La seconda gamba del Jobs Act: l’Anpal e il management della precarietà di massa

copertina-300x300per fortuna che ci sono tante lotte dure senza paure. SE SI E’ ARRIVATI FIN QUI QUALCUNO COMPLICE E’ STATO. Ed ad ogni SUICIDIO per indigenza CENSURIAMO bel paese dominato dai giusti moralmente superiori
SOLO SE LA COSIDDETTA SOLIDARIETA’ SI TRASFORMA IN UN SISTEMA MAFIOSO-TANGENTISTA VIENE INTRODOTTA IN STA FOGNA DI PAESE

Non solo voucher. Il Jobs Act è un mondo. L’agenzia nazionale delle politiche attive (Anpal) è la sua seconda gamba. Anticipazione del futuro in Italia. Quello che saranno le politiche neoliberali del lavoro e il management della precarietà di massa.  Non senza problemi: l’Anpal che dovrà organizzare i servizi per reinserire i lavoratori precari o disoccupati è tenuta in piedi da 760 precari i cui contratti scadranno il 31 luglio. E’ l’immagine speculare della forza lavoro che dovrebbero aiutare a “ricollocarsi”.
 
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La stagione delle politiche attive del lavoro in Italia è iniziata ad Avellino. Il Presidente del Consiglio Gentiloni e il presidente dell’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro (Anpal) Maurizio Del Conte hanno visitato il Centro per l’Impiego della città campana per lanciare un’operazione ambiziosa: introdurre anche nel Belpaese un sistema di workfare secondo i canoni più stringenti del neoliberismo applicato al mercato del lavoro. Un’operazione che può essere compresa in relazione all’approvazione del “reddito di inclusione” nell’ambito di un intervento sottofinanziato, vessatorio e incompleto contro la povertà.
Questo reddito riguarda i poverissimi, capofamiglia di nuclei numerosi al di sotto dei 3 mila euro di Isee; l’assegno di ricollocazione che sarà gestito dai centri dell’impiego monitorati dall’Anpal interessa invece i disoccupati.
La logica è la stessa: il soggetto che non accetta un’offerta di lavoro, e non rispetta il “patto” con lo Stato (o con le agenzie private titolari di un progetto di ricollocazione), sarà penalizzato fino alla perdita del sussidio stesso.
Il set è un centro per l’impiego del Sud, dove ci sono i tassi di disoccupazione e di povertà più alti del paese. Gli attori – Gentiloni e Del Conte (bocconiano, e già autore del Ddl lavoro autonomo) – hanno annunciato le seguenti misure: 30 mila lettere ai disoccupati per “ricollocarli” sul mercato del lavoro; rilancio del fallimentare programma sulla “Garanzia giovani” e del Bonus assunzioni Sud per il 2017, parte superstite degli sgravi erogati dal governo Renzi alle imprese che assumono con il contratto precario “a tutele crescenti”, 18 miliardi in tre anni con esiti deludenti. Sarà creato un nuovo bacino di precari: mille “tutor” garantiranno il sistema del lavoro gratuito dei liceali nelle aziende nell’ambito del sistema “alternanza scuola-lavoro” strutturato da un’altra riforma renziana: la “Buona scuola”. Previsti interventi a supporto della ricollocazione di 1.666 licenziati di Almaviva Contact.
 
Esperimento Almaviva
Il ricollocamento degli ex Almaviva è una sperimentazione che prevede tre strumenti di incentivazione per una somma da investire sui lavoratori licenziati fino a 15mila euro: alle società private che formeranno il lavoratore andranno fino a 2mila euro; alle società di collocamento ma solo nel caso di esito positivo del percorso, un assegno di ricollocazione fino a 5mila euro;  alle aziende che assumeranno il lavoratore con contratto a tempo indeterminato fino a 8mila euro.
I disoccupati continueranno ad usufruire, per tutto il percorso di ricerca di lavoro, della Naspi. in alternativa, sono previsti incentivi per l’auto-impiego fino a 18mila euro a lavoratore, 15mila sul capitale e 3mila per il percorso di accompagnamento all’auto-imprenditorialità, oltre a risorse per la ricollocazione degli over 60, fino a 10mila euro a testa per l’accompagno verso un lavoro di pubblica utilità. L’accesso ai programmi disegnati dal governo sarà volontario. Nella regione Lazio apriranno 5 sportelli, in collaborazione con la regione, per gestire un’operazione complessa. Dal 9 al 16 aprile inizieranno i colloqui individuali con i lavoratori “ricollocandi”.
 
