Vladimir Putin Putin sospende accordo su zona libero scambio tra Russia e Ucraina

© Sputnik. Alexei Druzhinin

16.12.2015

Il presidente russo Vladimir Putin ha firmato il decreto che sospende dal 1° gennaio 2016 l’accordo sulla zona di libero scambio con l’Ucraina nell’ambito dei Paesi CSI, emerge dal portale ufficiale sulle informazioni giuridico-legali della Russia.

 

“Per circostanze eccezionali che ledono gli interessi e la sicurezza economica della Federazione Russa e richiedenti misure immediate, si stabilisce:… di sospendere dal 1° gennaio 2016 l’accordo sulla zona di libero scambio con l’Ucraina, firmato a San Pietroburgo il 18 ottobre 2011”, — si afferma nel decreto.

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Io, testimone del G8 vi racconto che i Black Bloc non esistono:sono agenti di polizia

http://www.mafia-capitale.it/index.php/2015/07/21/io-testimone-del-g8-vi-racconto-che-i-black-bloc-non-esistonosono-agenti-di-polizia/

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Al G8 di Genova Polizia e black bloc hanno lavorato in simbiosi. Ero inviato «addetto alle botte» e sono stato testimone diretto dell’incoffessabile legame.

«Se vuoi mangiare devi fare la fila. Qui è tutto chiuso. I ristoranti aperti sono pochi. Vanno tutti lì a mangiare. Ti siedi solo se sei fortunato».

