Non la Nato, ma la sinistra è «obsoleta»

formiche-difesa-European-Leadership-NetworkAutorevoli voci della sinistra europea si sono unite alla protesta anti-Trump «No Ban No Wall», in corso negli Stati uniti, dimenticando il muro franco-britannico di Calais in funzione anti-migranti, tacendo sul fatto che all’origine dell’esodo di rifugiati ci sono le guerre a cui hanno partecipato i paesi europei della Nato.
Si ignora il fatto che negli Usa il bando blocca l’ingresso di persone provenienti da quei paesi – Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan, Yemen, Iran – contro cui gli Stati uniti hanno condotto per oltre 25 anni guerre aperte e coperte: persone alle quali sono stati finora concessi i visti d’ingresso fondamentalmente non per ragioni umanitarie, ma per formare negli Stati uniti comunità di immigrati (sul modello di quella dei fuoriusciti cubani anti-castristi) funzionali alle strategie Usa di destabilizzazione nei loro paesi di origine.
I primi ad essere bloccati e a intentare una class action contro il bando sono un contractor e un interprete iracheni, che hanno collaborato a lungo con gli occupanti statunitensi del proprio paese.
Mentre l’attenzione politico-mediatica europea si focalizza su ciò che avviene oltreatlantico, si perde di vista ciò che avviene in Europa. Il quadro è desolante.
Il presidente Hollande, vedendo la Francia scavalcata dalla Gran Bretagna che riacquista il ruolo di più stretto alleato degli Usa, si scandalizza per l’appoggio di Trump alla Brexit chiedendo che l’Unione europea (ignorata dalla stessa Francia nella sua politica estera) faccia sentire la sua voce. Voce di fatto inesistente quella di una Unione europea di cui 22 dei 28 membri fanno parte della Nato, riconosciuta dalla Ue quale «fondamento della difesa collettiva», sotto la guida del Comandante supremo alleato in Europa nominato dal presidente degli Stati uniti (quindi ora da Donald Trump).
La cancelliera Angela Merkel, mentre esprime il suo «rincrescimento» per la politica della Casa Bianca verso i rifugiati, nel colloquio telefonico con Trump lo invita al G-20 che si tiene in luglio ad Amburgo. «Il presidente e la cancelliera – informa la Casa Bianca – concordano sulla fondamentale importanza della Nato per assicurare la pace e stabilità».
La Nato, dunque, non è «obsoleta» come aveva detto Trump. I due governanti «riconoscono che la nostra comune difesa richiede appropriati investimenti militari».
Più esplicita la premier britannica Theresa May che, ricevuta da Trump, si impegna a «incoraggiare i leader europei miei colleghi ad attuare l’impegno di spendere il 2% del Pil per la difesa, così che il carico sia più equamente ripartito». Secondo i dati ufficiali del 2016, solo cinque paesi Nato hanno un livello di spesa per la «difesa» pari o superiore al 2% del Pil: Stati uniti (3,6%), Grecia, Gran Bretagna, Estonia, Polonia.
L’Italia spende per la «difesa», secondo la Nato, l’1,1% del Pil, ma sta facendo progressi: nel 2016 ha aumentato la spesa di oltre il 10% rispetto al 2015. Secondo i dati ufficiali della Nato relativi al 2016, la spesa italiana per la «difesa» ammonta a 55 milioni di euro al giorno.
La spesa militare effettiva è in realtà molto più alta, dato che il bilancio della «difesa» non comprende il costo delle missioni militari all’estero, né quello di importanti armamenti, tipo le navi da guerra finanziate con miliardi di euro dalla Legge di stabilità e dal Ministero dello sviluppo economico. L’Italia si è comunque impegnata a portare la spesa per la «difesa» al 2% del Pil, ossia a circa 100 milioni di euro al giorno. Di questo non si occupa la sinistra istituzionale, mentre aspetta che Trump, in un momento libero, telefoni anche a Gentiloni.
di Manlio Dinucci – 01/02/2017
Fonte: Il Manifesto

La stretta di Trump sull’immigrazione? Chiedete a Obama

Usaimm 2I sette paesi elencati nell’ordine esecutivo del presidente sono esattamente quelli usciti da una selezione fatta in due tempi dall’amministrazione precedente

Espulsioni immigrati USA

Il muro di Trump? Ask Obama. In preda alle convulsioni, i leoni e le pantere da tastiera ieri chiedevano con un tono da caccia alle streghe: come mai Trump ha scelto quei sette paesi?  Come mai eh? Perché non c’è l’Arabia Saudita? E chi ha deciso quella lista? Nel frastuono degli scolapasta che crollavano miseramente dalla testa degli intelligenti a prescindere, s’è levata una risposta: “Ask Obama”.