Le proposte di lavoro dovranno essere “congrue” e in linea con le competenze e il salario dell’esperienza precedente del lavoratore. Tutto dipende dalla “domanda che emergerà dal territorio” e dall’interesse di imprese pubbliche e private, società parastatali o amministrazioni pubbliche, ad occupare gli ex licenziati Almaviva. Se il lavoratore rifiuterà l’occupazione perderà il diritto all’indennità di disoccupazione. Su questa operazione il governo investirà 8 milioni di euro rimborsati dal fondo europeo Feg.
Questa sperimentazione permette di squadernare la logica governamentale già presente nelle politiche del lavoro in Italia e che il JobsAct ha cercato di sistematizzare in quella che è stata definita “seconda gamba”. I 30 mila destinatari delle lettere sono stati individuati tra i percettori della Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (Naspi) da almeno 4 mesi. Queste persone avranno a disposizione un buono fino a un massimo di 5.000 euro per usufruire di servizi di assistenza intensiva alla ricollocazione, presso un centro per l’impiego o un’agenzia per il lavoro accreditata. Va specificato che questa somma non è erogata direttamente al disoccupato, ma agli operatori – pubblici e privati – attraverso un meccanismo che viene definito “incentivante”. L’operatore sarà retribuito solo a risultato raggiunto, cioè alla firma di un contratto di lavoro da parte del lavoratore. L’intervento ha una durata di sei mesi, prorogabile per altri sei nel caso non sia stato consumato l’intero ammontare dell’assegno di ricollocazione.
Management del mercato del lavoro
Su questa base è possibile ipotizzare che per reciproco interesse il lavoratore e l’agenzia a cui si è rivolto possano avere interesse a mantenere in vita la prestazione di disoccupazione. Il primo potrebbe mantenere il sussidio per la sua intera durata; la seconda continuare a prendere il voucher. Nel primo caso, il diritto fondamentale della libera scelta – e il corrispettivo principio costituzionale -saranno aggirati dall’approccio prestazionale e produttivistico proprio del dispositivo del management by objective. Nel secondo caso si rischia di alimentare comportamenti opportunistici nelle strutture private.
 
I “soggetti accreditati” possono anche spingere il loro “cliente” ad accettare qualsiasi offerta che riterranno congrua rispetto al curriculum del lavoratore. Dal numero di ricollocamenti dipende sia la riscossione della percentuale sul fondo destinato al lavoratore sia il rating dell’agenzia interinale che è in concorrenza con le altre, così come lo saranno gli stessi centri per l’impiego in un sistema “misto” dove l’Anpal dovrebbe giocare un ruolo di arbitro e di coordinatrice-monitoratrice delle attività  del pubblico e del privato, dello stato e delle regioni.
Al lavoratore spetterà la scelta di accettare un lavoro oppure ricevere la penalità da parte dello Stato. Per lui le “politiche attive” prevedono una serie micidiale di sanzioni nel caso di rifiuto di un’offerta “congrua” di lavoro, fino alla punizione finale: il rifiuto del sussidio.Su questo concetto di “congruità” si giocherà, presumibilmente, la partita esistenziale, politica ed epistemologica delle “nuove” politiche del lavoro. Il contrasto tra la logica del rating -seguita dal sistema di collocamento scelto dal JobsAct – e quella della libera scelta è palese.
Alla base della “politica attiva del lavoro” esiste l’approccio sanzionatorio e parossistico del work first: il “lavoro purchessia”, basato sui requisiti quantitativi e non qualitativi. Questa logica incide sia sul lavoratore che sui soggetti che li seguono. L’obbligo della scelta può arrivare a negare la libertà del soggetto che ha stretto un “patto” con lo Stato. Il ricollocamento, l’occupazione, la disoccupazione diventano un caso morale, ovvero uno dei dispositivi che governano la vita delle persone oggi nella società, e non solo nel lavoro.
 