Assolata e desolata. Così si presentava Genova nel luglio 2001. Non era desolata a causa del caldo e delle vacanze. Era desolata per paura. Di lì a pochi giorni si sarebbe svolto il G8, il vertice internazionale che racchiude gli otto Stati più potenti economicamente dell’Occidente. Si sarebbe discusso di molti temi, e di globalizzazione. Ma soprattutto la città sarebbe stata teatro delle proteste anti globalizzazione. Di questo avevano paura i genovesi. Da settimane i giornali e le televisioni annunciavano la violenza dei manifestanti. Si era arrivati a scrivere che i dimostranti avrebbero lanciato sacche di sangue infetto alle forze dell’ordine. Per questo i genovesi avevano paura e la città
appariva desolata.
Allora lavoravo per l’agenzia di stampa Ap.Biscom (oggi TMNews). Facevo parte della nutrita squadra inviata a Genova per coprire l’evento. «Dovrai occuparti delle botte, degli scontri», mi dissero.
Ero contento della missione assegnatami. Come tutti i vertici internazionali, anche questo si annunciava come l’ennesima noiosa sequela di strette di mano, di party, conferenze stampa e frasi di rito. L’azione, il divertimento per un giornalista curioso, stavano altrove, per le strade. Né io né nessun altro dei cronisti giunti nel capoluogo ligure avrebbe mai immaginato che quei giorni si sarebbero trasformati in un’ordalia di violenza incontrollata, in terrore puro, in incubi che mi avrebbero perseguitato negli anni a venire.
Arrivai a Genova una settimana prima l’inizio del Vertice. Dovevo prendere confidenza con le strade di Genova e raccontare la trasformazione fisica della città in vista del G8. Nei momenti liberi andavo a seguire le conferenze del Genoa Social Forum, sempre molto interessanti e affollate di curiosi di ogni ceto, provenienza ed età.
I giorni passavano e il momento di inizio del vertice si stava avvicinando. Nel frattempo cercavo di capire dove ci sarebbero stati gli scontri, chi vi sarebbe stato coinvolto e di quale entità sarebbero stati. Cercavo di prepararmi al meglio al mio lavoro. Parlavo con poliziotti, finanzieri, manifestanti.
Partecipavo a riunioni (a volte con risultati disastrosi), assistevo a comizi. Genova stava velocemente cambiando e io altrettanto rapidamente dovevo comprendere, prevenire, altrimenti non sarei riuscito a raccontare la realtà. Di informazioni ne stavo raccogliendo molte, ma non abbastanza. Mi mancava il quadro d’insieme. Mi mancavano alcuni particolari decisivi. Chi avrebbe dato il via agli scontri?
Dove sarebbe accaduto? Come si stavano realmente preparando le forze dell’ordine? Le tute nere e le tute bianche si erano organizzate?
Forse la questione era concentrata in due domande: manifestanti (o parte di loro) si erano
segretamente accordati con le forze dell’ordine? Esisteva qualche piano segreto progettato da alcunchi? Al momento erano domande senza risposta. In seguito avrei trovato le risposte e avrei scoperto che entrambe erano affermative.
«Se vuoi mangiare devi fare la fila. Qui è tutto chiuso. I ristoranti aperti sono pochi. Vanno tutti lì a mangiare. Ti siedi solo se sei fortunato». Erano giorni che mi sentivo ripetere dai miei colleghi la stessa cosa. Andavo a cenare sempre nello stesso ristorante a via XX settembre. Ci andavo perché era comodo. Ma soprattutto, ci andavo perché era frequentato da poliziotti e finanzieri. Ci andavo perché era un ottimo luogo per raccogliere informazioni.
Una sera un poliziotto mi mostrò una foto del Maschio Angioino di Napoli. «Ci sei mai stato? Sì, eh.
Bello. Napoli è una città bellissima. Io vivo nella parte bassa del Vomero».
«Lei era presente agli scontri di marzo?».
«Certo che c’ero. La vuoi sapere una cosa? I no global sono delle bestie. Degli animali. Napoli è così bella. Un giorno arrivano gli animali e la mettono sotto sopra. Bestie! Sapessi quante botte sono volate quel giorno. Eh, ma noi gliene abbiamo date di santa ragione, sai. Bum! Bum! Bum! – il braccio destro che menava fendenti all’aria imitando le manganellate – Ne abbiamo stesi tanti quel giorno.
Ne ho stesi tanti! Bestie sono! Non vedo l’ora che venga venerdì per farli a pezzi. La pensano tutti come me. Le vogliamo massacrare quelle merde. Non usciranno vive da Genova!».
«Sta parlando sul serio? Non le sembra di esagerare?».
«Tu c’eri a Napoli? No? E allora che ne sai. Che ne sai cos’è successo. Sono bestie. E come bestie verranno trattate. Sono quattro mesi che aspettiamo questo momento».
La sera successiva al ristorante incontrai lo stesso poliziotto. Mi riconobbe subito. Mi sorrise e mi mostrò la foto del Maschio Angioino. Non disse nulla. Non ce n’era bisogno.
Finito di cenare mi avvicinai al tavolo dove stava seduto. Mi presentò i suoi colleghi. Sembrava che non importasse a nessuno che ero un giornalista. Sapevano che avrei potuto scrivere quello che mi stavano raccontando, eppure non avevano remore nel chiacchierare.
«Ragazzi, questo vuole sapere dove ci saranno le botte e quante botte ci saranno! Che dite? Glielo diciamo?».
«Di botte ce ne saranno tante. Puoi star certo. Pensi che noi staremo fermi a proteggere la Zona Rossa mentre quelle bestie scorrazzeranno liberamente per Genova? Chi pensa questo è un imbecille oppure vive sulla Luna». E giù risate.

I due poliziotti, aggiunti al terzo napoletano del giorno prima erano stati chiari. Mi attendeva un super lavoro nelle due giornate di manifestazioni. Mancavano però sempre le informazioni decisive:
chi, dove, quando e come. E così continuavo a frequentare sera dopo sera quel ristorante nella speranza di avere almeno una risposta alle mie domande.

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 Poliziotti davanti all’entrata di una caserma. Alcuni di loro, al posto della divisa, indossano abiti da manifestanti. Sono tante le prove fotografiche, filmate e testimoniali che dimostrano come tra i black bloc e i manifestanti più facinorosi ci fossero molti agenti delle forze dell’ordine, sia italiani, sia stranieri.

