L’EUROZONA NON SI CAMBIA DALL’INTERNO: È PROGETTATA PER PRODURRE DISUGUAGLIANZA

tutto giusto, a parte la fantomatica uscita dell’euro gestita da sinistra, come se fosse qualcun altro a gestirla sarebbe assolutamente “sconveniente”. E come si potrebbe dare fiducia  alle sinistre che hanno propagandato euro e europa senza se e senza ma per DECADI, senza contare che le cosiddette “radicali” tipo Tsipras si professano contro l’austerità ma a favore dell’euro e non ha certo esitato nello scegliere da che parte stare.
  
eurozona
settembre 15 2016
 
Riportiamo un ampio estratto di un’intervista dal sito americano di sinistra Jacobin. L’economista Ioakimoglou spiega come Syriza si è trasformata da salvatrice a boia del popolo greco, e come l’eurozona sia uno strumento di disuguaglianza sociale impossibile da “riformare”, perché costruito proprio a questo scopo. Nonostante i danni compiuti, ancora oggi la salvezza potrebbe arrivare dall’uscita da questa macchina infernale, mettendo in atto i giusti strumenti di tutela delle classi più colpite dalla crisi, grazie al recupero dei propri strumenti di politica economica, a partire dalla flessibilità del tasso di cambio.
 
Di Elias Ioakimoglou e George Souvlis
 
Ormai, la storia della resa incondizionata di Syriza alle istituzioni creditrici europee è arcinota.
 
Syriza è arrivata al potere nel gennaio 2015 col mandato di resistere all’austerità. Al contrario, il partito ha ceduto alle pressioni della troika, e ha accettato misure di austerità più dure, distruggendo le speranze dei suoi sostenitori.
 
In questa intervista con George Souvlis, l’economista Elias Ioakimoglou descrive la conseguente crisi che continua a tormentare la Grecia più di un anno dopo. […]
 
Il Governo Syriza/Greci Indipendenti (ANEL) si è rivelato assolutamente incapace di invertire l’austerità — al contrario, le politiche neoliberiste sono continuate e perfino intensificate. Aveva ragione il primo ministro Alexis Tsipras quando sosteneva che non c’è alternativa alla costante austerità in Grecia?
 
Non era compito di Tsipras decidere se ci fosse un’alternativa. Il referendum è avvenuto al momento cruciale dei negoziati, che dovevano decidere se proseguire con l’austerità – una via che aveva aumentato la disuguaglianza, distrutto il welfare e ridotto drammaticamente i salari e le pensioni mentre distruggeva le protezioni sociali.
 
La risposta del popolo greco è stata chiara quanto la domanda – il 61,5% ha votato contro l’austerità. Disponendo ora di analisi statistiche, sappiamo ormai che molti settori della società greca hanno votato “no” compatti: i lavoratori del settore “business”, i dipendenti pubblici, i lavoratori precari, i disoccupati, i giovani e i poveri. Tutte queste categorie sociali hanno votato “no” con percentuali tra l’80 e il 90%.
 
D’altro canto, le categorie sociali ad alto reddito – che possiedono capitali e ricchezza – hanno votato a grande maggioranza “sì”.
 
In breve, coloro che traevano beneficio dall’austerità e dalle riforme strutturali hanno votato “sì”, mentre coloro che ne subivano le conseguenze hanno votato “no”. C’è stata una divisione molto netta: la settimana prima del referendum è stata uno di quei momenti storici dove la scissione tra classi sociali era materialmente visibile, perfino ad occhio nudo.
 
Il blocco di classi sociali al potere è entrato nell’arena elettorale per difendere apertamente, senza alcun paravento ideologico, il proprio immediato interesse di classe – il “diritto” di vivere di rendita, di vivere sfruttando il lavoro altrui.
 
Questo blocco include i grandi capitalisti, i banchieri, gli industriali e gli azionisti, i dirigenti delle grandi aziende e delle grandi imprese finanziari, così come i proprietari di aziende più modeste che ora possono pagare stipendi dimezzati rispetto al 2010 grazie alla svalutazione interna e alle riforme del mercato del lavoro; le persone anziane che si affidano alla loro ricchezza accumulata. In questo gruppo ci sono anche i giornalisti della grande stampa, i burocrati di alto livello, coloro che vivono di rendita, e gli intellettuali e artisti neoliberisti.
 
La presenza di questo potente blocco sociale si è fatta parecchio sentire, non solo con dimostrazioni e alla TV ma anche sui posti di lavoro – gli impiegati sono stati spesso minacciati apertamente di poter perdere il lavoro se il “no” avesse prevalso.
 
Questa palese esibizione di interessi e forza bruta da parte dei capitalisti ha coagulato la formazione di un blocco sociale anti-austerità molto unito, composto dalla classe dei lavoratori, dei precari, e dei disoccupati – in pratica, i giovani e i poveri. […]
 
Questo blocco anti-austerità ha votato “no” nonostante tutte le minacce e prepotenze, sfidando il rischio di essere licenziati e gettati nella miseria di un paese espulso da un’ambiente economico ritenuto stabile e sicuro come l’eurozona.
 
Il compito di Tsipras era di seguire il volere della maggioranza, non di decidere se esistesse o no un’alternativa. Invece ha condotto il suo paese alla prigionia debitoria. Aveva promesso di vincere la battaglia all’austerità europea, ma ha dimostrato di non essere l’eroe, né della sua gente, né della sinistra europea. […]
 
A partire da luglio 2016, la classe dominata deve affrontare nuovi attacchi ai suoi redditi, proprietà, sicurezza, libertà e diritti sociali. Continua il vergognoso saccheggio. Ma questa volta è la stessa Syriza a organizzarlo ed eseguirlo. Le prospettive di lavorare a un’alternativa all’austerità, alla schiavitù del debito, alla svalutazione interna e alla catastrofe sociale non fanno più parte del programma di Syriza. […]
 
Qualcuno sostiene che la crisi economica greca sia un caso eccezionale, derivante dallo Stato greco clientelare. Quali sono le origini strutturali della crisi secondo lei?
 
A partire dal 1995, fino alle Olimpiadi del 2004, la Grecia ha vissuto un decennio di crescita e prosperità eccezionali.
 
