, millantatori, epigoni, scopertisi protagonisti ex post, non avrebbe neanche inciso una lieve stonatura nel coro delle rievocazioni di regime.

Berlino apre al ’68. Vero.

Poi però è successo che la Germania, Stato oligarchico, plutocratico, capitalista quanto e peggio di altri, quello contro il quale cadde Rudi Dutschke, mi abbia dato l’occasione di scoprire che lo Stato borghese, quando si sente forte e sicuro, ha anche l’intelligenza di riservare qualche spazio all’altro, magari diverso, magari antagonista, senza boldrineggiare con la caccia a Fake News, estremisti, nazifascismi cartonati da sciogliere nell’acido. Avvertito della mia modesta e vetusta esistenza antimperialista e “sovversiva” grazie ad alcune apparizioni sugli schermi e nelle onde radio di un bravo giornalista contro, Ken Jebsen, copia in bella del Beppe Grillo d’un tempo, questo Stato decise di irrobustire la mia voce in misura tale da potersi udire anche in mezzo al rumoreggiare dei rievocatori di servizio.

A conferma di quanto ho appena detto sullo Stato tedesco e i suoi angoletti di democrazia, vi esiste e lavora una Centrale Federale per l’Educazione Politica (Bundeszentrale für politische Bildung) che dalla ricorrenza del ’68 ha tratto lo spunto per una grande mostra internazionale che si apre al Ludwig Forum di Aquisgrana il 19 aprile 2018. Porta il titolo niente male di “LAMPI DEL FUTURO – L’arte dei sessantottini, ovvero il potere degli impotenti” ed esporrà opere, scritte o figurative, di alcune decine di attori, testimoni, artisti, descrittori e analisti di quell’epoca e del suo Zeitgeist. Ancora mi chiedo perché, per l’Italia, anziché esponenti notori, come Oreste Scalzone, famigerati come Sofri o Mario Moretti, o storici come Bobbio o Mieli, ci sia io, semplice militante, mai leader di niente, semmai divulgatore del nostro ’68-’77, ma anche di quelli vissuti altrove. Forse qualcuno aveva scoperto che il mio ’68, in senso escatologico, nasce nel 1945, proprio in Germania, tra camicie brune e bombe angloamericane, alle elementari e poi alle università di Monaco e Colonia con l’Erasmus di allora, per riapparire alla Sapienza di Roma. E non è ancora finito.

Insomma, gentili e molto empatiche funzionarie di questa Centrale di “coscientizzazione” politica (il termine “Bildung” è più che “educazione”) mi chiedono un contributo al catalogo della mostra del ’68 sotto forma di scritto che racconti la mia esperienza in quel contesto. Liberamente. Il catalogo, di ben 600 pagine, e i suoi autori, soprattutto tedeschi, ma anche latinoamericani, francesi, britannici e altri) verranno presentati il 19 aprile, in occasione dell’apertura della mostra. Concomitante con il catalogo della Bundeszentrale, esce ora, per i tipi dell’editore Zambon, onorato da una prefazione di Vladimiro Giacchè e curato nella redazione e grafica da Fabio Biasio, un mio libro con quel testo in italiano e un altro con lo stesso, ma nell’originale tedesco: “Un ’68 lungo una vita”, ora alla Fiera del LIbro di Milano. (In Italia lo si può acquistare o ordinare nelle librerie, o rivolgersi a www.zambon.net . In calce elenco altri miei libri).

Parte da lontano ogni ‘68

Dubito che questo mio breve cammino narrativo, lungo un filo rosso che congiunge tempi e fatti che potrebbero sembrare incongrui, rivesta un particolare valore letterario o storico. Forse riesce a mostrare come quanto s’intende per ’68, nella sua specificità, non è limitato a quel decennio, ma che la messa in discussione dell’esistente, più o meno radicale, serpeggia, può serpeggiare, dovrebbe serpeggiare, sempre, in contesti apparentemente lontani e diversi. Cosa dice Totò nel magistrale monologo di “Siamo uomini o caporali”? Caporali si nasce, non si diventa: a qualunque ceto essi appartengano, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso: hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi, pensano tutti alla stessa maniera. Degli uomini, “trattati come bestie”, Totò fa la denuncia, non esprime la rivolta. Erano i tempi. Valletta schiaffava gli operai nei reparti punitivi, lo Stato sparava impunemente contro i braccianti ad Avola. Ma non ci sarebbe stata, pochi anni dopo, Valle Giulia, senza quei prodromi. Prologhi, antefatti, ouvertures del melodramma.