I sette paesi elencati nell’ordine esecutivo del presidente Trump sono esattamente quelli usciti da una selezione fatta in due tempi dall’amministrazione Obama durante l’attuazione del Terrorist Travel Prevention Act nel 2015 e nel 2016. So, boys, ask Obama.

Ma i fatti sono del tutto irrilevanti in questa storia, l’isteria liberal domina la scena, i giornali fanno la ola, le televisioni ci inzuppano il biscotto e via così in uno show dove i fatti sono del tutto secondari. Fu lo stesso Obama nel 2011 a fermare gli ingressi di rifugiati dall’Iraq in attesa di una revisione delle misure di sicurezza. Dettagli. E d’altronde il numero di rifugiati siriani accolto dall’amministrazione Obama dice tutto sulla lungimiranza con cui fu affrontato il problema dalla Casa Bianca. Ecco l’accoglienza riservata ai siriani dal 2011 al 2016 da parte del governo guidato dal premio nobel per la pace:

Obama dal 2011 al 2015 ha accolto in totale 1.883 profughi siriani, una stratosferica media di 305 all’anno.

Nel 2016, dopo aver fallito la guerra in Siria e spostato la proxy war clintoniana in archivio, preso dai sensi di colpa, dopo 5 anni di guerra, 400 mila morti, 4 milioni di rifugiati, Obama alza il tetto per i siriani alla stellare cifra di 13 mila unità, il totale fa circa 15 mila.

Di fronte a un impegno umanitario di così grande portata, con quel retroterra, i democratici oggi fanno piangere la statua della libertà per le decisioni dell’amministrazione Trump. Il premio faccia di bronzo è vinto a tavolino. I numeri, i fatti, le cifre, la realtà sono un incidente di percorso sulla via dello storytelling e dello spin sulle masse prive di neuroni.

E’ la solita storia, quella della mostrificazione dell’avversario: durante la campagna presidenziale, quando Trump disse di voler espellere 3 milioni di clandestini dagli Stati Uniti, si sollevò la voce vibrante d’indignazione del Coro del Progresso per dire che no, non si doveva fare, e The Donald era un pericolo per l’umanità.

Anche in quel caso nessuno si prese cura di dare un’occhiata alle espulsioni dell’era Obama. Le pubblicammo su List, rieccole, la fonte è la Homeland Security:

Calcolatrice: 359,795+391,438+381,962+386,423+417,268+435,498+414,481 = 2.786.865

Obama ha espulso quasi tre milioni di clandestini e manca ancora il conteggio del biennio 2015-2016 che farà schizzare il dato ben oltre le dichiarazioni roboanti dell’allora candidato repubblicano. Il programma sull’immigrazione di Trump era (è) inadeguato rispetto agli standard democratici.

Trump dovrebbe mandare a casa il suo capo della comunicazione e una serie di funzionari che non hanno dato istruzioni chiare per attuare il suo provvedimento sull’immigrazione. Il suo sbarramento di ordini esecutivi è legale, coerente con il suo programma elettorale, ma l’esecuzione mostra i limiti dettati dalla fretta di plasmare da subito la sua amministrazione nei primi cento giorni di governo. Rallentare

Giornali italiani. Il coro replica l’esibizione sui quotidiani. Un mondo a una dimensione, o quasi. Il primo caffè della giornata va giù con la lettura del Corriere della Sera: “Rivolta contro il bando di Trump”.

Repubblica sbriga la pratica così: “Trump solo contro tutti”. La Stampa non ci casca, punta saggiamente l’apertura sulle primarie dei socialisti in Francia (ha vinto la sinistra radicale, ragazzi), ma il titolo è sempre quello: “Immigrazione, rivolta contro Trump”.

