“Michele e Jan: due martiri del proprio tempo” di Raffaele Salomone Megna

suicidio-di-statoHo letto e riletto la lettera di Michele, il giovane friulano che il 31 gennaio si è tolto la vita ad Udine e sono sempre più convinto che il suo non è stato l’atto insano di un folle depresso, bensì un gesto di lucida ed implacabile protesta.
Non ho conosciuto direttamente Michele, ma non mi è difficile capire chi fosse.
Sono un insegnante ed in più di trent’ anni di professione ho visto tanti giovani di buona volontà affannarsi a cercare la propria strada, una qualche sistemazione economica, che consentisse loro anche una pianificazione della propria vita affettiva.
Questi nostri ragazzi studiano, sovente conseguono anche più di una laurea, hanno master, fanno colloqui, tirocinii, conoscono le lingue straniere, ma oggi in realtà sono solamente sfruttati e sottoposti ad inutili tribolazioni.
Vorrebbero avere una vita normale come quella che hanno avuto i genitori, però quasi mai ciò è possibile e sono spesso costretti a vivere con la loro famiglia d’origine, privi di autonomia e di indipendenza economica.
Questi ragazzi sono i nostri figli, intere generazioni che finiscono per non avere più la speranza nel futuro , mentre vedono i figli di diversi potenti personaggi che arrivano, senza alcun merito, dove loro non osano neanche più sognare di essere un giorno,
.
Quello di Michele è un vero e proprio “j’accuse”, pari a quello che il giovane ceco Jan Palach pose in essere a Praga il giorno 19 gennaio del lontano 1969, dandosi fuoco nel mezzo della Piazza dell’Armata Rossa .
Entrambi sono martiri, in greco μάρτυρες, entrambi testimoni del proprio tempo.
Testimoni della violenza che la società praticava su di essi.
Jan Palach viveva oltre la “cortina di ferro”, espressione retorica creata dal satanico Goebels, che la pronunciò in uno dei suoi ultimi discorsi, quelli che incitavano i tedeschi alla guerra totale, per descrivere cosa sarebbe successo ai popoli occupati dai sovietici: sarebbero stati chiusi in una cortina di ferro.
Così fu.
Jan Palach studiava in una Cecoslovacchia ancora basita dalle politiche staliniste ed ingessata nel socialismo reale.
In uno stato che garantiva il lavoro a tutti, ma ingrigiva gli spiriti e le menti dei cittadini nel conformismo del partito unico e reprimeva qualsiasi anelito di libertà con la delazione, la censura, il carcere ed i carri armati, questo giovane studente con la sua testimonianza cercò di scuotere la società di fronte alla fine di quel timido esperimento di apertura politica che fu la “primavera di Praga”. Non ci riuscì, almeno non nell’immediato.
Michele è invece nato nell’Europa occidentale, in Italia.
Anche il nostro paese,però, si trova racchiuso in una in una “cortina di ferro”, che è l’Unione Europea. Viene spacciata per una specie di eden terrestre, ma tale non è.
Qui non ci sono né i carri armati per le strade , né la polizia politica, ma anche qui c’è un partito unico, quello della globalizzazione.
Questo partito unico, a differenza di quelli che esistevano nei paesi del blocco sovietico, non garantisce il lavoro a nessuno e men che meno ai giovani. Deve solo garantire la stabilità dei prezzi ed il libero mercato.
Queste finalità sono ottenute conculcando i diritti, creando incertezze e precarietà e nei confronti dei giovani e dei più deboli, esercitando anche una sottile e malcelata violenza.
Violenza verbale e violenza psicologica.
Non c’è bisogno dei manganelli e delle cariche della polizia per essere violenti.
A volte sono sufficienti solo le parole, parole taglienti come lame di coltello.
Infatti, i nostri giovani sono stati definiti di volta in volta da politicanti di turno bamboccioni, schizzinosi ( choosy).
Di recente, con la stessa sensibilità che può avere la cotenna di un porco di più di due anni, sono stati invitati anche a “togliersi dai piedi” dal ministro ( con la m minuscola) Poletti.
I nostri giovani invece non hanno colpe e così Michele, che non aveva nessuna demerito.
 
Ciononostante vengono relegati nel “ghetto degli inutili”, indotti a sentirsi inadeguati e in colpa da certi slogans diffusi ad arte .
“Non pensate al posto fisso è da cialtroni!”
“Non avrete la pensione, è solo per i parassiti.”
“La formazione deve essere continua (perché siete inadeguati) e dovete cambiare più volte lavoro.”
“Siate imprenditori di voi stessi!”
Ma le cose non stanno così, sono ben diverse.
I nostri giovani, i nostri figli, sono costretti a subire uno scenario di privazione e di austerità permanente, sono vittime del progetto politico che, pur di mantenere la stabilità dei prezzi, accetta una disoccupazione elevata e Michele è solamente un danno collaterale.
Noi adulti, quindi, dobbiamo chiedere perdono a Michele ed a tanti altri come lui, che hanno detto basta a questo stato di cose, rinunciando per sempre ai loro sogni, alle loro speranze, perché abbiamo impedito loro di vivere.
E dobbiamo chiedere perdono anche alle loro famiglie, per aver inutilmente creduto di poter preparare per i propri figli un futuro giusto in un mondo migliore e per essersi impegnate con fiducia e fatica a realizzarlo.
A queste famiglie purtroppo non resta che la consapevolezza di non aver potuto proteggere col loro amore i loro figli da un destino infame, un dolore senza fine .
Anch’ io, di fronte alla perdita inaccettabile di giovani come Michele, da insegnante, provo grande indignazione e sincero dolore, perché i nostri allievi ci appartengono quasi come figli: li vediamo crescere, ne conosciamo i sentimenti, alimentiamo i loro sogni, siamo parte del loro quotidiano;
dobbiamo contribuire alla loro formazione intellettuale e morale, perché un domani siano persone e cittadini, siano donne e uomini liberi dal bisogno e dall’ignoranza.
Malgrado tutto, non mi sento sconfitto, anzi resto convinto che noi docenti ai nostri allievi dobbiamo continuare a dare fiducia in se stessi, a credere nell’isola che non c’è da cercare con coraggio e determinazione.
Intanto, chiediamo perdono a tutti gli uomini di buona volontà, non perché avremmo prodotto il debito pubblico italiano, come vanno dicendo da tempo dei vili politicanti da strapazzo, cercando persino di creare conflitti intergenerazionali, ma perché abbiamo consegnato l’Italia in mano ad essi , cerretani e ciurmatori.
Tutti i patrioti, i liberi pensatori, affinché un giorno non debbano chiedere scusa alle future generazioni per le parole che dovevano dire e non hanno detto e per le cose che dovevano fare e non hanno fatto e per non rendere vana la morte di Michele e di tanti altri, si devono impegnare affinché l’Italia recuperi la propria sovranità e sia data finalmente attuazione alla Carta Costituzionale, anteponendo al rigore dei conti per la creazione di una distopica Europa la difesa dei valori dell’uomo, per realizzare la felicità dei propri cittadini”.
13/02/2017