Uomini che diventano caporali

Del ’68 molti degli “uomini”, che per Totò tali nascono, come i “caporali”, “caporali” sono invece diventati. Un po’ la metamorfosi di Kafka, da uomo a scarafaggio. Ciò che irrita sommamente e indigna e forse giustifica il mio libretto, è che molti di questi non si sono accontentati di diventare caporali, con le conseguenti gratificazioni concesse dalla categoria, ma non si sono peritati addirittura di rappresentare gli “uomini” di allora. Il primo a balzare sul tema è stato Flores D’Arcais con numeri speciali e convegni di Micromega. Vi imperversavano degne persone, dalle sagge rappresentazioni e considerazioni, ma che sinceramente io non avevo mai incrociato, né in piazza, né nelle università, né negli intergruppi, né nelle redazioni, né ai cancelli delle fabbriche, né nell’occupazione di case a Via Tibaldi, né in carcere. Gente del calibro di Camilleri, Renzo Piano, Carlo Verdone, Massimo Cacciari, Alberto Moravia… Magari ero distratto, o hanno fatto tutto mentre i processi al quotidiano “Lotta Continua”, di cui ero direttore responsabile, mi avevano costretto all’esilio: Londra, Bruxelles, Yemen.

Uno, portato in palmo da Flores D’Arcais, è Paolo Mieli, lo storico da schermo, onnipresente e onnisciente dove si parli di vicende tra il 1922 e il 1945, o il tuttologo dove si dicano parole definitive sui massimi sistemi politici, economici, sociali. o dietetico-cosmetici. Un padre della patria al cui confronto cambiacavallo e autoriciclati come Adriano Sofri, Lucia Annunziata, Paolo Liguori, Mario Tronti, Massimiliano Fuksas, Galli Della Loggia, pur ampiamente compensati per il passaggio di classe, fanno la figura delle vallette.

Le grandi metempsicosi, o darwinismo all’incontrario.

Non ricordo quale mese del ’69 fu, stavo ancora a Paese Sera ma ero già in Lotta Continua, che c’incontrammo per creare a Roma il primo giornale del movimento, “La Classe”. Quelli di cui ricordo la partecipazione alle riunioni “di redazione” erano Paolo Mieli, appunto, Oreste Scalzone, Stefano Lepri, Gianmaria Volontè, Lorenzo Magnolia (con i quali due ultimi avevo fatto “teatro di strada” sui temi che allora fiorivano rigogliosi: operai e padroni, divorzio, sessualità, Vietnam, colonialismo, e poi il film Oscar “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, il più forte film italiano sul Potere mai passato sugli schermi). Da quel giornaletto ultrà marxista-leninista, venni cacciato da Mieli perché, ancora infettato dalla “swinging London”, dove avevo passato gli anni dal 1962 al 1967, avevo contaminato il progetto suggerendo di inserirvi degradanti e borghesi fenomeni di costume come il rock, i nuovi rapporti sessuali, i fumetti, l’animalismo, l’avanguardia artistica. De “La Classe” uscirono tre numeri. Mieli è assurto all’empireo del Sistema, uomo-establishment a tutto tondo, Gianmaria Volontè ci ha lasciato gemme di grandezza umana. Io sto qua. Con una cervicale mi buca l’occipite.

