ROMA-RAGGI-VERMINAIO : IL BUE CHE DA’ DEL CORNUTO ALL’ASINO

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MONDOCANE

MERCOLEDÌ 7 SETTEMBRE 2016

 

Virginia Raggi qualche errore l’ha fatto (quelli prima di lei hanno commesso crimini), a partire da collaboratori come l’alemanniano Marra e, forse la Muraro, presi probabilmente perchè esperti della macchina amministrativa e, la Muiraro, al corrente di tutte le magagne dei banditi dei rifiuti. Ma sono fesserie, come è una fesseria quella dell’indagine non comunicata, cosa comprensibile dato che non c’era avviso di garanzia e non si sapeva se l’indagine riguardava un mozzicone gettato dalla finestra, o qualche impiccio con i rifiuti. Ci si inalbera su una cosiddetta bugia e lo si fa sotto l’ombrello dell’ipocrisia su cui si rovescia ogni secondo il nubifragio delle menzogne e delle truffe di Renzi e di tutto il cucuzzarto di regime.
La cosa davvero fetida è come la mafiosa marmaglia del PD e delle destre dichiarate si sono avventati su questa amministrazione, unicamente perchè è quella che gli impedisce di continuare a rubare, corrompere, devastare, distruggere, ultimamente con la mostruosità delle Olimpiadi. E quel rompicoglione e quinta colonna del Pizzarotti che non perde l’occasione per intingere il suo tossico biscotto nella merda della cosca renziana! Lo caccino finalmente, è uno sporco profittatore dei guai altrui. La classica fattispecie dello sciacallo che, tipo i curdi di Rojava, si lancia assieme ai leoni sulla carcassa della gazzella. 
 Una foto che spiega molte cose. Il sindaco diParma Pizzarotti, venefico grillo parlante incistato nel M5S, in compagnia di funzionari del Dipartimento di Stato (quello di Killary, Kerry e l’Obama delle sette guerre genocide), durante uno dei suoi frequenti viaggi negli Usa.
Stiamo assistendo alla rivolta del verminaio e qualunque cosa abbiano sbagliato Raggi o il direttorio, sono da sostenere al 100%, anche contro gli utili idioti e boccaloni 5 Stelle in rete che si fanno decerebrare dalla slavina mediatica dei poteri criminali: mafia, massoneria, Vaticano, palazzinari, cooperative, servizi, Cia. Come Assad, o Gheddafi, o Saddam, o Putin, sono comunque mille volte meglio di qualsiasi governante occidentale, così tra Raggi e i suoi è il resto dello schieramento politico-economico-culturale italiota corre la differenza tra un giardino e una fogna.
 
Pubblicato da alle ore 09:23

Risulta impossibile mettere fine alla guerra in Siria se gli USA continuano a negare la loro complicità con il terrorismo

di Finian Cunningham – 01/09/2016
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Fonte: controinformazione
 
“E’ necessario che gli USA e gli altri Governi occidentali accettino di riconoscere la verità: loro sono parte del problema della Siria, non la sua soluzione”, lo scrive un analista internazionale, Finian Cunningham.
 
Le  maratona di conversazioni per circa 10 ore, svoltasi tra i ministri degli esteri degli USA e della Russia, a Ginevra, non ha ottenuto di produrre un “piano integrale” per mettere fine alla “brutale guerra in Siria”, deve constatare l’analista Cunningham, nel suo nuovo articolo per la RT, dove spiega che “il problema fondamentale” è quello che gli USA continuano a negare il loro “ruolo criminale nel fenomeno della guerra”.
Secondo l’analista, il ruolo degli USA e di vari loro alleati stranieri nell’appoggio dei gruppi armati illegali è quello che garantisce la continuità del conflitto nel paese arabo.
 
La “dissonanza cognitiva” di John Kerry
 
Il segretario di Stato statunitense, John Kerry, ed il cancelliere russo, Serguéi Lavrov, hanno annunciato che continueranno a lavorare nei dettagli di un piano per mettere fine alla violenza in Siria. “Tuttavia come sarà possibile trovare una soluzione quando uno dei negoziatori è parte del problema”? Si domanda l’analista aggiungendo che, inoltre, “il colpevole sta negando del tutto il suo ruolo nefasto”.
 
In questo modo, prosegue l’esperto, le discussioni tra Kerry e Lavorv “somigliano semre di più alla relazione tra un paziente ed un terapeuta”, dove Lavrov deve lavorare laboriosamente ” con dettagli circa i quali Kerry “soffre di una dissonanza cognitiva”.
Cunningham considera che parte del “problema logistico” dell’instaurazione di un cessate il fuoco in Siria, ed  un fattore importante che spiega perchè non hanno funzionato i cessate il fuoco precedenti, è quello che gli USA continuano a non voler fare alcuna distinzione tra i gruppi terroristi e le milizie islamiste, quelle che Washington definisce “ribelli moderati”.
 
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Lavrov con John Kerry
 
I media occidentali occultano ai cittadini la criminalità dei propri Governi
 
In altre parole, “Washington non ha alcuna idea di operare una distinzione realistica tra la pletora dei gruppi armati che cercano di rovesciare il Governo siriano”, assicura l’autore dell’Articolo, il quale ritiene che la maggioranza di questi gruppi sono “entità terroriste” che condividono la stessa metodologia ed le azioni dei terroristi, così come gli stessi patrocinatori stranieri per la fornitura di armi e il finanziamento, tra i quali l’analista elenca gli USA; il Regno Unito, la Francia, così come la Turchia, l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo.
A giudizio di Cunningham, i media occidentali hanno lo stesso problema nel riferirsi ai “moderati” ed “estremisti” in Siria, cosa che l’analista qualifica di “operazione psicologica di inganno per occultare ai cittadini europei la criminalità dei propri Governi”.
 
Segnali che la “terapia” sta funzionando
 
Tuttavia, l’analista segnala che ci sono indizi per cui si inizia a vedere che la “terapia” di Lavrov, volta a far comprendere la verità alla controparte statunitense, sta iniziando ad avere successo. Così, secondo quanto informa Reuters circa l’ultimo incontro di Ginevra, il futuro di  Bashar al Assad non ha costituito parte delle conversazioni, che si sono piuttosto concentrate nel “ricercare una soluzione efficace e duratura per mettere fine alla violenza in Siria”.
Il fatto che non sia parte dell’agenda dei colloqui il futuro di Al Assad è una “concessione significativa da parte statunitense”, sottolinea l’autore dell’articolo, cosa che spiega che, per quanto “senza alcun dubbio “Washington ancora vuole ottenere il premio di un cambiamento di regime” – il loro ” vero obiettivo originale per suscitare questa guerra”- , è notevole che Kerry non insista tanto nel “mantra del Al Assad deve andarsene” nei suoi incontri con Lavorv.
 
La successiva fase della “terapia diplomatica”
 
Nell’opinione dell’esperto, la successiva fase di “terapia diplomatica” di Lavrov sarebbe quella di “convincere il suo paziente statunitense di arrivare ad una accordo con la verità circa sua complicità con il terrorismo”, visto che le connessioni tra i politici dell’Amministrazione di Obama e la fornitura di armamenti ai terroristi sono “ben documentate e conosciute”.
 
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Schema della guerra in Siria
 
“E’ necessario che John Kerry e gli altri leaders dei Governi occidentali smettano di vivere nella negativa e che si diano conto della verità: loro sono parte del problema della Siria, non la sua soluzione”, afferma l’analista per concludere che senza questa “resa dei conti” tutte le dichiarazioni diplomatiche sul “porre fine alla vilenza” non hanno senso e sono inutili.
 
 
Traduzione: Luciano Lago

Espresso Tav, Si va avanti solo per far vedere che “lo Stato non cede”