Più di mezzo milione di Grecia, in gran parte donne, hanno trovato lavoro durante gli “anni d’oro” dell’economia greca. I flussi di capitali provenienti dalle nazioni risparmiatrici sono giunti in Grecia, dove i profitti erano più alti, spingendo la crescita del PIL, gli investimenti e l’occupazione.
 
Ma d’altronde (e in parte a causa di quanto sopra), il deficit commerciale di beni e servizi è drammaticamente aumentato a partire dal 1999.
 
Nell’euforia del momento, pochissimi ne erano preoccupati. Dopo tutto, la teoria che regge l’Unione Monetaria Europea (EMU) dice che i grandi deficit commerciali tendono semplicemente ad autocorreggersi, perché mettono in moto processi di aggiustamento guidati dal mercato ritenuti molto potenti.
 
Ma questi processi non sono avvenuti. L’esperienza greca mostra che i mercati da soli non compensano gli squilibri degli assetti istituzionali EMU – perlomeno non sempre.
 
Utilizzando gli strumenti dell’aggiustamento fiscale e della riforma strutturale del mercato di lavoro, la strategia della svalutazione interna provoca un cambiamento radicale nel rapporto di forze tra lavoratori e imprese, tra lavoro e capitale.
 
Di conseguenza, in Grecia è avvenuta un’enorme redistribuzione di redditi durante i 7 anni di svalutazione interna – tra il 2010 e il 2016, gli impiegati hanno perso circa il 40% del loro potere di acquisto, mentre il rapporto tra i profitti delle aziende e i salari andava ai massimi storici.
 
L’economia greca si trova in uno stato di recessione permanente dal 2010. Quali sono le cause del fenomeno e come le varie forze hanno tentato di correggerlo?
 
La depressione greca non è un incidente, né il semplice risultato di politiche sbagliate o idee errate. E’ il risultato di una strategia elaborata meticolosamente – ossia la svalutazione interna, una forma radicale di disinflazione competitiva.
 
La strategia della svalutazione interna è stata applicata ferocemente in Grecia per sette anni consecutivi. Secondo i proponenti, la strategia punta a migliorare la competitività e a trasformare la Grecia in una economia trainata dall’export in grado di ripagare i suoi debiti. Secondo questa teoria, la crescita del PIL e dell’occupazione sono naturali conseguenze dell’aver costruito con successo un’economia basata sull’export.
 
Per ottenere questi risultati, la strategia si concentra sul legame tra costi del lavoro e competitività: salari più bassi dovrebbero portare a prezzi inferiori e quindi a migliori risultati dell’export. Di conseguenza, gli interventi del governo sono stati orientati a rendere i salari più flessibili e i lavoratori più vulnerabili alla disoccupazione.
 
I leader politici hanno giustificato questa linea sostenendo che fosse nell’interesse generale.
 
Ma nel frattempo è avvenuta in Grecia un’enorme redistribuzione di redditi durante i 7 anni di svalutazione interna – tra il 2010 e il 2016, gli impiegati hanno perso circa il 40% del loro potere di acquisto, mentre il rapporto tra i profitti delle aziende e i salari andava ai massimi storici.
 
La ridistribuzione del reddito è stata accompagnata da politiche fiscali che hanno accollato il peso del debito sulla gente comune e, a partire da luglio 2016, da un processo di accumulo-tramite-pignoramento attraverso il trasferimento delle proprietà individuali dei debitori alle banche.
 
La combinazione di queste politiche è stata un sistema vergognoso di saccheggio mai visto finora in tempo di pace.
 
Val la pena sottolineare che la strategia della ridistribuzione del reddito dal lavoro al capitale ha fallito perfino i suoi obiettivi dichiarati – anziché rivitalizzare l’economia greca, ha avuto effetti devastanti sul PIL e sull’occupazione.
 
Anche se il termine “svalutazione interna” viene in genere inteso come una riduzione dei prezzi interni rispetto ai concorrenti esteri, in Grecia essa si è rivelata una metafora per mascherare una drammatica riduzione degli stipendi.
 
Possiamo quindi concludere che l’obiettivo della strategia della svalutazione competitiva è semplicemente questo: la svalutazione del lavoro stipendiato, la sua sottomissione al dispotismo del capitale, e la ridistribuzione dei redditi dal lavoro al capitale. Ogni altro obiettivo dichiarato – migliorare la competitività e le performance dell’export, la crescita del PIL e dell’occupazione – sono solo ornamenti ideologici per rendere la strategia politicamente accettabile.
 
Ciò spiega perché gli economisti mainstream, la troika, i governi e la classe dominante non sono preoccupati dal fatto che il drammatico crollo del costo del lavoro non ha migliorato la competitività ma ha aumentato i margini di profitto.
 
E’ facile spiegare perché il processo di svalutazione interna porta alla depressione. La Grecia è un’economia trainata dai salari, e la brusca caduta del loro potere d’acquisto ha ridotto drasticamente i consumi, e quindi il PIL e l’occupazione, e infine l’utilizzo della capacità produttiva e gli investimenti, senza avere un effetto positivo apprezzabile sulle performance dell’export (perché i prezzi dell’export non seguono il costo del lavoro, ma i prezzi dei concorrenti).
 
Quindi, le svalutazioni interne portano automaticamente a depressione economica – disoccupazione di massa (25% totale, 50% per gli under 25); crollo degli investimenti; grosse perdite nella capacità produttiva; deprivazione materiale e povertà in aumento; obsolescenza delle infrastrutture; distruzione dei servizi sociali; debito pubblico in aumento; e un numero sempre maggiore di prestiti non rimborsabili.
 
La Depressione Greca è ormai nella storia perché più profonda e più lunga della Grande Depressione Americana degli anni ’30. […]
 
Cosa mi dice dell’uscita della Grecia dall’UE? Potrebbe ancora essere una soluzione?
 
Una Grexit sarebbe accompagnata da una svalutazione della nuova moneta, la nuova dracma. Ciò potrebbe avere effetti misti che dipendono dalle condizioni a contorno.
 
Nel momento in cui avvenisse tale svalutazione, ci dovrebbe essere una grande capacità produttiva inutilizzata del sistema per poter tramutare la domanda che si verrebbe a creare in un incremento dei volumi di prodotto. Altrimenti, la svalutazione incrementerebbe i prezzi e potrebbe forse portare a una svalutazione dei salari reali, a seconda della capacità dei lavoratori di difendere il proprio potere d’acquisto.
 