Il suicidio di Michele da Udine e la necessità di riscoprire vita&politica

michele-suicida-a-30-anni-perche-precario-lutto-allorientalePochi giorni fa Michele da Udine decideva di togliersi la vita e prima di farlo ha scritto una delle più belle lettere che si possano leggere (se non la conoscete ancora, la trovate qui.). Michele aveva trent’anni ed era un ragazzo friulano e se i friulani hanno un vizio è quello che non riescono a raccontarsi balle; sono impermeabili agli edulcoranti sociali, talvolta incastrati nella rigidità, ruvidezza delle cose, per quanto possano essere sensibili, quindi Michele, questo ragazzo dal nome di un angelo, non riusciva a raccontarsi che la vita che stava vivendo era degna di essere vissuta e ha preso la decisione più ferma, estrema, crudele che si potesse prendere.
Michele non era un migrante e nemmeno una persona con problemi di genere. Non ambiva ad adottare un bambino insieme a un compagno omosessuale e nemmeno a sposarcisi insieme con rito civile nella Capitale. Per questo, evidentemente, non era alla moda, e quindi i suoi bisogni, come quelli di tutti i suoi coetanei o dei ragazzi delle generazioni precedenti, non andavano presi troppo in considerazione.
Quanti altri ragazzi come Michele devono prendere decisioni simili perché qualcuno si renda conto che siamo noi quelli da tutelare e non sempre e solo i “diversi” o chi viene da tutt’altra parte del mondo?
Di quante tragedie si deve lastricare la storia italiana perché ci rendiamo conto che noi, prima degli altri, siamo il bene più prezioso e che c’è una gerarchia di importanza delle cose da rispettare?
E ovviamente non ci saranno manifestazioni per Michele. La gente non scenderà in piazza come contro Trump. Non si faranno assemblee. Il massimo, una scritta, a Bologna: “Per Michele e la nostra generazione l’unica garanzia è la vendetta”. Che però è stata debitamente cancellata.
Michele si è ucciso nella settimana di Sanremo, mentre Carlo Conti prende 650.000 euro per la conduzione e direzione artistica del festival, Tiziano Ferro 250.000 (o forse ancora qualcosa di più) e mentre le amabili arpie della televisione si scambiano frecciate a mezzo Twitter sul tema spacchi-e-scollature.
Ma voi che leggete questo pezzo, voi potreste fare qualcosa. Iniziate con lo spegnere la televisione. Spegnetela, spegnetela e basta, e vedrete che se tutti quanti la spegniamo comincerà a essere difficile che Carlo Conti percepisca 650.000 euro. Rai, Mediaset e poi tutti i canali a pagamento, e il grande successo delle serie TV, e il calcio milionario senza più significato e le forme d’arte concepite come prodotti da discount e internet che ci ossessiona e il telefono sempre connesso. Dio, non ne avete abbastanza?
Guardiamo in faccia tutta la realtà, spalanchiamo i nostri occhi su tutto questo vuoto, finché non ci spaventeremo a sufficienza. E smettiamo di lasciare la politica a mafiosi, cinici, incapaci, corrotti; smettiamo di farci incantare dai toni e dalle sfumature e da un bell’abbigliamento o una buona pronuncia inglese. Riprendiamo a parlare tra di noi, a immaginarci strade nuove, a cercare soluzioni pratiche per i nostri desideri, ad aiutarci, a costruire alternative indipendenti, a impegnarci non solo per questioni egoistiche – perché poi, alla fine dei conti, l’egoismo è la cosa meno egoista che ci sia.
 
Laceriamo questo manto di droghe che ci hanno apparecchiato davanti da quando andiamo a scuola. Le parole che non si possono dire, le questioni che non si possono toccare, le storie da imparare a memoria e una massa, un intrico di problemi e vincoli con cui ci fanno credere che governare è cosa assai complessa, una specie di slalom per gente in gamba, e quindi meglio lasciarla a gruppi maturi e con buone relazioni. Facciamola finita con questa religione delle Buone Relazioni, impariamo a uscire dal torpore e dalla comodità, a prendere l’iniziativa, a valutare con la nostra testa persone e capacità.
Torniamo a cercare la vita, la vita al massimo, come ha scritto Michele, la vita fatta di carne e respiro, quella che non si trova né nel telefonino né tra i download di internet.
 
Ma da quant’è che non vi sentite il sangue pulsare come quando eravate bambini? Da quant’è che avete smesso di innamorarvi di qualcosa? Di respirare, di sperare, di credere in idee che non siano immediatamente tangibili, monetizzabili? Da quanto avete relegato l’idealismo nello spazio delle cose inutili e addirittura dolorose? Fate che i vostri battiti non si alzino solo per un film al cinema o per un video su YouTube. Questa è la vita che deve esistere e che dobbiamo cercare. Questa è la politica, la politica bella, vera, non quella che stanno facendo da decine di anni centinaia di burocrati inutili impegnati in calcoli da settimana enigmistica, tra polizze e bidoni delle immondizie.
Da questi possiamo aspettarci poco, è evidente. Siamo noi che abbiamo il diritto e il dovere di inventarci un’alternativa. Di dare un senso alla vita. Come volete il vostro futuro? Cosa preferite rischiare, di fare uno sforzo ora oppure di non cambiare nulla e poi accorgervi troppo tardi del male che vi siete fatti?   Facciamo che Michele non si sia ucciso per niente, che ci possa insegnare qualcosa: è il minimo che gli dobbiamo.
di Silvia Valerio – 10/02/2017
Fonte: Barbadillo

In morte di Michele, cronaca di un suicidio di Stato

michele Polettinessuna fiaccolata per te, per i suicidi in Italia niente solidarietà, solo CENSURA. Guai a pensare non sia una democrazia tutta diritti e solidarietà.


La lettera che Michele ha lasciato ai suoi genitori non è soltanto triste, ma è agghiacciante e giustamente colpevolizza anche coloro che, come chi scrive, hanno fatto il ’68 perché desideravano che queste cose non succedessero. Evidentemente è stato commesso qualcosa di sbagliato e la buona fede non è più una scusante valida.