4 sett 16

L’Espresso: “Dopo #terremoto #Amatrice è difficile difendere questo monumento al gigantismo e allo sperpero” #Notav
LA GIGANTESCA FRESA “Federica” mastica senza sosta le rocce del Moncenisio. Come una talpa, si fa largo nella pancia delle Alpi Cozie per scavare la galleria in direzione dell’Italia della contestatissima linea ad Alta velocità Torino-Lione. Arteria strategica del Corridoio Mediterraneo, l’autostrada ferrata che dovrà collegare Algeciras all’Est Europa.
Federica ha grandi e affilati denti metallici. Maciulla pietra carbonifera a velocità supersonica. Con la medesima rapidità sputa i detriti su un nastro nero che li trasporta all’esterno. “Welcome to Tunnel Land”, recita l’annuncio sul manifesto sopra il container dell’accoglienza del cantiere di Saint-Martin-la-Porte, minuscolo comune di 727 abitanti nella Savoia. Qui la grande opera del TAV sta già prendendo forma. Ufficialmente è un tunnel geognostico, al pari del gemello italiano, ma una volta esaurita questa funzione diventerà il “tubo sud “che sbucherà in Val Susa.
Per ora è un buco orizzontale di circa 250 metri dove operai, ingegneri e tecnici, stanno lavorando alla linea ferroviaria che taglierà in due la valle e bucherà le possenti montagne.
La grande opera per eccellenza, il ponte di Messina del Nord. E il paragone non è poi così azzardato se consideriamo i costi previsti. L’infrastruttura della Valle ha un costerà 8,6 miliardi di euro, cifra destinata a crescere con gli adeguamenti futuri. E 8 e passa miliardi sarebbero serviti per unire le due città dello Stretto. Quanti borghi e città avremmo reso anti sismici con tutti questi quattrini pubblici? Ma se i piloni del Ponte non ci sono, la talpa in Val Susa sì. Dal lato italiano del confine, Federica ha una sorella più anziana, Gea. Meno bella e appariscente, costretta in uno spazio più angusto di soli sei metri di diametro. Con temperature che possono superare i 40 gradi e l’umidità che rende l’aria irrespirabile. Quando entriamo con il trenino e arriviamo in fondo ai quasi sei chilometri, sembra un girone degli inferi. Noi risaliamo, i cinque operai lavorano da due ore e dovranno restarci ancora per sei.
Questi tunnel serviranno a studiare i dati geologici dei massicci. Il primo passo verso la realizzazione della galleria definitiva, che dovrebbe sorgere di poco a lato. La fresa è partita a novembre 2013 e finora ha percorso 5, 6 chilometri. Le mancano ancora due chilometri per andare in pensione.
Il cantiere di Gea è in Clarea, a Chiomonte, pochi chilometri da Susa. Lo raggiungiamo percorrendo un’incantevole tratto della via Francigena. Seguiamo la direzione Santiago de Compostela. In questo paradiso naturale convivono frammenti preistorici e ricordi della seconda guerra mondiale. Ci sono le grotte del neolitico. E una necropoli della stessa epoca, ora inglobata dalle recinzioni del super cantiere.
FORTINI, CHECK POINT E FILO SPINATO
La Clarea è stata anche un fortino partigiano nella Resistenza. Dal 2012, invece, è zona militare a tutti gli effetti, dopo che il cantiere è stato classificato “area strategica di interesse nazionale”. Sigla istituzionale che ne ha legittimato la blindatura e le spese folli. Muraglia di cemento e filo spinato, spesse reti metalliche, centinaia di poliziotti e altrettanti soldati, mezzi dell’Esercito, sistemi di intercettazione video, per bloccare le incursioni dei militanti No Tav. Per accedere nel fortino è necessario superare tre check point. Una piccola Palestina alle pendici delle Alpi.
DOPO IL TERREMOTO DI AMATRICE E I GRANDI PROCLAMI, È DIFFICILE DIFENDERE QUESTO MONUMENTO AL GIGANTISMO E ALLO SPERPERO
Tutto questo ha, ovviamente, un costo extra. Le tre forze di polizia schierano 200 persone al giorno. Pagate per la missione. Alcuni sindacati hanno calcolato una spesa giornaliera di 50 euro ad agente, per una spesa mensile di 300 mila euro. Dal calcolo sono esclusi i militari dell’Esercito, circa 400.
«La fresa Federica ha cominciato a scavare i primi 9 chilometri in direzione dell’Italia», racconta Mario Virano, direttore della società Telt, società pubblica per la realizzazione e la gestione dell’infrastruttura. «È il test più importante», continua Virano, «perché è una zona di rocce carbonifere che tendono a richiudersi anche di due metri. La galleria svolgerà la funzione geognostica, ma una volta esaurita tale funzione diventeranno i primi 9 chilometri del “tunnel sud” del progetto definitivo. Attualmente dei 160 chilometri da realizzarsi (114 di canne, sud e nord, più le traverse intermedie) abbiamo già scavato il 10 per cento e sono stati contrattualizzati lavori per il 20 per cento».
Il costo totale previsto, dicevamo, sarà di 8,6 miliardi. Cifra certificata da un ente terzo, ripetono con orgoglio negli uffici di Telt. Difficile credere che fino al 2029, data in cui è previsto il test e il periodo di pre-esercizio della linea (entrerà in funzione, quindi, non prima del 2030), non lieviti come in ogni grande opera che si rispetti.
QUOTA ITALIANA AL 57,9 PER CENTO
Anche perché, per esempio, il nuovissimo traforo del Gottardo, con identiche lunghezze e identica tecnologia, è costato 11,3 miliardi. All’Italia toccherà la realizzazione di soli 12,2 chilometri di tunnel transfrontaliero, mentre i francesi ne realizzeranno 45. Tuttavia, escludendo il finanziamento europeo – pari al 40 per cento del totale – il nostro governo dovrà sborsare più quattrini pubblici rispetto ai transalpini. Strane alchimie. La quota pura, senza sostegno di Bruxelles, è infatti ripartita in 57,9 per cento Roma e 42,1 per cento Parigi. Con l’aiutino, sborsiamo comunque più degli altri.
PROSSIMO OBIETTIVO: 2019
C’è una data cruciale nei piani dei vertici Telt. È il 31 dicembre 2019. «A quella data dovranno essere realizzati lavori per almeno 1,9 miliardi, l’Europa ne finanzierà il 40 per cento», spiega Virano, secondo cui la grande opera sta impiegando 800 persone, di cui 200 nel cantiere militarizzato di Chiomonte. Che rispetto ai poliziotti e ai militari di stanza lì sono comunque in minoranza. «Molte maestranze provengono dal territorio, da Susa e da Torino», sottolinea più volte. Virano fa una breve pausa, riprende fiato mentre il furgone nero prosegue il tragitto nella pancia del tunnel, per poi aggiungere: «Nel 2017 partiranno altri lavori complementari, ad esempio lo spostamento dell’autoporto di Susa. Allo stesso tempo bandiremo le gare per l’aggiudicazione dei lavori veri e propri delle gallerie di base». Si parla di 9 lotti e altrettante talpe meccaniche in azione. L’obiettivo è spendere 2 miliardi, di cui 813 milioni dati dall’Europa, entro il 2018.
SENZA OSPEDALE
Un fatto è però evidente passeggiando per i centri storici dei paesi della Valle. Gianfranco, ex maresciallo dell’aeronautica, è seduto su una panchina di corso Trieste a Susa. E riassume così il malessere di una comunità: «È un progetto imposto, un’opera di cui nessuno sente l’esigenza. Qui a Susa hanno chiuso il reparto di ginecologia e ostetricia. Le nostre donne devono percorrere 50 chilometri fino a Rivoli, col rischio di partorire sulla corsia di sorpasso dell’autostrada. Per il TAV i quattrini si trovano. E per la sanità pubblica?». Gianfranco esprime ciò che la gente comune, non per forza radicata nel movimento, pensa. E cioè che lo Stato, costretto a militarizzare un cantiere per imporre un’infrastruttura miliardaria, sordo alle voci di dissenso, abbia, in fondo perso. E dopo 25 anni, tra progetti archiviati, lavori rimandati, scontri e repressione, di certo chi si sente vittorioso è il movimento.
LA PROTESTA LOCALE E’ DIVENTATA UN MOVIMENTO NAZIONALE. CHE SI BATTE CONTRO OGNI FORMA DI SPECULAZIONE SUI TERRITORI
Bandiere bianche No TAV le troviamo in Sicilia, nei presidi degli attivisti No Muos. A Venezia contro le grandi Navi. A Vicenza nei comitati No dal Molin. A Firenze tra chi si oppone alla costruzione del tunnel tav in città. A Ventimiglia e al Brennero in solidarietà con i migranti bloccati alle frontiere. Il vessillo della Val Susa sventola in Francia, a Nantes, dove vogliono realizzare un secondo aeroporto. E in Grecia e Spagna. Il movimento è un marchio di esperienza.
Diventato un brand da adottare ogniqualvolta un territorio, la natura, una comunità diventi obiettivo di speculatori privati o statali. Anche nei paesi terremotati, dall’Emilia a quelli del centro Italia, i No TAV della Val Susa hanno fatto sentire la loro presenza. Nei giorni in cui “l’Espresso” era in viaggio in Val Susa da Bussoleno partiva un furgone bianco carico di aiuti per gli sfollati di Amatrice, Accumuli, Arquata e Pescara del Tronto. E a breve lanceranno una raccolta fondi. La logica di questa resistenza a oltranza è una sola: «Le uniche grandi opere utili sono le piccole opere per mettere in sesto il Paese, che si sta sbriciolando », dice Alberto Perino, volto storico del movimento. Non c’è governo che nei giorni terribili del post terremoto, quando ancora si cercano dispersi e vittime, non annunci miracolosi interventi anti sismici e stanziamenti miliardari per la sicurezza degli edifici. Promesse di routine, riproposte a ogni tragedia, a ogni calamità. Altre le priorità. Il cantiere Tav, una di queste.
PresidioEuropa, costola internazionale dei No TAV, fa una proposta concreta: «Il trasferimento dalle prossime settimane dei fondi europei già allocati per questo progetto – 813 milioni e più – alla messa in sicurezza degli edifici, a partire da quelli immediatamente cantierabili, nelle zone a rischio sismico in Italia», ragiona Paolo Prieri, il responsabile gruppo, che aggiunge: «Certe opere di fronte all’emergenza post sisma nel centro Italia risultano ancor più insensate».
NON CI SONO BUONI E CATTIVI
«Il ritardo del treno veloce sulla tabella di marcia è il simbolo della nostra vittoria», si illumina Paolo Perotto, storico militante del movimento, che conosce la Clarea meglio di chiunque altro. E lui che ci porta lungo la via Francigena. Passo dopo passo arriviamo nell’ultimo presidio realizzato al confine con i 7 ettari del cantiere di massima sicurezza. «Da qui non ci possono sgomberare, abbiamo comprato il terreno, dividendoci le quote in 1.500 persone». Un tempo, dove ora passano i camion, c’erano castagni secolari. «Sradicati con le ruspe e lasciati con le radici al sole a soffrire» si scalda Perotto. Lui fa parte dei cattolici No Tav. Ogni venerdì risalgono il sentiero per pregare davanti alle reti, con i militari che li guardano con sospetto. Paolo ha 74 anni, non è un terrorista. Per la procura di Torino sarebbe stato in grado di aggredire ben quattro poliziotti armati di scudo e caschi. «Dal video si vede benissimo che io ero fermo, semmai è accaduto il contrario». Quando ricorda quei fatti dai suoi occhi scorrono lacrime di amarezza. «Trattato come un criminale. Ma questi che all’apparenza sembrano segni di forza sono in realtà segnali di debolezza del potere».
Dissentire in Val Susa è pericoloso. Gli indagati del movimento sono più di mille. Di tutte le età. Giovani nel pieno delle forze e anziani che fanno fatica a camminare.
Lasciamo il presidio di Clarea per andare in quello di Venaus. Fino all’auto ci guida tra boschi Eugenio, precario che da Milano si è trasferito in valle. «Siamo tutti dalla stessa parte, hanno tentato di dividerci in buoni e cattivi. Noi i bravi cittadini e i black block venuti dai centri sociali. Hanno prima indirizzato la repressione su di loro, e ora tocca a noi». A Venaus ci aspetta Fausto Tapparo, 64 anni, ai domiciliari in via preventiva in attesa di un processo. Lo accusano di aver partecipato a un’azione violenta contro il cantiere di Chiomonte insieme ad altre 20 persone. Per dire, uno di loro è accusato di aver raccolto e allontanato un lacrimogeno.
Tapparo in attesa di giudizio ha eletto il domicilio per gli arresti nel presidio No TAV. È lì che trascorre i suoi giorni, tra caffè, partite a pinnacolo e lettura. Ci racconta di quando la polizia ha arrestato il barbiere di Bussoleno e gli altri colleghi concorrenti del paese hanno fatto a turno per tenergli aperto il negozio. Solidarietà che la repressione non ha disintegrato.
Gli anni passano. Ma in Val Susa tre generazioni continuano la guerra per difendere le loro montagne.
QUELLA PROF DI GRECO ANTICO SIMBOLO DELLA RESISTENZA
ENTRATI A BUSSOLENO, paesone della bassa Val di Susa, si susseguono le bandiere del movimento. Sventolano su ogni balcone. Sui lampioni lungo le strade. Nicoletta Dosio ci aspetta qui. Non a casa, però, dove a quell’ora l’obbligo di dimora – disposto dal giudice di Torino – le imporrebbe di stare. Ci attende nel luogo che più la fa sentire a suo agio, nella taverna “militante” che gestisce con il suo compagno, Silvano. Su una delle pareti della saletta interna c’è un murale del Quarto Stato in versione No Tav. Ha 70 anni, Nicoletta. Ha insegnato greco antico per una vita, ora è in pensione.
Quando arriviamo sta pulendo grossi funghi porcini. Sotto il grembiule da lavoro, l’immancabile maglietta del movimento. Ha capelli rossi, mossi, raccolti e un bel sorriso. «A quest’ora non potrei stare qui» ci accoglie con una battuta, «ma ho deciso di non rispettare la decisione del giudice che mi considera evidentemente una pericolosa criminale, visto che i fatti dell’indagine risalgono a più di un anno fa e l’ordinanza mi è stata notificata solo a giugno scorso». Inizialmente avrebbe dovuto solo firmare dai carabinieri, ma il suo rifiuto ha portato a un aggravio della misura, trasformandosi in obbligo a stare in casa dalle sei di pomeriggio alle otto di sera.
Nicoletta ha organizzato un tour in diverse città per raccontare la sua esperienza. «Nella lotta che portiamo avanti non esistono conflitti generazionali. È per questo che tante persone da altri luoghi vengono in Valle».
Anche due ragazzi hanno violato il provvedimento del tribunale. Solo che per loro si sono aperte le porte del carcere. «È una forma di repressione che mira a piegarci, a dividerci», si indigna. In Val di Susa, racconta l’ex insegnante, ormai arrivano da tutta Italia a dare sostegno.
«E noi sosteniamo loro. Non solo. Quella che è nata come una battaglia particolare è diventata qualcosa di più. La possibilità di immaginare un futuro, una società diversa, fondata su principi diversi. Pensiamo alla solidarietà. In questi anni di resistenza abbiamo imparato a farci carico dei problemi di tutti». Entra una signora con una bimba: «Ciao Nico, dove lascio il pacco per Amatrice?». Tra qualche ora parte il furgone con gli aiuti.

La Fed continua con le politiche monetariste del Qe

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi – 01/09/2016
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Fonte: Arianna editrice
L’oracolo di Jackson Hole ha parlato per bocca del governatore della Federal Reserve, la signora Janet Yellen. Ma come sempre, dai tempi di Delfi in poi, non è stato molto chiaro. Sì, forse, ma anche no, sulla possibilità di un piccolo ritocco, un rialzo del tasso di sconto da parte della banca centrale americana.
Organizzato come ogni anno alla fine di agosto dalla Fed di Kansas City, il convegno di banchieri ed esperti internazionali era spasmodicamente atteso da tutti gli operatori finanziari del mondo. Conoscere le future intenzioni monetarie americane, come noto,  è da sempre un fatto cruciale per i mercati per poi prendere le decisioni sulle grandi operazioni finanziare. Naturalmente anche quelle speculative.
Nella sua analisi, Janet Yellen ha riconosciuto che la persistente debolezza nella ripresa degli investimenti, la bassa produttività e la troppo alta propensione al risparmio frenano l’economia, nonostante l’aumento dell’occupazione registrato anche negli ultimi tre mesi negli Usa.
I differenti e molteplici indicatori economici non permettono, quindi, di affermare con chiarezza se ci sia l’intenzione di aumentare il tasso di interesse, come in precedenza ventilato anche nei documenti ufficiali del Federal Open Market Committee della Fed.
La lettura delle proiezioni e degli scenari elaborati dalla stessa banca centrale indicherebbe un 70% di probabilità che esso possa variare tra lo 0 ed il 4,5% entro la fine del 2018! E’ una vaghissima stima che non giustifica affatto l’aver scomodato centinaia di importanti esperti. La ragione di tale vaghezza sarebbe ovviamente da ricercare nell’andamento dell’economia che spesso è colpita da rivolgimenti imprevedibili. Perciò “quando avvengono forti choc e l’andamento economico cambia, la politica monetaria deve adeguarsi”, ha affermato la Yellen.
Si spera che non sia questo il suo vero oracolo.
Leggendo con più attenzione il suo discorso vi è comunque un messaggio molto chiaro: continuare senza limiti di tempo la politica monetaria accomodante del Quantitative easing.
In merito si consideri che, secondo una ricerca della Bank of America, il totale delle politiche di Qe condotte dalle banche centrali a livello mondiale ammonterebbe a 25 trilioni di dollari.
Sul piano concreto la Fed ha anzitutto deciso di mantenere i titoli, compresi quelli più complessi e quindi potenzialmente pericolosi come gli abs, che ha acquistato negli anni passati, liberando così le banche dai loro titoli rischiosi e fornendo maggiore liquidità all’intero sistema bancario.
 