Nel 2013, la Grecia avrebbe potuto recuperare il 40% della produzione persa dal 2008, se il governo fosse uscito dall’eurozona e avesse applicato una politica brillante di svalutazione della moneta. Oggi invece potrebbe recuperare solo il 15% della produzione perduta, perché la capacità produttiva è stata distrutta di un ammontare tale da poterlo paragonare solo con la situazione dell’Inghilterra durante la seconda guerra mondiale.
 
Una Grexit che avvenisse con le politiche in atto attualmente si tradurrebbe in un nuovo giro di svalutazione dei salari. Però, se il governo mettesse in atto le condizioni appropriate, in un contesto eterodosso di politiche economiche, la Grexit potrebbe essere parte di una soluzione di sinistra al problema greco.
 
L’Unione Europea può essere “cambiata dall’interno”, come sostiene l’ex ministro delle finanze Yanis Varoufakis?
 
E’ proprio questa idea – che l’eurozona ha un semplice problema, e quindi può essere sistemata aggiungendo qualche regola strutturale – che ha messo Syriza sul sentiero della disfatta nelle negoziazioni con la Troika.
 
L’eurozona non è difettosa – è stata concepita per produrre i risultati che vediamo. Qualsiasi squilibrio macroeconomico all’interno degli assetti istituzionali EMU deve essere corretto a spese dei redditi da lavoro, delle protezioni dell’occupazione, dei servizi sociali, attraverso riforme del mercato del lavoro e distruzione del welfare.
 
L’eurozona non è semplicemente un’area valutaria, è un regime di accumulo del capitale in cui certe tendenze prevalgono – inclusa la tendenza a rimuovere le protezioni sociali, a ridurre i salari, e ad abolire i diritti sociali e civili che stanno alla base della cittadinanza. Questi effetti sono congeniti nell’architettura e nel funzionamento dell’eurozona. E’ stata fatta così. Quindi, non può essere “sistemata”.
 
Molti commentatori sostengono che le attuali élite europee, specialmente tedesche, non hanno un piano per il futuro dell’Europa e, agendo irresponsabilmente, stanno compromettendo il progetto dell’Unione Europea. Lei crede che esista un piano a lungo termine nella loro mente o stanno solo agendo irrazionalmente?
 
Certo che hanno un piano per il futuro dell’Europa. Esso è già stato implementato, testato, e calibrato in Grecia, che è stata la cavia e ora diventa il paradigma.
 
Considerate le tattiche di Hollande e del Governo francese per contrastare il movimento francese che si oppone alla nuova legge sul lavoro – tattiche testate in Grecia durante le enormi e lunghe dimostrazioni del 2011-2012.
 
Tuttavia, nonostante le classi dominanti abbiano un piano per il futuro dell’Unione Europea, non hanno un piano per affrontare la crisi del neoliberismo. […]
 

L’Ungheria istituisce un ufficio ministeriale in difesa dei cristiani perseguitati

ungheri cristiani
settembre 15 2016
Viktor Orban ha voluto un dipartimento per supportare econimicamente i profughi nei paesi di origine e per monitorare le discriminazioni religiose in Europa.
 
L’Ungheria di Viktor Orban ha deciso di istituire un dipartimento ministeriale per la difesa dei cristiani e delle minoranze religiose. A spiegare le ragioni del nuovo dipartimento è stato il ministro delle risorse umane, Zoltan Balog, intervistato dalla Cna: «Oggi il cristianesimo è diventato la religione maggiormente perseguitata, per cui su cinque persone uccise per motivi religiosi quattro sono cristiane». Sono 81 i paesi nel mondo in cui i cristiani sono perseguitati, con 200 milioni «che vivono in zone in cui subiscono discriminazioni. Milioni di vite cristiane sono minacciate dai seguaci delle ideologie religiose radicali». Balog non si riferisce solo alla minaccia islamica: «Il nostro interesse – ha proseguito – non è solo per il Medio Oriente, ma anche per tutte le forme di discriminazione e persecuzione dei cristiani in tutto il mondo».
 
SOSTEGNO ECONOMICO. Non si può dire che quella dell’Ungheria sia un’operazione di facciata, perché il nuovo dipartimento ha già messo a disposizione 3 milioni di euro per l’aiuto alle minoranze perseguitate nelle loro terre di provenienza. Attraverso la Conferenza episcopale ungherese sono infatti stati destinati 300 mila euro agli studenti in Medio Oriente e alla costruzione di scuole a Erbil, mentre il governo ha stanziato fondi per l’educazione di 400 bambini rifugiati nei campi profughi. In tutto, la Chiesa e il governo insieme sostengono l’educazione dei bambini di 740 famiglie cristiane e di altre minoranze religiose rifugiate nei campi della Giordania, dell’Iraq e del Libano.
 
NELLA TERRA D’ORIGINE. La decisione di intraprendere una via per favorire concretamente i perseguitati è stata presa dopo la partecipazione di Orban e Balog al raduno annuale per i legislatori cattolici che si è svolto a fine agosto a Frascati, alle porte di Roma. Sebbene sia il premier sia il ministro fossero gli unici protestanti presenti, di fronte all’assemblea che ha sollevato il problema come il più urgente (vista anche la testimonianza di diversi esponenti della chiesa mediorientale) Orban ha dichiarato che «l’Ungheria avrebbe agito contro le persecuzioni cristiane, pronta a supportare le comunità la cui esistenza stessa è minacciata». Così l’Ungheria ha deciso di sostenere moralmente e finanziariamente i profughi affinché, ha detto il ministro, «possano perseverare a rimanere nelle loro terre d’origine». Perché «aiutare a migliorare la situazione nei paesi d’origine potrebbe rendere possibile alle minoranze perseguitare di rimanere nelle loro case o vicino ad esse».
 
