Archivi giornalieri: 22 marzo 2017
Francia: la Massoneria attacca il Front National
Indagato anche Salini per il Terzo Valico. Sotto a chi tocca
notavterzovalico.info/2017/03/indagato-anche-salini-per-il-terzo-valico-sotto-a-chi-tocca/
22/3/2017
Il giornalista Matteo Indice colpisce ancora e oggi informa dalle pagine nazionali de La Stampa che anche Pietro Salini, il grande boss della Salini – Impregilo sarebbe indagato nell’inchiesta della magistratura di Roma e Genova inerente al Terzo Valico. E’ bene ricordare che parliamo dell’amministratore delegato dell’azienda che detiene il 64% delle quote del Cociv. Cosa gli viene contestato? La turbativa d’asta per aver dato disposizioni di truccare alcune gare d’appalto per i lavori del Terzo Valico. Indice scrive che si tratterebbe dei lotti Cravasco, Libarna, Vallemme e Pozzolo. Così dopo gli arresti del presidente e del vice presidente del Cociv e del direttore dei lavori del Terzo Valico, siamo arrivati al coinvolgimento supposto dell’amministratore delegato di Salini – Impregilo. Situazione che oggettivamente non può che far sorridere ripensando a quanto Cociv ha dichiarato recentemente a seguito della presunta disinformazione a seguito degli arresti dei suoi vertici. Parlavano di poche mele marce, mentre il movimento ha sempre sostenuto che ad essere marce fossero le fondamento del sistema grandi opere. Se ha ragione la magistratura ad essere marcio è pure il vertice.
Oggettivamente in questi anni è successo di tutto fra infiltrazioni della criminalità organizzata, amianto e arresti di dirigenti. Cosa manca per capire la totale assurdità del Terzo Valico? Cosa manca per ammettere che come abbiamo sempre scritto il Terzo Valico serve solo ad arricchire le tasche già gonfie di chi lo costruisce?
Una cosina manca ancora ed è il coinvolgimento della classe politica locale che ha sempre sostenuto il Terzo Valico. Qualcosa era uscito sui rapporti fra la destra novese e la ‘ndrangheta ma forse il meglio deve ancora venire. Adesso che tutti sembra stiano svuotando il sacco per pararsi il culo, le sorprese potrebbero non essere finite…
Per approfondire sulle ditte coinvolte nei lavori del Terzo Valico e sulle infiltrazioni della criminalità organizzata:
Così la corruzione uccide: parla il primo pentito delle grandi opere 17/03/2017
Il direttore lavori del Terzo Valico svuota il sacco coi magistrati. E sull’amianto… 16/03/2017
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Saltano i subappalti e i sindacati si confermano i migliori amici del malaffare 14/12/2016
Tav: l’Anac vuole commissariare Cociv estremo tentativo di “salvare” il Terzo Valico 17/11/2016
Difendere l’indifendibile 14/11/2016
Incredibile: il Vice Prefetto informava il Cociv sull’inchiesta in corso 11/11/2016
Tutto il marcio del Terzo Valico ad Arquata (ordinanza allegata) 7/11/2016
Dal Cociv 1,7 milioni € di appalti alla ‘ndrangheta 4/11/2016
“Non vai a rubare a casa di un ladro” (ordinanza allegata) 31/10/2016
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Nonostante gli arresti i lavori del Terzo Valico non si fermano 27/10/2016
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Cociv é parte lesa come la mafia con Toto’ Riina 27/10/2016
Il Cociv é una montagna di merda 26/10/2016
Corruzione e concussione nei cantieri di grandi opere: nuove operazioni di polizia in tutt’Italia26/10/2016
Grandi Opere, decine di arresti per corruzione lavori A3, Tav Milano-Genova e People Mover Pisa 26/10/2016
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Terzo Valico e ‘ndrangheta: quei politici locali amici di Sofio (ordiananza allegata) 21/07/2016
‘Ndrangheta ad alta velocità. Il servizio di Agorà Rai 20/07/2016
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Terzo valico, 42 arresti per operazione Alchemia: “La ‘ndrangheta dietro i movimenti Si Tav” 19/07/2016
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Lauro Spa: criminali che si aggirano per Voltaggio 26/09/2013