In questo contesto la Yellen riconosce che il bilancio della Fed è passato da meno di un trilione a circa 5 trilioni di dollari e ritiene pertanto che una sua riduzione potrebbe avere delle conseguenze imprevedibili sull’economia.
E’ evidente che per il governatore americano la politica di acquisto di titoli e di “guidance” resterà una componente essenziale della strategia complessiva della Fed. Per “guidance” si intende anche l’annuncio che il tasso di interesse potrebbe restare vicino allo zero per un lungo periodo di tempo. Più che di economia monetaria trattasi di una politica della comunicazione!
Ma l’annuncio più importante è quello di voler prendere in considerazione l’utilizzo anche di nuovi strumenti d intervento monetario, tra cui quello di allargare il raggio di acquisto di titoli e di altri asset finanziari. Ciò inevitabilmente potrebbe voler dire l’acquisto di titoli e derivati ancora a più alto rischio. Si considererà anche la possibilità di alzare il target del tasso di inflazione dal 2 al 3%, allungando così i tempi di applicazione del Qe.  Allo stato non ci sembra una prospettiva rosea.
 
Tuttavia la Yellen deve ammettere che una prolungata politica del tasso di interesse zero potrebbe incoraggiare le banche e gli altri operatori finanziari a intraprendere operazioni eccessivamente rischiose.
Si calcola che il Qe ha determinato che titoli per circa 11 trilioni di dollari oggi siano a tasso zero o negativo. Trattasi di circa il 20% del debito sovrano mondiale! Un terzo di tutti i titoli di debito pubblico globale emessi nel 2016 sono stati ad un tasso negativo.
E’ chiaro che la continuazione delle politiche monetarie accomodanti riflettono “la paura che siamo di fronte ad un prolungato periodo di stagnazione economica secolare”, come ha ammesso persino Stanley Fisher, il vice presidente della Fed.
E’ evidente, quindi, che il tasso di interesse zero non sempre si rivela efficace nel sostegno alla ripresa e alla crescita.
Per questa ragione, senza iattanza, da sempre noi ribadiamo la necessità che i governi non lascino alla politica monetaria e alle banche centrali il compito di rimettere in moto l’economia, ma se ne assumano essi la piena responsabilità decisionale. Servono politiche di investimento di partenariato pubblico privato nei campi delle infrastrutture, delle nuove tecnologie. In Italia anche nel campo della messa in sicurezza del territorio sempre più minacciato da inondazioni, frane, dissesti idrogeologici e terremoti, come dimostrano i drammatici recenti disastri di Amatrice e della vasta area laziale-marchigiana-umbra.

Parigi e Berlino affossano il TTIP?

di Michele Paris – 31/08/2016
ttip parigi berlino
Fonte: Altrenotizie
Una serie di dichiarazioni e prese di posizione da parte di importanti esponenti di alcuni governi europei sembrano avere assestato in questi ultimi giorni un colpo forse mortale alle residue speranze di vedere sottoscritto a breve il famigerato trattato di libero scambio con gli Stati Uniti, noto con il nome di Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti (TTIP).
 
A far tornare i riflettori sui negoziati tra Bruxelles e Washington, da tempo in fase di stallo, era stato nel fine settimana il ministro dell’Economia tedesco, nonché vice-cancelliere, Sigmar Gabriel. Il leader Social Democratico aveva preso atto nel corso di un’intervista alla TV pubblica ZDF del fallimento delle trattative, dovuto all’impossibilità da parte europea di “accettare le richieste americane”.
 
Gabriel aveva fatto riferimento ai 14 round di negoziati tenuti a partire dal giugno del 2013, durante i quali le due parti non sono state in grado di raggiungere un accordo su nessuna delle 27 sezioni che compongono il trattato transatlantico.
 
La posizione espressa dal vice-cancelliere tedesco è condivisa da molti all’interno della classe dirigente europea. Il governo Socialista francese è ad esempio tra i più critici del TTIP. Già nel mese di maggio, il presidente Hollande aveva di fatto bocciato il trattato, sull’onda anche di svariate manifestazioni di protesta seguite alla pubblicazione di documenti segreti relativi ai contenuti dei negoziati.
 
Sempre questa settimana, poi, il ministro per il Commercio Estero di Parigi, Matthias Fekl, ha scritto in un tweet che il suo governo intende chiedere la fine delle trattative sul TTIP. Lo stesso ministro francese qualche mese fa aveva previsto il tracollo dei negoziati, assegnandone la responsabilità alle posizioni troppo rigide degli Stati Uniti.
 
Il trattato in fase di discussione punta non solo all’eliminazione delle barriere doganali da entrambe le sponde dell’Atlantico, ma anche e soprattutto allo smantellamento delle regolamentazioni previste in vari ambiti e che limitano l’attività e i profitti delle grandi aziende.
 
I timori maggiori riguardano possibili nuovi attacchi all’assistenza sanitaria pubblica, al welfare in generale, ai livelli delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e alla sicurezza ambientale e alimentare.
Particolare allarme suscita inoltre una clausola consueta per i trattati di libero scambio e che è inclusa anche nel TTIP, quella cioè che consente alle corporation di fare causa ai paesi in cui operano se questi ultimi mettono in atto leggi o adottano provvedimenti che minacciano i loro livelli di profitto.
 
Le dichiarazioni di Gabriel sono state in ogni caso criticate da altri esponenti della politica tedesca e a livello europeo. La cancelliera Merkel solo qualche settimana fa aveva definito il TTIP “assolutamente nell’interesse dell’Europa”.
Il portavoce del governo di Berlino, Steffen Seibert, ha risposto infatti questa settimana alle parole del ministro dell’Economia sostenendo che le trattative devono continuare, mentre in precedenza, dopo la diffusione di un recente rapporto dello stesso dicastero che prevedeva scarse possibilità di intesa sul TTIP, aveva ribadito che l’intero gabinetto appoggiava gli sforzi per la firma dell’accordo in tempi brevi.
 
usa onu flag
Pubblicamente, i vertici europei appaiono anch’essi convinti della possibilità di mandare in porto il TTIP. Il capo dei negoziatori UE, lo spagnolo Ignacio Garcia Becerra ha escluso lunedì che il trattato sia da considerarsi morto. Il portavoce della Commissione Europea, Margaritis Schinas, ha addirittura assicurato che quest’ultima è tuttora “pronta a finalizzare l’accordo entro il 31 dicembre 2016”.
 
L’ex politico greco ha tuttavia ammesso indirettamente che le possibilità di un simile esito sono quasi inesistenti, poiché Bruxelles non è disposta a sacrificare “la sicurezza, la salute, le protezioni sociali e dei dati personali o la diversità culturale” dell’Europa per raggiungere un accordo con gli Stati Uniti. Le voci contrarie tra i governi del continente emerse negli ultimi mesi minacciano comunque il naufragio dell’accordo, visto che, anche in caso di successo dei negoziati, esso dovrebbe essere ratificato da ognuno dei 27 paesi dell’Unione.
 
Da Washington, infine, il rappresentate del governo americano per il commercio estero, Michael Froman, si è comprensibilmente mostrato ottimista sui negoziati, i quali a suo dire avrebbero anzi fatto alcuni progressi.
 
A influire in parte sul clima di sfiducia che avvolge il TTIP è però anche lo scenario politico americano, segnato in questa fase pre-elettorale dallo scetticismo di entrambi i candidati alla presidenza. Hillary Clinton, in particolare, da qualche tempo ha fatto marcia indietro sul trattato transatlantico, dicendosi ufficialmente contraria, vista la predisposizione degli elettori Democratici nei confronti di accordi di libero scambio che, in passato, hanno contribuito all’emorragia di posti di lavoro nel settore manifatturiero americano.
 
Se le rivelazioni sui contenuti del TTIP, assieme alla segretezza con cui vengono condotti i negoziati, hanno prodotto una vasta quanto legittima opposizione popolare al trattato in Europa, le prese di posizione di politici come il ministro tedesco Sigmar Gabriel hanno poco a che fare con scrupoli per la democrazia o per le residue protezioni sociali garantite dai paesi europei.
 
Lo stesso Gabriel ha d’altra parte manifestato il suo sostegno per il trattato di libero scambio tra UE e Canada che contiene alcune clausole simili a quelle previste dal TTIP. I negoziati sul cosiddetto CETA (Accordo Economico e Commerciale Globale) si erano conclusi nell’agosto del 2014 e il trattato euro-canadese è ora in attesa di essere approvato dai 27 paesi UE e dal parlamento europeo.
 
Le sezioni del governo tedesco, così come di quello francese o di altri paesi, che si oppongono al TTIP non sono cioè contrarie al libero scambio di merci e servizi, né al prevalere degli interessi delle grandi corporation su quelli di lavoratori e cittadini comuni. La loro opposizione all’accordo con il governo di Washington, alla luce dell’insistenza di quest’ultimo per l’inclusione di condizioni in larga misura vantaggiose per il capitalismo USA, è dovuta piuttosto all’impossibilità di garantire posizioni favorevoli alle proprie aziende nei confronti delle concorrenti americane.
 
 
Una parte del business tedesco, rappresentato soprattutto dal partito della cancelliera Merkel, spinge dunque per l’approvazione del TTIP, in modo da massimizzare i profitti derivanti dai rapporti commerciali già molto solidi del loro paese con gli Stati Uniti. Altri, al contrario, auspicano un riorientamento del business tedesco verso il continente asiatico, se non la stessa Russia, dove promette di concretizzarsi buona parte della crescita economica futura.
 
Questi ultimi vedono di conseguenza il consolidamento della partnership economica con gli Stati Uniti come un ostacolo e le loro istanze si intrecciano inevitabilmente con delicate questioni di natura strategica che, in un clima internazionale caratterizzato da crescenti rivalità, hanno già prodotto pericolose frizioni tra Berlino e Washington su questioni legate, ad esempio, ai rapporti da tenere con paesi come Russia e Cina.

Renzi e gli scambi con Obama «Apprezza le nostre riforme»

Renzi incoronato a vita regnante d’Italia, viva la democrazia del pd CHE DETESTA LE ELEZIONI. Ma sono la società civile, quindi zitti e che nessuno VADA IN PIAZZA. LE agende rosse in difesa della costituzione non si vedono? La costituzione non deve essere distrutta dal nano di Arcore, mica dall’antifascista solidale di MAFIA CAPITALE. 
iL SERVO INCASSA L’APPROVAZIONE, altro che anni, basta guardare la fornero quante vite ha rovinato A NORMA DI LEGGE IN UN BALENO
 
E dice: il G20 nel 2021? ci sarò
 
Dal leader canadese all’australiano, il referendum interessa a tutti
 
di Guido Santevecchi, inviato a Hangzhou
 
renzi obama
Sono le undici di sera quando Matteo Renzi rientra dalla prima giornata del G20 di Hangzhou, conclusa con uno spettacolo sul lago diretto da Zhang Yimou e un’esplosione di fuochi d’artificio come solo i cinesi osano organizzare. «Sono molto, molto contento di questo giorno», dice e spiega che nel corso della riunione tra i capi di Stato e di governo «alcuni Paesi come gli Stati Uniti hanno espresso apprezzamento per le nostre riforme strutturali». Obama si è anche fermato nella postazione della delegazione italiana, ha stretto la mano al ministro delle Finanze Padoan e Renzi glielo ha indicato come «un uomo saggio»; il presidente americano ha replicato: «Si vede».
L’appoggio del presidente Obama e di altri colleghi come il canadese Trudeau e l’australiano Turnbull arrivano a poche settimane dal referendum cruciale per l’Italia e potenzialmente per l’Europa e il premier ha ribadito la sua linea: «Spesso per vedere i risultati delle riforme ci vogliono anni. Il futuro viaggia veloce e può impaurire. Dobbiamo avere più attenzione all’equità e all’uguaglianza, tutti vogliamo una crescita inclusiva, certo, ma abbiamo un nemico comune: la paura».
 