Giovedì sera tra i tavoli c’era più calma del solito. Molti dei poliziotti e dei finanzieri che avevo visto e conosciuto nei giorni precedenti avevano disertato la cena. «Sono rimasti alla mensa del quartier generale – mi dissero – domani è il grande giorno».
Ero deluso. In una settimana non ero riuscito a scoprire nulla di significativo. Avevo anche
partecipato il giorno prima a una riunione operativa dei Pink.
Si svolgeva in un tendone di Piazzale Kennedy, a due passi dal mare. Sotto la tenda c’erano un centinaio di persone. Insieme a me c’erano alcuni giornalisti. Ma prima che iniziasse la riunione, uno dei dirigenti disse: «Tutti i giornalisti fuori dalle palle! Questa è un’assemblea di dimostranti.
Dobbiamo decidere cose importanti. Quindi, fuori!».
Uscirono tutti. Io rimasi. Ovviamente col mio badge infilato nel giubbotto da fotografo multitasca che portavo in quei giorni. Parlavano di strategie, di come avvicinarsi alla Zona Rossa. Io ascoltavo e riferivo via cellulare alla mia redazione. Non stavo la spia, stavo facendo il mio lavoro.
Alcuni di loro, però, non la pensavano allo stesso modo. «Ehi! Questo qui è uno sbirro! Parla al cellulare e racconta quello che diciamo», urla un tipo.
«Non sono una spia. Sono un giornalista». Feci vedere il badge.
«E allora fuori! I giornalisti non ce li vogliamo qui!».
I Pink erano l’ala più innocua dell’estremismo no global. C’erano i Black, le tute nere, i violenti per antonomasia. C’erano gli White, le tute bianche, che usavano la violenza solo per autodifesa. E poi c’erano i Pink, o tute rosa. Il nome già spiega tutto. Alcune centinaia di persone (uomini e donne) tutti rigorosamente vestiti di rosa, con tanto di tutù (sempre uomini e donne) che sfilavano ballando e improvvisando numeri da circo. C’era chi faceva il giocoliere con le clavette, chi circolava su di una bici monoruota, chi camminava sui trampoli. In altre parole, innocui. 
Eppure quel pomeriggio non sembravano così pacifici. Mi stavano cacciando dalla tenda a furia di spinte, pugni e calci.
«I ciclisti no global! I ciclisti no global!». Tutti, presi da un fervore di grande eccitazione scattarono fuori dalla tenda. Si erano improvvisamente dimenticati di me!

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Grazie alla loro divisa nera al volto coperto, i black bloc riescono ad agire
indisturbati, senza correre il rischio di essere riconosciuti.
Per questo motivo è facile a un estraneo al movimento anticapitalista infiltrarsi
per fare casino o per compiere azioni negative di fronte alle telecamere e alle
macchine fotografiche.
Azioni, queste ultime, che hanno l’unico scopo di mettere in cattiva luce la pacifica
protesta di piazza.

Sul piazzale arrivarono un centinaio di ciclisti con bandierine colorate attaccate al retro del sellino.
Cominciarono a girare in tondo tra gli applausi dei Pink e di altri curiosi. La baldoria non durò più di venti minuti.
Non appena i ciclisti si furono allontanati una piccola folla si radunò intorno a un tavolo di legno con delle panche intorno. Qualcosa di molto simile ai tavolacci tipici delle birrerie o delle baite.
Mi avvicinai con circospezione. Quando vidi che avevano steso sul tavolo una pianta di Genova con al centro la Zona Rossa e molti segni e simboli sparsi qua e là mi tuffai in mezzo ai Pink che discutevano e segnavano con le dita punti sparsi sulla mappa.
«Che cos’è?», chiesi a uno di loro.
«La mappa della Zona Rossa. Li vedi quei punti segnalati. Quelli sono i punti nei quali è previsto un assembramento da parte di qualche gruppo. Le croci segnate in rosa siamo noi».
Il tipo, né alcun altro intorno al tavolo, si era reso conto che stava parlando con lo stesso giornalista che avevano tentato di cacciare in malo modo solo venti minuti prima.
«Ci avvicineremo alla Zona Rossa qui, qui e qui».
«E i black?».
«I black fanno come gli pare a loro. Nessuno conosce i loro piani. Loro stanno nei campeggi, sulle colline, in montagna. Speriamo solo che non rovinino tutto».
Quello che avrebbero fatto i Pink era interessante. Ma la mia attenzione era concentrata su altro. Non stavo ricavando le informazioni giuste. Per di più, dopo cinque minuti di spiegazioni cartina alla mano uno di loro, un inglese, mi riconobbe: «Ma è lo stesso giornalista di prima! Che cosa ci fai qui!
Vattene!». E di nuovo calci, pugni e spinte.
Incontrai il gruppo dei Pink al completo il giorno dopo, alla manifestazione dei migranti.
Quindicimila persone che sfilavano per far sapere ai grandi della terra che i flussi migratori dal Sud del mondo non dovevano rappresentare un problema. Potevano essere una grande risorsa.
Mi trovavo sul ciglio della strada. I Pink stavano sfilando pieni di energia. Riuscivano a infondere buonumore ed entusiasmo ai genovesi che assistevano alla dimostrazione. L’inglese che mi aveva cacciato la seconda volta mi riconobbe. «Ehi! Ciao! Come stai? Hai visto che bello? Ragazzi, guardate chi c’è!». E giù grandi saluti, sorrisi e baci lanciati con le mani. Questi erano i Pink.
A parte qualche acciacco e qualche informazione decorativa, mi ritrovavo allo stesso punto di prima.
Era come la notte prima degli esami. Non sapevo che cosa mi sarebbe aspettato il giorno dopo. E se volevo fare bene il mio lavoro non potevo permettermelo.
Ero in procinto di lasciare il ristorante quando mi si avvicinò un poliziotto. Non saprei dire quale grado avesse. Lo conoscevo di vista. Ma evidentemente lui sapeva chi ero e perché fossi lì.
«Sei tu quello che vuole sapere degli scontri di domani?».
«Certo! Mi sa dire qualcosa?».
«Vuoi veramente sapere dove inizierà il macello?».
Non desideravo altro da giorni.
«Allora, stammi a sentire…».