Arquata Scrivia: un bel posto dove seppellire rifiuti tossici? 09/08/2013
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Ruspe bruciate a Serravalle, puzza di ‘ndrangheta 31/07/2013
Ecco un’altra ditta dei soliti noti 03/06/2013
Un boss a Castelnuovo 23/04/2013
Terzo Valico, ancora ditte impresentabili 19/03/2013
Cosa loro – Sulla firma del “protocollo per la legalità” 21/12/2012
NdrangheTav 14/10/2012
La mafia non esiste! 11/10/2012
C’è da mangiare anche per Lunardi…quello per cui con la mafia bisogna convivere 12/09/2012
Nelle mani dei banditi 10/09/2012
Comune di Novi, ansia da prestazione 20/08/2012
Bpm, arrestato Massimo Ponzellini per i finanziamenti a Corallo 29/05/2012
1991 /2012 – con Ponzellini si aggiunge un ulteriore tassello 30/05/2012
Alessandria – Gli affari della ‘ndrangheta. Non ci siamo capiti! 19/09/2011
Alessandria – Gli affari della ‘ndrangheta 05/09/2011
«In questo mondo veloce come il vento, dovremmo correre anche noi»: la lezione politica dei No Tav
http://www.orticalab.it/In-questo-mondo-veloce-come-il
Antonio Iannaccone è un giovane avellinese ricercatore in sociologia. “Come il vento: il capitale sociale online dei No Tav” è un libro che nasce dai suoi studi sul movimento che, per oltre un quarto di secolo, si è opposto allo sviluppo dell’alta velocità. Un percorso che, lungo i binari dell’antagonismo, conduce al più ampio orizzonte dei temi connessi alla trasformazione dello spazio democratico. «La chiave è il dialogo, soprattutto tra le generazioni: gli adulti diano ai giovani lo spazio promesso e i giovani scelgano di sporcarsi le mani. Solo così il cambiamento sarà possibile»
«Prendere contatto e guadagnare la fiducia dei membri del Movimento NoTav non è cosa semplice, ma non certo perché siano persone cattive, no. Nella lettura di fenomeni quali sono i movimenti di protesta e contestazione dal basso, in questi anni cresciuti in termini di consistenza e diffusione, è sempre necessario ed opportuno rifuggire le semplificazioni. In realtà, la loro grande cautela nell’entrare in relazione con persone sconosciute nasce da passate esperienze di tentate infiltrazioni da parte di persone magari favorevoli alla TAV oppure uomini delle forze dell’ordine che cercavano di carpire informazioni sull’organizzazione interna al gruppo o sulle azioni in programma».
Da Avellino alla Val di Susa passando per Verona: Antonio Iannaccone è un giovane avellinese, dottore in Sociologia e Ricerca Sociale. Ha conseguito il suo dottorato di ricerca all’Università degli Studi di Verona: è stata quella esperienza ad averlo messo sulle tracce del movimento che, da oltre 25 anni, opponendosi alla realizzazione dell’Alta Velocità Torino-Lione esprime, in un certo qual modo, il proprio antagonismo ad un determinato modo di vedere il mondo ed il suo avvenire. È stato da questo incontro, accademico e umano, che è nata la pubblicazione “Come il vento: il capitale sociale online dei No Tav”. Un lavoro che, lungo i binari del treno ad alta velocità e dei suoi oppositori, conduce all’assai più ampio orizzonte della complessità di questo tempo, della delicatezza delle sfide che le sue trasformazioni pongono al nostro vivere, non solo sul fronte dell’organizzazione politica.
«Per il movimento No Tav la rete è uno strumento fondamentale: non solo per la comunicazione interna ma anche per poter accrescere la propria base e, cosa non meno importate, per entrare in connessione con altri movimenti di protesta che partono, analogamente dal basso, come quello No Triv. Il filo conduttore che tiene unite tutte queste esperienze, del resto, è la rivendicazione di una maggiore apertura dei processi decisionali: l’idea è che le istituzioni non possano decidere autonomamente, prescindendo dalle volontà dei cittadini, che chiedono, invece, di essere coinvolti in nome dei valori della democrazia partecipata o deliberativa».