Fonte: Tempi

La CIG Italia-Francia approva le norme antimafia per la Torino-Lione

http://www.lagenda.news/la-cig-italia-francia-approva-le-norme-antimafia-per-la-torino-lione/L'Agenda.News

Per la prima volta saranno applicate in Francia le norme antimafia italiane sui cantieri del tunnel di base

Luis Besson Presidente della CIG Italia-Francia nel Cantiere di St Martin de la Porte (Foto Marco CicchellI)Luis Besson Presidente della CIG Italia-Francia nel Cantiere di St Martin de la Porte (Foto Marco CicchellI)

MARCO CICCHELLI 7 GIUGNO 2016

TORINO – La Conferenza intergovernativa italo-francese sulla Nuova Linea Torino Lione ha approvato il regolamento dei contratti per i lavori della sezione transfrontaliera della Torino-Lione. E’ il primo caso in Europa ad applicare la normativa antimafia a livello transnazionale indipendentemente dalla nazionalità dei cantieri.  Questo è il risultato della riunione odierna svoltasi a Torino, e conseguente agli accordi Italia-Francia del vertice di Venezia. Nel testo approvato oggi dalla CIG, presieduta da Louis Besson, già Ministro Francese dei Trasporti, con la copresidenza di Paolo Foietta, Commissario di Governo per la Torino-Lione, che si è riunita oggi nella sede di TELT.

 Erano presenti oltre ai delegati della Prefettura di Torino, Enrico Ricci e Maurizio Gatto, i rappresentanti dei ministeri (Trasporti, Finanze, Ambiente, Interni, Esteri), il Presidente, il Direttore generale e il Ddirettore giuridico di TELT, Hubert du Mesnil, Mario Virano e Marie-Pierre Cordier, e gli esperti nominati dai due Governi nel gruppo di lavoro, ch aha avuto il diffcile compito di uniformare su questo tema le diverse normativa nazionali sugli appalti: per l’Italia il prefetto Bruno Frattasi, capo ufficio legislativo del Ministero dell’Interno, Stefano Soliman, capo dell’ufficio legislativo del ministero degli Esteri, Pasquale D’Avino, ministro plenipotenziario; per la Francia, Etienne Quencez, consigliere di Stato francese e Presidente della Cour Admnistrative d’Appel di Douai.

Con questo Regolamento si dà attuazione a quanto concordato dai Governi di Italia e Francia nel Protocollo Addizionale per l’avvio dei cantieri del tunnel di base del Moncenisio, i cui pricipi generali erano stati decisi e sottoscritti nel summit di Venezia fra Renzi e Hollande dello scorso 8 marzo. Alla Conferenza Intergovernativa era stato affidato il lavoro complesso di scriverne l’articolato entro 90 giorni, che sarebbero scaduti domani 8 giugno. Sono così stati rispettati tutti gli obblighi previsti dagli accordi internazionali e pertanto i due governi possono ora avviare l’iter della ratifica parlamentare, in Italia e in Francia, che deve essere avvenire con il passaggio parlamentare entro dicembre 2016, del nuovo regolamento che contiene il dettaglio delle modalità di applicazione, anche in Francia, delle norme antimafia vigenti in Italia integrate con il diritto francese.

A vigilare e svolgere gli accertamenti antimafia per gli appalti ai cantieri italiani e francesi dell’opera sarà una struttura binazionale costituita dal Prefetto di Torino e dal suo omologo francese di Lyon. I due Prefetti lavoreranno insieme, condividendo le informazioni e con il supporto delle rispettive  forze di polizia che potranno svolgere controlli e sopralluoghi congiunti nelle aree di cantiere. Le verifiche, come già avviene nei cantieri italiani dell’opera, saranno svolte non solo sulle aziende appaltatrici, ma su tutta la filiera dei sub-appalti.

Ai controlli contro le infiltrazioni mafiose saranno sottoposte anche le aziende che non siano italiane o francesi. In questo caso, secondo il regolamento, la competenza spetterà alla Prefettura del Paese in cui hanno inizio i lavori o in cui l’azienda ne svolge la maggior parte. Le ditte dovranno inoltre rispettare specifici obblighi comportamentali, descritti nei bandi di gara, la cui inosservanza determina l’applicazione, da parte del Promotore pubblico TELT, di specifiche penalità i cui proventi vengono reinvestiti in iniziative a tutela della sicurezza dei cantieri. Le aziende che risultano avere tutte le carte in regola, vengono quindi inserite in una “White List” transnazionale relativa alla Torino-Lione, una sorta di anagrafe degli esecutori che possono lavorare nei cantieri. L’iscrizione ha una validità di 12 mesi, rinnovabile a fronte di nuove verifiche. Questo impianto non riguarderà solo i nuovi lavori. Anche tutti gli appalti in corso sul versante francese dovranno aderire a questi nuovi criteri, mentre in Italia sono già applicate le procedure antimafia previste dal diritto italiano. Inoltre TELT e tutte le aziende che lavorano e lavoreranno in Italia e in Francia per la nuova linea, dovranno rispettare i dieci punti etici del Global Compact delle Nazioni Unite, a cui TELT aderisce dal novembre 2015.

Tav,ok Cdm a ddl lavori transfrontalieri

http://www.ansa.it/piemonte/notizie/2016/09/15/tavok-cdm-a-ddl-lavori-transfrontalieri_9096dbf3-6edc-4dab-8fe5-64e98eef601e.html

Ratificato accordo con Francia. Si applicano regole antimafia

Redazione ANSAROMA16 settembre 201613:10NEWS

(ANSA) – ROMA, 15 SET – Via libera del Consiglio dei ministri al disegno di legge di ratifica ed esecuzione dell’accordo tra i governi italiano e francese per l’avvio dei lavori definitivi della sezione transfrontaliera della nuova linea ferroviaria Torino-Lione. Lo comunica la presidenza del Consiglio. “La sezione transfrontaliera è la prima parte del nuovo collegamento persone e merci tra Torino e Lione, componente essenziale del corridoio mediterraneo”, spiega la nota. Le regole antimafia italiane vengono estese ai contratti di appalto per la Tav.

Appalti Tav, Bongiovanni: “Non si potranno applicare le regole antimafia italiane”

http://www.torinotoday.it/cronaca/appalti-tav-torino-lione-leggi-antimafia.html

L’avvocato del foro di Torino spiega perché sino ad oggi non potevano applicarsi le regole antimafia esistenti

Redazione

16 settembre 2016 14:42

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Interviene l’avvocato Massimo Bongiovanni, componente la commissione giuridica dell’estinta Comunità Montana Valle di Susa e Val Sangone, per alcune osservazioni in riferimento alla futura applicabilità del codice antimafia agli appalti per il lavori del Tav Torino Lione.