Renzi osserva che il tema della necessità di dare risposte politiche alla paura è stato ripreso anche da Theresa May, la leader conservatrice chiamata a gestire Londra nel tempo della Brexit. Nel ragionamento di Renzi, anche i conservatori britannici si sono dovuti rendere conto di come la sensazione nella gente di una crescita senza uguaglianza crei disagio e abbia contribuito all’ondata di protesta che ha portato il Regno Unito fuori dalla Unione europea. Il premier ha qualcosa da dire anche sul tema degli immigrati: «Noi dobbiamo cercare di salvare tutti, poi sappiamo che una parte di questi nostri fratelli e sorelle non hanno diritto a stare in Italia. L’Europa dovrebbe scegliere la linea del rimpatrio europeo».
 
Il G20 cinese ha evidentemente impressionato positivamente il premier, convinto che non si tratti di un rito «come altri impegni internazionali di cui non faccio il nome», formule come il G20 e il G7 secondo Renzi funzionano: «Lo dimostra il fatto che è stato due anni fa al vertice del Gruppo dei 20 in Australia che si è deciso di cambiare strada investendo nella crescita: fu lo spartiacque». Così ora a Hangzhou si discute a lungo di equità «perché la pretesa tecnocratica di studiare delle soluzioni a tavolino con i professori di economia e gli sherpa non funziona. La politica rivendica il suo ruolo. Il G20 non è un vuoto esercizio di retorica». Il G7 tornerà in Italia, in Sicilia, l’anno prossimo. Il G20 nel 2017 sarà ad Amburgo, nel 2018 a Buenos Aires. «Noi ancora non l’abbiamo mai ospitato e non so se sarà nel 2019 nel 2020 o nel 2021», osserva Renzi prima di lanciare la battuta: «Io comunque ci sarò».
 
Il possibile G20 italiano porta il discorso sulla candidatura olimpica di Roma. «Le Olimpiadi sarebbero una straordinaria opportunità e Roma sarebbe in ottima posizione perché si è lavorato molto, ma bisogna rispettare il dibattito politico che sta animando il Movimento 5 Stelle alle prese con la prova di governo, governino se ne sono capaci». Comunque, se Roma rinuncerà, nel 2028 o 2032 ci sarà un’altra candidatura italiana.
 
4 settembre 2016 (modifica il 5 settembre 2016 | 11:29)
IL CORRIERE.IT

Ieri burkini, oggi Ventotene, domani…?

posted by Redazione agosto 23, 2016
ventotene
…di cosa parleranno i media domani? L’evento di Ventotene è passato come passa una loffia. Senza lasciare una traccia da utilizzare nei prossimi giorni  per la chiacchiera e il tormentone estivo.
 
La cosa più divertente  – bisogna contentarsi –  è stata vedere le facce di circostanza di Hollande e Merkel portati da Renzi davanti al cenotafio di Altiero Spinelli.  Nella supposizione che i tre “Esuli Antifascisti” fossero universalmente noti e altissimamente stimati  anche fuori dai confini. Ossia: si crede che un ‘culto’ artificiale, creato dal sistema di potere parassitario oggi vigente   e imposto alle scolaresche italiche  a forza  di 70 anni  di lezioni  e “25 Aprile” e Giornate della Memoria, avesse  vita propria e  concreta e fosse condiviso “in Europa”  come atto fondativo  della medesima.
 
S’è visto che quei due –   che vengono da storie diverse,  uno dal Grand Orient, l’altra dalla STASI – non ne sapevano niente. Ho tenerezza per Renzi, anzitutto sapendo che quando quelli del suo partito lo rovesceranno ci  metteranno sul gobbo uno peggiore, e poi anche perché  – in fondo – ci sta provando, a ridare vita alla cosiddetta “Europa” del “sogno”, del “Manifesto di Ventotene”.  Avremmo voluto poterlo avvertire, il poveretto: il Culto degli Esuli Antifascisti  Confinati è una cosa tutta vostra, ha vigenza solo nelle celebrazioni ufficiale dei partiti nati nel ’45 ed ora in deliquescenza ed auto-eliminazione.  La maggioranza degli italiani manco conosce la vicenda dei confinati; quelli che lo sanno, sopportano il culto ufficiale come parte della lagna nelle Giornate della Liberazione, annualmente ripetute.  Il pianto sulla sciagura dei tre (due dei quali ebrei, tre comunisti) perché confinati a Ventotene non può essere che cerimoniale:  tutti noi vorremmo soffrire sotto un regime che ci sbatte a Ventotene, invece che alle Solovki nel GuLag. “Vi siete portati le pinne e la maschera, Colorni, Rossi e Spinelli?”. Si vedeva benissimo che la Merkel ci pensava: avessi un po’ di tempo, mi ci farei una luna di miele.  Con la mia Fraulein.
 
Siamo qui   di fronte al caso estremo di un regime depassé che crede alla propria propaganda. Sintomo terminale.  Il regime che il povero  Renzi  è stato messo a rappresentare non solo non si accorge che la sua propaganda non ha più corso nello Stato come una moneta falsa,  ma è convinto che essa sia  vigente a Berlino o Parigi. Che il Culto di Ventotene dica qualcosa, che so, a Juncker,  che illumini di fattiva intelligenza la faccia di Jens Weidman, che sostenga di viva fede europeista la Erasmus Generation che (si sa) “coniuga   studio e divertimento”.
 
E’ un caso brutto, quando un regime crede  alla propria propaganda; se poi la crede universale proprio quando è locale e provinciale e inoltre fuori moda e  inesportabile,  è un caso pietoso. Non solo di un regime costretto a vivere nella menzogna (come disse Solgenitsin) e quindi impossibilitato a portare reali soluzioni ai problemi in cui si è irretito da sé; ma la dimostrazione patente dell’assenza di  una minima idea di “destino comune”.  Il povero Renzi ci ha provato, gliene do atto;  ammiro perfino la sua ambizione: purtroppo, non ha la menoma legittimità per  fare quel che avrebbe voluto fare. Non ce  l’ha presso il popolo italiota; figurarsi se gliela riconoscono i due marpioni-statisti, anche loro  in grave crisi di astinenza di legittimità presso i loro popoli. Juncker è giunto a  inveire contro i confini nazionali, “la peggior sciagura dell’Europa”: ecco un altro che ha capito tutto.
 
Nell’insieme, i tre hanno dovuto pronunciare menzogne che tutti sanno essere tali: la questione immigrati,  il rilancio dell’economia, la  difesa comune.  La “flessibilità”, ha piatito Renzi (poveretto).
 
La “lotta al terrorismo islamico”,  per esempio, senza dire che esso è  la diretta conseguenza delle  guerre e delle sovversioni che hanno portato alla distruzione di interi stati nell’area  islamica;  sovversioni americane a cui    come “europei” abbiamo partecipato senza un’obiezione.  Alcuni giornali tedeschi  rimproverano alla Merkel di  continuare a definire quella in Siria una “guerra civile”  fra il regime oppressore e una opposizione  legittima, laddove invece sono ormai a battersi decine di migliaia di mercenari pagati, stranieri  armati dagli Usa. Direte: che cosa c’entra con l’Europa? C’entra: un’Europa che continua avivere nella menzogna non rinascerà mai. C’entra anche  nel senso che la UE mantiene contro la Siria e il suo governo,  un durissimo embargo:  gli europei invitati a commuoversi per “i bambini sotto i bombardamenti di Aleppo”  non vedono i bambini siriani che muoiono perché il paese non può comprare medicinali e alimenti. Questo per dire: la UE di Renzi, della Mogherini e dell’Hollande è una entità malvagia che compie cattive azioni, non è innocente.
 
E non ha letto nemmeno tutto il manifesto di Spinelli, che a un certo punto detta: “In un momento in cui occorre la massima determinazione ed audacia, i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno spontaneo movimento popolare […] Pensano che loro dovere sia di formare questo consenso, fanno i predicatori quando servono capi che guidino….Rappresentano non la volontà di rinnovamento, ma confuse velleità…”
 

Pistoia, indagati sindaco Pd e giunta: “Interferenze nelle graduatorie per assunzione dirigenti”

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Secondo quanto scrive La Nazione sono complessivamente 16 le persone coinvolte nell’inchiesta: oltre al primo cittadino e ai suoi cinque assessori ci sono anche funzionari e dirigenti pubblici. La replica su Facebook: “Non abbiamo ancora ricevuto nessuna comunicazione, ma se il fascicolo è stato aperto dopo un esposto dell’Ente la Procura aveva l’obbligo di procedere”
 
“Interferenze nelle graduatorie per l’assunzione dei dirigenti comunali”. Con questa accusa il sindaco di Pistoia Samuele Bertinelli (Pd) e gli assessori della sua giunta sono indagati dalla procura. A riportarlo è il quotidiano La Nazione precisando che i reati contestati ai membri della giunta di centrosinistra che governa la città toscana, in cui le elezioni comunali si svolgeranno il prossimo anno, vanno, a vario titolo, dall’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione all’abuso d’ufficio e dalla concussione al falso.
 
Nel mirino degli inquirenti, spiega ancora il quotidiano, ci sono le presunte interferenze di Bertinelli e dei componenti della sua giunta nei concorsi e nelle graduatorie per l’assunzione di nuovi dirigenti comunali. Gli indagati sono complessivamente 16: oltre al sindaco e ai suoi cinque assessori ci sono anche funzionari e dirigenti pubblici. L’inchiesta è partita da una denuncia presentata da alcuni dipendenti dell’amministrazione comunale pistoiese.
 
Il sindaco Bertinelli si è difeso su Facebook dicendo di non aver ricevuto ancora nessuna comunicazione da parte della magistratura. “Le procedure relative alla selezione del personale”, ha scritto, “sono state seguite da questa amministrazione secondocriteri di massima trasparenza, pubblicità e con assoluto rigore”. Il primo cittadino ha detto di essere disponibile a collaborare con la magistratura e ha poi concluso: “L’indagine nasce da un esposto presentato da alcuni dipendenti dell’Ente, la Procura aveva l’obbligo di aprire un fascicolo e dunque non poteva fare altro che avviare un’indagine. Considero non da oggi, peraltro, l’obbligatorietà dell’azione penale un principio di autentica civiltà giuridica”.
 
di F. Q. | 4 agosto 2016

Il manifesto di Ventotene: solo un assurdo inno ad una dittatura mondiale

martedì, 23, agosto, 2016
 
Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni al confino sull’isola di Ventotene scrissero, nell’agosto 1941 un manifesto dal titolo “Per un’Europa libera e unità”.
 
Spesso sentite sbandierare il grande valore di questo lavoro e come esso rappresenti ciò che volevano i nostri Padri fondatori per l’Europa. Ma avete mai letto il manifesto?
 
manifesto-ventotene
In questo pezzo ve lo propongo in integrale, intervallato da miei commenti e considerazioni, che troverete in corsivo per distinguerle dal testo originario. A fine lettura scoprirete che il manifesto è in realtà solo l’inno ad una dittatura globale. L’apologia di un governo mondiale, che imponga, senza alcuna democrazia, ai popoli la retta via. Insomma, per evitare nuovi totalitarismi in guerra, la soluzione sarebbe crearne uno solo. Pare che l’odierna UE abbia capito tutto questo alla lettera.
 
Buona lettura!
 
“Per un’Europa libera e unita”
I – LA CRISI DELLA CIVILTÀ MODERNA
 
La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale che non lo rispettino:
 
1. Si è affermato l’eguale diritto a tutte le nazioni di organizzarsi in stati indipendenti. Ogni popolo, individuato nelle sue caratteristiche etniche geografiche linguistiche e storiche, doveva trovare nell’organismo statale, creato per proprio conto secondo la sua particolare concezione della vita politica, lo strumento per soddisfare nel modo migliore ai suoi bisogni, indipendentemente da ogni intervento estraneo.
L’ideologia dell’indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere, dentro il territorio di ciascun nuovo stato, alle popolazioni più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili.
 
(N.d.a. – L’inizio pare piuttosto buono dunque, un elogio alla libertà e alla democrazia ed alla crescita di quei valori fondamentali che tutti noi oggi, almeno a parole, riconosciamo e diciamo di voler difendere. Ma ecco arrivare subito la prima incredibile affermazione degli uomini di Ventotene. Tenetevi forte, perché questo non ve lo raccontano mai…)
 
Essa portava però in sé i germi del nazionalismo imperialista che la nostra generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali.
 