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Ce l’avevo fatta. Avevo l’informazione giusta. Tutta da verificare, ovviamente. Ma almeno avevo qualcosa da verificare.
Ero contento. Ed al tempo stesso avevo paura. Quello che avevo saputo lasciava trasparire un accordo tra Black Bloc e forze dell’ordine. Una sorta di spartizione del territorio e delle competenze. Iniziai a pensare che la giornata di venerdì sarebbe stata molto peggio di quanto avessi previsto.
Passai buona parte della mattina del venerdì a circolare per la Zona Rossa. Volevo vedere come si vive in una città appena colpita da una bomba N, quella che uccide le persone e non distrugge le cose. Così si presentava l’interno della Zona Rossa quel giorno. Silenzio, strade vuote, immobilità dell’aria.
Come in un film.
Verso le 11 mi avvicinai verso il luogo di appuntamento indicatomi dal poliziotto. Scesi da via XX Settembre in direzione di viale delle Brigate Partigiane, un larghissimo stradone che collega la stazione di Brignole al mare.
La strada era completamente intasata da cellulari di polizia e carabinieri. Tutti messi ordinatamente uno accanto all’altro su tre file. Una vera e propria muraglia di lamiere. Mi resi conto che i manifestanti che venivano da Levante (le tute bianche) solo per raggiungere la Zona Rossa avrebbero dovuto scardinare quel muro. Impossibile!
La cosa ancora più strana, però, era che i cellulari e gli autoblindo erano concentrati in particolare in una traversa di viale delle Brigate Partigiane: via corso Buenos Aires. La cosa assurdamente più strana era che quella strada era esattamente la strada che dovevo percorre per recarmi all’appuntamento. A metà di corso Buenos Aires c’era l’angolo dove, secondo il poliziotto sarebbero iniziati gli scontri. E la polizia era pronta ad intervenire.
Ore 12. Angolo corso Buenos Aires e Piazza Paolo da Novi. Ero arrivato sul posto con una decina di minuti d’anticipo. Giusto il tempo per rendermi conto che in piazza c’era un sit in dei Cobas della Scuola. Circa cinquemila persone, in gran parte di età media tra i trenta e i cinquant’anni, in gran parte dall’aspetto pacifico e innocuo, totalmente in parte del tutto ignari di quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
Dunque, ore 12. Con precisione svizzera un gruppo di persone con cappucci e passamontagna,
interamente vestite di nero, si avvicinò con aria spavalda all’angolo dell’appuntamento. Del tutto incuranti della presenza di centinaia di poliziotti a pochi metri di distanza i nero vestiti cominciarono a distruggere la banca che si trovava nel suddetto angolo.
«Fatti trovare a mezzogiorno all’angolo tra corso Buenos Aires e piazza Paolo da Novi. Arriveranno dei Black Bloc e distruggeranno la banca. Due-tre minuti al massimo. È quello il segnale dell’inizio del macello». Il poliziotto la sera prima non sarebbe potuto essere più esplicito.
Ore 12 (esatto), all’angolo tra corso Buenos Aires e piazza Paolo da Novi (esatto), un gruppo di Black Bloc (esatto) distruggerà una banca in due-tre minuti (esatto). Sarà l’inizio del macello.
Era un minuto che i neri stavano distruggendo la vetrina della banca. La polizia a pochi metri restava immobile. Due minuti. La polizia sempre immobile. Tre minuti! I Black bloc avevano con grande maestria il loro lavoro sotto gli sguardi allibiti e le proteste dei Cobas. La polizia sempre a pochi metri e sempre immobile.
Cominciavo a pensare di aver avuto un’informazione sbagliata, almeno in parte. I nero vestiti persero qualche altro minuto a divellere alcuni marciapiedi della piazza per accumulare sampietrini da lanciare. Sempre nulla. La polizia a guardare.
Ore 12.10, i Black Bloc si ritirarono con grande rapidità, lasciando la piazza in mano ai Cobas (come prima), ma anche con una certa quantità di macerie, segno del loro passaggio. Era solo in quel momento, solo quando il posto era sgombero dai neri, che la polizia, tra urla e botti per lo sparo di lacrimogeni, decideva di attaccare. Non di inseguire i Black, ma di attaccare gli inermi ed innocenti Cobas della Scuola.