Oggi ci si è abituati al precariato, alla disoccupazione, oggi si cede a qualunque compromesso per avere un lavoro, provvisorio, malpagato e bisogna anche assuefarsi a essere sottostimati. Questa è la tragedia, abituarsi all’indifferenza, alla disistima, lasciare che i giovani adulti non raggiungano, se non molto raramente, l’obiettivo che si erano prefissati e per il quale si sono preparati.

Si diventa semplicemente spettatori. Spettatori di quanto si vede, spettatori di quello che fa chi governa, che promette e non mantiene, che cerca di coltivare in maniera intensiva il suo orto e punta ad avere sempre l’erba più verde di quella del vicino. E i giovani adulti muoiono, anche quando non si suicidano. Michele è andato fino in fondo, stanco di “fare del malessere un’arte”. In questa tragica sintesi c’è quanto oggi si propone a chi cerca un lavoro consono alle sue capacità.
Michele si è trovato a vivere in un mondo che “non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità”.

Ma che cosa vuol dire oggi normalità? Nessuno se lo chiede più perché oggi normalità è un concetto molto simile ad assuefazione, è ciò che capita tutti i giorni e lascia indifferenti, perché non c’è più lo spazio intellettuale per una sana protesta, perché tanto non porta da nessuna parte. Poi arriva Michele, che non si è assuefatto, non ci sta al gioco in cui l’hanno inserito contro la sua volontà e prima di portare a termine la sua personale e tragica protesta scrive che “il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare”.

Morire è stata una scelta fatta in piena lucidità, qui non si tratta di un momento di disperazione emotiva, qui la disperazione è nuda, è stata esaminata, soppesata, indagata, vagliata e ha condotto a un’unica via: il suicidio.

Viene alla mente Seneca, nessuno è stato più acuto e coerente di lui nell’affrontare il suicidio, ma, a differenza di Seneca che ha potuto arrivare a questo epilogo dopo una vita di pensiero compiuta, a Michele è stata impedita ogni realizzazione.
“Penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo”. La libertà ha coinciso con lo smettere di soffrire, quindi con la morte.
È una lezione molto dura quella che Michele impartisce.

Oggi siamo obbligati ad ascoltare la voce di Michele soltanto in questo maledetto attimo di emotività e soltanto perché lui è morto. Perché i suoi genitori hanno voluto pubblicare l’ultima lettera, ma questa voce viene dall’oltretomba. Quando era vivo non trovava ascolto. Quando era vivo, “vivere non” era “un piacere”, e per questo c’è una responsabilità collettiva.
Questo non è un suicidio né letterario, né poetico, è un suicidio politico, perché la polis non ha avuto chance da offrire a questo giovane adulto, come non ne offre a tanti altri, e lui non si è rassegnato al fallimento. Chi è fallito non è Michele, è chi non ha saputo costruire una società in grado di dare lavoro ai giovani, di dare un futuro a chi ne ha ogni diritto.

È fallito chi ha sperato ma non ha costruito, perché immerso e sommerso dalle sue piccole realtà di guadagno, da piccole voglie di emergere a qualunque costo. E il costo lo stanno pagando i disoccupati, i precari, gli umiliati, lo sta pagando chi ha creduto di potersi costruire una vita.
E questa lettera, che dovrebbe turbare il sonno di tutti, passerà sotto silenzio, dopo una breve scossa emotiva, sarà inghiottita dalle considerazioni banali che tutelano le coscienze addormentate.
Tutto il gelo che questa morte porta con sé sarà esorcizzato ancora una volta da inutili buone parole.
Chi ha ancora una coscienza sa di doversi, inutilmente ormai, scusare con Michele, per avergli rubato la vita.

febbraio 10, 2017 di Maria Teresa Busca

In morte di Michele, cronaca di un suicidio di Stato

Prima di Michele un’intera generazione era già morta

michele vendettaNella foto la scritta che i pennivendoli (scribacchini con i soldi pubblici) di Repubblica giudica “minacciosa”. Riporto la frase nel caso dovesse “scomparire” l’articolo:
“Per Michele e la nostra generazione l’unica garanzia è la vendetta”. È la scritta minacciosa comparsa nella notte sulla torre di Legacoop, in viale Aldo Moro a Bologna, con chiaro riferimento al caso del grafico 30enne morto suicida nei giorni scorsi in Friuli.

Caro Michele,
 
tu non puoi leggermi perchè, a dispetto di certe religioni, dopo la morte torniamo al nulla da dove siamo venuti (o al massimo – questo io credo, questo mi piace credere – ci trasformiamo in esangui ombre che baratterebbero tutta l’eternità per un solo altro giorno di vita). Questa, perciò, è una missiva senza senso. Il senso che tu cercavi e non hai trovato. O forse è più un messaggio in bottiglia ai tanti borderline d’Italia, i Michele sull’orlo di una crisi di nervi che facciamo finta di non vedere.
 
«Ho cercato di fare del malessere un’arte», disprezzando quell’arte di sopravvivere che è umana troppo umana – e italiana molto italiana. Dici di essere un «anticonformista», parli come un titano che ha scelto di abbracciare il nulla: «ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri (…) Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza si, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino». Hai preteso e non hai ottenuto: «Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile». Non ti accontentavi del necessario: «Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione».
 
Sai chi ricordi, almeno in parte? Il signor Kirillov nei Demoni di Dostoevskij. Se Dio non esiste l’Uomo è Dio – diceva – e se l’Uomo è Dio, la libertà suprema sta nell’uccidersi: «Io sono obbligato a uccidermi, perché il momento piú alto del mio arbitrio è uccidere me stesso». Ma tu non ti sei tolto la vita senza ragione. Tu avevi varie ragioni: non trovavi un’occupazione che ritenevi adeguata a te, una persona che ti amasse, le gratificazioni e la stabilità esistenziale che credevi di meritare. Tutte ragioni molto terra terra, nient’affatto metafisiche. Legittime, normali, anche se non nobili. Ma le ragioni per vivere sono impastate di terra, intesa come concretezza, fisicità, gravosa necessità ma anche stupefacente imprevedibilità.
 