(N.d.a. – Che? Il progresso democratico ha in se i germi del nazionalismo imperialista? In realtà i Padri Costituenti della nostra Repubblica, circa sei anni dopo, come si evince dai verbali dell’Assemblea Costituente, avevano ben chiara la genesi dei nazionalismi, genesi che non era stata minimamente colta da Rossi e Spinelli. Essi derivarono dalle politiche economiche neoliberiste, da quella follia dell’economia senza controlli democratici, che provocando violente crisi, creò il terreno fertile per il nazionalismo. Il capitale si accumulava in piccoli gruppi di interesse, che senza il controllo democratico, finivano per schiacciare tutti gli altri. La reazione fu ovviamente l’avvento dei nazionalismi, che dunque non erano un germe insito nello Stato in generale, ma, all’opposto, un germe insito nella mancanza di uno Stato che perseguisse democraticamente l’interesse pubblico)
 
La nazione non è più ora considerata come lo storico prodotto della convivenza degli uomini, che, pervenuti, grazie ad un lungo processo, ad una maggiore uniformità di costumi e di aspirazioni, trovano nel loro stato la forma più efficace per organizzare la vita collettiva entro il quadro di tutta la società umana. È invece divenuta un’entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possono risentirne.
 
(N.d.a. – Altra assurdità storica. L’entità divina nazionale, spesso associata con la figura di un Re, era in netto declino agli albori della seconda guerra mondiale, le grandi rivoluzioni risalivano ai due secoli precedenti. Il problema è che ancora la democrazia non era perfettamente consolidata e le politiche neoliberiste avevano seminato miseria in Europa. In più la situazione era molto grave in Germania dove pesavano gli accordi di pace di Versailles, così duri per il popolo tedesco da diventare i migliori alleati di Hitler e compagni)
 
La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo “spazio vitale” territori sempre più vasti che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquietarsi che nell’egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti.
 
(N.d.a.  -La sovranità degli Stati nazionali è assoluta in linea di principio, entro i limiti delle regole date nel patto sociale, ma ovviamente tale sovranità non si estende fuori dal territorio nazionale. Le guerre avvengano quando si vuole imporre la sovranità di uno Stato su un territorio esterno ad esso. Non c’è legame alcuno con la normale e necessaria sovranità sul proprio territorio)
 
In conseguenza lo stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi, tenuti a servirlo con tutte le facoltà per rendere massima l’efficenza bellica.
 
(N.d.a. – Ancora una volta approssimativo. Vero per il nazismo, ovvero per un totalitarismo, ma completamente falso per uno Stato democratico. Lo Stato democratico non ha sudditi poiché la sovranità appartiene al popolo. Lo Stato democratico riconosce i diritti inalienabili dell’uomo)
 
Anche nei periodi di pace, considerati come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive, la volontà dei ceti militari predomina ormai, in molti paesi, su quella dei ceti civili, rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi; la scuola, la scienza, la produzione, l’organismo amministrativo sono principalmente diretti ad aumentare il potenziale bellico; le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più tenera età al mestiere delle armi e dell’odio per gli stranieri; le libertà individuali si riducono a nulla dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestar servizio militare; le guerre a ripetizione costringono ad abbandonare la famiglia, l’impiego, gli averi ed a sacrificare la vita stessa per obiettivi di cui nessuno capisce veramente il valore, ed in poche giornate distruggono i risultati di decenni di sforzi compiuti per aumentare il benessere collettivo.
 
(N.d.a. – Ancora una volta si parla solo di alcuni Stati, le dittature non sono l’unica forma possibile di patto sociale)
 
Gli stati totalitari sono quelli che hanno realizzato nel modo più coerente l’unificazione di tutte le forze, attuando il massimo di accentramento e di autarchia, e si sono perciò dimostrati gli organismi più adatti all’odierno ambiente internazionale. Basta che una nazione faccia un passo più avanti verso un più accentuato totalitarismo, perché sia seguita dalle altre nazioni, trascinate nello stesso solco dalla volontà di sopravvivere.
 
(N.d.a. – Assurdo! Libertà, sovranità ed indipendenza diventano per gli uomini di Ventotene il cuore dei nazionalismi, la base da cui tutto parte. I tre dimostrano così di non comprendere minimamente, benché la stessero vivendo, la radice del nazionalismo, che non era il prodotto automatico e sicuro di uno Stato, tantomeno di uno Stato che ha fatto di libertà e democrazia il suo fulcro. Il nazionalismo ha terreno fertile nella miseria, nell’ignoranza e nella povertà)
 
2. Si è affermato l’uguale diritto per i cittadini alla formazione della volontà dello stato. Questa doveva così risultare la sintesi delle mutevoli esigenze economiche e ideologiche di tutte le categorie sociali liberamente espresse. Tale organizzazione politica ha permesso di correggere, o almeno di attenuare, molte delle più stridenti ingiustizie ereditarie dai regimi passati. Ma la libertà di stampa e di associazione e la progressiva estensione del suffragio rendevano sempre più difficile la difesa dei vecchi privilegi mantenendo il sistema rappresentativo. I nullatenenti a poco a poco imparavano a servirsi di questi istrumenti per dare l’assalto ai diritti acquisiti dalle classi abbienti; le imposte speciali sui redditi non guadagnati e sulle successioni, le aliquote progressive sulle maggiori fortune, le esenzioni dei redditi minimi, e dei beni di prima necessità, la gratuità della scuola pubblica, l’aumento delle spese di assistenza e di previdenza sociale, le riforme agrarie, il controllo delle fabbriche minacciavano i ceti privilegiati nelle loro più fortificate cittadelle.
Anche i ceti privilegiati che avevano consentito all’uguaglianza dei diritti politici non potevano ammettere che le classi diseredate se ne valessero per cercare di realizzare quell’uguaglianza di fatto che avrebbe dato a tali diritti un contenuto concreto di effettiva libertà. Quando, dopo la fine della prima guerra mondiale, la minaccia divenne troppo forte, fu naturale che tali ceti applaudissero calorosamente ed appoggiassero le instaurazioni delle dittature che toglievano le armi legali di mano ai loro avversari.
D’altra parte la formazione di giganteschi complessi industriali e bancari e di sindacati riunenti sotto un’unica direzione interi eserciti di lavoratori, sindacati e complessi che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo stato stesso in tante baronie economiche in acerba lotta tra loro.Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si valevano per meglio sfruttare l’intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, abolendo la libertà popolare, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a contenere.
Di fatto poi i regimi totalitari hanno consolidato in complesso la posizione delle varie categorie sociali nei punti volta a volta raggiunti, ed hanno precluso, col controllo poliziesco di tutta la vita dei cittadini e con la violenta eliminazione dei dissenzienti, ogni possibilità legale di correzione dello stato di cose vigente. Si è così assicurata l’esistenza del ceto assolutamente parassitario dei proprietari terrieri assenteisti, e dei redditieri che contribuiscono alla produzione sociale solo col tagliare le cedole dei loro titoli, dei ceti monopolistici e delle società a catena che sfruttano i consumatori e fanno volatilizzare i denari dei piccoli risparmiatori, dei plutocrati, che, nascosti dietro le quinte, tirano i fili degli uomini politici, per dirigere tutta la macchina dello stato a proprio esclusivo vantaggio, sotto l’apparenza del perseguimento dei superiori interessi nazionali. Sono conservate le colossali fortune di pochi e la miseria delle grandi masse, escluse dalle possibilità di godere i frutti delle moderna cultura. È salvato, nelle sue linee sostanziali, un regime economico in cui le risorse materiali e le forze di lavoro, che dovrebbero essere rivolte a soddisfare i bisogni fondamentali per lo sviluppo delle energie vitali umane, vengono invece indirizzate alla soddisfazione dei desideri più futili di coloro che sono in grado di pagare i prezzi più alti; un regime economico in cui, col diritto di successione, la potenza del denaro si perpetua nello stesso ceto, trasformandosi in un privilegio senza alcuna corrispondenza al valore sociale dei servizi effettivamente prestati, e il campo delle alternative ai proletari resta così ridotto che per vivere sono costretti a lasciarsi sfruttare da chi offra loro una qualsiasi possibilità d’impiego.
Per tenere immobilizzate e sottomesse le classi operaie, i sindacati sono stati trasformati, da liberi organismi di lotta, diretti da individui che godevano la fiducia degli associati, in organi di sorveglianza poliziesca, sotto la direzione di impiegati scelti dal gruppo governante e ad esso solo responsabili. Se qualche correzione viene fatta a un tale regime economico, è sempre solo dettata dalle esigenze del militarismo, che hanno confluito con le reazionarie aspirazioni dei ceti privilegiati nel far sorgere e consolidare gli stati totalitari.
 
(N.d.a. – Questo passaggio è davvero delirante, incomprensibile, altamente incoerente ed illogico. Si dice che le nuove ideologie democratiche attenuano le ingiustizie delle società passate, per poi arrivare a sostenere che proprio l’attenuamento di esse determina inevitabilmente l’avvento dei nazionalismi. Perché i ceti prima privilegiati, a quel punto minacciati, finiscono con il reagire ed appoggiare il nazionalismo. Ma perché mai dovrebbe accadere? Se la giustizia nella società aumenta per quale ragione dovrebbe nascere il nazionalismo? Di che si facevano i tre a Ventotene? Hitler ed il nazionalsocialismo si erano affermati in Germani perché il Paese iniziava a rimuovere le ingiustizie abbracciando una democrazia sostanziale o perché esso era in ginocchio con diseguaglianze drammatiche e tensioni sociali inenarrabili causate dalle misere condizioni economiche in cui versavano? La risposta è ovviamente la seconda. Peraltro tale miseria fu determinata dalle politiche neoliberiste e dagli accordi di Versailles che avevano messo in ginocchio il Paese, nulla che avesse un nesso con lo Stato in senso proprio)
 
3. Contro il dogmatismo autoritario si è affermato il valore permanente dello spirito critico. Tutto quello che veniva asserito doveva dare ragione di sì o scomparire. Alla metodicità di questo spregiudicato atteggiamento sono dovute le maggiori conquiste della nostra società in ogni campo.
Ma questa libertà spirituale non ha resistito alla crisi che ha fatto sorgere gli stati totalitari. Nuovi dogmi da accettare per fede o da accettare ipocritamente si stanno accampando in tutte le scienze. Quantunque nessuno sappia che cosa sia una razza e le più elementari nozioni storiche ne facciano risultare l’assurdità, si esige dai fisiologi di credere di mostrare e convincere che si appartiene ad una razza eletta, solo perché l’imperialismo ha bisogno di questo mito per esaltare nelle masse l’odio e l’orgoglio. I più evidenti concetti della scienza economica debbono essere considerati anatema per presentare la politica autarchica, gli scambi bilanciati e gli altri ferravecchi del mercantilismo, come straordinarie scoperte dei nostri tempi. A causa della interdipendenza economica di tutte le parti del mondo, spazio vitale per ogni popolo che voglia conservare il livello di vita corrispondente alla civiltà moderna, è tutto il globo; ma si è creata la pseudo scienza della geopolitica che vuol dimostrare la consistenza della teoria degli spazi vitali, per dare veste teorica alla volontà di sopraffazione dell’imperialismo. La storia viene falsificata nei suoi dati essenziali, nell’interesse della classe governante. Le biblioteche e le librerie vengono purificate di tutte le opere non considerate ortodosse. Le tenebre dell’oscurantismo di nuovo minacciano di soffocare lo spirito umano.
La stessa etica sociale della libertà e dell’uguaglianza è scalzata. Gli uomini non sono più considerati cittadini liberi, che si valgono dello stato per meglio raggiungere i loro fini collettivi. Sono servitori dello stato che stabilisce quali debbono essere i loro fini, e come volontà dello stato viene senz’altro assunta la volontà di coloro che detengono il potere. Gli uomini non sono più soggetti di diritto, ma gerarchicamente disposti, sono tenuti ad ubbidire senza discutere alle gerarchie superiori che culminano in un capo debitamente divinizzato. Il regime delle caste rinasce prepotente dalle sue stesse ceneri.
Questa reazionaria civiltà totalitaria, dopo aver trionfato in una serie di paesi, ha infine trovato nella Germania nazista la potenza che si è ritenuta capace di trarne le ultime conseguenze. Dopo una meticolosa preparazione, approfittando con audacia e senza scrupoli delle rivalità, degli egoismi, della stupidità altrui, trascinando al suo seguito altri stati vassalli europei — primo fra i quali l’Italia — alleandosi col Giappone che persegue fini identici in Asia essa si è lanciata nell’opera di sopraffazione.
 