Il caffè ar vetro e Il Messaggero non portano nulla di nuovo: “Migranti, un muro anti-Trump”. Il Giornale esce dal coro, ma sempre di mattoni si parla: “Muro buonista contro Trump”. Il Mattino fa lo stesso titolo del Messaggero: “Immigrati, rivolta anti-Trump”. Il Gazzettino imita il Mattino: “Stop ai migranti, rivolta anti-Trump”. Il Secolo XIX fa un titolo da assemblea sindacale: “Immigrati, mobilitazione contro Trump”. Carlino-Nazione-Giorno entrano nella fase generale Custer a Little Big Horn: “Rifugiati, Trump assediato”. Hanno impaginato e titolato il cuore grande dell’uomo europeo, quello che oggi protesta contro Trump e ieri ha staccato un assegno da tre miliardi di euro in favore di quel sincero democratico di Erdogan per fare il lavoro sporco alla frontiera con la Siria. Dettagli.

 di Mario Sechi – 31/01/2017 – Fonte: Il Foglio

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=58222

Trump e Starbucks tra il bene e il male

slaverySe prendiamo un minimo di distanza critica da quanto sta avvenendo negli Usa e osserviamo il braccio di ferro tra Donald Trump e i suoi avversari, dobbiamo riconoscere che gli schieramenti sono delineati a perfezione e disposti secondo una logica assoluta.
Prima, però, sgombriamo il campo da un equivoco. L’opinione pubblica americana non è quella marea di buoni sentimenti e di braccia aperte ai migranti che i giornali che non amano Trump (cioè, quasi tutti) si impegnano a raccontarci. In un sondaggio del Pew Research Center svolto nell’ottobre 2016, in piena campagna per le presidenziali, il 54% degli elettori registrati (quelli davvero intenzionati a votare, i più impegnati) disse di non sentire alcun dovere morale nei confronti dei profughi siriani, mentre solo il 41% affermò il contrario.
E la stessa percentuale di elettori disse che gli Usa dovevano badare ai propri problemi e lasciare che gli altri Paesi risolvessero i loro da soli, contro un 42% che pensava il contrario. Quindi è assai probabile che, a proposito delle decisioni di Donald Trump, stiamo assistendo al solito fenomeno dei diversi rumori: l’albero che cade produce più fragore della foresta che cresce.
Questo serve anche a spiegare perché vi sia una precisa geometria nel contrasto tra il Presidente e vasti strati della società Usa, contrasto che mette in scena culture ma anche interessi ben contrapposti. Guardiamo le aziende più celebri tra quelle che, in un modo o nell’altro, hanno preso posizione contro The Donald, ovvero Starbucks, Airbnb, Google, Nike.