Esistono altre ipotesi. Ad esempio, una volta entrati in vigore a livello sistemico, i voucher potrebbero essere liberamente versati nelle casse delle multinazionali private e non in quelle pubbliche, date le attuali e future inefficienze. Il governo elargirà fondi pubblici a privati, ma sarà rimborsato con i fondi europei. La politica, che molto sta puntando sulla finzione delle “politiche attive” potrà comunque appendersi una medaglietta al petto. I giornali potranno titolare sul successo dell’operazione.
 
L’Unione Europea – ispiratrice di questo sistema neoliberale di workfare – potrà brindare al miglioramento delle statistiche sull’occupazione. E i lavoratori? I lavoratori troveranno un altro modo per vivere la loro condizione di disoccupazione attiva o di attivazione occupazionale permanente restando, in fondo, intermittenti del reddito e delle tutele.
E ancora: il soggetto potrebbe preferire non entrare nel quasi-mercato dei sussidi e delle politiche attive istituito con l’Anpal per evitare di essere ricattato, monitorato e disciplinato. In Italia sembra quasi inconcepibile questa eventualità, data l’assenza di una reale politica attiva. Casi simili si registrano in tutta Europa, dalla Francia all’Inghilterra e in Germania. Paesi dove il sistema di ricollocamento esiste. Il restringimento punitivo dei parametri, avvenuto nell’ultimo decennio, sta causando una fuga dal workfare da parte di soggetti che rifiutano di assoggettarsi alle nuove condizioni.
Le politiche attive del lavoro sono un concentrato di politiche neoliberiste con lo scopo di creare un “quasi mercato” dell’offerta di lavoro sia nel pubblico che nel privato. Il loro obiettivo è trasformare la governance inefficiente attuale in un dispositivo manageriale che funziona con premi, obiettivi e competizione tra istituzioni e imprese del reclutamento di forza-lavoro. La politica attiva del lavoro è un governo della vita.
 
Sono precari coloro che aiutano i disoccupati a trovare un lavoro
Ad oggi l’intero sistema dell’Anpal si regge sul precariato di 760 operatori i cui contratti sono stati da poco prorogati al 31 luglio 2017. E poi? Dovrebbero ripetere una selezione che hanno già fatto tra il 2015 e il 2016 per continuare a fare un lavoro che in molti casi svolgono da anni. E’ l’immagine speculare della forza lavoro che dovrebbero aiutare a “ricollocarsi”.
Il caso dei 760 precari di Anpal è significativo. Sono loro che dovrebbero seguire la “ricollocazione” dei licenziati Almaviva. Senza contare i mille “tutor” che dovrebbero seguire e formare le attività dell’alternanza scuola lavoro: una pedagogia neoliberale obbligatoria che serve ad addestrare gli studenti al lavoro inteso come stage permanente o vero e proprio lavoro gratuito che avrà un peso sul voto della maturità.
“È inaccettabile – scrivono gli interessati – che le risorse impegnate in progetti di ricollocazione, come il Piano Almaviva, garantiscano servizi a disoccupati vivendo sulla propria pelle una forte incertezza sul proprio futuro professionale e lavorativo. È necessario che Anpal e il Governo garantiscano l’inizio di un percorso di stabilizzazione che passi attraverso il rispetto dell’intesa quadro del 22 luglio 2015, la salvaguardia della continuità occupazionale dei lavoratori e delle attività di Anpal Servizi e la proroga dei contratti fino al 2020 senza passare per ulteriori selezioni visto che abbiamo già superato vacancies sulla programmazione 2014-2020”.
Non bisogna mai credere agli annunci degli aspiranti stregoni del mercato del lavoro. Sotto la patina dell’ottimismo tecnocratico, dentro le pieghe della neo-lingua, c’è sempre un’intenzione di controllo e governo. C’è sempre il precariato. Un dato può essere utile per dare un senso alle prospettive delle “politiche attive del lavoro” in Italia. Solo in Germania – stella polare delle classi dirigenti italiane sul workfare i mini-jobs e le politiche contro i poveri – nelle politiche del lavoro e nelle politiche attive sono impiegate circa 110 mila persone, oltre 11 volte in più rispetto ai circa 9 mila italiani, di cui circa 2 mila precari.
 
