GAY FA FICO E POLONIO FA PUTIN

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MONDOCANE

VENERDÌ 22 GENNAIO 2016

Una mia foto di Bloody Sunday sulla facciata della prima casa di Derry.
 
Altro che le sette piaghe che si abbatterono sul faraone per castigarlo, secondo l’invenzione biblica, della persecuzione del popolo ebraico (che da quella parti non c’era mai stato, ma che già allora andava costruendosi sul concetto di persecuzione e liberazione). Le sette piaghe, tra aerei a lui abbattuti o il cui abbattimento è a lui attribuito, denunce di doping, poi allargatesi all’universo mondo, demonizzazione in quanto omofobo, mandante di omicidi di giornalisti, massacratore di civili in Siria e via fantasticando, il presidente russo le ha da tempo superate. E chi non riesce a farsi una ragione di non essere più l’unico decisore delle sorti del mondo e, anzi, di essersi visto messo dietro la lavagna da un maestro che la sa e la fa infinitamente più lunga, sta dando fuori di matto. Perché per arrivare, dopo 10 anni di giri intorno alla faccenda, a fare di Putin il mandante “probabile” dell’omicidio al Polonio 10 del dissidente Litvinenko, bisogna aver pensato che l’opinione pubblica mondiale è rimbecillita al punto da accettare l’aberrazione giuridica di una sentenza di colpa emessa per “probabilità”. E nel caso dei media italiani, in questo succoso caso capitanati dalla lobby ebraica, il pensiero è fondato. A dispetto della risate omeriche che nei tempi dei tempi si perpetueranno di meridiano in meridiano sulla creatività dei magistrati britannici.
 
Sul “Fatto Quotidiano” che, rispetto alla stampa di regime fa eccezione positiva fino a quando non si arriva a pagina 18 “Esteri”, dove riesca a scalzare dallo strapuntino Cia-Mossad perfino i Molinari (La Stampa) e i Calabresi (Repubblica), si scatena l’addetto alla Russia di ogni infamia, Leonardo Coen. Giovinetto di buone speranze quando si presentò a “Lotta Continua”, di cui ero direttore, per fare un po’ di pratica. La fece così bene che, nel suo inebriamento per il giudice che ha condotto l’inchiesta, Robert Owen, scrive Sir Owen, ignorando che il titolo di Sir si congiunge esclusivamente con il nome del baronetto: Sir Robert. 
 
Dunque il losco personaggio,  spia pro-Occidente cara al venditore di tappeti e consumatore parossistico di vodka, Eltsin, è morto di polonio radiattivo dopo aver preso il tè con due agenti russi. Onde per cui sono loro che glie l’hanno messo nel tè e si sono poi dileguati. Putin che non li estrada, ne è evidentemente il mandante. Onde per cui: sanzioni. Altre sanzioni, visto che quelle inflitte finora non lo hanno ridotto alla ragione, non sono servite ad evitare la debacle occidentale in Medioriente, ma hanno rotto pesantemente le palle agli esportatori europei. Per placarne rabbia e frustrazione toccava aumentare il tasso di mostruosità dello “zar”. Incombe pur sempre, sugli Usa in crisi di credibilità oltreche di funzionalità, il terrore che quest’Europa, così intimamente appiccicata all’Asia e, dunque, alla Russia e poi alla Cina, senza neanche un mare di mezzo e con un reticolato crescente di Vie della Seta, possa, seppure per mere ragioni di sopravvivenza, tornare a rivolgersi al vicino, partner naturale e proficuo, oltreché meno ingombrante e prevaricatore.
 
Al collega (si fa per dire) Coen del “Fatto” fa difetto la memoria. Ai tempi in cui ambiva a esprmersi sul quotidiano “Lotta Continua”, io ero impegnato, unico allora nella stampa internazionale, a poter raccontare quanto avevo visto, unico giornalista straniero sul posto perchè sfuggito alle barriere “No Press” britanniche, il 30 gennaio 1972. Era il  “Bloody Sunday”, quando i parà di Sua Maestà uccisero a freddo a Derry, Irlanda del Nord,14 civili inermi (e mi spararono contro tre volte). Ne seguì un’inchiesta affidata, anche allora, a un prestigioso magistrato inglese, Lord Widgery.
 