Insomma, quella dei No Tav è stata per oltre un quarto di secolo una sfida al sistema passata attraverso forme di pressione e deviazione dei processi decisionali, con l’effetto ultimo, più o meno consapevole e dichiarato, di agire sullo spazio stesso della democrazia e le dinamiche di partecipazione e rappresentanza. «Al movimento che per quasi trent’anni s’è opposto all’alta velocità, e che ha avuto il suo nucleo originario per ovvi motivi in Val di Susa, vanno riconosciuti dei risultati, nel senso che è stato in grado di, in qualche modo, rallentare, deviare, influenzare l’incedere del processo. Ma si è trattato di risultati parziali per l’assenza di un elemento di fondo e secondo me fondamentale: il dialogo. Un limite che, però, non è solo del movimento. In questo senso responsabilità si rintracciano anche sul versante istituzionale. Il dialogo, in generale, ritengo che in questo tempo in cui le forme di contestazioni si fanno, appunto, sempre più numerose sia un elemento imprescindibile e necessario alla costruzione di un orizzonte diverso».
Ecco cosa insegna lo studio dell’antagonismo No Tav diffuso attraverso il web, quest’ultimo inteso come strumento di comunicazione e di diffusione libera di informazioni, per mezzo del quale diviene altresì possibile restituire un quadro rovesciato della rappresentazione dominante della realtà: il non più rinviabile bisogno di ridefinire lo spazio politico-istituzionale “tradizionale”. In un mondo sempre più veloce, stare al passo coi cambiamenti vuol dire rifuggire dalle semplificazioni, senza mai temere le contaminazioni.
«Lo studio del movimento No Tav dimostra quanto in realtà questo mondo sia variegato e talora distante dalle rappresentazioni che ne sono restituite dai media tradizionali, coi quali essi hanno un rapporto non proprio lineare. I No Tav non sono tutti delinquenti o facinorosi, per quanto sia innegabile l’esistenza di frange di violenti che abbiano cercato di strumentalizzarne la causa e l’esistenza. E poi c’è l’elemento sociale e generazionale nel senso che nel recinto del movimento, in maniera più o meno continuativa, sono racchiuse persone della più varia estrazione socio-culturale oltre a generazioni tra loro anche molto distanti anagraficamente». Una vera e propria comunità nella comunità che, tra le altre cose, insegna il valore aggiunto del confronto tra generazioni, elemento invece mancante nella politica, appunto, “tradizionale”.
«Nel discorso pubblico dominante i giovani sono una delle categorie più spesso chiamate in causa: a loro viene demandata la costruzione di un futuro che, in realtà, finisce più spesso per trasformarsi in un tempo indefinito, destinato a non arrivare mai. Il protagonismo di chi è giovane viene sempre rinviato ad un domani che non si comprende bene quando dovrebbe arrivare, negando di fatto quella centralità che, a parole e un po’ in tutti gli ambiti, viene loro attribuita. In realtà, il tempo dei giovani è qui ed ora. In alternativa, continuando a marginalizzarne le potenzialità, il valore e a mortificarne le aspettative, questo futuro non arriverà mai come non arriverà mai l’assunzione di responsabilità richiesta dal mondo adulto».
E questo vale per tutti gli ambiti dello spazio pubblico in Italia e, ancora di più, in un’Irpinia che continua, inesorabilmente, ad invecchiare. «Dovremmo smetterla con questo luogo comune che dipinge i nostri ragazzi come tutti disinteressati e disimpegnati: c’è una schiera, silenziosa e sconosciuta, di giovani e giovanissimi che s’impegna in tanti settori, senza che nessuno neanche se ne renda conto. È però normale che, in un contesto bloccato, senza possibilità di veder realizzate le proprie aspettative e soddisfatti i propri sacrifici di studio e formazione, i ragazzi sono portati a scartare a priori l’idea di restare in un territorio che sembra non aver niente da dire o da offrire alle loro esistenze».
Uno sforzo da compiere in un’ottica di dialogo corresponsabile questo cambiamento dovrebbe essere bidirezionale. «Se, da un lato, gli adulti sono chiamati ad essere più coerenti e consequenziali rispetto alle proprie dichiarazioni di principio, dall’altro i giovani dovrebbero essere più determinati nel prendersi lo spazio che viene loro attribuito solo sul piano teorico. Anche su questo fronte ci sono tanti luoghi comuni da abbattere e superare: basta dire che la politica fa schifo, che tutto è inquinato e dunque per salvaguardare la propria integrità è preferibile tenersi da parte. Senza mettersi direttamente in gioco non è possibile pretendere alcun cambiamento: c’è bisogno del contributo di tutti per invertire la tendenza di declino che abbiamo intrapreso. In questo senso ritengo emblematica la storia della mia famiglia associativa: l’Azione Cattolica. Questa decise, negli anni Settanta, di non essere più collaterale ad alcun partito. Bene: una scelta condivisibile in quanto garanzia di equidistanza e laicità nella partecipazione alla vita politica. Il vero problema è che quella scelta, negli anni, si è tradotta in una forma di pigrizia politica che oggi ci ha resi tutti spettatori inermi. Ma questo è solo uno dei tanti possibili esempi che potrebbero essere, in tal senso, addotti».