Roberto Ciccarelli 17.03.2017

Biella, suicidio di coppia per due ambulanti sessantenni: “Perdonateci, siamo sul lastrico”

copertina-300x300GRAZIE ITALIA. GRAZIE PER L’INDIFFERENZA MOSTRATA loro non sbarcano non meritano solidarietà, ed i tanti come loro che sono in difficoltà economica

E’ stata la polizia a scoprire i corpi dei coniugi
 
Tragedia nel quartiere Chiavazza. Marito e moglie hanno lasciato messaggi in cui spiegano i motivi del gesto: non riuscivano più a vivere del lavoro al mercato
 
Si sono tolti la vita perché non riuscivano più a vivere con il loro guadagno. E lo hanno fatto insieme. Doppio suicidio a Chiavazza, nel biellese: marito e moglie sessantenni sono stati trovati morti impiccati nel garage della loro casa in via Coda. Erano entrambi venditori ambulanti al mercato ma da qualche tempo con ogni probabilità non riuscivano più, con il loro lavoro, a sopravvivere.
 
A dare l’allarme è stato il proprietario dell’autorimessa dove i coniugi parcheggiavano il camion. Il fatto che da alcuni giorni nessuno lo avesse spostati ha destato dei sospetti. I cadaveri
 
sono stati scoperti oggi dalla polizia, entrata nella villetta. La coppia ha lasciato alcuni messaggi (“Perdonateci, siamo sul lastrico”) per spiegare il doppio suicidio, che sarebbe dovuto a motivi economici. La loro casa era in vendita da due anni, e sembra che marito e moglie sognassero di trasferirsi in Toscana per godersi la pensione: due anni fa, raccontano i vicini, la coppia aveva subito un furto in casa, fatto che aveva lasciato un segno profondo soprattutto nella donna.
di FLORIANA RULLO – 17 marzo 2017

Jobs Act, anche il centro studi di Biagi certifica flop: “Sempre più lavoratori a termine. Boom occupati? Solo over 50”

El-paro-aumenta-el-riesgo-de-pobreza.-Luis-SerranoA due anni dalla riforma, un working paper della fondazione Adapt fa il bilancio. Nonostante gli sgravi contributivi, costati circa 20,3 miliardi di euro, “non può dirsi oggi raggiunto l’obiettivo principale”, cioè invertire il rapporto tra i nuovi contratti a tempo determinato e quelli stabili. Nel 2007 erano a termine 13,7 lavoratori su 100, nel 2016 si è toccato il record di 14,4. Inoltre gli incentivi hanno giocato a sfavore dei giovani, il cui tasso di occupazione resta 8 punti sotto il livello pre-crisi
 