Binocoli rovesciati

Dalla polvere di ignoranza, falsificazione, strumentalizzazione sotto cui il revanscismo postfascista democristiano, con la fattiva complicità del già marcescente PCI, ha sepolto quel decennio che aveva reso credibile l’alternativa totale, ora si lasciano riemergere voci inoffensive. Quale sciropposa e nostalgica, come si trattasse di un giardino dell’Arcadia in cui ci avevano lasciato giocare tra ninfe e pastorelli; quale impegnata a irridere e ridurre il tutto allo sfogo di adolescenti borghesucci, insoddisfatti della propria medietà sociale; quale rivendicatrice del proprio ruolo rivoluzionario senza averne i titoli. Mentre le prime di queste voci perlopiù non c’erano, se non col ciucciotto in bocca, non hanno capito niente e parlano per puntellare la catastrofe, o l’indecenza, della propria condizione attuale, altre c’erano e rivendicano, o senza averne i titoli, o bluffando, o millantando. Siamo al terzo mese del cinquantesimo e quelli seri non si sono ancora fatti avanti.

Molto si dà da fare “il manifesto”, che insiste a titolarsi “quotidiano comunista” contro ogni evidenza della sua identità reale e del ruolo assegnatogli. Primeggiano sul proscenio le due “signore del 900”, Rossana Rossanda, che vive la sua agiata senescenza all’ombra delle Tuleries, e Luciana Castellina, il superego oggi vessillifero, accanto ai simili Boldrini e D’Alema, dei propositi rivoluzionari di Liberi e Uguali. Di cui lei, ancora una volta, è l’anima, il cuore, i garretti, l’io. Il “manifesto”, da noi militanti con le bocce e la pizza a taglio, era visto come il calmiere delle istanze e pratiche del movimento. Signore e signori già allora inesorabilmente “radical chic”, fauna da salotti. Vi albergavano e ne venivano lanciati verso destini altamente remunerati e di prestigio sistemico i vari Riotta, Annunziata, Maiolo, Barenghi, Ruotolo, Menichini….

 Rossana e Luciana, mai un passo falso

Accanto a questi, va concesso, si sono espresse firme più coerenti e, dunque, pesantemente contrastate dai capi. Penso al grande inviato di guerra, mio amico indimenticabile, Stefano Chiarini, e alla grama vita riservata in direzione al suo eccellente lavoro in Medioriente. Colleghi inconsapevolmente ma sostanzialmente fuori linea rispetto all’orizzonte strategico del giornale. Quest’ultimo riconoscibile anche dal salvifico contributo disinvoltamente ottenuto da grandi inserzionisti dei poteri forti ENI, ENEL, COOP, Telecom, lobby della caccia e delle relative armi. Di Soros si mormora, ma non si dimostra, se non per induzione, seguendo le campagne disgregatrici sostenute dall’ufficiale pagatore del mondialismo neoliberista: Obama, Hillary, minaccia neonazista, molestie, migranti, russofobia, LGBT, diritti umani… . Ecco come la sinistra del “manifesto” si batte per l’ecosistema di tutti i viventi (vedi pubblicità “Caccia”).

Pubblicità sul manifesto

Campagne che potremmo dire ben definite dalle polene sulla prua della nave, Rossanda e Castellina, rappresentanti di quella lobby che è sempre stata preponderante nel giornale e oggi lo ha quasi militarizzato, specie nei suoi inserti, a partire dal raffinatamente proletario “Alias”, Una delle ultime sferzate per raddrizzare una linea che, sulla Libia, con l’inviato Matteuzzi, era scivolata in critiche all’assalto Nato e jihadista, la diede Rossanda prima di ritirarsi nei Boulevard. “Contro Gheddafi, sanguinario dittatore, e accanto ai rivoluzionari di Bengasi, vanno richiamate in servizio le Brigate Internazionali di Spagna”, tuonò. La perspicacia e lungimiranza dell’altra, prima di farsi incoronare da D’Alema e Bersani dama di compagnia della Boldrini nei LeU, aveva dato luminosa prova di sè nella creazione della lista “Un’altra Europa con Tsipras”. Meravigliosa la “Brigata Kalimera”, di cui era capogita ad Atene, appena qualche ora prima che il nuovo alfiere della rivoluzione socialista non pugnalasse il suo popolo alle spalle rinnegando l’esito anti-Troika del referendum e sottoponendo la Grecia alla triturazione dei memorandum. Con l’ovvio corollario dell’eterna fedeltà alla Nato e dell’alleanza con Israele.