Non ce l’hai fatta. «Ho resistito finché ho potuto» è la frase con cui hai chiuso, ed è la tua frase più bella – e anche l’unica. Perchè verso chi crolla non può esserci che umana comprensione, pietà e rispetto: per morire volontariamente, ci vuole un certo coraggio. Chi parla di banale egoismo o vigliaccheria provi solo a immaginare cosa dev’essere l’attimo prima del gesto estremo…
 
Perciò il tuo addio andava reso noto, e hanno fatto bene i tuoi genitori a pubblicarlo. La tua fragilità ci rigira lo stomaco perchè molti di noi soffrono la tua condizione sociale (precarietà, paghe da fame, farsi il mazzo per un pugno di mosche) e psicologica (senso di vuoto, mancanza di orizzonti, aspettative deluse). Hai perfettamente ragione, dunque. Ma hai anche torto. Volessimo estendere collettivamente la tua logica («la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno») dovremmo suicidarci in massa tutti quanti. Ci scuserai, ma peggio di auto-eliminarsi cosa ci sarebbe? Alludevi forse alla rabbia che anziché ripiegarsi all’interno si riversa all’esterno? Ma quella è rabbia sana. Quella, un Camus l’avrebbe chiamata rivolta. Hai mai tentato di esprimerla uscendo dal tuo guscio di rancore e solitudine? O pensavi soltanto che «se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo», allora basta, meglio smettere, e provare l’ultimo, inutile piacere di far sentire in colpa l’umanità che ti è sopravvissuta?
 
Ti capisco, eccome se ti capisco, Michele. Eri, come noi, uno dei disadattati e insofferenti figli di un progresso minore. Ma non posso giustificarti. Anch’io sono stufo, anch’io penso che tutte le chiacchiere sulla sensibilità e meritocrazia siano luride balle. Però coltivare la propria isola di narcisismo porta inevitabilmente alla frustrazione perenne. Perchè i “no” fanno parte del gioco. E allora bisogna rispondere con altrettanti no a ciò che va contro la vita. Non alla vita in quanto tale: è l’unica che abbiamo. E ognuno di noi non è l’unico a soffrire su questo mondo. Anche se ci si sente soli, non si è mai del tutto soli. Così come non si può mai essere tutto quel che vorremmo.
 
Alla fine, è una questione di forza. A te, dopo tanto dolore, ad un certo punto è mancata. Agli altri come te – come noi – auguriamo che non manchi.
La via per scovarla e tirarla fuori è dimenticare questa ossessione di sè. E ribellarsi: ai propri limiti personali, e contro le ingiustizie che hanno nomi, cognomi, indirizzi, matrici ideologiche e cause storiche. Altrimenti sì che, rinunciando a priori alla scelta di combattere, «non sono mai esistito», come hai scritto tu. Ti dedico un’ultima citazione, Michele: «L’essenziale è non vivere invano». Era Antonio Gramsci. Uno che crepò in galera per le sue idee e per i suoi ideali. Per qualcosa che lo trascendeva. Che gli faceva dimenticare il suo piccolo io.
 