Emblematiche le parole di Mark Parker, amministratore delegato di Nike: «Crediamo in un mondo dove tutti possono celebrare il potere della diversità». Bello, ma falso. Se così fosse, perché queste aziende vogliono vendere a tutti, in ogni parte del mondo, lo stesso prodotto? Le stesse scarpe, gli stessi caffè, in India come in Sudafrica, a Milano come a Timbuktu? Queste aziende rappresentano storie di successo della globalizzazione che, come il termine stesso indica, vuole appiattire le differenze, non esaltarle.
Vuole creare un unico consumatore globale, che ha gli stessi gusti e le stesse esigenze in qualunque Paese si trovi. Uniformità, altro che diversità.
Tutto questo lo diciamo con spirito laico, senza alcun intento demonizzatore. E intimi alla globalizzazione sono aziende come Google e Airbnb, che vendono un bene materiale e immateriale allo stesso tempo, uguale per tutti. Che sarebbe di queste grandi imprese se la Rete non fosse globale, se spostarsi per il globo non fosse facile, se la Rete non permettesse di comunicare con chi vogliamo quando vogliamo?
È, appunto, la globalizzazione nelle sue espressioni più dinamiche, innovative e creative. Un fenomeno che critichiamo e apprezziamo nello stesso tempo. Ma Trump e i suoi 59,8 milioni di elettori non è a questo mondo che guardano. Davvero nessuno ha notato che i primi manager e imprenditori da lui ricevuti alla Casa Bianca sono stati quelli di un’industria tradizionale come quella dell’automobile?
Trump ha in testa l’operaio, l’agricoltore, il piccolo imprenditore, il bottegaio, l’industriale che produce beni solidi, categorie per cui la globalizzazione è un problema più che un’opportunità. Gente che vede nello straniero in arrivo un fastidio da gestire più che un fratello da abbracciare. I Millennials, la «generazione Erasmus», per dirla con categorie nostre, che sono il riferimento di Nike e Starbucks, per Trump sono solo i figli dei suoi elettori. E basta dare un’occhiata ai flussi elettorali per rendersene conto: l’elettore-tipo di Trump è un maschio bianco che ha più di 40 anni, un reddito medio e vive in centri medi o piccoli, quando non addirittura rurali. Ed è stato impoverito dallo sprofondo della finanza globalizzata per il quale nessuno ha poi davvero pagato.
In tutto questo, molti vedono la lotta tra nuovo e vecchio, bene e male, futuro e passato, progresso e conservazione. È una lettura possibile, forse anche giustificata ma semplicistica. Starbucks dice di voler assumere iracheni che abbiano collaborato con le forze armate americane, ma non spiega dov’era quando nel 2004 i profughi iracheni, travolti dall’invasione Usa, erano agli ultimi posti nella graduatoria dei rifugiati accolti dagli Usa. Né Trump chiarisce quanto petrolio si debba estrarre in un Paese che è già il primo produttore del mondo, né quante automobili possano ancora circolare. Quando si scontrano gli interessi, anche il bene e il male diventano più difficili da riconoscere.
di Fulvio Scaglione – 31/01/2017
Fonte: Fulvio Scaglione