In particolare l’avvocato del foro di Torino fa riferimento ai lanci di agenzie stampa sul via libera del Governo italiano al disegno di legge utile alla ratifica dell’ultimo accordo tra Italia e Francia del 2016 in merito alla sezione transfrontaliera della nuova linea ferroviaria Torino- Lione. “Nel dare tale notizia le agenzie riportano che a seguito della ratifica del predetto accordo agli appalti dei lavori della nuova linea ferroviaria verranno applicate le ‘regole antimafia italiane’”.

Bongiovanni spiega perché sino ad oggi non potevano applicarsi le regole antimafia esistenti: “Successivamente alla firma dell’ultimo accordo del 2016 venne emesso un regolamento contenente “regole antimafia” dalla Conferenza intergovernativa italo francese, Cig. Tale regolamento contiene strumenti giuridici utili alla lotta contro le infiltrazioni mafiose nei lavori per il Tav Torino Lione. Ma tale regolamento non avrà efficacia alcuna. Nel regolamento si legge che le ivi previste “regole antimafia” sono parte integrante degli accordi del 24.2.15 e del 8.3.16 e le agenzie di stampa di oggi riportano che diverranno esecutive in Italia e Francia a seguito delle rispettive ratifiche da parte dei parlamenti italiano e francese. Ciò non è vero”.

La spiegazione merita una premessa generale, ma resta il fatto che per Bongiovanni “la normativa antimafia italiana continuerà a non essere applicabile in Italia e in Francia agli appalti dei lavori del Tav Torino Lione, oltre a non essere applicabile la normativa italiana in tema di sicurezza del lavoro, risarcimento danni e imposizione fiscale, questi ultimi elementi mai oggetto di riflessioni, ripensamenti e divulgazione da parte dei media”.

Conclude l’avvocato: “La domanda spontanea è se ci sia un sostanziale interesse all’applicazione delle regole antimafia che, peraltro, non hanno impedito ad aziende in odore di ‘ndragheta di svolgere lavori all’interno del cantiere di Chiomonte, cantiere sotto il costante controllo della Prefettura, Questura, Carabinieri, Guardia di Finanza”.

La premessa generale sviluppata da Bongiovanni

“Gli accordi internazionali, per essere efficaci, devono essere ratificati. Con la ratifica gli accordi diventano legge negli ordinamenti dei due paesi. Il problema dell’inapplicabilità delle norme antimafia si affacciò nel 2012. Con l’accordo del 2012 Francia e Italia stabilirono che per i contratti di appalto riferiti alla nuova linea ferroviaria si sarebbe applicata esclusivamente la legge francese anche in territorio italiano, così creando il problema che, con il citato regolamento, si è tentato, mediaticamente, di risolvere. L’accordo del 2012 è diventato legge nei due paesi a seguito delle rispettive ratifiche. Ma il regolamento contenente le “regole antimafia”  NON è contenuto nell’accordo del 2016 né in quello del 2015. E questi due ultimi accordi tra Francia e Italia sono già stati firmati. Tecnicamente e giuridicamente, ai sensi della Convenzione di Vienna del 1969 (vedi articoli 10, 11, 12 e 14), la fase di negoziazione dei due ultimi trattati si era ormai conclusa (con la firma) in epoca precedente l’emissione, da parte della Cig, del regolamento contenente le “regole antimafia”. Conclusa la fase di negoziazione (ossia chiusa la fase delle firme) si è aperta la fase dello “scambio” del trattato (art.13 Convenzione di Vienna) o della  “ratifica” (art. 14)  che è la fase attraverso la quale il trattato diventa legge nei due stati. Ciò che verrà ratificato (e che diventerà legge nei due stati) sono solo le disposizioni contenute nel trattato, null’altro, escluso il regolamento e ciò a meno di voler violare la Convenzione di Vienna citata.
Riassumendo, se con il trattato del 2012 si è abrogata in Italia la legge antimafia attraverso la esplicita previsione della applicazione della sola normativa francese per i contratti degli appalti anche in territorio italiano, occorreva inserire nei trattati del 2015 e 2016 la modifica del trattato del 2012 e, attraverso le ratifiche, farla diventare legge. Nulla di tutto ciò è avvenuto”.

Di Maio a Roma incontra le lobby

Di Maio e i Lobbisti
settembre 15 2016
 
Il vertice del M5S è stato spesso centro di iniziative volte a portare chiarezza nelle scelte politiche prese in Parlamento o nelle altre istituzioni mediante, ad esempio, l’utilizzo dello streaming, cosa che permette al cittadino di osservare con i propri occhi quando e come viene approvata o meno una determinata legge. Interessante, altrettanto, sarebbe porsi la seguente domanda: quando Di Maio, il 19 Luglio del 2016, è andato a Roma ad incontrare alcune Lobby perchè non ha proposto il medesimo meccanismo di trasparenza? Domanda retorica, ma procediamo per gradi.
Che cosa sono le “lobby”? Le lobby sono tutti quei gruppi di interessi PRIVATI che interagiscono con la politica per influenzare l’attività parlamentare con l’esternazioni di leggi che vadano esclusivamente a vantaggio della lobby stessa, cioè a vantaggio di interessi PRIVATI, vale a dire interessi che non riguardano i molti, i più deboli, gli anziani e quelli che arrancano per arrivare alla fine del mese.
 
Dunque, Di Maio il 20 Luglio 2016 partecipa a Roma, precisamente al Palazzo Firenze, ad un incontro con varie lobby gestito da una società di lobbying che è la FB & Associati. Ora, un movimento che si dichiara di essere dalla parte dei cittadini, perchè dovrebbe avere a che fare con gruppi portatori di interesse PRIVATI?
Un video interessante di questo incontro avvenuto a Roma è stato realizzato dai giornalisti Franz Baraggino e Manolo Lanaro de Il Fatto Quotidiano che qui riportiamo:
 