Che il Jobs Act abbia mancato gli obiettivi di diminuire la precarietà e rendere stabilmente più appetibili per i datori di lavoro i contratti a tempo indeterminato è ormai molto più che un sospetto dei sindacati o un’accusa delle opposizioni: basta guardare gli ultimi dati Inps sull’andamento di assunzioni e licenziamenti nel 2016. Ma ora, a due anni esatti dal suo varo, a sancire il flop di una delle riforme simbolo del governo di Matteo Renzi è un working paper della Fondazione Adapt, il centro studi fondato dal giuslavorista Marco Biagi due anni prima del suo assassinio per mano delle Nuove Brigate Rosse. La valutazione arriva dunque da una fonte cui non si può imputare un pregiudizio negativo nei confronti della flessibilità, considerato che porta il nome di Biagi la legge che ha introdotto in Italia i contratti a progetto, il lavoro occasionale e quello a chiamata.
Le conclusioni dell’analisi, firmata dal direttore generale di Adapt Francesco Seghezzi e dal ricercatore Francesco Nespoli, sono nette: per prima cosa, alla luce dei dati disponibili “non può dirsi oggi raggiunto l’obiettivo principale del Jobs Act, più volte comunicato, di invertire il rapporto tra il flusso dei contratti a tempo determinato e quello dei contratti a tempo indeterminato”, nonostante i generosi sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato concessi dal gennaio 2015 al dicembre 2016 proprio per spingere le stabilizzazioni siano costati alle casse dello Stato una cifra che l’articolo stima in “circa 20,3 miliardi di euro“, l’equivalente di una manovra finanziaria. Infatti appena la decontribuzione si è ridotta, nel 2016, “abbiamo assistito ad una crescita netta di 221mila contratti a tempo determinato (+187%)”.
Nel 2016 record di lavoratori a tempo determinato – Risultato: “Complessivamente sia nel 2015 che nel 2016 la percentuale degli occupati a tempo determinato sul totale dei lavoratori dipendenti è cresciuta. Se infatti nel 2007 13,2 lavoratori dipendenti su 100 avevano un contratto a termine, il numero è calato lievemente durante la crisi per poi tornare a crescere arrivando a 13,7 nel 2015 e al valore record di 14,4 nel 2016“. Tutto considerato, i dati finora disponibili mostrano secondo il paper come “l’investimento fatto non abbia portato ad un cambio strutturale delle preferenze delle imprese e come esso possa prefigurarsi come legato tuttalpiù a una modifica strutturale dei rapporti di convenienza economica delle due diverse tipologie contrattuali”. Per di più, il legame tra decontribuzione e attivazione di contratti suggerisce che le imprese favorite dal Jobs Act siano state “quelle che competono sui costi fissi piuttosto che sull’innovazione“.
“Ripresa occupazionale concentrata nella fascia più anziana” – Se poi si va a guardare quali fasce di età hanno beneficiato maggiormente delle stabilizzazioni, il risultato è quasi paradossale nel contesto di un Paese che ha un tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti d’Europa (per non parlare dei Neet): l’unica crescita consistente del tasso di occupazione si è registrata nel gruppo 50-64 anni. Andando ancora più a fondo, si scopre che “la ripresa occupazionale alla quale abbiamo assistito negli ultimi anni si è concentrata quasi totalmente sulla fascia più anziana della popolazione lavorativa italiana”. Una constatazione che “getta una diversa luce sulle possibili cause”, scrivono i ricercatori: vale a dire che “è quantomeno possibile introdurre tra i fattori l’aumento dell’età pensionabile e la conseguente diminuzione del numero dei pensionati italiani, diminuzione che ha fatto sì che il numero di occupati nella fascia 50-64 aumentasse, contribuendo quindi all’aumento complessivo degli occupati”. Più del Jobs Act, dunque, poté la riforma Fornero. Del resto, il fatto che gli incentivi non fossero differenziati – per esempio più alti per i giovani al primo impiego – “pare avere giocato addirittura a sfavore dei giovani, facendo propendere le imprese verso l’assunzione dei più esperti” anziché puntare su ragazzi da formare.
I contratti a tempo determinato nel 2016 hanno ricominciato ad aumentare – Le conclusioni del paper sono ovviamente basate sui dati ufficiali di Inps e Istat. Si parte dalle rilevazioni dell’istituto previdenziale sui nuovi contratti. Nel 2015 si sono registrati, al netto delle cessazioni e includendo le trasformazioni, 934mila contratti a tempo indeterminato in più. “È indubbio quindi che i provvedimenti, soprattutto quello della decontribuzione, abbiano generato nel 2015 una vera e propria impennata di contratti di lavoro”. Purtroppo però è altrettanto indubbio “che nel 2016 questo trend abbia subito una brusca frenata“: nel 2016 sono stati 82mila (-91%). Al contrario “sul fronte dei contratti a tempo determinato, la cui diminuzione era tra gli obiettivi di policy principali (se non quello primario) del Jobs Act, si assiste ad una dinamica opposta”. Se nel 2015 erano diminuiti di 253mila unità, l’anno scorso (quando lo sgravio contributivo è stato ridotto dal 100 al 40%) sono aumentati di 221mila, +187%.
 