Ecco dunque una possibile chiave di lettura del futuro che trae lucidamente linfa nel presente e, perché no, dall’osservazione ravvicinata di una modalità di occupazione dello spazio pubblico antagonista dei processi di partecipazione tradizionali. «Questo mondo ha scelto la velocità: continuare a negarlo o continuare ad interrogarsi su questa dimensione è inutilmente retorico. Bisognerebbe piuttosto attrezzarsi per poter in qualche modo agguantare i cambiamenti in atto ed elaborare gli strumenti utili ad interpretarli: sarebbe un altro modo per ridurre le distanze tra le generazioni e innescare un meccanismo virtuoso di reale corresponsabilità. Perché il futuro è qui e ora: noi, anche qui in Irpinia, dovremmo avere la forza ed il coraggio di agguantare il treno veloce sul quale esso viaggia»
UN AN APRES LES DJIHADISTES N’ONT PAS DESARMES ! ATTAQUE CONTRE LE PARLEMENT BRITANNIQUE … ET AU CENTRE DE DAMAS !!!
Martin McGuinness video
VOICI LE VRAI VISAGE DES SOLDATS FRANÇAIS EN AFRIQUE QUE MARINE LE PEN EST VENUE SOUTENIR
CE 22 MARS A NDJAMENA : PREVOTE ET JUSTICE AUX ORDRES POUR LES VIOLEURS DE CENTRAFRIQUE !
PANAFRICOM/ 2017 03 22/
La date de la venue de la candidate néofasciste au Tchad pour soutenir les soldats français en Afrique n’a pas été choisie au hasard. Elle fait partie de la promotion de ces soldats de la Françafrique ! Le Pen va rencontrer ces soldats le jour même où dans l’affaire des Viols en Centrafrique, le parquet requiert un non-lieu pour les soldats français de la Sangaris ! Impunité, enquête de la prévôté militaire sous influence, justice aux ordres et campagne de presse bien organisée !
Le parquet de Paris demande en effet un non-lieu dans l’enquête visant des soldats français de l’opération Sangaris en Centrafrique accusés de viols par des enfants en 2013 et 2014. L’enquête en question a été clôturée en décembre, sans mise en examen. Pour le parquet, « il ne peut être affirmé à l’issue de l’information qu’aucun abus sexuel n’a été commis sur ces mineurs » (sic). Pour autant, les éléments recueillis et « la variation des témoignages ne permettent pas d’établir des faits circonstanciés et étayés à l’encontre des militaires qui ont pu être entendus comme mis en cause dans ce dossier » (sic), a indiqué mardi 21 mars à l’AFP une source proche du dossier. Résultat : des violeurs impunis, qui resteront dans l’armée, et des enfants dont la souffrance est niée. Parlons franchement parce qu’ils sont noirs ! Car en France comme dans toute l’UE, au contraire, la parole des enfants dans les affaires de viols pédophiles est privilégiée …
Pour les soldats violeurs, l’impunité est la règle en France : « Depuis cette affaire, d’autres accusations ont été portées contre des militaires étrangers intervenant en Centrafrique, dont des Français. Une enquête du parquet de Paris est en cours après un signalement de l’ONU sur des soupçons d’agressions sexuelles sur trois mineures, entre 2013 et 2015 à Dékoa, toujours en Centrafrique. Une autre enquête à Paris a été classée sans suite ».
LM / PANAFRICOM
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DAVID ROCKEFELLER EST DECEDE AUJOURD’HUI A L’AGE DE 101 ANS/ ДЭВИД РОКФЕЛЛЕР СЕГОДНЯ В ВОЗРАСТЕ 101 ГОДА …
A MARTIN S’È ROTTO IL CUORE, ALL’IRLANDA LA SPERANZA. IN MORTE DI MARTIN MCGUINNESS, GIÀ COMANDANTE DELL’IRA
http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2017/03/a-martin-se-rotto-il-cuore-allirlanda.html
MARTEDÌ 21 MARZO 2017
A Martin si è rotto il cuore, all’Irlanda la speranza.