Attenti, arriva la censura: Google punisce il blog di Messora

messoraQuanto sta avvenendo in queste ore a Claudio Messora, autore del blog ByoBlu, è grave. Google AdSense gli ha comunicato l’interruzione immediata e irrevocabile del proprio servizio.
Cos’è Google AdSense? Semplifico al massimo per i non addetti ai lavori: è la pubblicazione automatica di inserzioni pubblicitarie  che garantisce un introito a chiunque sia disposto ad ospitarle. Più traffico, più pubblicità: gli importi sono minimi ma servono a garantire un po’ di redditività sia ai singoli utenti sia ai gruppi editoriali, che a loro volta ne fanno uso.
Claudio Messora, qualche ora fa, ha annunciato di aver ricevuto un’email da Google in cui viene accusato di aver pubblicato una “fake news” e in cui si annuncia la cancellazione immediata e non contestabile di AdSense. Naturalmente Google non dice a quale titolo si arroghi il diritto di discriminare tra notizie false e vere.
E sapete qual è la “fake news” imputata a ByoBlu? Il filmato di un intervento dell’onorevole Lupi tratto dal sito della Camera dei deputati italiani e pubblicato senza commenti sul blog!
Voi direte? Messora scherza e Foa ci è cascato.
Niente affatto: tutto vero. L’arbitrarietà della decisione di Google è scandalosa ma non sorprendente. I blog, i siti alternativi e i social media hanno svolto un ruolo decisivo nelle campagne referendarie sulla Brexit nel Regno Unito e sulla riforma costituzionale in Italia; e soprattutto  alle presidenziali statunitensi contribuendo alla vittoria di Trump.
Come ebbi modo di spiegare qualche mese fa, l’influenza della cosiddetta informazione alternativa ha assunto proporzioni straordinarie, approfittando della disillusione popolare nei confronti di troppe grandi testate tradizionali, che col passare degli anni hanno perso la capacità interpretare le necessità di una società in continua evoluzione, ammansendo il proprio ruolo di cane da guardia della democrazia, per eccessiva vicinanza al governo e alle istituzioni.
Non tutte le testate, sia chiaro e non in tutti i Paesi: ma in misura tale da generare una frattura fra sé e il pubblico, come dimostra il fatto che la grande maggioranza dei media inglesi era favorevole al Remain e che la totalità dei media sosteneva Hillary ed è stata incapace di prevedere la vittoria di Trump .
Un’onda si è alzata e spinge milioni di lettori a cercare fonti alternative sul web; alcune di qualità, altre meno, alcune credibili altre no, come peraltro è naturale e legittimo in democrazia.
Un’onda che l’establishment, soprattutto quello anglosassone, che è il più influente nella nostra epoca ora cerca di fermare. E nel peggiore dei modi.  La crociata avviata negli Usa e in Gran Bretagna contro fake news  e post verità è chiaramente strumentale ed è stata solertemente recepita in Europa (la risoluzione approvata dal Parlamento Ue contro la propaganda russa rientra in questa corrente) e in alcuni Paesi europei tra cui l’Italia, dove il presidente della Camera dei deputati  Laura Boldrini recentemente ha annunciato l’avvio di una campagna contro le bufale sul web.
Annunci che sono serviti a preparare l’opinione pubblica. Ora si passa dalle minacce ai fatti, attraverso i due Grandi Fratelli del web. Facebook, che ha già cominciato a segnalare come “pericolosi” alcuni blog (ad esempio, ma non è l’unico, quello di Maurizio Blondet), e Google che toglie ai siti anticonformisti la possibilità di finanziarsi, prendendo a pretesto , con sprezzo del ridicolo, proprio un post in cui viene diffuso un frammento di un dibattito del Parlamento presieduto dalla stessa Boldrini, quanto di più innocente e di ovvio ci sia in democrazia.
Resta il fatto che Google si arroga il diritto di giudicare e di censurare un sito libero, per ora solo finanziariamente. Domani, chissà.
Vi invito a guardare questo video di Messora, sono sei minuti di ottimo giornalismo. Giudicate voi.
E’ in pericolo la libertà di pensiero e di espressione. Io esprimo a Claudio Messora tutta la mia solidarietà. E la mia indignazione.
di Marcello Foa – 29/01/2017
Fonte: Marcello Foa
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=58208