Rispetto a prima della crisi 264mila lavoratori in meno – Passando alla panoramica del mercato del lavoro prima e dopo la riforma, il quadro è altrettanto negativo: “Alla fine del 2016 avevamo in Italia 22.783mila occupati, con un tasso di occupazione pari al 57,3% della forza lavoro. Un dato che confrontato con il 2007 pre-crisi mostra la diminuzione di 264mila lavoratori e soprattutto (considerando anche la crescita della popolazione e la forza lavoro cresciuta di 1,2 milioni di unità) la diminuzione dell’1,5% del tasso di occupazione“.
L’anno scorso 217mila nuovi occupati su 293mila sono stati over 50 – Quanto alla ripartizione dei benefici degli incentivi tra le diverse fasce di età, il tasso di occupazione dei 15-24enni che nel 2007 era al 24,2% e nel 2013 era sceso al 15,6% ha conosciuto solo un mini recupero, arrivando al 16,3% nel 2016: circa 8 punti in meno rispetto al periodo pre-crisi. Dinamica simile per la fascia della prima maturità, tra i 25 e i 34 anni: “se nel 2007 lavoravano 70,6 persone su 100 in tale coorte anagrafica, nel 2013 erano scese a 59,1 per risalire debolmente a 60,5 nel 2016”. Stesso andamento, anche se più contenuto nelle variazioni, per la fascia 35-49 anni. Al contrario, “l’unica crescita consistente si è verificata nel gruppo 50-64 anni che ha visto una crescita costante che ha portato la percentuale degli occupati dal 46,8% del 2007 al 53,8% del 2013 per poi salire ancora al 58,5% del 2016“. Depurare i dati dall’effetto della demografia, che “svuota” le corti più giovani, non migliora la situazione, anzi: “In una stima sul 2016 si evince che su un totale di 293mila occupati in più, sarebbero 217.000 quelli tra i 50 e i 64 anni, 49.000 coloro tra i 35 e i 49 anni e 27.000 tra i 15 e i 34 anni. Nell’ultimo anno quindi ad ogni nuovo occupato tra i 15 e i 49 anni sono corrisposti 2,8 nuovi occupati tra i 50 e i 64 anni”.
Sui licenziamenti troppo pochi dati. Ma sono aumentati quelli per giusta causa e giustificato motivo soggettivo – Meno schiaccianti le evidenze sul fronte dei licenziamenti: ancora oggi, spiegano Seghezzi e Nespoli, “mancano i dati che possano dirci con chiarezza se i contratti cessati in questo modo fossero o meno contratti stipulati dopo l’introduzione delle norme istitutive delle tutele crescenti. Per questo motivo non si può oggi ragionevolmente sostenere né che il Jobs Act abbia generato un aumento di licenziamenti, né il contrario”. Si può però prendere atto del fatto che tra 2014 e 2016 c’è stato un aumento costante dei licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, mentre è stato più altalenante l’andamento di quelli per giustificato motivo oggettivo e dei licenziamenti collettivi, diminuiti nel 2015 e aumentati nel 2016.
 
La conclusione del paper è che se un governo intende davvero promuovere le assunzioni a tempo indeterminato è inutile “armarsi e scendere nel campo di battaglia dei numeri che ogni mese vengono diffusi”. Bisogna “discutere l’idea profonda del mercato del lavoro che vogliamo costruire, senza pensare di poter affrontare una grande trasformazione, ormai ammessa da tutti, rinverdendo un poco strumenti vecchi. Una rivoluzione implica risposte all’altezza della sfida, o quanto meno domande per un’analisi meno approssimativa possibile”.
di Chiara Brusini | 14 marzo 2017

DEMENZA DIGITALE

lavoro tecIl ras di quello che una volta era il partito dei lavoratori si è recato recentemente in visita negli Stati Uniti, alla Corte dei capitalisti della Silicon Valley.
L’ ex premier Matteo Renzi, come nel suo stile, ha trionfalisticamente annunziato l’iniziativa transcontinentale motivandola con la necessità di dovere apprendere da quelli che, per capirci, con l’informatizzazione, la digitalizzazione, la robotizzazione e la rete informatica guadagnano denari a palate. E così mandano sul lastrico milionate di aziende e lavoratori.
Chi vi scrive non appartiene di certo alla ristretta cerchia del giglio magico. Allorquando opportunamente interpellato lo scrivente, comunque, si sarebbe adoperato per evitare al leader piddino la defatigante esperienza californiana.
 