Il “quarantenario” delle voci del padrone

Rimane da dire che al cinquantenario si accompagna, altrettanto malamente, il quarantenario. Quello dove finiamo noi e incominciano gli anni di piombo dei padroni. Quello del rapimento Moro e dell’esecuzione della sua guardia del corpo. Ricercatori, indagatori, analisti coscienziosi come Flamigni, i Cipriani, Imposimato, esperti stranieri di vaglio, su questa operazione Gladio-Nato-Cia-Mossad-‘ndrangheta, hanno rivelato l’(in)credibile tessuto imperialista. “Il manifesto”, in complice sintonia con gli eredi di coloro che in questo modo consolidarono lo Stato delle stragi, lo Stato colonia degli Usa e succube di Israele, venne lanciato dalla solita Rossanda sulla pista dell’autenticità delle BR e viene su questa confermato oggi. Erano veri, uscivano dall’Albo di Famiglia del PCI. Come sono vere le interferenze di Putin nella vittoria di Trump, come è vero che i russi spargono gas nervino nelle città inglesi, come è vero che Assad, Gheddafi e Saddam minacciavano di invadere l’Occidente, come è vero che Hillary ci avrebbe salvato e i 5 Stelle sono tutti fascisti e le Ong tutte sante. Nessun infiltrato nessuno manipolato, figurati, Nemmeno tra quelli che fulminarono in pochi secondi, con precisione da Berretti Verdi, 5 guardie e nessun altro, senza aver mai sparato più di mezzo caricatore.. E che ancora oggi hanno la spudoratezza di coprire la verità.

A dispetto delle infinite bugie, degli omertosi silenzi di brigatisti a cui, sicuri fino alla tracotanza, si permette ancora oggi di pontificare in tv e di tacere sulle borse e sui memoriali di Moro trafugati, sugli ambienti vaticani e dei servizi segreti all’interno dei quali l’operazione si svolse e venne protetta, su tutto il resto. Su un’operazione con cui gli Usa e i loro sguatteri vollero tenere l’Italia nell’orbita mortale che ci ha portato fino all’oggi e, al tempo stesso, militarizzare e criminalizzare un’opposizione civile di massa che aveva fatto scorrere brividi lungo la schiena della demo-dittature uscite dalla guerra anti-nazifascista. Di tutte le maleodoranti voragini spalancate sulla vulgata di regime cronisti d’ordine, come Purgatori, Ezio Mauro, Gotor, sicari reduci come Gallinari, Morucci, Moretti, Balzarani, Fiore, e cantori nel coro come “il manifesto”, si limitano a parlare di zone d’ombra”. Punto. Sono, non siamo, tutti coinvolti.

E il mio libro racconta un’altra storia. Molto personale. Ma perlomeno vera. E neanche pagata, dato che gli introiti vanno all’ottimo editore Zambon, combattente di una straordinaria controinformazione (vedi catalogo).

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SPOT. Astenersi i disinteressati.

Da Zambon ho pubblicato anche un altro libro “L’Occidente all’ultima crociata”, mentre “Mondocane – Serbi, bassotti, Saddam e Bertinotti” l’ho pubblicato con KAOS, “Mamma ho perso la Sinistra! – Convergenze, connivenze, obbedienze di una Sinistra ex” , “Di resistenza si vince – Il futuro di Palestina e Medioriente, la riscossa araba, la crisi di Israele”, e “Delitto e castigo in Medioriente – Gaza, Baghdad, Beirut” sono tutti usciti presso Malatempora, casa editrice che nel frattempo è defunta. Ai miei bassotti è dedicato “Rambo, Nando e io”, edito da Il Salvagente. Di questi libri ho a disposizione alcune copie.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 10:08

1945-2018 UOMINI, CAPORALI E BASTIAN CONTRARI UN ’68 LUNGO UNA VITAultima modifica: 2018-03-18T12:48:24+01:00da davi-luciano
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