di Alessio Mannino – 10/02/2017
Fonte: Alessio Mannino

Antipolitici sarete voi

Alain de benoist SputnikChe il clivage destra-sinistra stia diventando obsoleto, Alain de Benoist, intellettuale e storico delle idee francese, lo dice da almeno vent’anni. E ora che anche quegli osservatori che lo demonizzavano si sono accorti della progressiva caduta in desuetudine delle vecchie categorie politiche, ci si ritrova ancora una volta a constatare che il padre della destra metapolitica d’Oltralpe aveva anticipato tutto. Anche se lui, con eleganza d’antan, dice semplicemente di aver guardato in faccia la realtà, di non essere, a differenza di una certa Francia benpensante, affetto dal “deni de realité”, da quella propensione al rifiuto di ammettere che il mondo sta cambiando volto, che le vecchie ideologie stanno sparendo e che ci sono nuove “richieste di democrazia”, nuove istanze provenienti da popoli che vogliono riprendere il proprio destino in mano.
Sulla fine dello schema droite-gauche, la crescita dei movimenti cosiddetti populisti e il divorzio brutale tra il popolo e le élite, De Benoist ha deciso di consacrare il suo ultimo libro, il 103esimo della sua lunga vita di studi e riflessioni. Si intitola Le Moment populiste. Droite-gauche, c’est fini! ed è stato pubblicato da Pierre-Guillaume de Roux, l’“editore degli infrequentabili”, come lo ha definito recentemente il Monde.
Tra questi “infrequentabili” pensatori del dibattito intellettuale francese, non poteva certo mancare il padre della Nouvelle Droite, che in un colloquio con Tempi spiega perché è ora di fare chiarezza sul concetto di “populismo”, sull’espansione dei fenomeni populisti nel mondo, e sui troppi errori di approccio nell’analizzare una forma politica che ha alle spalle una storia molto più complessa e sfaccettata di quella che ci raccontano gli opinionisti da salotto televisivo.
«Osservo che il termine populismo è utilizzato sistematicamente in maniera negativa, peggiorativa, per designare movimenti o correnti di pensiero completamente differenti tra loro. I cantori del pensiero dominante dicono che questi movimenti sono principalmente demagogici, per nulla seri, e che costituiscono una minaccia per la democrazia. Ma sono analisi a dir poco superficiali, che passano completamente a lato della questione. Per la stesura di questo libro ho voluto adottare un approccio che parte dalla scienza politica, cercando di capire cos’è il populismo e qual è la sua storia», dice a Tempi De Benoist. «Dall’altro lato – spiega l’intellettuale francese – mi sono interessato ai continui tentativi di denigrazione del populismo, al perché questa parola è diventata una “parola-caucciù”, ossia una parola strattonata in tutti i sensi, utilizzata abusivamente, con il solo obiettivo di delegittimare certe organizzazioni politiche.
Il 2016 è stato l’anno dell’ascesa del Front National, della Brexit in Inghilterra, dell’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, della crescita di Podemos in Spagna, e dell’espansione dei Cinque Stelle in Italia, senza dimenticare il grande risultato ottenuto dall’Fpö alle ultime elezioni austriache. Stiamo assistendo a un fenomeno generalizzato che va studiato nella sua complessità».
Per De Benoist, animatore della rivista antimoderna Eléments, fucina di idee della destra intellettuale francese, «bisogna partire dalla base per capire cos’è il populismo e quali sono le ragioni del suo successo».
La prima ragione, spiega, è «l’enorme diffidenza della stragrande maggioranza delle popolazioni nei confronti della classe politica al potere e delle élite economiche, finanziarie e mediatiche. A questo, si aggiunge una profonda crisi della rappresentanza. Le persone sentono di non essere più rappresentate e che i partiti di governo costituiscono una casta che utilizza il potere soltanto per difendere i propri interessi: c’è una spaccatura tra i rappresentanti e i rappresentati».
Oltre a questo fattore, analizza De Benoist, «c’è il divario che si è aperto da trent’anni a questa parte tra il popolo e la sinistra. Sinistra che storicamente aveva professato di voler difendere le classi popolari più dei leader dei movimenti di destra».
E qui De Benoist raggiunge nell’analisi un altro intellettuale controcorrente del panorama francese, Jean-Claude Michéa, che nei suoi libri ha raccontato meglio di ogni altro la fine della luna di miele tra la gauche e la Francia d’en bas.
«Ora – prosegue De Benoist – la sinistra classica si è unita all’economia di mercato e alle logiche del capitalismo neoliberale, e il popolo subisce pienamente le conseguenze di questa scelta con le politiche di austerità, la restrizione del potere di acquisto e la crescita della disoccupazione. Infine, il successo dei movimenti populisti è legato al recentrage dei programmi dei partiti di destra e sinistra. In altre parole: i partiti di destra e sinistra si succedono ma hanno praticamente la stessa politica, si distinguono nella scelta dei mezzi, ma gli obiettivi sono i medesimi. Le nozioni di destra e sinistra perdono la loro specificità, e lo testimoniano anche i sondaggi: la gente non vede più quale sia la differenza tra queste due categorie politiche».
Riprendersi l’autonomia
Sugli errori di analisi dei molti editorialisti ed “esperti” che affollano giornali e televisioni bollando tutto ciò che non è di loro gradimento come “populista”, De Benoist tiene a soffermarsi. «Il primo errore è quello di credere che il populismo sia un’ideologia, quando invece è una forma politica, uno stile politico, un nuovo modo di articolare le richieste sociali e politiche che può combinarsi con qualsiasi ideologia. È la ragione per cui ci sono dei populismi liberali, dei populismi antiliberali, dei nazional-populismi, dei populismi di sinistra e dei populismi di destra», dice l’autore di Vu de droite.
«Il secondo errore è quello di pensare che il populismo sia un fenomeno intrinsecamente antipolitico, perché è vero il contrario. Il populismo è una reazione contro una politica che oggi è dominata dalla gestione, dall’economia, dall’espertocrazia, dalla morale dei diritti dell’uomo, da tutta una serie di cose che tendono a far sparire l’autonomia della politica. Il populismo è una “demande de politique”, una richiesta indirizzata alle classi dirigenti affinché facciano politica, invece di limitarsi alla gestione e all’amministrazione».
Il terzo errore individuato da De Benoist è credere che il populismo sia un movimento antidemocratico. «Anche qui, è l’esatto contrario di quanto proclamato dalla doxa mediatica. Ciò che il populismo contesta è la democrazia liberale, parlamentare e rappresentativa, che oggi non rappresenta più nulla. I movimenti populisti chiedono più democrazia, una democrazia partecipativa, diretta, nel senso che la gente deve essere maggiormente protagonista, che il loro potere non si deve ridurre all’andare a votare ogni quattro o cinque anni per delle persone che una volta elette difendono soltanto i loro interessi. I movimenti populisti combattono per una democrazia dove le persone possono decidere il più possibile autonomamente e per loro stesse».
Troppe promesse non mantenute
Secondo De Benoist, la critica del populismo si è sviluppata attraverso tre stadi. «In un primo momento sono stati definiti “populisti” dei movimenti che venivano principalmente dall’estrema destra o dall’estrema sinistra, ma che avevano alcune caratteristiche nuove: accettavano il gioco della democrazia, per esempio. In un secondo momento, la qualifica di populismo si è estesa a tutti i movimenti che avevano come caratteristica comune quella di far leva sul popolo per accusare le élite. In un terzo momento, la critica del populismo si è rivelata una critica del popolo. Ciò si vede molto bene con il disprezzo, che è un disprezzo di classe, delle élite contro i popoli che hanno votato Trump, il Front National, e a favore della Brexit. Quando ha vinto la Brexit, ci hanno detto che ha votato il popolo degli idioti, degli imbecilli, dei vecchi, dei provinciali».
E ancora: «Questo disprezzo di classe è estremamente rivelatore perché poggia sulla confusione esistente intorno al significato di competenza. La competenza in politica non è una competenza tecnica, non è la competenza degli esperti. La competenza politica si riassume nell’attitudine a prendere decisioni e alla capacità di giudicare ciò che nel quotidiano è buono o cattivo per il popolo.
Quando si oppone al popolo “coloro che sanno”, si fa un errore drammatico perché “quelli che sanno”, gli “esperti”, non sanno quello che bisogna fare: sanno come fare quello che si è deciso di fare. Sta ai politici dire quello che bisogna fare, e agli esperti in un secondo momento dire come raggiungere questo obiettivo. Quando si dà agli esperti il monopolio della decisione, questi uccidono la politica, perché considerano che ci sia una sola soluzione razionale al problema politico: trasformano il problema politico in un problema tecnico. È lì che vediamo la vecchia formula: “L’amministrazione delle cose si sostituisce al governo degli uomini”».
Questa critica del popolo, per l’intellettuale francese, «disconosce ciò che bisogna intendere per popolo». Secondo De Benoist «ci sono tre grandi significati di popolo: il popolo come “demos”, ossia il popolo politico, il popolo in quanto potere costituente; c’è il popolo come “etnos”, ossia il popolo come risultato di una storia culturale, nozione prepolitica; e c’è il popolo come “plebs”, ossia il popolo considerato come classe sociale, come classe proletaria e popolare. La grande caratteristica del populismo è quella di riunire queste tre accezioni del termine “popolo”».
In merito a quello che è successo negli ultimi trent’anni, conclude l’autore de Le Moment populiste, «ci sono tre grandi fenomeni sui quali il popolo non è mai stato consultato: l’immigrazione, la mondializzazione e la costruzione europea con il potere delle commissioni di Bruxelles. Ci hanno detto che l’immigrazione era un’opportunità per l’Europa, che la mondializzazione era felice e avrebbe prodotto vantaggi per tutti, e ci hanno detto che l’Europa avrebbe risolto tutti i problemi. Oggi le persone si rendono invece conto che l’immigrazione provoca molti problemi, patologie sociali, scontri culturali e religiosi di grandi dimensioni, che la mondializzazione si sviluppa a loro detrimento in ragione delle delocalizzazioni, della messa in concorrenza dei lavoratori europei con i lavoratori del Terzo mondo che ricevono salari irrisori, e si accorgono che l’Europa non è divenuta la soluzione a tutti i problemi, bensì un problema che si aggiunge agli altri. Il tutto in un contesto di crisi generalizzata, crisi dei valori, sparizione dei punti di riferimento, crisi di civiltà, crisi finanziaria, indebitamento pubblico di cui non si vede la fine, aumento della disoccupazione strutturale e non più congiunturale. Questo è il terreno fertile sul quale il populismo ha prosperato».
di Alain de Benoist – 12/02/2017
Fonte: Tempi

Approvato l’accordo CETA UE-Canada: “A rischio denominazioni di origine e piccoli produttori”

CETA TTIPgrazie ai signori di più europa per tutti….Chi sono questi “tutti”? I popoli? I disoccupati, i lavoratori, i pensionati, gli incapienti? L’europa dei cittadini VERO??!! Ah, si è visto qualcuno in piazza per protestare?!?!
GUAI CONTESTARE L’AMATA EUROPA, l’armata dei servi in piazza ci va per combattere i populisti. Ora sta ai governi nazionali poter ancora impedire la ratifica, ma si sà, i governi nazionali (sarebbero uno strumento utile se non fossero in mano criminale) sono “mostri” per i signori pensatori politically correct.