In morte di Martin McGuinness, già comandante dell’IRA.
Con Martin McGuinness sul luogo di Bloody Sunday
“Il modo più efficace per distruggere i popoli è negare loro e cancellarne la comprensione della propria storia”. (George Orwell)
Erano le cinque della sera e anche in Irlanda a quell’ora si finiva di morire. E iniziava l’inganno dei vivi, di quelli che lo subirono, di quelli che lo inflissero. Erano le cinque della sera tra il 30 e il 31 gennaio 1972 e si era compiuta la mattanza di Derry, quella che poi avremmo chiamato la Domenica di Sangue. Gli U2 ci avrebbero fatto una canzone, Paul Greengrass ci avrebbe fatto un film che avrebbe perpetuato l’inganno scaricando la mattanza ordinata dal governo di Sua Maestà su qualche militare fuori di testa, Ci feci un film anch’io. Anzi, era il momento culminante di un film che avevo iniziato a girare due anni prima e che dei “troubles”, dei guai, come chiamavano la guerra di liberazione nordirlandese,.raccontava ciò che non è mai più stato raccontato. Me lo aveva montato Marco Ferreri, nientemeno. Non c’è più, disperso nei caveau delle polizie nordirlandese, irlandese e di Scotland Yard. che lo confiscarono. La mia copia andò dispersa con il resto dell’archivio di Lotta Continua, quando l’organizzazione fu uccisa dai suoi fondatori.
Alle cinque della sera gli spari del 1° Reggimento Paracadutisti erano finiti. Camminando per i vicoli di Bogside, il cuore del ghetto repubblicano, nazionalista, cattolico, irridentista, come lo volete chiamare, si udivano lamenti e imprecazioni terribili. Ogni casa trasudava il dolore per la perdita di un figlio, un padre, un marito, un fratello, un amico. Da ogni casa usciva l’urlo della verità: 14 esseri umani, inermi e innocenti, massacrati a freddo dai sicari in divisa di chi a Londra aveva ordinato che alle manifestazioni, alle proteste, agli scontri con sassi e molotov, andava posto fine. O questi “bastardi fenians” (antica definizione ingiuriosa della minoranza autoctona) si sarebbero lasciati intimidire, terrorizzare e l’avrebbero smessa di rivendicare parità con i coloni protestanti, unionisti con la Corona, classe dirigente, classe ricca. Ma anche un proletariato e sottoproletariato altrettanto escluso, ma fanatizzato dall’illusione di essere della stessa “razza” dei padroni, nel giro nobile, comunque non quello degli ultimi. Destino tragicomico dei sudditi operai dei signori colonialisti. Avrebbero, i cattolici, rinunciato a chiedere lavoro, case che non fossero “match boxes”, accesso alla pubblica amministrazione, alla sanità, a scuole decenti e non britannizzate, la fine delle sevizie degli “Special B”, il corpo di picchiatori della polizia, e quella degli incursori e piromani unionisti dai quartieri dove sventolava l’Union Jack.
O, se non l’avessero capita, testa dura quella degli irlandesi, in lotta contro il colonizzatore da oltre due secoli, che lo scontro da civili contro le forze d’occupazione si militarizzasse pure. Che tirassero fuori dalle vecchie pagine di storia – ultima insurrezione dell’IIRA negli anni ’50 – la fanfaluca dell’Irlanda unita e da sottoterra le vecchie spingarde. Per l’esercito di Sua Maestà sarebbe stata un passeggiata e la simpatia del mondo verso chi brandiva miseria, discriminazione, apartheid, repressione, volontà di riscatto, si sarebbe tramutata in revulsione verso i “terroristi” dell’IRA. Vecchio trucco. Che non funzionò, neanche dopo vent’anni, dato che era la lotta di un popolo. Funzionò solo quando una delle due parti accettò di disarmare. La parte di Martin McGuinness.
Alle cinque della sera stavo davanti a una tazza di tè, accanto a un camino, in una “casa sicura”, nelle parti di Free Derry dove l’esercito di occupazione non osava penetrare. Sullo schermo un Tg esibiva un tronfio e arrogante generale, tronfio e arrogante come solo i generali sanno essere, quelli anglosassoni poi… Generale Ford, comandante in capo delle forze britanniche in Nordirlanda, cosa cazzo stai dicendo? Che a ignari e pacifici parà i cecchini dell’IRA avevano sparato dai tetti (neanche un ferito tra i militari) e che i parà a malincuore avevano dovuto difendersi, rispondere ai terroristi? Che pare ci siano alcuni feriti…..