Il giornalista si rivolge a Di Maio con una battuta: “Di Maio non faccia aspettare i lobbisti, a porte chiuse la stanno aspettando.“. Di Maio, colto con le mani nel sacco, così risponde: “Ma quali lobbisti?” e se ne va. Quindi, Di Maio, al primo approccio fa il finto tonto, ma basta osservarlo per capire che è in evidente difficoltà e “scappa” per evitare il dialogo.
Tra le varie figure vicino a Palazzo Firenze, c’è anche Di Battista che appena viene avvicinato dal giornalista che vuole porre delle domande all’esponente del direttorio pentastellato ,il quale appena se ne accorge sfreccia via sul suo motorino. Ovviamente, NULLA da nascondere. E’ evidente che stiano agendo nell’interesse comune con limpida e cristallina onestà.
Tra i vari intervistati vi è anche il senatore Vincenzo D’Anna che così si esprime sull’incontro che si sta verifacando tra le lobby e Di Maio: “Io non mi meraviglio di questo. Sarebbe stato Di Maio a starnazzare e ad indignarsi se un altro fosse in questo momento al posto suo […]. Sa, io nella vita ho incontrato molti furfanti che non sono stati moralisti, ma difficilmente ho incontrato un moralista che alla fine non si sia rivelato un furfante.“.
L’intervista a Di Maio prosegue sviandosi, purtroppo, su un discorso che non riguarda il nostro articolo e che quindi non affronteremo.
Di Maio successivamente, utilizzando la rete, esprimerà i suoi pensieri riguardo questo incontro ed egli afferma che: “Esiste la lobby dei petrolieri e quella degli ambientalisti, quella dei malati di cancro e quella degli inceneritori.” e poi successivamente “…in Parlamento ci sono portatori di interessi negativi, come quelli degli inceneritori, e portatori di interessi positivi, come quelli appunto delle associazioni dei malati di cancro[…] Le loro (quelle della lobby dei malati di cancro) sollecitazioni e indicazioni sono preziose per noi portavoce.“.
Quindi le dichiarazioni di Di Maio lasciano intendere che: in realtà, l’incontro che si è verificato a Roma, gestito dalle FB & Associati (che gestisce meetings anche con elementi del mondo finanziario ed ha anche una sede a Bruxelles), era finalizzato solo ad incontrare la lobby dei malati di cancro (“portatori di interesse positivo“) e non altre lobby come quella dei petrolieri, gruppi finanziari e chissà quale altra serie di società private. L’assurdità di queste affermazioni deriva dal fatto che a dirle è un Vice Presidente della Camera e maggiore esponente della terza forza politica italiana. Come può una figura del suo spicco andare ad un incontro, gestito da una società di lobbying, in cui ci sono dei portatori di interesse così grandi (come ad esempio i petrolieri), per poi parlare solo con la lobby dei malati di cancro? E’ semplicemente irrealistica, per non dire ridicola, un’affermazione del genere. Questa è una delle costanti del Vice Presidente della Camera che quando gli vengono poste delle domande o degli argomenti scomodi cerca spesso di sviare il discorso o di arrampicarsi sugli specchi (vedi Qui e Qui). Poi, se non c’era nulla di male, perchè non fare una bella diretta streaming?
Successivamente afferma che: “Io non ce l’ho con le lobbies.“. Strana e contraddittoria affermazione di chi proprio nel Febbraio 2014, in una chiamata a Belpietro, screditava Renzi dicendo: “Crediamo che Matteo Renzi sia […] l‘ennesimo burattino nelle mani di lobby finanziarie, come quella di De Benedetti del gruppo L’Espresso e Repubblica[…]“. Come al solito, se a compiere un’azione errata è qualcun’altro allora bisogna denunciarla, poi se è lo stesso Di Maio realizzare la stessa ed identica cosa riemerge sempre la “retorica del ma e del perchè” che io chiamo “retorica dell’ipocrisia e del raggiro”.
 
Tuttavia, quello con la FB&Associati non è il primo incontro che Di Maio realizza con le lobby. Infatti  il 19 Luglio 2016 ha partecipato ad un incontro con un’altra società specializzata in lobbying, che si chiama Utopia.
Ecco la descrizione che si legge sul sito ufficiale di Utopia: “Per il ciclo di incontri “A Tu per Tu”, martedì 19 luglio dalle ore 18:30, è stato nostro ospite Luigi Di Maio, V. Presidente della Camera dei Deputati e leader del Movimento 5 stelle. Tema dell’incontro: Il futuro dei 5 stelle tra opposizione e prospettiva di governo.“.
 
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Utopia conta tra i propri “clients” società di spicco come: Google, Facebook, Peroni, alcune società energetiche, Microsoft e American Express. Sul conto di American Express comprendiamo su wikipedia che essa: “Opera in vari settori quali le Carte di Debito e di Credito, Travelers Cheques, Viaggi, Servizi Finanziari e di Investimento, Gestioni Patrimoniali e Assicurazioni. Il quartier generale è a New York, quotata a Wall Street (con la sigla AXP). È una delle 30 società che compongono il Dow Jones Industrial Average. Kenneth Chenault ne è, dal 2001, Presidente e Amministratore delegato. Secondo il business magazine americano “Fortune” è la 90ª azienda più grande del mondo, nel 2015 risulta essere l’8ª azienda con la migliore reputazione al mondo, prima nel settore Carte di Credito e credito al consumo (Consumer Credit Card and Related Services). Sempre nel 2015 il suo brand viene considerato il 38º brand più importante al mondo.
L’American Express è stata coinvolta in uno scandalo, passato anche su La Repubblica, in quanto applicava tassi di interesse troppo elevati: “L’indagine è partita in seguito a diverse denunce fatte dai possessori delle carte “revolving” della Diners che si sono visti applicare tassi d’interesse altissimi. Per esempio per un rata mensile non puntualmente pagata di 129 euro, a fronte di un debito complessivo di 2.600 euro, è stato addebitato un importo di 686 euro. Molto di più quindi del tasso d’interesse massimo previsto dalla legge che non deve superare la soglia del 29%. “. Un’altra grande azienda che mette il bene comune d’avanti a tutto! Cercando sulla pagina Facebook di Luigi Di Maio, Grillo, del Movimento 5 stelle, sul sito di Grillo e quello del Movimento 5 Stelle ovviamente non si trova nulla. A questa cristallina trasparenza aggiungiamo anche Microsoft e Google che sono nelle mani di Bill Gates la cui fortuna ammonta tra i 75-78 miliardi di dollari che lo hanno reso fino a Settembre 2016 l’uomo più ricco del mondo (Forbes e Wikipedia), un altro paladino della difesa dei più deboli che NON guadagna sulle spalle dei più poveri. Sarebbe stato interessante anche uno streaming di questo incontro, ma non ci è dato sapere nulla. L’importante è che pubblichino su Facebook i video in cui sbraitano contro il parlamentare/partito X e i cittadini italiani vengano così “difesi”, se poi Di Maio, o in generale i vertici dei 5 stelle, incontrano le lobby (che NON fanno gli interessi dei cittadini) a porte chiuse e stipulano accordi a noi non ci è dato sapere nulla, perchè si sà la trasparenza deve esserci solo quando fa comodo.
In conclusione, affermiamo che i due incontri a cui ha partecipato Di Maio siano solo la punta dell’iceberg e a partecipare a questi incontri, palesemente, non siano solo i 5 stelle, ma gli esponenti di più partiti. Questi incontri non fanno che mettere in discussione la tanto esaltata trasparenza del M5S che spesso viene più utilizzata come un’arma politica, che come un vero e proprio modus operandi.