Per Slow Food il Ceta è un trattato “che intende affermare gli interessi della grande industria, a scapito sia dei cittadini che dei produttori di piccola scala”
In Europa ci sono 1.300 prodotti alimentari a indicazione geografica, 2.800 vini e 330 distillati. Di questi, il Ceta (il trattato che oggi incassa il voto favorevole del parlamento Europeo) ne tutelerebbe solamente 173. “Questo significa che alcune denominazioni di origine di prodotti legati al territorio e con una tecnica produttiva tradizionale potrebbero essere tranquillamente imitati oltreoceano, senza essere passibili di alcuna sanzione”, commenta Carlo Petrini, presidente di Slow Food. Non solo. Per Petrini “il Ceta aprirebbe il mercato canadese ai prodotti lattiero-caseari europei provocando una caduta dei prezzi oltreoceano e di conseguenza un peggioramento delle condizioni di vita degli allevatori.
Il discorso è lo stesso dunque: invece di migliorare le condizioni di chi sta peggio, si innesca una guerra al ribasso che porta al baratro chi produce bene. Queste misure fanno esclusivamente il gioco della grande industria e della speculazione finanziaria”.
Insomma, per Slow Food il Ceta è un trattato “che intende affermare gli interessi della grande industria, a scapito sia dei cittadini che dei produttori di piccola scala”, aggiunge Gaetano Pascale, presidente di Slow Food Italia. La decisione ora è in mano ai singoli Stati Membri “ed è sufficiente che un solo Paese non lo ratifichi per fare in modo che il Ceta non passi. Chiediamo quindi al Governo italiano che rispetti l’opinione dei cittadini e si schieri finalmente a favore dei produttori locali e dell’ambiente -conclude Pascale – l’accordo, infatti, include moltissimi temi, dai lavori pubblici alla carne agli ormoni, dal glifosato agli Ogm, tema tra l’altro, su cui si deciderà in gran segreto”.
A cura di Filomena Fotia
15 febbraio 2017

Dall’euro si può uscire, Merkel e Draghi hanno paura. E la Sinistra mette a rischio la democrazia

bagnai no euroalla sinistra il popolo fa schifo. Ama l’elites, che succhiano la vita dei popoli.