Non è. invero, necessario recarsi di persona nella lontana Silicon Valley per intuire i meccanismi che determinano il formidabile successo di aziende come Amazon, Microsoft, Apple, Google, Netflix twitter, starbucks, Adobe. Bisogna però avere l’onestà intellettuale di riconoscere che tale successo fonda su un modello sociale ed economico nefasto.
Pochi sanno che, insieme, tali imprese capitalizzano in borsa oltre 2718 miliardi di dollari. Molto di più del prodotto interno lordo italiano che vale, invece, 1961 miliardi. I vertici di tali colossi del web sono quelli che recentemente si sono messi anche a far politica. Come un sol uomo sono insorti contro la decisione di Trump che aveva bloccato gli ingressi negli Stati Uniti provenienti da stati canaglia.
 
Queste aziende, per capitale e fatturato di questo settore, contano oltre 900.000 dipendenti. Amazon, da sola, impiega 306.800 persone per smistare, a basso costo, pacchi in 14 paesi. Mentre Starbucks, con fatturato decisamente più basso, si serve di 238.000 dipendenti per recapitare dolcetti e caffè americani in tutto il mondo. E’ intuitivo comprendere che costoro si oppongono, allora, alle scelte di contrasto dei flussi immigratori incontrollati non certamente per ragioni umanitarie.
Le ondate di disperati, disponibili a lavorare a basso costo, rappresentano un ineliminabile pilastro del loro successo. Il dumping commerciale che tale aziende praticano postula la disponibilità di un elevatissimo numero di dipendenti disponibili a farsi sfruttare per salari da fame. E l’immigrazione alimenta l’offerta di manodopera disponibile a lavorare a basso costo. Renzi, di ritorno dalla Silicon Valley, avrà finalmente compreso l’ arcano della new economy. Ed a sinistra i nodi giungono al pettine.
 
Sul tema del lavoro, da che parte sta la sinistra? Con Uber, per esempio, o con i tassisti? La questione va correttamente affrontata in termini di principio. Stare con Uber significa accettare quella sharing economy che sta progressivamente annientando il mercato ed il mondo del lavoro. Si tratta di un progressismo peculiare, che piace molto alla grande finanza, agli intellettuali politicamente corretti, foraggiati da contratti che a loro riservano le reti pubbliche o le maggiori testate giornalistiche.
Chiunque non sia in malafede non può più negare che la robotizzazione e la digitalizzazione determinano la drastica riduzione di posti di lavoro e un progressivo aumento della disoccupazione.
Nell’arco di dieci anni, stando ad autorevoli stime, il tasso di disoccupazione passerà dal 10 al 47%. Di fronte a tale stato di cose, ed alle conseguenti prospettive, siamo ormai chiamati tutti ad consapevole presa di posizione universale: o si sta a favore del lavoro oppure ci si schiera a beneficio dei visionari dell’ultratecnica.
La sinistra renziana, invece, promette di tutelare i lavoratori ma intraprende politiche di governo che favoriscono la precarizzazione di tutte le forme di lavoro. Renzi poi una scelta definitiva sembra averla fatta: pubblicamente celebra Google, Apple, Amazon.
Negli Stati Uniti incontra Musk, imprenditore miliardario della new economy, profeta del transumanesimo, che progetta ed investe nella produzione di veicoli senza guidatore e preconizza che uomini l’ibridazione dell’umanità.
Nel frattempo, mentre i vertici del Pd si gingillano ad eludere temi centrali per le prospettive del mondo del lavoro, secondo i dati del Viminale, gli sbarchi segnano un inquietante aumento del 44% rispetto all’anno scorso. Gli immigrati in arrivo sono in gran parte della Nuova Guinea, Costa d’avorio, Nigeria e Senegal, Gambia. Nessuno proviene da scenari di guerra. Si calcola che nel 2017 possa essere superata la cifra dei 200.000 sbarchi. Coloro che si riempiono la bocca di retorica dell’accoglienza – ed il portafoglio di contributi destinati alle strutture di scopo – possono riferirci quali realistiche prospettive di assorbimento, in un mercato del lavoro che va rapidamente assottigliandosi, siamo in condizione di garantire a questi disperati ed ai nostri disoccupati ?
Mar 06, 2017 di Carmine Ippolito
Fonte: Katehon