(N.d.a. – Il Giappone oggi è uno Stato democratico e con la sua piena sovranità ed indipendenza vive comuque in pace, democrazia e prosperità. A riprova della totale insensatezza degli uomini di Ventotene, che mischiavano cause ed effetti dei problemi, dimostrando davvero scarsa lungimiranza)
 
La sua vittoria significherebbe il definitivo consolidamento del totalitarismo nel mondo. Tutte le sue caratteristiche sarebbero esasperate al massimo, e le forze progressive sarebbero condannate per lungo tempo ad una semplice opposizione negativa.La tradizionale arroganza e intransigenza dei ceti militari tedeschi può già darci un’idea di quel che sarebbe il carattere del loro dominio dopo una guerra vittoriosa. I tedeschi vittoriosi potrebbero anche permettersi una lustra di generosità verso gli altri popoli europei, rispettare formalmente i loro territori e le loro istituzioni politiche, per governare così soddisfacendo lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle forze ed al contenuto effettivo degli organismi dello stato. Comunque camuffata, la realtà sarebbe sempre la stessa: una rinnovata divisione dell’umanità in Spartiati ed Iloti.
Anche una soluzione di compromesso tra le parti ora in lotta significherebbe un ulteriore passo innanzi del totalitarismo, poiché tutti i paesi che fossero sfuggiti alla stretta della Germania sarebbero costretti ad accettare le sue stesse forme di organizzazione politica, per prepararsi adeguatamente alla ripresa della guerra.
 
(N.d.a. – Qui poi immaginano un futuro che non si avverò, la Germania perse la seconda guerra mondiale e nessun Paese si organizzò politicamente per prepararsi alla terza, ma al contrario si posero le basi per un solido pacifismo. Noi addirittura abbiamo saputo dotarci di una Costituzione che ripudia la guerra (art. 11 Cost.). Gli uomini di Ventotene erano totalmente fuoristrada)
 
Ma la Germania hitleriana, se ha potuto abbattere ad uno ad uno gli stati minori, con la sua azione ha costretto forze sempre più potenti a scendere in lizza. La coraggiosa combattività della Gran Bretagna, anche nel momento più critico in cui era rimasta sola a tener testa al nemico, ha fatto sì che i Tedeschi siano andati a cozzare contro la strenua resistenza dell’esercito sovietico, ed ha dato tempo all’America di avviare la mobilitazione delle sue sterminate forze produttive. E questa lotta contro l’imperialismo tedesco si è strettamente connessa con quella che il popolo cinese va conducendo contro l’imperialismo giapponese.
Immense masse di uomini e di ricchezze sono già schierate contro le potenze totalitarie. Le forze di queste potenze hanno raggiunto il loro culmine e non possono oramai che consumarsi progressivamente. Quelle avverse hanno invece già superato il momento della massima depressione e sono in ascesa. La guerra delle Nazioni Unite risveglia ogni giorno di più la volontà di liberazione anche nei paesi che avevano soggiaciuto alla violenza ed erano come smarriti per il colpo ricevuto, e persino risveglia tale volontà nei popoli delle potenze dell’Asse, i quali si accorgono di essere trascinati in una situazione disperata solo per soddisfare la brama di dominio dei loro padroni.
Il lento processo, grazie al quale enormi masse di uomini si lasciavano modellare passivamente dal nuovo regime, vi si adeguavano e contribuivano così a consolidarlo, è arrestato; si è invece iniziato il processo contrario. In questa immensa ondata, che lentamente si solleva, si ritrovano tutte le forze progressiste; e, le parti più illuminate delle classi lavoratrici che si erano lasciate distogliere, dal terrore e dalle lusinghe, nella loro aspirazione ad una superiore forma di vita; gli elementi più consapevoli dei ceti intellettuali, offesi dalla degradazione cui è sottoposta l’intelligenza; imprenditori, che sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi dalle bardature burocratiche, e dalle autarchie nazionali, che impacciano ogni loro movimento; tutti coloro, infine, che, per un senso innato di dignità, non sanno piegar la spina dorsale nella umiliazione della servitù.
A tutte queste forze è oggi affidata la salvezza della nostra civiltà.
 
(N.d.a. – E qui torniamo a parole, forse scritte male e molto confuse, ma che nella sostanza descrivono l’orrore dei totalitarismi e dell’avvento della terza guerra mondiale. Ma passiamo al secondo capitolo e a come i tre di Ventotene immaginavano il dopoguerra)
 
II – I COMPITI DEL DOPO GUERRA – L’UNITÀ EUROPEA
 
La sconfitta della Germania non porterebbe automaticamente al riordinamento dell’Europa secondo il nostro ideale di civiltà
 
(N.d.a. – vediamo dove vogliono andare a parare allora. Qui viene il bello)
 
Nel breve intenso periodo di crisi generale, in cui gli stati nazionali giaceranno fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose la parola nuova e saranno materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti, i ceti che più erano privilegiati nei vecchi sistemi nazionali cercheranno subdolamente o con la violenza di smorzare l’ondata dei sentimenti e delle passioni internazionalistiche, e si daranno ostinatamente a ricostruire i vecchi organismi statali.
 
(N.d.a. – Ma un organismo Statale resta tale a prescindere dalla sua dimensione. Dunque anche uno Stato più grande ha dinamiche analoghe ad uno più piccolo, nulla lo protegge maggiormente dall’avvento di un totalitarismo. L’U.R.S.S. ad esempio era uno di questi ordinamenti, eppure quale democrazia abbiamo visto in essa? Non è la quantità di popoli o di territorio a disposizione che fa una democrazia, ma la qualità del patto sociale che la fonda, nonché la successiva capacità di mantenerlo in vita applicandolo, anche studiando gli opportuni strumenti di garanzia istituzionale)
 
Ed è probabile che i dirigenti inglesi, magari d’accordo con quelli americani, tentino di spingere le cose in questo senso, per riprendere la politica dell’equilibrio delle potenze nell’apparente immediato interesse del loro impero.
Le forze conservatrici, cioè i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati nazionali: i quadri superiori delle forze armate, culminanti là, dove ancora esistono, nelle monarchie; quei gruppi del capitalismo monopolista che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelle degli stati; i grandi proprietari fondiari e le alte gerarchie ecclesiastiche, che solo da una stabile società conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie; ed al loro seguito tutto l’innumerevole stuolo di coloro che da essi dipendono o che son anche solo abbagliati dalla loro tradizionale potenza; tutte queste forze reazionarie, già fin da oggi, sentono che l’edificio scricchiola e cercano di salvarsi. Il crollo le priverebbe di colpo di tutte le garanzie che hanno avuto fin’ora e le esporrebbe all’assalto delle forze progressiste.
Ma essi hanno uomini e quadri abili ed adusati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati. Si proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuati dentro i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovrà fare i conti.
 
(N.d.a. – Ecco qui, abbattuti i totalitarismi si ritiene che le vecchie classi privilegiate possano tornare al modello di Stato precedente per difendere i propri privilegi, mentre secondo gli uomini di Ventotene si deve andare verso un internazionalismo che superi i vecchi Stati nazionali. Ancora come se tutti gli interessi particolari di colpo sparissero, con una sorta di magico automatismo, in funzione delle dimensioni dell’organizzazione che si va a creare. Un super Stato mondiale, non si sa bene perché, dovrebbe essere automaticamente immune dal rischio di prevalenza di alcune classi sulle altre (e l’esempio dell’U.R.S.S. lo già evidenziato sopra). Ovviamente i tre di Ventotene affermano il concetto, ma non lo motivano con uno straccio di argomento. Il governo mondiale buono per natura è dunque un dogma per loro, un atto di fede. Al contrario i nostri Padri Costituenti, quando respinsero espressamente l’idea di un’Europa federale, ricordarono anche che bisogna fare attenzione agli organismi internazionali. Una bella cosa in linea di principio, ma ovviamente rammentavano che non era affatto certo che un organismo internazionale tendesse al bene, potevano esistere anche organismi internazionali maligni. Ecco perché le nostre limitazioni di sovranità sul piano esterno al territorio nazionale sono state espressamente consentite solo per organismi che assicurino pace e giustizia in condizioni di reciprocità tra le nazioni, che restano irrinunciabili in quanto non sono, almeno in Europa, linee su una cartina geografica, ma rappresentano i luoghi in cui vivono popoli totalmente diversi tra loro)
 
Il punto sul quale essi cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse popolari l’unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l’ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare, sia esse che i loro capi più miopi, sul terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera.
Se raggiungessero questo scopo avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo.
 
(N.d.a. – Perché mai? Quei poteri esisterebbero anche con un governo unico mondiale. L’egoismo fa parte della natura umana. Non è parte degli ordinamenti giuridici, che della natura umana sono la mera espressione, il modo con cui si organizzano i rapporti di forza. L’egoismo si limita solo con una democrazia reale che sappia davvero mettere al primo posto l’interesse pubblico, attraverso il controllo ed il coordinamento democratico della società)
 
Risorgerebbero le gelosie nazionali e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi.
 
(N.d.a. – Le gelosie tra nazioni sorgono quando manca un principio fondamentale a livello internazionale: ovvero la solidarietà politica economica e sociale. Oggi noi abbiamo un UE che si basa sul suo opposto: la competitività. Un’Unione che mette la stabilità dei prezzi prima della pace e della giustizia ex artt. 127 TFUE e 3 TUE. Ecco l’ulteriore prova che, se si sbagliano le norme fondanti di un patto sociale, il totalitarismo prescinde dalla dimensione del territorio in cui si instaura. In Europa dopo la seconda guerra mondiale avevamo Stati democratici e amici. Caduto il muro tutto volgeva al meglio, ma ecco che l’avvento dell’UE ha mutato tutto. Il totalitarismo è tornato cancellando le democrazie nazionali. Totalitarismo ancora una volta determinato dal potere economico diventato più forte dei popoli)
 
Loro compito precipuo tornerebbe ad essere, a più o meno breve scadenza, quello di convertire i loro popoli in eserciti. I generali tornerebbero a comandare, i monopolisti ad approfittare delle autarchie, i corpi burocratici a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si raggrinzerebbero in un nulla di fronte alla necessità di prepararsi nuovamente alla guerra.
Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani. Il crollo della maggior parte degli stati del continente sotto il rullo compressore tedesco ha già accomunato la sorte dei popoli europei, che o tutti insieme soggiaceranno al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali.
Gli spiriti sono giù ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell’Europa. La dura esperienza ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere ed ha fatto maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale.
Tutti gli uomini ragionevoli riconoscono ormai che non si può mantenere un equilibrio di stati europei indipendenti con la convivenza della Germania militarista a parità di condizioni con gli altri paesi, né si può spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che sia vinta.
 
(N.d.a – Abbiamo fatto sia l’uno che l’altro. Abbiamo prima spezzettato la Germania e poi, una volta riunita, le abbiamo dato le chiavi per controllarci nuovamente, stavolta proprio grazie alle norme di un ordinamento sovranazionale. Non è neppure servito sparare un colpo! A riprova della totale erroneità dei ragionamenti apodittici degli uomini di Ventotene, che semplicemente negano il ruolo della natura umana che trascende gli ordinamenti giuridici)
 
Alla prova, è apparso evidente che nessun paese d’Europa può restarsene da parte mentre gli altri si battono, a nulla valendo le dichiarazioni di neutralità e di patti di non aggressione.
 
(N.d.a. – Senza il nuovo super Stato ci saranno ancora guerre dunque. Ma il super Stato altro non è che un centro di potere che impone il suo volere coattivamente su un territorio più ampio. Allora tanto valeva arrendersi subito alla Germania. Perché darsi disturbo? Il super Stato era già servito, tutti tedeschi ma in pace. E poi ecco lo sproloquio contro la società delle nazioni, uno sproloquio desolante che vi invito a leggere con attenzione)
 
È ormai dimostrata la inutilità, anzi la dannosità di organismi, tipo della Società delle Nazioni, che pretendano di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni e rispettando la sovranità assoluta degli stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei.
Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente: tracciati dei confini a popolazione mista, difesa delle minoranze allogene, sbocco al mare dei paesi situati nell’interno, questione balcanica, questione irlandese ecc., che troverebbero nella Federazione Europea la più semplice soluzione, come l’hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte delle più vaste unità nazionali, quando hanno perso la loro acredine, trasformandosi in problemi di rapporti fra le diverse provincie.
 
(N.d.a. – La società delle nazioni non funziona per questi pazzi perché non può imporre coattivamente il proprio potere sui singoli Stati. Si invoca l’ingerenza di un organismo superiore nelle politiche nazionali. Si invoca nei fatti, al di là degli inutili giri di parole, una dittatura globale che imponga con la forza il suo modello a tutti gli altri. Terrificante l’apologia del manifesto)
 
D’altra parte la fine del senso di sicurezza nella inattaccabilità della Gran Bretagna, che consigliava agli inglesi la “splendid isolation”, la dissoluzione dell’esercito e della stessa repubblica francese, al primo serio urto delle forze tedesche — risultato che è da sperare abbia di molto smorzata la presunzione sciovinista della superiorità gallica — e specialmente la coscienza della gravità del pericolo corso di generale asservimento, sono tutte circostanze che favoriranno la costituzione di un regime federale che ponga fine all’attuale anarchia. Ed il fatto che l’Inghilterra abbia accettato il principio dell’indipendenza indiana, e la Francia abbia potenzialmente perduto col riconoscimento della sconfitta tutto il suo impero, rendono più agevole trovare anche una base di accordo per una sistemazione europea dei problemi coloniali.
A tutto ciò va infine aggiunta la scomparsa di alcune delle principali dinastie e la fragilità delle basi di quelle che sostengono le dinastie superstiti. Va tenuto conto, infatti, che le dinastie, considerando i diversi paesi come tradizionale appannaggio proprio, rappresentavano, con i poderosi interessi di cui erano l’appoggio, un serio ostacolo alla organizzazione razionale degli Stati Uniti d’Europa, la quale non può poggiare che sulle costituzioni repubblicane di tutti i paesi federati.
 