Dopo la mia esperienza di inviato di guerra in Palestina, Guerra dei Sei Giorni del 1967, dove si raccontava di un popolo, qui insediato dalla Bibbia, a rischio di essere gettato in mare da sbrindellate armate arabe, mentre invece il suo esercito, il quarto al mondo, radeva al suolo villaggi con i vivi dentro, pensavo di essermi corazzato rispetto alle verità dei padroni. Ma qui la faccia tosta arrivava al sublime e ti insegnava che di quelle “verità” non devi fidarti mai, che il padrone, il dominatore, il capitalista mente sempre e sempre per la gola. La sua gola di antropofago.
McGuinness nei giorni in cui mi salvò dai parà.
A quel punto era necessario salvare le mie foto e registrazioni audio. Documentavano tutto, il corteo pacifico dei 20mila, l’irruzione del battaglione parà sulla coda della marcia, dai primi agli ultimi spari, il panico, la folla disperata o furibonda in fuga, le urla delle donne, le bestemmie e gli insulti degli uomini. Le teste fracassate, le pance bucate, i colori del viso che diventavano gialli e poi bianchi, il pilastro scheggiato dalla pallottola sopra la mia testa, i buchi nella finestra mentre scattavo foto e che erano la reazione della carabina Sterling di uno degli assassini.
C’era il parà che, ginocchio a terra, prende la mira, il ragazzo di 16 anni, Jack Duddy, che fermo, a braccia aperte, come inciso nell’aria, non ci credeva e la pallottola la becca nel cuore, crolla, sbianca. Piovono raffiche, ma siamo tutti lì attorno a lui che scolora, a occhi spalancati come attoniti, il prete eroico, l’infermiere eroico, un vecchietto eroico, per soccorrere, indifferenti alla morte che stava loro addosso. Lo sollevano, lo portano via a braccia, braccia penzoloni, curvi per schivare gli spari che continuano. Io sparo scatti su scatti contro gli spari su spari. Su Jack e poi su Barney, su Jim, su Patrick…..Oggi una di quelle foto ci saluta da una facciata, quando entriamo a Derry, ancora “free”.
La radio militare, intercettata dai ragazzi di un’IRA allora nascente a Derry, aveva ordinato di “arrestare quel fotografo straniero, utilizzando qualsiasi mezzo necessario”. Mettere le mani sul materiale che avrebbe potuto incriminare, non solo soldataglia abbrutita, ma un governo, un’eccellenza dell’Occidente civile. La stampa internazionale, accorsa per la manifestazione dei diritti civili più grande dall’inizio della rivolta, era stata confinata nella cittadella protestante, dietro le barriere tirate su dall’esercito. Non doveva vedere, raccontare. Ma noi giornalisti poveri abitavamo tra le famiglie del ghetto, eravamo già al di qua della barriera, avevamo visto, potevamo raccontare. Qualcosa di diverso di quanto blaterato dal generale Ford. Dovevamo essere fermati, i materiali sequestrati.
Conoscevo Martin McGuinness, neanche vent’anni, già capo della brigata di Derry dell’IRA Provisional. La serietà e l’allegria di un combattente antico e giovane. Un carisma sconfinato. Era una notte buia e tempestosa, consentitemi la citazione banale, ma appropriata. Per la nebbia non si vedeva a tre metri dalla macchina. Una fortuna. Per vie secondarie, carrarecce, tratturi, fendendo una nebbia che ci occultava ai britannici, Martin mi portò alla vicina frontiera con la Repubblica, contea di Donegal. Scambio di vetture e accompagnatori, efficienza che avrebbe mantenuto in piedi la resistenza fino al 1998, Venerdì Santo, accordo del disarmo e della “pacificazione”. E oltre. E così che, dai giornali e dalla tv di Dublino, una verità altra, rispetto a quella del generale serial- e masskiller, potè raggiungere il mondo e far capire, a chi a capire era disposto, “di che lacrime grondi e di che sangue” il monopolio della forza dei padroni che si proclamano Stato. Il loro.