Jack Duddy, 16 anni, prima vittima di Bloody Sunday (foto F.Grimaldi)
 
Venni chiamato a testimoniare solo dopo che la stampa di Dublino avva denunciato lo scandalo della mancata convocazione dell’unico giornalista straniero sul posto. Portai con me una novantina di bossoli raccolti da terra che dimostravano, inconfutabilmente, comegli spari provenissero tutti dai fucili pesanti “Sterling” del 1° Battaglione Paracadutisti. Corpo del reato che Widgery, astutamente, mi intimò di riportare via, senza che fosse esaminato. Né volle esaminare le mie foto delle esecuzioni, quella dei tre colpi tirati contro la mia finestra, le registrazioni della radio militare che ordinava la mia cattura “con qualsiasi mezzo”, né ascoltare la registrazione dell’intera strage. Ne risultò un’assoluzione degli assassini e, ovviamente, del governo mandante di Londra. Ma anche uno scandalo e un ridicolo internazionali che seppellirono l’alto magistrato con tutta la sua inchiesta. Londra fu costretta ad avviarne un’altra, quella di Lord Saville, meno incresciosa, in cui pure testimoniai e che, perlomeno, giunse ad attribuire la responsabilità a qualche testa matta tra gli ufficiali dell’esercito occupante. Ora si sta avviando, sotto pressione dell’indomabile popolo di Derry, una terza inchiesta, a cui sono stato convocato un’altra volta. E’ condotta dalla polizia nordirlandese. 200 soldati britannici convocati si rifiutano di testimoniare. Per ora uno solo è stato incriminato. In ogni caso Londra se la caverà. Come grazie al, da Coen venerato per il suo coraggio, “Sir Owen”.
 
Prima False Flag di fine secolo
Al Coen e agli altri corifei della giustizia britannica raccomando, inutilmente è ovvio, un altro ricordo. Quello di Lockerbie. 21 dicembre 1988, esplode  nel cielo della Scozia il volo Pan Am 103, 270 morti. Chi può essre il colpevole? Ma naturalmente solo lui, Muammar Gheddafi, da tempo sotto schiaffo  per le sue malefatte anti-occidentali, antidemocratiche, anti-multinazionali, anti-israeliane, anti-satrapi del Golfo. Tanto che, nell’86, Reagan ne aveva addirittura bombardato la casa, uccidendone una figlia. E subito si individuarono i due sicari: agenti libici, senza il minimo dubbio. Londra ne chiese l’estradizione. Fiducioso nella giustizia britannica, maestra delle genti, Gheddafi acconsentì, anche sotto la pressione delle micidiali sanzioni-ricatto inflitte da Usa e UE. Ma uno fu subito rispedito indietro perché troppo poco associabile al delitto. L’altro, Ali Al Megrahi, proclamatosi innocente per tutta la durata dell’infame montatura, venne condannato al carcere a vita da una corte scozzese in Olanda (?). Dopo corsi e ricorsi, nel 2009, fatti otto anni e mezzo, fu rilasciato da un giudice scozzese. Si disse “per motivi umanitari”. Ma passò alla storia – e non negli appunti di Coen e affini – la dichiarazione del magistrato che definì  la prima sentenza “un travestimento scandaloso della giustizia”.
 
Al Megrahi morì di cancro poco dopo, ma fece in tempo a vedere i britannici distruggere il suo paese, come avevano distrutto la sua vita. Ci consoliamo della certezza che con la Russia non sarà così. Intanto la moglie del fuoruscito si è messa a strepitare che all’infame assassino vengano inflitte altre sanzioni, oltre a quelle già comminategli dopo il colpo di Stato Nato-nazista in Ucraina. Di queste sanzioni, volute da una Washington in pieno marasma geopolitico e che mena calci all’impazzata per ogni dove e dalla sua appendice oltremanica, si dovrà ora incaricare anche l’Europa. Ancora una volta tranciandosi le gonadi. Come va facendo da Belgrado in poi.
 