“Il governatore voleva incutere timore, ma in realtà ha indicato la via d’uscita. Segno che il potere non è più in grado di parlare”. “Sono preoccupato dal desiderio di censura travestito da crociata contro le fake news. I principi democratici sono in pericolo
Alberto Bagnai, docente di Politica economica, punta di diamante della schiera (sempre più folta) di economisti contrari alla moneta unica: fino a poco tempo fa auspicare o anche solo immaginare l’uscita dall’euro era considerato folle, bizzarria qualunquista e irrealizzabile. E invece…
Fino a due mesi fa solo la verità era dalla nostra parte. Ora anche Trump. L’establishment ha fatto male i calcoli. Prima ha creduto che non potesse vincere, sottovalutandolo. E lui ha vinto. Poi ha creduto che non mantenesse le promesse. E lui ha cominciato a mantenerle. Così ora è emerso il segreto di pulcinella. Ovvero che Trump nel suo programma economico, che io avevo letto a settembre, accusa la Germania di essere una manipolatrice di valuta. Questo ha suscitato una quantità di interpretazioni poco approfondite, ma è un dato riconosciuto come sostanzialmente giusto dalla letteratura scientifica e anche dalla stampa anglosassone distante da Trump, come il Financial Times. Soprattutto questa posizione ha seminato panico tra le “fila nemiche”.
In che modo?
Due dichiarazioni provenienti dal potere si sono rivelate un boomerang. Mi riferisco a quanto detto da Mario Draghi e Angela Merkel.
Partiamo da Draghi e dalle sue dichiarazioni contraddittorie sull’euro irreversibile.
Draghi ha fatto una sparata sui 358 miliardi da pagare nel caso in cui si decidesse di uscire dalla moneta unica. Lo ha fatto chiaramente con intenti minacciosi. Ma quell’affermazione si è rivelata un boomerang, perché Draghi ha fatto capire che uscire è tecnicamente possibile. Tant’è vero che è stato costretto a smentire, dicendo che l’euro è irreversibile. Ma la smentita, come dice il detto, è una notizia data due volte.
Draghi dunque ha ammesso che si può uscire dalla moneta unica. Non male direi…
Sappiamo ora che si può uscire dall’euro, visto che l’ha ammesso persino lui. Sulla natura dei saldi target 2 è in corso un dibattito, ma se fossero veramente debito pubblico li contabilizzeremmo lì e invece non lo stiamo facendo. Inoltre nei confronti di questa Europa non abbiamo solo debiti ma anche crediti, pensiamo ai 65 miliardi stanziati per salvare la Grecia, o meglio le banche francesi e tedesche che avevano fatto prestiti alla Grecia. Il punto politico è che Draghi voleva incutere paura ma in realtà ha indicato la via d’uscita. Segno che il potere non è più in grado di parlare.
Poi c’è la Merkel che dopo anni a cianciare di integrazione europea e destino unico, se ne esce con la teoria dell’Europa a due velocità, come una “populista” d’antan.
Merkel ha parlato di Europa a due velocità per rispondere a Trump, ma in questo modo ha reso evidente a tutti che questa Ue ha paura del presidente americano. E bisognerebbe chiedersi perché. Ma soprattutto parlando di Europa a due velocità ha messo in luce il vero problema dalla Ue.
Ovvero, la Francia andrebbe con il Nord o con il Sud? Tutti danno per scontato che vada con il Nord. Ma occorre ricordare che dal punto di vista macroeconomico la Francia sta addirittura peggio dell’Italia. Ha un deficit di bilancio pubblico che è circa due volte il nostro, e mentre noi siamo in surplus di bilancio nei pagamenti la Francia è in deficit, cioè non è un Paese abbastanza competitivo sui mercati internazionali.
Sarebbe la fine della Ue?
Se applicassero le famose regole dei tedeschi, la Francia dovrebbe andare nell’Europa più lenta, quella mediterranea, del cosiddetto “Club Med”. In realtà non ci andrà. Perché contano i rapporti di forza. La Francia ha la bomba atomica e la Germania no. Dunque si capisce che questa Unione si regge sui rapporti di forza, sulla violenza, sul dire io ho la bomba atomica e salgo in prima classe, tu non ce l’hai e vai in seconda. Si capisce che questa Unione nasce per risolvere una questione che non ha nulla a che vedere con i nostri problemi. La Ue nasce per il secolare conflitto tra Francia e Germania. Il problema è loro. Ma l’hanno risolto in un modo che soffoca anche noi. A mio avviso questo spiega che per l’Europa e segnatamente per l’euro le velocità giuste sono almeno 19 e non 2. Ed è lì che si arriverà.
La fine dell’euro è una prospettiva più attuabile di quanto si pensi, magari a partire dalla Germania?
La proposta che oggi tutti riscoprono, cioè che la Germania esca e lasci l’euro agli altri Paesi, la facemmo nel 2013 con Claudio Borghi e gli altri economisti del Manifesto di solidarietà europea. Ma va intesa come primo passo verso lo smantellamento dell’euro. Perché non ha alcun senso un euro di serie B, dove convivano con la forza Francia e Italia, due Paesi completamente diversi: si riprodurrebbero le tensioni attuali. Con l’uscita della Germania ci sarebbe un sollievo temporaneo, ma i problemi si ripresenterebbero.
Uscire dall’euro non è mai stata fantascienza o fantapolitica?
È fantascienza l’idea che noi potessimo restare dentro. Rimanere nell’euro aggrava tutti i nostri problemi, a partire dal debito pubblico.
Il sistema oltre a oscurare mediaticamente le teorie No euro, e quelle alternative all’establishment, potrebbe persino includerle tra le bufale e le “fake news”, i cui confini sono appositamente tutt’altro che definiti.
Per la prima volta da anni si delinea un quadro in evoluzione. E proprio per questo la situazione è molto pericolosa.
La democrazia è in serio pericolo. E non mi sarei mai sognato di dover imputare questo, io persona progressista, all’opera delle forze di sinistra. Molti politici del PD e di Sinistra Italiana, sulla falsariga di certa sinistra internazionale, stanno bandendo una crociata contro le cosiddette fake news, con l’idea che il processo politico sia determinato dal fatto che alcuni siti diffondano bufale.
Che Trump non sia il frutto di 30 o 40 anni di disuguaglianze e di schiacciamento della classe media, ma di 3 mesi di bufale su internet è un’analisi che mi umilia in quanto progressista. Mi umilia due volte. La prima è perché a sinistra un tempo si ragionava in termini di lotta di classe e non ci si baloccava con queste scemenze.
La seconda è che pare evidente come lo scopo del gioco sia il ministero della verità. Hanno paura che le persone vengano a sapere determinate cose.
Censura e dileggio viaggiano insieme…
Sono preoccupato da questo desiderio di censura, dallo screditamento del suffragio universale. La democrazia viene vilipesa quando non si comporta secondo le loro intenzioni. Questi meccanismi li abbiamo visti con la Brexit, con Trump, con il referendum costituzionale e forse li vedremo con Marine Le Pen. Se mai dovesse vincere assisteremmo al j’accuse contro il voto democratico da parte degli intellettuali. I quali non si chiedono perché le persone votano per dei politici che tutti i media propongono come impresentabili.
Lei poche settimane fa è stato tra i protagonisti del convegno “Oltre l’euro”, che bilancio fa di quell’esperienza?
Il convegno ha avuto partecipazione traversale. La Lega sta facendo informazione su temi cruciali, di interesse generale. Uno può anche non riconoscersi in altri valori della Lega, ma questo è un dato di fatto. Questo è fare politica. Sarebbe bello che fosse constatato e anche emulato. La verità è che l’intero sistema partitico e mediatico, il sistema di potere italiano, non seguirà la Lega sulla strada del fare informazione, perché ha tutto l’interesse nel non farla.
di Alberto Bagnai – 11/02/2017
Fonte: stopeuro

Occhio alle “bufale”: sì, ma a quelle del sistema!