Pensione, anticipo col trucco Pagano aziende e lavoratori

Per chi si ritira 4 anni prima le rate saranno coperte da un prelievo sui fondi della previdenza integrativa
Antonio SignoriniGio, 08/09/2016
 
Pescano ovunque. Dai contributi previdenziali delle imprese, dagli assegni dei futuri pensionati e anche dal secondo pilastro della previdenza.
 
anticipo pensionistico
L’anticipo della pensione, la riforma della riforma Fornero, insomma, sarà a costo zero o quasi. Peserà sulle casse dello stato meno dei contributi statali al cinema.
 
Ieri sono emersi particolari che riguardano la integrazione della pensione di chi deciderà di ritirarsi dal lavoro quattro anni prima del tempo. Si potrà decidere di pagarla con parte della pensione integrativa, cioè con un risparmio che si prevede di incassare con la pensione.
 
Si chiamerà Rita (Rendita integrativa temporanea anticipata). Operazione che assomiglia molto all’anticipo del Tfr deciso dallo stesso governo Renzi, sostanzialmente fallito perché alle somme incassate si applica l’aliquota Irpef marginale, quindi quella più alta. Il nuovo meccanismo per integrare la pensione anticipata non può non fare pensare ai fondi pensione che l’esecutivo in carica ha stangato con una aliquota passata dall’11% al 20%. Forse per questo il governo sta pensando di applicare alle quote di pensione integrativa che incassate in anticipo (63 anni con almeno 20 di contributi) una aliquota agevolata che dovrebbe essere tra il 9% e il 15%, diversa a seconda degli anni di iscrizione al fondo pensione. Saranno comunque entrate aggiuntive per le casse dello Stato.
 
Il resto dell’Ape, il meccanismo di anticipo della pensione, resta in piedi, con il prestito erogato dalle banche garantito dallo Stato e da restituire in 20 anni. Costo zero per i disoccupati di lungo corso o quelli di aziende in ristrutturazioni. In questo ultimo caso pagano le stesse aziende. Una sorta di tassa per favorire il turn over, prepensionamento nuova versione.
 
Partite di giro che ha uno scopo preciso: limitare al massimo il costo di questa parte della riforma (500 milioni di euro) e liberare risorse per finanziare misure più efficaci dal punto di vista della comunicazione politica.
 
Ad esempio le misure per le pensioni minime che si limiteranno a una rimodulazione della quattordicesima. Sarà riservata agli ultra 64enni con un reddito inferiore a una soglia da definire. L’obiettivo è di aumentare la platea degli interessati più che aumentare l’anticipo della quattordicesima mensilità, oggi riservata a chi percepisce un assegno pari a 1,5 volte il minimo.
 
Su queste ipotesi sono stato sollevati dei dubbi da parte dell’Inps. Il rischio, secondo l’istituto guidato da Tito Boeri, è che vengano favoriti anziani relativamente benestanti.
 
Il premier si è convinto a percorrere questa strada su consiglio di Jim Messina, consulente politico statunitense ingaggiato per il referendum. L’aumento delle pensioni minime è un messaggio chiaro e comprensibile, gli anticipi dell’età del ritiro sono complessi e interessano una platea limitata di elettori. Tra le altre misure che potrebbero arrivare, c’è un aumento della no tax area, oggi limitata ai 7.500 per i pensionati sotto i 75 anni.
 
Tra le misure in bilico c’è la proroga della decontribuzione per i neoassunti. Misura che ha provocato un aumento delle stabilizzazioni, senza fare aumentare il livello generale dell’occupazione. Tra le ipotesi quella di limitarlo al Sud. Niente tagli al costo del lavoro, mentre ci sarà una estensione delle agevolazioni per il reddito di risultato. Misura per favorire la produttività, obiettivo del governo e, soprattutto, della Commissione europea, che deve approvare la manovra del governo.

Fmi, minacce sul referendum: se non votate Sì, sarà l’Apocalisse

tanto per ricordare quanto sono buone e giuste le banche, che ovviamente non comandano sulle “democrazie”
14 luglio 2016 
 
Dopo Confindustria, anche Fmi fa capire che, se al referendum costituzionale non dovesse vincere il Sì (come dicono i sondaggi), potrebbe finire malissimo. Avrete forse visto la slide in cui Confindustria, con precisione svizzera, prevede il calo del Pil, l’aumento dei poveri e la diminuzione degli occupati in caso di vittoria del No al referendum di ottobre.
 
Fmi preferisce muoversi in modo più “diplomatico”: intanto, parlando di Brexit, dal Fondo Monetario Internazionale ci fanno sapere che l’uscita dell’Inghilterra dall’Ue costerà all’Italia 20 anni di recessione, la quale potrebbe vedere una fine solo nel 2025.
 
Un po’ come a dire: “Vedete cosa succede quando le decisioni importanti le prende il popolo ignorante, invece di dar retta agli esperti?”. FTSE Mib calato del 9%, valore delle banche precipitato del 25%,  Pil 2016 previsto al di sotto dell’1%: tutta colpa di questa stupida democrazia!
 
Oltre a questo bilancio catastrofico, Fmi ha avvertito in modo velato ed educatissimo che l’esito del referendum confermativo potrebbe avere ripercussioni ancora peggiori, rispetto alla Brexit, sull’economia del nostro Paese.
 
Fmi ammette che spetta al popolo italiano scegliere se accettare la riforma costituzionale. Ma poi spiega anche che, se dovesse vincere il No, andrebbero persi “elementi importanti” per snellire i processi decisionali delle istituzioni, potrebbe esserci più instabilità e, quindi, Fmi – suo malgrado – sarebbe costretto a constatare l’outlook negativo della nostra economia. Aprendo le porte alle barbare orde di speculatori finanziari, pronti a spolpare il nostro paese.
 