 Frocio e stronzo pari son
Quell’eterosessuale appassionato che sono s’è sentito dare del frocio (oltreché del pezzo di merda, del cornuto, del testa di cazzo, del figlio di zoccola, et cetera), l’ultima volta pochi giorni fa, da un energumeno alticcio che sbraitava dall’altezza sicura del suo balcone. Avevo commesso il delitto di lesa proprietà privata legando per pochi minuti il bassotto Ernesto alla ringhiera della scala del condominio. Palazzo nel quale si trova anche uno studio di fisioterapia da me visitato. L’insulto fondato sulla specificità sessuale nel mio caso è meno grave perché di quella non sono rappresentante. Le sillabe vagano per l’aria e non colpiscono. Colpisce però l’intenzione. Frocio e stronzo, nel caso, pari erano 
 
Non lo racconto per pormi sullo stesso piano dell’allenatore-martire dell’Inter, ingiuriato con quel termine da un bifolco toscano, straordinario maestro della rotondologia, ma a cui le altezze vertiginose a cui  i meriti suoi e di Higuain lo hanno proiettato devono aver dato alla testa. Lo racconto perché mi colloca su un piano che è affollato da diversi milioni di italiani i quali, specie nel traffico, si sono tutti scambiati quell’epiteto e tutti i suoi surrogati regionali, probabilmente a partire dall’età della ragione e nei secoli dei secoli. Tanto più ora, nel caso dei maschilisti e omofobi che si vedono costretti a confrontarsi con una società dove contradditoriamente, in parallelo con Giovanardi e altri spiaggiati del cattolicesimo ultrà, la diversità sessuale è diventata di gran moda in politica, nei salotti, nella cultura, nel cinema. Insomma gay è anche fico.
 
Perfino, ci rivela il “manifesto”, il più recente ed eccellente  testimonial della categoria GLBTQ, nientemeno che allenatore di uno squadrone storico, da sempre qualificato per il primato in serie A, aveva fatto contundente uso dell’invettiva, addirittura potenziata in “frocio di merda” all’indirizzo del giornalista Alessio Da Ronchi della Gazzetta dello Sport. Il reo aveva diffuso al pubblico un litigio dell’allenatore con il giocatore Amaral, dipanatosi lungo fraseggi che deprecavano la presunta identità sessuale del brasiliano. Non era successo niente più di qualche mormorio gossiparo ai bordi del campo e tra gli addetti alla sfera rotolante.
 
E allora perché questo sollevar di scudi fino al settimo cielo dell’indignazione, questo invocare castighi divini e provvedimenti come neanche contro il Putin della presunta omofobia (del tutto inventata, se si guarda la legge in oggetto), questa graticola rovente su quale il nuovo San Lorenzo è stato rosolato?  A male parole, spesso schifosamente razziste (ma è acqua calda per arbitri, società e Federazione), ci si prende sistematicamente sulle gradinate, ai bordi del campo, negli spogliatoi, con l’arbitro, con l’automobilista che ti ha preceduto nel parcheggio, col compagno che non ti fa copiare il compito, o che, controsenso dei controsensi, ti ha fregato la ragazza. E Mancini non ha nemmeno fatto outing, come la rumoreggiante comunità GLBTQ vanterebbe. Anzi non pare nemmeno potersi ascrivere a nessuna delle definizioni che formano l’acronimo.
 

Devo ammettere che mi ci sono voluti molti anni e molte conoscenze preziose perché superassi, non tanto uno Zeitgeist  allora sonoramente intollerante verso i “diversi”, detti “invertiti” o “pederasti”, “ricchioni” o, in Liguria, “bulici”, quanto la diffidenza suscitatami dagli innumerevoli e insidiosi approcci da cui mi ero dovuto difendere da adolescente. Un età sotto tiro da parte di interessati di ogni genere, anche perché più suscettibile di subire influenze faste e nefaste. E ogni minoranza discriminata si salvaguarda con il proselitismo. Ammetto anche che le immagini dei Gay Pride mi risultano, e non per l’esibita “anormalità”, un insostenibile offesa al buon gusto, a qualsiasi criterio di eleganza, di una carica provocatoria irrimediabilmente a salve.