la_fabbrica_della_manipolazione-214x300Il giornalismo ufficiale di stampa e tivù da quest’anno ha fatto una sensazionale scoperta: su internet circolano troppe “bufale”!
Capita così sempre più spesso d’imbattersi in articoli e trasmissioni con l’esperto di turno che, con un fare tra l’allarmistico, lo sdegnato e l’ironico, mette in guardia il suo pubblico dalle falsità fatte circolare nella rete da autentici “furfanti”, sia per cavarne un guadagno monetario immediato sia per trarne visibilità a buon mercato e diffondere così teorie deliranti nocive per la collettività.
Un esempio di questo tipo d’accalorate prese di posizione dell’informazione di regime m’è capitato di ascoltarlo alcuni giorni fa su uno dei canali della Rai. Il giornalista, in passato già dedicatosi a rafforzare, con una rubrica “specialistica”, l’assoluta affidabilità della medicina allopatica cosiddetta “tradizionale”, adesso s’è dedicato anima e corpo a combattere le famigerate “bufale sul web”.
Un tentativo goffo come il personaggio stesso, nel quale si potevano vedere, in rapida e sempre più “terrificante” successione, tutte quelle che i media ufficiali reputano fantasie di menti deboli e/o distorte. Così, dalle scie chimiche agli alieni, da “Big Pharma” (non a caso) al NWO, in una miscela indistinta di cose vere ed evidenti fole accostate alle prime per screditarle, il tele-suddito veniva messo in guardia dai “mostri” che si annidano su internet.
Nel quale certamente sproloquiano anche parecchi imbecilli dilettanti e gente che per il semplice fatto di poter dire “la sua” su tutto non perde occasione di sparare le proverbiali cavolate, peraltro nuocendo, con la sua impreparazione, a coloro che, seriamente, svolgono (per puro spirito di servizio) un’attività d’informazione veramente chiarificatrice.
Ma la manovra, specialmente dall’inizio di questo 2017, è evidente e scoperta: demonizzare i cosiddetti “controinformatori” che, per il fatto di non avere una tribuna “autorevole” come quella di giornali e tivù, sarebbero nient’altro che un’accolita di avvinazzati adusi a spararla grossa come al bar.
La propaganda di questo sistema oramai decotto che presto si sbriciolerà assieme alle sue menzogne ha un bel dire nascondendosi dietro mezzibusti e cariatidi della “scienza” e della “cultura”. Stanno sparando le loro ultime cartucce, sempre meno letali perché c’è sempre più gente che sta mangiando la classica foglia dell’inganno globale nella quale è stata immersa per troppo tempo.
Hanno evidentemente paura. Una paura folle che il giocattolo gli si rompa tra le mani. Anzi sono terrorizzati all’idea che il potere, questo potere, si riveli per quello che realmente è: un potere satanico.
La questione delle “bufale sul web”, perciò, non ha nulla a che vedere con la tutela del quieto vivere collettivo e della stabilità mentale di chi ne verrebbe irretito (non mancano mai, tra i consulenti di simili pateracchi allarmistici, gli psichiatri che sparano sentenze sulla personalità narcisistica e patologica dei “bufalari”).
Ha invece un diretto rapporto con la natura del potere contemporaneo, che è molto, ma molto più perversa e diabolica di quanto possano pensare quelli che per decenni l’hanno identificato con delle ideologie da combattere con altre ideologie.
Tra l’altro, un segno inequivocabile di quale pasta sia fatto questo potere è la quantità abnorme e praticamente fuori controllo di menzogne che proprio l’apparato mediatico dei grandi gruppi proprietari di giornali e canali televisivi sparge a piene mani, incessantemente, su ogni questione. Se, infatti, questo potere (che manda avanti personaggi che via via “si bruciano”, come i politici) fosse una cosa sana e buona per sua natura, non si dedicherebbe con un impegno impressionante a rimpinzare le menti di tutti quanti con “notizie” ventiquattr’ore su ventiquattro, e per giunta sempre le solite, scelte e presentate sempre allo stesso modo entro i medesimi rassicuranti (per loro) quadri di riferimento.
Vogliamo dunque parlare di “bufale” diffuse da media e cultura ufficiali a partire dall’inizio dell’era cosiddetta “moderna”? Bisognerebbe partire dalla concezione dell’uomo e dell’universo che è stata costruita ad arte, allo scopo di scollegare l’essere umano stesso dalla sua Origine: non è forse proprio il Diavolo il ciarlatano per definizione?
Ma anche senza voler andare così indietro nel tempo, basti pensare a che cosa è stato messo in giro, negli ultimi vent’anni, senza che i “cacciatori di bufale” avessero mai trovato nulla da eccepire, al riguardo di quisquilie come qualche milione di morti provocato dalle guerre americane in giro per il pianeta, tutte giustificate da plateali bugie, a partire dalla madre di tutte quante, e cioè “l’attentato (islamico!) alle Torri gemelle” dell’11 settembre 2001. A distanza di una quindicina d’anni, a quella versione ufficiale spacciata come l’oracolo e che corrisponde esattamente al paradigma del “complotto” (!), oggi non crede praticamente più nemmeno la famosa casalinga di Voghera. Fa però eccezione chi deve mantenere un ruolo ed una posizione di prestigio assai remunerativa in questo sistema putrefatto.
Così come sempre più persone alzano gli occhi al cielo e si domandano (come non fanno mai certi “scienziati”) com’è possibile che del semplice “vapore acqueo”, ad una quota così bassa, possa persistere per ore, in forma di scia, in un cielo sempre più scarabocchiato in quelle che un tempo erano giornate di sole e basta. Diventerà un “complotto” anche il semplice guardare il cielo e stupirsi?
Mano a mano che “la crisi” che hanno innescato produrrà i suoi nefasti effetti, un numero sempre crescente di persone si renderà conto di inganni come quello della moneta-merce (elettronica) strutturalmente debito, come la definisce il mio amico Bogni. Un simulacro di denaro ideato al solo scopo di servire un sistema innaturale che sebbene inculchi la convinzione che “l’economia è il nostro destino” finisce per eliminare il concetto stesso di economia a favore della speculazione pura e semplice.
Avranno voglia, mentre la gente normale sgobba e paga, di raccontare che è tutta colpa degli sprechi e della “casta”: verrà il momento in cui l’unico partito o movimento che le masse dovranno seguire se non vorranno diventare completamente schiavizzate sarà quello che prenderà di petto la questione della sovranità monetaria (e dell’economia ricondotta alla sua benefica e naturale funzione).
Ma non c’è dubbio che fintantoché gli si darà ancora un barlume di credito questo sistema continuerà a raccontare, tramite “cacciatori di bufale” stipendiati, che personaggi come Auriti sono dei pazzi, dei sobillatori dell’ordine pubblico e, ça va sans dire, degli apripista di un “nuovo Fascismo” quale Male Assoluto.
Ciascuno è libero di credere a quel che vuole, s’intende. Che tutto vada bene, anzi benissimo, e che là fuori dal recinto della “cultura ufficiale” (cioè quella che ha libero accesso ai “salotti” buoni, quelli veri e propri e quelli virtuali) ci siano solo dilettantismo e paranoia. Non è nemmeno questo il punto fondamentale e non ci nascondiamo neppure il fatto che così come esistono difensori pagliacceschi e screditati dell’ordine costituito ve ne sono altri, nell’opposto campo, variamente “fissatisi” con le loro idee “alternative” ed identificati con esse ad un punto tale da farsene una malattia.
La questione – come accennavamo – concerne la natura di questo potere, che risalta qua e là, nei vari domini (religioso, politico, economico, culturale ecc.), a chi la sa cogliere affinando la propria “vista”. Il seme, si sa, si giudica dai frutti, e già il tipo umano che va sempre più diffondendosi perché adeguatosi alle “mode” incoraggiate dal potere stesso è un serio campanello d’allarme per chi sa e vuole “vedere”. Il resto è tutto una conseguenza, dai “modelli” politici, economici e culturali, invariabilmente indiscutibili quali “verità rivelate”, alle manifestazioni di un’arte moderna che si risolve sempre più nell’esatto contrario delle premesse dell’attività artistica.
Concludendo con una battuta, si potrebbe dire che tutto ciò che promana da questo potere è falso, persino la famosa “bufala”, intendendo quella vera, ovverosia la mozzarella, se con ciò si considera l’inquietante e mai vista prima diffusione delle sofisticazioni alimentari. Sopportate fintantoché non ci scappa direttamente il morto solo perché l’essere umano moderno ha barattato la quantità con la qualità, il concetto tradizionale di “salute” con quello capitalistico di “benessere”.
Più che dalle “bufale su web” non sarebbe dunque più sensato stare in guardia da quelle che il sistema stesso ci propina a tavola e, soprattutto,  instilla capillarmente nelle menti e nei cuori di tutti noi?
di Enrico Galoppini – 27/01/2017 – Fonte: Il Discrimine