Insomma, questi signori della Troika (Ue-Bce-Fmi) la democrazia non la sopportano proprio: con la Grecia gli era riuscito di sputare in faccia al volere popolare del referendum, convincendo Tsipras a piegarsi al loro volere, ignorando l’”OXI” scelto dai cittadini greci. Ma con la Brexit la situazione gli è sfuggita proprio di mano: a dispetto del terrorismo informativo dispiegato, e alla disinformazione che non si è fermata neanche dopo la vittoria della Brexit, i cittadini inglesi hanno scelto di starsene per i fatti loro. Vedremo se il prossimo Premier inglese metterà in atto la volontà popolare oppure si farà sottomettere come uno Tsipras qualsiasi.
 
Intanto, se proprio vi serviva un motivo in più per votare No al referendum costituzionale, l’avete trovato: sapere che Confindustria e Fmi cercano di spaventarvi per costringervi a votare Sì, è una ragione più che sufficiente per votare convintamente No. Lo snellimento dei processi decisionali di cui parlano, potrebbe portare a ulteriori modifiche costituzionali, di certo non a favore dei cittadini, bensì dell’élite che decide ai piani alti dell’establishment. E gli obiettivi possono essere tanti, tutti tesi a diminuire il perimetro democratico, a togliere diritti ai lavoratori, a criminalizzare il dissenso, la protesta e gli scioperi, infine a mettere le mani sul vero bottino che interessa a questi signori: i risparmi privati degli italiani.

Ciampi e Bankitalia: per il nostro paese, l’inizio della fine

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Alla fine degli anni ‘70 emerge una posizione più estremista, pro-Europa, che praticamente fa propria l’idea che si debba combattere la classe politica corrotta e clientelare e tutte le sue espressioni facenti capo fondamentalmente alla Democrazia Cristiana e ai suoi partiti alleati, compreso il Partito Socialista, e che per questo si debbano anche cedere porzioni di sovranità, e si comincia con la sovranità monetaria. Era cambiata la dirigenza della Banca d’Italia ed era passata la linea, diciamo, più estremista sull’Europa, facente capo a Carlo Azeglio Ciampi. Nella Dc la sinistra politica, che faceva capo a De Mita e soprattutto a Beniamino Andreatta, era su posizioni euroestremiste e giustificava questa rinuncia alla sovranità monetaria, cioè alla possibilità dello Stato di fare investimenti pubblici produttivi, per impedire alla classe politica stessa, corrotta e clientelare, di avere potere. Quindi per sottrarre potere alla classe politica, si cominciò a rinunciare alla sovranità monetaria, quindi agli investimenti pubblici.
 
Quindi la classe politica poi si trovò ad occuparsi solo di nomine, di poltrone, eccetera, perché non c’era più da discutere gli investimenti pubblici che ormai dovevano minimizzarsi. Degli investimenti pubblici la componente più importante era
 
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sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia, i trasporti e via dicendo, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale. Io negli anni ’80 feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione.
 
Lo stesso divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, di cui stiamo parlando, non è che obbligava la Banca d’Italia a non comprare titoli, le dava la facoltà di non farlo. E la pratica, voluta da Carlo Azeglio Ciampi, fu di applicare questo divorzio in modo letterale. Per la cronaca, ricordo che l’Inghilterra aveva le stesse regole, perché noi copiammo quelle, ma non le praticava. 
 
Cioè la Banca d’Inghilterra, quando serviva, stampava sterline a gogò, mentre la Banca d’Italia si irrigidì su quella facoltà che le era stata riconosciuta attraverso una semplice lettera del ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, e quindi la parte di emissione obbligazionaria che non veniva coperta, causava un aumento del tasso d’interesse finché non si piazzava questo residuo, ma poi questo tasso di interesse andava ad essere applicato su tutta l’emissione della mattinata. Quindi in questo modo c’è stata una rincorsa dei tassi di interesse verso l’alto.
 
Il passaggio successivo però è molto più grave e riguarda appunto il periodo che va dalla fine degli anni ’80 all’inizio delle privatizzazioni. Nel mio ultimo libro “Chi ha tradito l’economia italiana” affronto questo problema e identifico due tipi di personaggi, cioè quelli che in buona fede volevano fare i salvatori della patria, ma anche quelli che traguardavano nella possibilità di una svendita delle partecipazioni statali, nelle privatizzazioni – allora si chiamavano dismissioni – la possibilità di fare immensi profitti, come fu. Quindi c’è stata anche una parte di questa componente, diciamo così, anti-statalista, anti-italiana, anti-sviluppista, che ha fatto affari strepitosi e su cui qualcuno, infatti, ha proposto una commissione di indagine parlamentare.
 
(Nino Galloni, dichiarazioni rilasciate a Claudio Messora per l’intervista “Come ci hanno deindustrializzato”, pubblicata da “ByoBlu” il 29 aprile 2013).
 
Tratto da Libreidee

ATTENZIONE, IL PORTOGALLO STA PER ESPLODERE

Dopo gli analisti della Kommerbank, e’ sceso in campo ora anche il Financial Times, interrogandosi sulla capacita’ di Lisbona di passare l’anno senza chiedere di nuovo l’aiuto di Bruxelles e del Fmi, dopo i 78 miliardi di euro ottenuti nel 2012 in cambio di una programma di austerita’ lacrime e sangue. ”Il fantasma di un secondo salvataggio plana sul Portogallo” avverte anche El Pais.
 
Dopo le elezioni di ottobre vinte ma senza maggioranza assoluta dal premier uscente conservatore Pedro Passos Coelho – che aveva traghettato il paese attraverso i quattro anni della crisi, ma al prezzo di un impoverimento generale – il leader socialista Antonio Costa era riuscito a formare un nuovo ‘governo del cambio’.
Costa aveva promesso di invertire il ciclo della austerità, di aumentare investimenti pubblici, salari e pensioni. Ma dopo un anno di ‘governo del cambiamento’ il paese e’ ”al centro di una tempesta perfetta” per il Financial Times ”di crescita economica debole, investimenti in caduta, bassa produttività, deficit permanente, un settore bancario sottocapitalizzato, impiombato da una parte eccessiva del debito del paese”(sembra si parli di Italia…-ndr). Per 3 agenzie di rating su 4 i bonos portoghesi sono spazzatura, ma un salvataggio oggi del Portogallo distruggerebbe l’euro.