(N.d.a. – Ecco dinuovo contraddizioni su contraddizioni. Si parla di un potere centrale che sottomette gli altri e poi si dice che gli Stati Uniti d’Europa non possono che poggiare sulle costituzioni democratiche dei singoli Paesi. Ovviamente la realtà è opposta, se si fanno gli Stati Uniti d’Europa si devono distruggere le singole costituzioni e si deve concepire un sistema di enforcement che costringa gli Stati ad abdicare, a cedere sovranità e sparire per sempre. Insomma serve una guerra imperialista! Proprio quello che i tre di Ventotene dicevano di voler evitare a tutti i costi)
 
E quando, superando l’orizzonte del vecchio continente, si abbracci in una visione di insieme tutti i popoli che costituiscono l’umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l’unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo.
 
(N.d.a. – E vai con il delirio, annessa l’Europa si deve pensare all’annessione dell’intero mondo sotto un unico Governo. Ma chi comanderà questo mondo? Come ho già detto perché mai dovrebbe essere immune dalla normale dinamica dei rapporti di forza? Ancora una volta i tre di Ventotene di fatto invocano una dittatura planetaria per avere la pace mondiale, peraltro ottenibile solo dopo il versamento di fiumi di sangue per obbligare tutti a cedere sovranità. Come se poi fosse possibile, anche dopo aver versato sangue, tenere a forza sotto un unico governo popoli diversi sotto ogni aspetto, che manterrebbero tale diversità anche qualora non fossero più dotati di un ordinamento che li possa qualificare come Stato. Gli Stati sono nati proprio perché vi era un popolo ed un territorio. Quando qualcuno vi ha esercitato sovranità, con qualsiasi forma, è nato lo Stato. Le democrazie moderne hanno la caratteristica di attribuire la sorvranità al popolo. Quanto di più lontano possa esserci rispetto ad un totalitarismo, che se anche divenisse globale, resterebbe comunque tale)
 
La linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale.
 
(N.d.a. – Insomma il popolo è stupido e va indirizzato, in tempi recenti cose simili si sono sentite dire solo dai burocrati europei e da Mario Monti, uno dei peggiori. La gente va indirizzata, strano davvero il concetto di democrazia degli uomini di Ventotene. Io, che mi ritengo un vero democratico, invece rivendico che la gente abbia il sacrosanto diritto di sbagliare, ma la democrazia è irrinunciabile. Progredirà nell’efficacia al progredire dell’evoluzione umana)
 
Con la propaganda e con l’azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami tra i movimenti simili che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre fin d’ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far sorgere il nuovo organismo, che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli.
 
(N.d.a. – Esercito federale europeo che sottometta i singoli Stati nazionali, qualora non si volessero allineare, ecco le democratiche parole del manifesto di Ventotene, tanto osannato da obnubilati che certamente non lo hanno mai neppure letto. Dopo gli attentati di Bruxelles e le conseguenti analoghe invocazioni da parte di vari esponenti politici vengono davvero i brividi. L’esercito europeo usato per sottomettere chi non accetterà una dittatura che si auto definisce illuminata)
 
Se ci sarà nei principali paesi europei un numero sufficiente di uomini che comprenderanno ciò, la vittoria sarà in breve nelle loro mani, perché la situazione e gli animi saranno favorevoli alla loro opera e di fronte avranno partiti e tendenze già tutti squalificati dalla disastrosa esperienza dell’ultimo ventennio. Poiché sarà l’ora di opere nuove, sarà anche l’ora di uomini nuovi, del movimento per l’Europa libera e unita!
 
(N.d.a. – Data la situazione di emergenza era per loro il momento di imporre un nuovo superstato che con la sua forza pacificasse l’Europa. Vi ricorda qualcosa? Perché sono sconcertanti le analogie con quanto davvero accade oggi. L’emergenza economica e quella in materia di sicurezza quale ragione per cedere sovranità ad un organismo sovranazionale illuminato. Che bella l’Europa libera ed unita di Ventotene…)
 
III – I COMPITI DEL DOPO GUERRA LA RIFORMA DELLA SOCIETÀ
 
Un’Europa libera e unita
 
(N.d.a. – Libera ed unità ma creata con l’imposizione e la forza di un esercito europeo…)
 
è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto.
 
(N.d.a. – La fine dell’era totalitaria si ha secondo Spinelli e soci imponendo un nuovo totalitarismo più grande sotto il profilo territoriale. Incredibile. Si passa poi al nuovo modello economico, un modello in gran parte condivisibile e molto simile alla costituzione del 1948, ma comunque un modello che si vuole imporre ai popoli. E questo passaggio resta comunque inaccettabile)
 
La fine di questa era sarà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici che ne impedivano l’attuazione saranno crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e decisione. La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita.
La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La statizzazione generale dell’economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione dal giogo capitalista, ma, una volta realizzata a pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia, come è avvenuto in Russia.
Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma — come avviene per forze naturali — essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime. Le gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall’interesse individuale, non vanno spente nella morta gora della pratica “routinière” per trovarsi poi di fronte all’insolubile problema di resuscitare lo spirito d’iniziativa con le differenziazioni dei salari, e con gli altri provvedimenti del genere dello stachenovismo dell’U.R.S.S., col solo risultato di uno sgobbamento più diligente. Quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività.
La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio.
Questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. La soluzione razionale deve prendere il posto di quella irrazionale anche nella coscienza dei lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le modalità di ogni punto programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto oramai indispensabile dell’unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:
a. non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad esempio le industrie elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore ecc. (l’esempio più notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l’importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa (es. industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). È questo il campo in cui si dovrà procedere senz’altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti;
b. le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire, durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gli strumenti di produzione di cui abbisognano, onde migliorare le condizioni economiche e far loro raggiungere una maggiore indipendenza di vita. Pensiamo cioè ad una riforma agraria che, passando la terra a chi coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori, nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l’azionariato operaio ecc.;
c. i giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In particolare la scuola pubblica dovrà dare la possibilità effettiva di perseguire gli studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà preparare, in ogni branca di studi per l’avviamento ai diversi mestieri e alla diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi pressappoco eguali, per tutte le categorie professionali, qualunque possano essere le divergenze tra le rimunerazioni nell’interno di ciascuna categoria, a seconda delle diverse capacità individuali;
d. la potenzialità quasi senza limiti della produzione in massa dei generi di prima necessità con la tecnica moderna permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto, l’alloggio e il vestiario col minimo di conforto necessario per conservare la dignità umana. La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori;
e. la liberazione delle classi lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti precedenti: non lasciandole ricadere nella politica economica dei sindacati monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi sopraffattori caratteristici specialmente del grande capitale. I lavoratori debbono tornare a essere liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni a cui intendono prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici per garantire l’osservanza dei patti conclusivi; ma tutte le tendenze monopolistiche potranno essere efficacemente combattute, una volta che saranno realizzate quelle trasformazioni sociali.
Questi sono i cambiamenti necessari per creare, intorno al nuovo ordine, un larghissimo strato di cittadini interessati al suo mantenimento e per dare alla vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale. Su queste basi le libertà politiche potranno veramente avere un contenuto concreto e non solo formale per tutti, in quanto la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un efficace e continuo controllo sulla classe governante.
Sugli istituti costituzionali sarebbe superfluo soffermarci, poiché, non potendosi prevedere le condizioni in cui dovranno sorgere ed operare, non faremmo che ripetere quello che tutti già sanno sulla necessità di organi rappresentativi per la formazione delle leggi, dell’indipendenza della magistratura — che prenderà il posto dell’attuale — per l’applicazione imparziale delle leggi emanate, della libertà di stampa e di associazione, per illuminare l’opinione pubblica e dare a tutti i cittadini la possibilità di partecipare effettivamente alla vita dello stato. Su due sole questioni è necessario precisare meglio le idee, per la loro particolare importanza in questo momento nel nostro paese, sui rapporti dello stato con la chiesa e sul carattere della rappresentanza politica:
a. la Chiesa cattolica continua inflessibilmente a considerarsi unica società perfetta, a cui lo stato dovrebbe sottomettersi, fornendole le armi temporali per imporre il rispetto della sua ortodossia. Si presenta come naturale alleata di tutti i regimi reazionari, dei quali cerca di approfittare per ottenere esenzioni e privilegi, per ricostruire il suo patrimonio, per stendere di nuovo i suoi tentacoli sulla scuola e sull’ordinamento della famiglia. Il concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l’alleanza col fascismo andrà senz’altro abolito, per affermare il carattere puramente laico dello stato, e per fissare in modo inequivocabile la supremazia dello stato sulla vita civile. Tutte le credenze religiose dovranno essere ugualmente rispettate, ma lo stato non dovrà più avere un bilancio dei culti, e dovrà riprendere la sua opera educatrice per lo sviluppo dello spirito critico;
b. la baracca di cartapesta che il fascismo ha costruito con l’ordinamento corporativo cadrà in frantumi, insieme alle altre parti dello stato totalitario. C’è chi ritiene che da questi rottami si potrà domani trarre il materiale per il nuovo ordine costituzionale. Noi non lo crediamo. Nello stato totalitario le Camere corporative sono la beffa, che corona il controllo poliziesco sui lavoratori. Se anche però le Camere corporative fossero la sincera espressione delle diverse categorie dei produttori, gli organi di rappresentanza delle diverse categorie professionali non potrebbero mai essere qualificati per trattare questioni di politica generale, e nelle questioni più propriamente economiche diverrebbero organi di sopraffazione delle categorie sindacalmente più potenti.
Ai sindacati spetteranno ampie funzioni di collaborazione con gli organi statali, incaricati di risolvere i problemi che più direttamente li riguardano, ma è senz’altro da escludere che ad essi vada affidata alcuna funzione legislativa, poiché risulterebbe un’anarchia feudale nella vita economica, concludentesi in un rinnovato dispotismo politico. Molti che si sono lasciati prendere ingenuamente dal mito del corporativismo potranno e dovranno essere attratti all’opera di rinnovamento, ma occorrerà che si rendano conto di quanto assurda sia la soluzione da loro confusamente sognata. Il corporativismo non può avere vita concreta che nella forma assunta dagli stati totalitari, per irreggimentare i lavoratori sotto funzionari che ne controllano ogni mossa nell’interesse della classe governante.
 
(N.d.a. – E qui, sul modello economico e sociale, ferma l’assurdità di imporlo a monte, ci si può, come detto trovare in sintonia in quanto simile a quello approvato nella parte economica della nostra Costituzione (artt. 41-47). La cosa che fa ridere è che, chi si riempie la bocca ricordando oggi con grande enfasi questo manifesto grossolano ed equivoco, non è di solito un fanatico delle nazionalizzazioni, un cultore del welfare o tantomeno un sostenitore del controllo dello Stato nell’economia. Evidentemente gli euristi hanno fatto finta di non aver mai letto questo passo del manifesto. Ma hanno trovato evidentemente troppo bella l’idea di una dittatura mondiale, per sottilizzare sul modello economico)
 
IV – LA SITUAZIONE RIVOLUZIONARIA: VECCHIE E NUOVE CORRENTI
 
(N.d.a. – E siamo all’ultimo capitolo, una desolante affermazione dell’inadeguatezza della democrazia ed un invocazione al totalitarismo illuminato)
 
La caduta dei regimi totalitari significherà per interi popoli l’avvento della “libertà” sarà scomparso ogni freno ed automaticamente regneranno amplissime libertà di parola e di associazione.
Sarà il trionfo delle tendenze democratiche. Esse hanno innumerevoli sfumature che vanno da un liberalismo molto conservatore, fino al socialismo e all’anarchia. Credono nella “generazione spontanea” degli avvenimenti e delle istituzioni, nella bontà assoluta degli impulsi che vengono dal basso. Non vogliono forzare la mano alla “storia” al “popolo” al “proletariato” o come altro chiamano il loro dio. Auspicano la fine delle dittature immaginandola come la restituzione al popolo degli imprescrittibili diritti di autodeterminazione. Il coronamento dei loro sogni è un’assemblea costituente
 
(N.d.a. – Notare che a Ventotene si detestava l’idea di Assemblea Costituente e qualsiasi forma di “democrazia dal basso” è un pugno allo stomaco per qualsiasi vero democratico. Erano solo dei pazzi al confino, non meno pericolosi di Hitler ed affini)
 
eletta col più esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto degli elettori, la quale decida che costituzione il popolo debba darsi. Se il popolo è immaturo se ne darà una cattiva, ma correggerla si potrà solo mediante una costante opera di convinzione.
I democratici non rifuggono per principio dalla violenza, ma la vogliono adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità, cioè propriamente quando non è più altro che un pressoché superfluo puntino da mettere sulla i. Sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione,
 
(N.d.a. – La democrazia non è violenta e pertanto è adatta solo alle epoche di ordinaria amministrazione! Lo hanno scritto davvero! Questa frase dovrebbe far ricordare solo con il giusto disprezzo Spinelli ed i due compagni di merende di Ventotene)
 
in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono essere ritoccate solo in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente.
 