 
E’ che l’omosessualità, unendo gli affiliati contro soprusi e discriminazioni secolari, necessariamente è diventata categoria politica. Come fossero  falegnami,  o astronomi. E come tale, essendo questa l’usanza dei tempi, s’è fatta lobby. Per la giusta rivendicazione dei suoi diritti (che io sostengo a spada sguainata, per quanto preferisca riservare alla crescita e all’iniziazione dei bambini la bipolarità maschio-femmina). E una lobby ambisce a spazi, una categoria, legittima o criminale, si sostiene attraverso il reciproco aiuto tra i suoi membri (absit iniuria verbis). Niente di male, finchè tale solidarietà è finalizzata alla buona causa della propria legittimazione e dei propri diritti, o ad altre buone cause, magari come quella che brillava di forte luce propria su uno striscione nel corteo anti-guerra e anti-Nato del 16 gennaio e che schierava le lesbiche contro i crimini dei guerrafondai.
 
Forse, a partire dai Gay Pride, bisognerebbe  vedere un po’ come si schierano i GLBTQ sulle grandi questioni da cui dipendono la libertà, i diritti, la stessa sopravvivenza di tutti noi, etero, omo, fantasiosi vari. Forse bisognerebbe capire quale battaglia è genuina (immagino che per i più lo siano tutte), e quale viene utilizzata, anche a insaputa dei suoi protagonisti, come arma di distrazione di massa. Non può non colpire che è proprio nei governi e Stati che hanno più scheletri negli armadi, dove avanzano diritti civili come i matrimoni gay, gli uteri in affitto, le coppie di fatto di qualsiasi combinazione. Il che nulla toglie alla validità delle battaglie per questi diritti.. Avanzano marciando  su devastazione sociale, economica, poliziesca e guerresca. Non riesco a festeggiare quando Obama illumina di plauso il matrimonio tra due uomini, dietro ai quali si allarga all’infinito l’ombra che occulta genocidi da fame e da bombe.
 
E, nel nostro piccolo, uno come Cecchi Paone, per esempio, che si avventa lancia in resta sull’improvvido Sarri, ma sta pervicacemente dalla parte dei sociocidi e dei farabutti politici, primi responsabili delle sventure, ingiustizie e sofferenze di tutti, a chiunque specialità appartengano, non viene nobilitato dall’etichetta di omosessuale.  O, peggio perché sprofondato nel cinico e nel grottesco, quel Vladimir Luxuria che fa il coglionazzo nell’Isola dei Famosi, in Honduras, paese appena ferito a morte da un golpe amerikano e dove in quei giorni è stato ammazzato il leader del movimento gay e gli oppositori di ogni tipo vengono fatti fuori in massa. Ricordate lo sciagurato Sansonetti, direttore di “Liberazione”, che, con riferimento all’oscena trasmissione, in prima pagina strepita “Forza Vladimir!”? Non poteva il personaggetto mancare all’appuntamento delle Olimpiadi invernali russe a Sochi, per contribuire alla campagna russofoba della Cia. Se qualcuno, e non dovrebbe, gli dicesse “frocio”, intenderebbe “stronzo”, come penso abbia inteso quel signore sul balcone e anche l’allenatore del Napoli. Insomma i diritti, o sono intrecciati e indissolubili tutti, o rischiano di favorire il re di Prussia.
 

Due giornate di sospensione bastano. Ma diamole a chiunque non abbia l’avvertenza di ripulire il proprio vocabolario al passo con lo Zeitgeist.

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GAY FA FICO E POLONIO FA PUTINultima modifica: 2016-01-22T23:42:11+01:00da davi-luciano
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