Nel corso della mia lunga frequentazione di quel popolo indomito, la più lunga lotta anticoloniale della storia umana, Martin McGuinness l’ho incontrato tante volte. Mi informava, mi faceva conoscere cose, aspetti, compagni partigiani, il capo di Stato Maggiore a Dublino, allora McStiofain, la sua bellissima mamma che mi cucinava l’arrosto di agnello. Mi ha onorato della sua fiducia. Gli ho voluto bene anche dopo che le scelte, più del gran capo Gerry Adams che sue, avevano contrapposto la sua visione su ciò che sarebbe stato bene, per la sua comunità e per l’Irlanda tutta, alla mia e a quella di coloro che ritennero di mantenere fede al giuramento di liberazione, al poeta combattente Bobby Sands e ai suoi dieci compagni, morti, avvolti in coperte luride, dopo due mesi di sciopero della fame, per non essersi fatti travestire e degradare da criminali comuni. Come alle migliaia di martiri dell’unità, dell’identità, della libertà.
Bobby Sands e Nelson Mandela
Un quarto di secolo di lotte, dopo due secoli di lotte, dopo la carestia – “disastro naturale” come i tanti manovrati dai potenti – a metà dell’800, che aveva dimezzato, tra morti ed emigranti, la popolazione d’Irlanda perché abbandonata al morbo delle patate, mentre i latifondisti inglesi si arricchivano con l’esportazione di ogni bene irlandese. Dopo la mutilazione della nazione, con la negazione dell’indipendenza alle sei contee del Nord. Dopo Bobby Sands e i suoi compagni assassinati da Margaret Thatcher. Dopo una storia infinita di sogni e sangue, di sopportazione al limite del sovrumano, non poteva finire così. Con un governo provinciale fantoccio a Belfast, comandato a distanza da Londra e in cui gli schiavisti d’antan e di sempre dividono un potere vernacolare con gli schiavizzati di ieri e di sempre. Perché nelle condizioni di vita, nelle privazioni sociali, nella subalternità politica, nello spadroneggiare degli unionisti (a cui non si è chiesto di disarmare!) nulla è cambiato.
Qualche serie di casette a schiera in più. Un posto da subalterno in polizia, o nell’amministrazione. Le strade rattoppate. I pub riverniciati. Le scuole alla pari. Ma sempre, come ribadiscono episodi che ricorrono oggi come ieri, a rischio di teppisti unionisti armati.
Martin McGuiness ne era diventato il co-premier accanto ai proconsoli di Londra, gli unionisti orangisti, dichiaratamente fascisti, di Ian Paisley. Se il cuore di un combattente temprato come lui non ha retto, a soli 66 anni, penso di poter immaginare che sia stato anche per quella resa, per quell’Irlanda verde e unita sparita dall’orizzonte, per quell’inchino alla regina, per la rabbia di tanti, per i sogni di gioventù, per dover affrontare nella sua Derry gli sguardi di dolore e di sgomento dei suoi, di coloro di cui a vent’anni aveva impersonato la dignità e la certezza della vittoria. Per dover collaborare, con padroni e nemici di una vita, alla persecuzione e repressione di quanti, nel Nord, soffrono esattamene come prima e di coloro, suoi compagni d’un tempo, che insistono a non arrendersi e continuano a chiamarsi IRA, Real IRA, Continuity IRA, come nei secoli.
Gerry Adams se ne è andato al Sud, nella Repubblica. Sinn Fein, il partito che si diceva braccio politico dell’IRA, è diventato braccio politico di una tenue socialdemocrazia sud- irlandese che, irritata dalla Brexit, sogna di proseguire un boom, che è tutto del capitale e delle multinazionali, restando nell’UE, nelle fauci di chi macina nazioni e classi subalterne..
Il 24 gennaio 2013 moriva Dolours Price. Militante repubblicana, non era ancora una volontaria dell’IRA Provisional quando la portai in Italia, per un giro di conferenze nelle università. Lei e la sorella Marian, nel 1973, misero bombe al palazzo di giustizia di Londra, l’Old Bailey. Un atto simbolico, non ci rimase nessuno. Ma furono condannate all’ergastolo, poi ridotto a vent’anni. Accusò Adams di tradimento, di aver addirittura negato di essere stato capo di stato maggiore dell’IRA. Per questo, denunciò, fu minacciata da elementi del Sinn Fein. Morì per un eccesso di barbiturici, senza aver mai dato segni di volontà di morte, combattiva più che mai. Non ci furono indagini.