(N.d.a. – gli Stati Uniti d’Europa devono nascere con un totalitarismo dunque, essendo una rivoluzione va imposta con la forza)
 
La pietosa impotenza dei democratici nelle rivoluzioni russa, tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi.
In tali situazioni, caduto il vecchio apparato statale, con le sue leggi e la sua amministrazione, pullulano immediatamente, con sembianza di vecchia legalità o sprezzandola, una quantità di assemblee e rappresentanze popolari in cui convergono e si agitano tutte le forze sociali progressiste. Il popolo ha sì alcuni bisogni fondamentali da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare.
 
(N.d.a. – Il manifesto dovrebbe dunque chiamarsi: “per un’Europa unità nel disprezzo dei popoli”)
 
Mille campane suonano alle sue orecchie, con i suoi milioni di teste non riesce a raccapezzarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta tra loro.
Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarrirti non avendo dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni; pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare;
 
(N.d.a. – e pensare che si era partiti da una critica al totalitarismo)
 
perdono le occasioni favorevoli al consolidamento del nuovo regime, cercando di far funzionare subito organi che presuppongono una lunga preparazione e sono adatti ai periodi di relativa tranquillità; danno ai loro avversari armi di cui quelli poi si valgono per rovesciarli; rappresentano insomma, nelle loro mille tendenze, non già la volontà di rinnovamento, ma le confuse volontà regnanti in tutte le menti, che, paralizzandosi a vicenda, preparano il terreno propizio allo sviluppo della reazione. La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria.
Man mano che i democratici logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi.
Il principio secondo il quale la lotta di classe è il termine cui van ridotti tutti i problemi politici ha costituito la direttiva fondamentale, specialmente degli operai delle fabbriche, ed ha giovato a dare consistenza alla loro politica, finché non erano in questione le istituzioni fondamentali della società. Ma si converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si imponga la necessità di trasformare l’intera organizzazione della società. Gli operai educati classisticamente non sanno allora vedere che le loro particolari rivendicazioni di classe, o di categoria, senza curarsi di come connetterle con gli interessi degli altri ceti, oppure aspirano alla unilaterale dittatura delle loro classe, per realizzare l’utopistica collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione, indicata da una propaganda secolare come il rimedio sovrano di tutti i loro mali. Questa politica non riesce a far presa su nessun altro strato fuorché sugli operai, i quali così privano le altre forze progressive del loro sostegno, e le lasciano cadere in balia della reazione, che abilmente le organizza per spezzare le reni allo stesso movimento proletario.
Delle varie tendenze proletarie, seguaci della politica classista e dell’ideale collettivista, i comunisti hanno riconosciuto la difficoltà di ottenere un seguito di forze sufficienti per vincere, e per ciò si sono — a differenza degli altri partiti popolari — trasformati in un movimento rigidamente disciplinato, che sfrutta quel che residua del mito russo per organizzare gli operai, ma non prende leggi da essi, e li utilizza nelle più disparate manovre.
Questo atteggiamento rende i comunisti, nelle crisi rivoluzionarie, più efficienti dei democratici; ma tenendo essi distinte quanto più possono le classi operaie dalle altre forze rivoluzionarie — col predicare che la loro “vera” rivoluzione è ancora da venire — costituiscono nei momenti decisivi un elemento settario che indebolisce il tutto. Inoltre la loro assidua dipendenza allo stato russo, che li ha ripetutamente adoperati senza scrupoli per il perseguimento della sua politica nazionale, impedisce loro di perseguire una politica con un minimo di continuità. Hanno sempre bisogno di nascondersi dietro un Karoly, un Blum, un Negrin, per andare poi fatalmente in rovina dietro i fantocci democratici adoperati, poiché il potere si consegue e si mantiene non semplicemente con la furberia, ma con la capacità di rispondere in modo organico e vitale alle necessità della società moderna. La loro scarsa consistenza si palesa invece senza possibilità di equivoci quando, venendo a mancare il camuffamento, fanno regolarmente mostra di un puro verbalismo estremista.
Se la lotta restasse domani ristretta nel tradizionale campo nazionale, sarebbe molto difficile sfuggire alle vecchie aporie. Gli stati nazionali hanno infatti già così profondamente pianificato le proprie rispettive economie che la questione centrale diverrebbe ben presto quella di sapere quale gruppo di interessi economici, cioè quale classe, dovrebbe detenere le leve di comando del piano. Il fronte delle forze progressiste sarebbe facilmente frantumato nella rissa tra classi e categorie economiche. Con le maggiori probabilità i reazionari sarebbero coloro che ne trarrebbero profitto. Ma anche i comunisti, nonostante le loro deficienze, potrebbero avere il loro quarto d’ora, convogliare le masse stanche, deluse, assumere il potere ed adoperarlo per realizzare, come in Russia, il dispotismo burocratico su tutta la vita economica, politica e spirituale del paese.
Una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo non in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo.
Larghissime masse restano ancora influenzate o influenzabili dalle vecchie tendenze democratiche e comuniste, perché non scorgono nessuna prospettiva di metodi e di obiettivi nuovi. Tali tendenze sono però formazioni politiche del passato; da tutti gli sviluppi storici recenti nulla hanno appreso, nulla dimenticato; incanalano le forze progressiste lungo strade che non possono serbare che delusioni e sconfitte; di fronte alle esigenze più profonde del domani costituiscono un ostacolo e debbono o radicalmente modificarsi o sparire.
Un vero movimento rivoluzionario dovrà sorgere da coloro che hanno saputo criticare le vecchie impostazioni politiche; dovrà sapere collaborare con le forze democratiche, con quelle comuniste, ed in genere con quanti cooperano alla disgregazione del totalitarismo, ma senza lasciarsi irretire dalla loro prassi politica.
Il partito rivoluzionario non può essere dilettantescamente improvvisato nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prime direttive d’azione. Esso non deve rappresentare una coalizione eterogenea di tendenze, riunite solo transitoriamente e negativamente, cioè per il loro passato antifascista e nella semplice del disgregamento del totalitarismo, pronte a disperdersi ciascuna per la sua strada una volta raggiunta quella caduta. Il partito rivoluzionario deve sapere invece che solo allora comincerà veramente la sua opera e deve perciò essere costituito di uomini che si trovino d’accordo sui principali problemi del futuro. Deve penetrare con la sua propaganda metodica ovunque ci siano degli oppressi dell’attuale regime, e, prendendo come punto di partenza quello volta volta sentito come il più doloroso dalle singole persone e classi, mostrare come esso si connetta con altri problemi e quale possa esserne la vera soluzione. Ma dalla schiera sempre crescente dei suoi simpatizzanti deve attingere e reclutare nell’organizzazione del partito solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita, che disciplinatamente realizzino giorno per giorno il lavoro necessario, provvedano oculatamente alla sicurezza, continua ed efficacia di esso, anche nella situazione di più dura illegalità, e costituiscano così la solida rete che dia consistenza alla più labile sfera dei simpatizzanti.
Pur non trascurando nessuna occasione e nessun campo per seminare la sua parola, esso deve rivolgere la sua operosità in primissimo luogo a quegli ambienti che sono i più importanti come centri di diffusione di idee e come centri di reclutamento di uomini combattivi; anzitutto verso i due gruppi sociali più sensibili nella situazione odierna, e decisivi in quella di domani, vale a dire la classe operaia e i ceti intellettuali. La prima è quella che meno si è sottomessa alla ferula totalitaria, che sarà la più pronta a riorganizzare le proprie file. Gli intellettuali, particolarmente i più giovani, sono quelli che si sentono spiritualmente soffocare e disgustare dal regnante dispotismo. Man mano altri ceti saranno inevitabilmente attratti nel movimento generale.
Qualsiasi movimento che fallisca nel compito di alleanza di queste forze è condannato alla sterilità, poiché, se è movimento di soli intellettuali, sarà privo di quella forza di massa necessaria per travolgere le resistenze reazionarie, sarà diffidente e diffidato rispetto alla classe operaia; ed anche se animato da sentimenti democratici, sarà proclive a scivolare, di fronte alle difficoltà, sul terreno della reazione di tutte le altre classi contro gli operai, cioè verso una restaurazione.Se poggerà solo sulla classe operaia sarà privo di quella chiarezza di pensiero che non può venire che dagli intellettuali, e che è necessaria per ben distinguere i nuovi compiti e le nuove vie: rimarrà prigioniero del vecchio classismo, vedrà nemici dappertutto, e sdrucciolerà sulla dottrinaria soluzione comunista.
Durante la crisi rivoluzionaria spetta a questo partito organizzare e dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le forze rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidate.
Esso attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto, non da una preventiva consacrazione da parte della ancora inesistente volontà popolare, ma nella sua coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle nuove masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato e attorno ad esso la nuova democrazia.
Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sbocciare in un nuovo dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo fin dai primissimi passi le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano veramente partecipare alla vita dello stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento di istituzioni politiche libere.
 
(N.d.a. – Si prova a giustificare ciò che non ha giustificazione. Un movimento come quello descritto, come può naturalmente sfociare nella libertà agognata?)
 
Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge così diverso da tutto quello che si era immaginato, scartare gli inetti fra i vecchi e suscitare nuove energie tra i giovani. Oggi si cercano e si incontrano, cominciando a tessere la trama del futuro, coloro che hanno scorto i motivi dell’attuale crisi della civiltà europea, e che perciò raccolgono l’eredità di tutti i movimenti di elevazione dell’umanità, naufragati per incomprensione del fine da raggiungere o dei mezzi come raggiungerlo.
La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà.
 
Fine.
 
Vi è piaciuto? Insomma il manifesto di Ventotenne in fin dei conti, rubando una celebre battuta di un famoso film, è una cagata pazzesca! E ora mi aspetto 48 minuti di applausi ininterrotti. Spinelli, Rossi e Colorni stavano bene dove stavano, al confino.
 
La prossima volta che ci richiamano Ventotene in senso positivo ora potrete replicare che trattasi di abissale ignoranza o grave malafede con semplici e veloci citazioni.
 
Avv. Marco Mori – Blog scenarieconomici – autore de “Il Tramonto della democrazia – analisi giuridica della genesi di una dittatura europea” disponibile su ibs – clicca qui.

IDRISS DEBY ITNO, PRESIDENT DE L’UA, DESAVOUE LA MARCHE AU CHAOS DE JEAN PING AU GABON !

PANAFRICOM/ 2016 09 04/

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deby ping bongo

Communiqué du président de l’Union Africaine sur la crise au Gabon :

« Le président en exercice de l’Union africaine (UA), SEM Idriss Deby Itno, Président de la République du Tchad suit avec la plus grande attention l’évolution de la situation au Gabon, à la suite de la proclamation, le 31 août 2016, des résultats provisoires de l’élection présidentielle tenue dans ce pays le 27 août 2016.

Le Président en exercice de l’Union, préoccupé par l’éruption de la violence au Gabon, s’est longuement entretenu au téléphone avec le Président Ali Bongo Ondimba, et M. Jean Ping, candidat à l’élection présidentielle, et a appelé toutes les parties prenantes gabonaises à faire preuve de la plus grande retenue et à privilégier le dialogue et la concertation dans le strict respect des procédures légales et constitutionnelles, et des instruments pertinents de l’UA, pour trouver une solution à la crise née du contentieux électoral.

Le Président en exercice de l’Union réitère l’engagement et la disponibilité de l’UA, ainsi que des pays de la région, à aider les parties prenantes gabonaises à régler leurs divergences par des moyens pacifiques en vue de préserver la paix et la stabilité au Gabon et dans son voisinage.

Addis Abeba, 3 September 2016 »

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