Contestano Trump anche quando fa come Obama

all immigrantsIl primo strepito della giornata di ieri arriva quando i media americani ed europei annunciano che Donald Trump ha rimosso dall’incarico il ministro della giustizia, Sally Yates, per il suo rifiuto di applicare il bando restrittivo sull’immigrazione ai sette paesi arabi indicati nell’ordine esecutivo del Presidente. Prima di commentare il merito del provvedimento e di come esso non sia in realtà senza precedenti nella storia recente americana, è opportuno ricordare che la Yates è un ministro uscente nominato da Obama – il ministro della giustizia indicato da Trump, Jeff Sessions, è in attesa della ratifica della sua nomina dal Senato – ed è andata espressamente contro un ordine presidenziale perfettamente legale dal punto di vista giuridico.
Stupiscono anche in questo senso le ingerenze dell’Onu che è arrivata a dichiarare l’illegalità del bando, in un’intromissione quantomeno anomala se si pensa che in passato essa ha taciuto di fronte alle vere violazioni del diritto internazionale commesse dagli Stati Uniti, ma all’epoca evidentemente i diritti umani non erano così prioritari come lo sono ora con Trump.
SICUREZZA INTERNA
Ma tornando al merito della questione, è corretto affermare che la decisione del Presidente sia senza precedenti nella storia americana? La prima cosa importante da dire su questo punto è che l’idea di porre delle restrizioni sull’immigrazione per i sette Paesi interessati dal bando restrittivo (Iraq, Iran, Siria, Yemen, Somalia, Libia e Sudan) non è una idea di Trump, ma del suo predecessore, Barack Obama.
Nel 2015 Obama infatti firma la legge sul programma di miglioramento per il rilascio dei visti (Visa Waiver Program Improvement), e la legge sulla prevenzione del terrorismo per i viaggi negli Usa (Terrorist Travel Prevention Act).
Nel sito del dipartimento della sicurezza interna (Department of Homeland Security) si legge che «il dipartimento per la sicurezza interna rimane preoccupato per la situazione in Siria e in Iraq, così instabili da attirare migliaia di combattenti stranieri, inclusi molti interessati dalla legge in questione (il Vwp). Questi soggetti potrebbero viaggiare negli Stati Uniti per compiere delle operazioni sia per proprio conto sia sotto la direzione di gruppi estremisti violenti». Quindi come si vede la restrizione posta da Trump era in parte già stata anticipata dall’amministrazione Obama che aveva individuato nell’immigrazione da questi paesi una fonte di rischio per la sicurezza nazionale.
La critica legittima che si può fare al provvedimento è semmai l’inclusione dell’Iran nella lista, considerato che l’Iran sta contribuendo attivamente in Siria e in Iraq nella lotta al terrorismo islamico, e l’esclusione dell’Arabia Saudita, uno dei Paesi che ha sfornato più terroristi negli ultimi anni, compresi i responsabili dell’11 settembre.
Ad ogni modo parlare di un atto discriminatorio rivolto contro le persone di religione musulmana è del tutto fuorviante. I media, come al solito, stanno raccontando falsità.
Veniamo ora all’aspetto più strettamente legale del provvedimento. Alcuni osservatori hanno rilevato l’illegalità dell’ordine esecutivo del Presidente, contestando la sua incostituzionalità e il suo carattere discriminatorio dal momento che restringe l’immigrazione solamente per i paesi citati sopra. Come detto, il provvedimento non è motivato da motivi religiosi e se si dà uno sguardo alla legge sull’immigrazione federale statunitense (legge 1182 sezione f), viene specificato che «qualora il Presidente ritenga che l’ingresso di stranieri di ogni tipo e classe sia dannoso per gli interessi degli Stati Uniti può, con un atto esecutivo e per il periodo che riterrà necessario, sospendere l’ingresso di tutti gli stranieri di qualsiasi tipo sia che siano immigrati o non immigrati, o imporre sull’ingresso di stranieri qualsiasi altra restrizione che ritenga appropriata». Come si vede, tutto quello fatto da Trump è perfettamente legale e non viola in alcun modo la Costituzione americana.
ORDINE ESECUTIVO
Nonostante questo il giudice federale di New York, Ann Donnelly, ha accolto il ricorso dell’Aclu (American Civil Liberties Union) l’associazione per i diritti civili americana, riguardo all’espulsione di immigrati provenienti dai paesi che riguardano l’ordine esecutivo di Trump. Il giudice Donnelly è stato nominato da Obama, e fino ad ora né le associazioni dei diritti civili americane né la magistratura avevano mai sollevato obiezioni sul fatto che le pratiche per ottenere lo status di rifugiato andassero avanti per anni. Ad ogni modo l’ordine esecutivo di Trump resta in vigore, e parlare di proteste spontanee è piuttosto grottesco dal momento che l’Aclu risulta essere stata finanziata da Soros con 50 milioni di dollari nel 2014.
A questo punto sembra legittimo chiedersi, come mai dietro queste associazioni umanitarie si annidano sempre i rappresentanti della peggiore finanza speculativa?
di Paolo Becchi e Cesare Sacchetti – 01/02/2017