Se oggi giri per i quartieri delle opposte comunità, trovi che non è cambiato niente. A Falls Road di Belfast come a Derry, repubblicani, a Shankill Road come a Coleraine, unionisti, gli stessi murales, gli stessi vessilli, le stesse invocazioni di giustizia, le stesse accuse di repubblicanesimo, gli stessi simboli e ricordi di guerra. Hai voglia a parlare dell’accordo del Venerdì Santo 1998, Good Friday, qui in sostanza non è cambiato niente. Ci sono ricapitato l’anno scorso, per deporre all’ennesima inchiesta su Bloody Sunday, stavolta condotta dalla polizia nordirlandese, figurarsi. Già i militari della strage si sono rifiutati di deporre e nessuno li condannerà mai. Tanto meno i mandanti. Il mio avvocato e grande amico, Ciaran, che è anche il legale di molti prigionieri repubblicani e di coloro che dai filo- britannici sono stati offesi, mi ha portato in giro per tutta Belfast. Pareva il 1970, o 80, o 90.
A Derry ci sono tornato per il 45° anniversario della Domenica di Sangue. C’ero stato, invitato dal Comitato delle Famiglie delle vittime, nel 1992, al ventesimo anniversario. Al 30° no. Niente invito, c’era stata la “pacificazione” e uno come me, che agli inglesi, nuovi partner, le palle le aveva rotto parecchio, avrebbe stonato nell’atmosfera della pacificazione. Stavolta sono stato invitato dai “dissidenti”, gli “Artisti di Bogside”, Tom Kelly, suo fratello William (morto da poco) e Kevin Hasson. Sono gli autori dei più bei murales di Derry, compreso quello tratto dalla mia foto di Jack Duddy. Vanno in giro per il mondo a far raccontare ai muri dolori e onori degli oppressi, infamie e ottusità degli oppressori.
Anche a Derry non è cambiato niente. La povertà è la stessa di allora, la gente più malmessa, il corteo della ricorrenza ancora combattivo, ma senza sorrisi. La brutta, la tragica novità è la spaccatura all’interno di una comunità che era rimasta compatta a dispetto di tutto. I cambiamenti, le svolte, le “innovazioni” di Gerry Adams non sono passati. Non nella maggioranza. Così Adams la sua cerimonia l’ha fatta quasi da solo, davanti all’ingresso di “Free Derry”, attorniato da pochi. Nel corteo per il solito percorso, dal verde della collina di Creggan alla valle delle casette “match box” di Bogside, c’erano tutti gli altri, con le bandiere dell’Irlanda unita.
Solo la mattina, davanti al cippo con i nomi delle vittime, s’è vista un po’ di unità. Gli stanchi, gli irriducibili. E qui c’era anche Martin McGuinness. Si era dimesso dal governo di Stormont (così si chiama il palazzo a Belfast), un po’ perché gravemente sofferente di cuore, ma anche perché la collega, co-premier della destra-ultrà unionista, era rimasta coinvolta in uno scandalo immobiliare e non si voleva dimettere. E forse, ancora, per cose più profonde. Che quella mattina segnavano il suo viso pallido.
Ci siamo visti e, mentre venivano pronunciati dal cippo i nomi dei 14 caduti, ci siamo abbracciati. Ho abbracciato il ragazzo che difendeva Derry. Anche quella volta in cui salvò me e la documentazione della strage di Stato. Un ragazzo che oggi non ce la faceva più, sotto il peso di tante cose. Gli ho detto, sapendo di come il tempo passa sopra le fisionomie: “Sono Fulvio”. E lui: “Ma so bene chi sei, lo saprei anche fra cent’anni”. “Come stai?” “Mica tanto bene, vieni a casa più tardi?” Non ci fu il tempo. Ero con dei ragazzi di Roma che giravano un documentario sui murales, su Derry, su me testimone.
Sono contento di averlo rivisto, Martin, e mi prende una stretta mentre lo scrivo. Ha tenuto duro per tanti anni. Per tanti anni è stato una bandiera. Non ha mai né rinnegato, né occultato il suo ruolo di combattente. Questo, più che altro, resterà di lui a Derry, in Irlanda, accanto a James Connelly, a Bobby Sands. Chi sono io per non condividere un frammento del dolore che ha portato a spezzarsi il suo cuore?
Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 23:22