La guerra di Hezbollah in Siria

Hezbollah siriaNel sanguinoso groviglio della guerra civile che da oltre cinque anni sconvolge la Siria, l’organizzazione militante libanese di Hezbollah è riuscita progressivamente a ritagliarsi un ruolo importante. Il “Partito di Dio” guidato da Hassan Nasrallah ha infatti intensificato nel corso dei mesi una presenza attiva sul campo dispiegata a partire dalla seconda metà del 2012 nell’ambito della coalizione sciita, diretta conseguenza del supporto accordato al governo di Damasco e al suo alleato iraniano sin dall’inizio delle ostilità.
Hezbollah ha mantenuto costantemente dispiegata una forza militare compresa tra i 6000 e gli 8000 uomini nel governatorato di Rif Dimashq, prossimo ai confini con il Libano, che è stata coinvolta in sanguinose battaglie come quella del distretto di Al Qusayr nel 2013, nel corso della quale il “Partito di Dio” ha patito oltre 140 perdite. Ulteriori uomini sono stati garantiti in supporto alle forze lealiste ed iraniane schierate nel Nord della Siria ed impegnate nella battaglia di Aleppo.
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Le forze di Hezbollah sono state addestrate ed armate dalle Guardie della Rivoluzione iraniane e irreggimentate in strutture tattiche più all’avanguardia rispetto al passato grazie all’operato di comandati delle forze della Repubblica Islamica come Qasem Soleimani, che ha inquadrato più volte i combattenti libanesi nella sua Quds Force.
Nel corso della sua partecipazione al conflitto, Hezbollah ha pagato un sanguinoso tributo di sangue: il corrispondente dell’agenzia Reuters Luke Baker ha riferito infatti che gli uomini del “Partito di Dio” uccisi in Siria sarebbero stati oltre 1600. Numerosi importanti comandanti del gruppo hanno perso la vita nel corso delle operazioni: tra questi si segnalano Samir Kuntar, comandante di etnia drusa ucciso a Damasco nel dicembre 2015, che Hezbollah accusa esser stato vittima di un raid israeliano, e il leader militare Mustafa Badreddine, vittima di un raid di artiglieria dei ribelli nei pressi dell’aeroporto della capitale siriana lo scorso 14 maggio.
Le cifre riguardanti gli effettivi dispiegati e le perdite patite da Hezbollah in Siria vanno confrontate con quelle concernenti l’organizzazione nel suo complesso, i cui militati ammontano complessivamente a circa 45.000 unità; inoltre, buona parte delle truppe dispiegate nel teatro siriano sono state selezionate tra le unità più efficienti ed organizzate di Hezbollah, ed affiancate da unità costituite da combattenti meno addestrati inviati in Siria per compiere il servizio del murabata, ovverosia l’obbligo per ogni militante del “Partito di Dio” di trascorrere almeno quindici giorni all’anno su un fronte di combattimento.
La partecipazione alla guerra civile in Siria ha sinora portato Hezbollah ad impegnarsi nello sforzo militare di maggior ampiezza della sua storia; i risultati sinora ottenuti sono stati in ogni caso significativi e numerosi analisti e studiosi di geopolitica si sono interrogati sulle conseguenze di lungo termine che la campagna in supporto del Presidente siriano Bashar Al Assad produrrà sul “Partito di Dio”.
Ampio e degno di nota è senz’altro il resoconto di Nadav Pollak, fellow al Washington Institute for Near East Policy (WINEP). Egli ha descritto dettagliatamente come la campagna siriana abbia portato all’evoluzione della tattica militare di Hezbollah, sino a pochi anni fa incentrata essenzialmente sulla dottrina del muquawa (“resistenza”) applicata nel corso dei passati conflitti contro Israele e basata su tattiche di guerriglia e su azioni “mordi e fuggi” condotte con il supporto di batterie di obici mobili. Più volte le forze di Hezbollah hanno combattuto a viso aperto sul terreno, dimostrando un’elevata capacità di integrazione con le truppe siriane ed iraniane e acquisendo rapidamente dimestichezza con la coordinazione degli attacchi terrestri coi raid delle forze aeree russe. La qualità del braccio armato del “Partito di Dio” come forza combattente è complessivamente migliorata, e come sottolineato da Pollak ciò non è sfuggito ai vertici militari israeliani, che riconoscono in Hezbollah uno dei principali nemici strategici di Tel Aviv nella regione.
I risultati politici conseguiti da Hezbollah negli ultimi anni sono degni di nota, seppure contraddittori. Di certo vi è un dato di primaria importanza: il coinvolgimento nella guerra civile siriana ha indotto un salto di qualità nelle prospettive geopolitiche di Hezbollah, passato in pochi anni dallo status di organizzazione militante di natura paramilitare a quello di gruppo rodato e temprato da esperienze sul campo, nonché al tempo stesso forte del supporto di un attore regionale dinamico come l’Iran e del sostegno diretto della Russia alla coalizione in cui esso è inquadrato.
Pollak ritiene notevole la capacità dimostrata da Hezbollah nel ritagliarsi una sua specifica nicchia di interessi e nel proteggerli in maniera prolungata, e sostiene che il supporto accordato ad Assad abbia messo al sicuro per gli anni a venire la continuità del sostegno iraniano all’organizzazione.
Il coinvolgimento di Hezbollah nella lotta del fronte sciita in Siria, inoltre, ha pagato lauti dividendi sul piano interno al Libano. Le dichiarazioni di sostegno al governo e al popolo siriano pronunciate dal Sayyid Nasrallah hanno infatti sottointeso in continuazione un messaggio implicito diretto ai cittadini libanesi: l’impegno di prima linea di Hezbollah in Siria è stato presentato come un coinvolgimento necessario a tenere la guerra lontana dal Libano, oggetto nel corso degli anni di diversi scontri dovuti a sconfinamenti da parte di unità dello Stato islamico o del gruppo Al Nusra. L’esercito regolare libanese e gli uomini di Hezbollah hanno collaborato per eliminare le enclave jihadiste costituitesi all’interno del Paese, e Nasrallah ha pubblicamente dichiarato la volontà di Hezbollah di procedere al completo debellamento del sedicente Califfato in un infuocato discorso trasmesso dalla televisione libanese l’11 giugno 2015.
Al tempo stesso, tuttavia, non mancano criticità di primo piano connesse al coinvolgimento crescente di Hezbollah in Siria: innanzitutto, esiste il rischio che sul lungo periodo l’elevato guadagno in termini di consensi e popolarità conquistato dal “Partito di Dio” per il suo forte impegno contro le organizzazioni terroristiche possa venire eroso dall’insorgenza di un sentimento di stanchezza dovuto al prolungarsi del conflitto, all’aumento dei costi umani ed economici dell’intervento in Siria e alla perdita del supporto della popolazione civile causato dalla diminuzione degli interventi “sociali” di Hezbollah. Non bisogna infatti dimenticare come la piattaforma di consenso del “Partito di Dio” sia stata edificata grazie alla capacità dimostrata dal gruppo nel sopperire alle carenze dell’autorità centrale libanese operando un programma di assistenza sociale ed economica oltre che di protezione militare alle comunità, soprattutto sciite, del Libano sud-orientale.
Un’ulteriore problematica concerne le reali capacità di Hezbollah di sostenere il ruolo geopolitico di maggior rilievo che sta arrivando progressivamente a ricoprire negli anni a venire: il complesso sistema di relazioni internazionali del “Partito di Dio”, in un contesto frammentato come quello del Medio Oriente contemporaneo, non aiuta certamente a fare chiarezza. Se infatti Stati Uniti, Israele, Canada, Francia, Paesi Bassi, Australia e la Lega Araba riconoscono Hezbollah come un’organizzazione terroristica a tutti gli effetti, la Russia ha dimostrato tanto sotto il profilo diplomatico quanto sul piano operativo di riconoscere un legittimo interlocutore nella formazione guidata da Hassan Nasrallah, mentre la Cina, pur non sbilanciandosi né in un senso né nell’altro, mantiene contatti formali attraverso il corpo diplomatico in Libano. Allo stato attuale delle cose, la rilevanza strategica nello scenario internazionale di Hezbollah è superiore a quella delle legittime istituzioni libanesi, ma ciò è legato all’andamento del conflitto siriano e all’elevata variabilità della geometria delle alleanze, che favorisce un sistema “liquido” e offre spazi di manovra a organizzazioni parastatali come Hezbollah.
Il “Partito di Dio” si trova dunque nella condizione di dover gestire in maniera equilibrata i cospicui risultati di portata organizzativa, politica e strategica conseguiti nel corso dell’intervento diretto in Siria in supporto alle forze lealiste. Sul lungo periodo, sarà probabilmente l’andamento del conflitto nei prossimi mesi a determinare le capacità di capitalizzazione di Hezbollah: la tenuta della posizione peculiare che il gruppo è venuto a occupare, infatti, sarà sicuramente connessa alla capacità della coalizione sciita di sfruttare a proprio vantaggio l’inerzia favorevole venutasi a creare nel teatro bellico siriano e di addivenire a una conclusione favorevole del conflitto. La partita successiva riguarderà il Libano: Hezbollah dovrà essere in grado di adattare la sua mutata struttura al nuovo contesto socio-politico interno, contribuendo a garantire stabilità a una nazione travagliata continuando a lavorare sulla sintonia col governo centrale di Beirut sviluppatasi a partire dal comune impegno nel contrasto alle infiltrazioni jihadiste avviato nel 2014.
Fonte: Gli occhi della guerra
di Andrea Muratore – 11/01/2017