Il poliziotto aveva detto il vero. Si era accesa la miccia che avrebbe fatto esplodere Genova. Il “macello” era iniziato.

Mosca: UE incoraggia Kiev a far saltare gli accordi di Minsk

Paramilitari ucraini nel Donbass (foto d'archivio)

© Sputnik. Alexandr Maksimenko

12:31 16.12.2015

La UE, scaricando sulla Russia la piena responsabilità dei ritardi del processo di pace in Ucraina, non fa altro che incoraggiare Kiev a far saltare l’implementazione degli accordi di Minsk, ha detto in un’intervista con “RIA Novosti” il vice ministro degli Esteri russo Alexey Meshkov.

Il diplomatico ha osservato che la situazione in Ucraina per certi versi si è stabilizzata.

“Ma le provocazioni militari di Kiev continuano. Essenzialmente le autorità ucraine stanno sabotando l’attuazione degli accordi di Minsk,” — ha sottolineato Meshkov.

Il vice ministro degli Esteri russo ha ricordato che Bruxelles lega l’abolizione delle sanzioni contro Mosca con la piena attuazione degli accordi di Minsk.

“In queste circostanze si ottiene che sulla Russia, che non è una parte del confli, viene scaricata la responsabilità dei ritardi del processo di pace nella parte orientale dell’Ucraina. Questo atteggiamento incoraggia solo Kiev a far saltare l’intero processo di pace,” — ha detto Meshkov.

Da aprile dello scorso anno le autorità ucraine hanno lanciato un’operazione militare contro le autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk. Secondo gli ultimi dati delle Nazioni Unite, dall’inizio del conflitto le vittime sono più di 8mila persone. La normalizzazione della crisi viene discussa anche durante le riunioni a Minsk del gruppo di contatto, che dallo scorso settembre ha adottato tre documenti che disciplinano le operazioni di de-escalation del conflitto.

Dal 1° settembre è entrata in vigore un’altra tregua nel Donbass. Alla fine di settembre è stato firmato un accordo sul ritiro degli armamenti e dei carri armati di calibro inferiore a 100 mm dalla linea di contatto. Il ritiro è stato completato lo scorso 12 novembre.

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Maiorano: “Le quattro foto esistono, ecco i nomi di chi me l’ha confermato”

http://www.laretenonperdona.it/2015/12/15/esclusivo-maiorano-le-quattro-foto-esistono-ecco-i-nomi-di-chi-me-lha-confermato/

Aggiunto da Redazione il 15 dicembre 2015.
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Alessandro Maiorano dipendente del comune di Firenze e storico accusatore del Premier Matteo Renzi

Alessandro Maiorano lancia il suo affondo e conferma le ultime indiscrezioni che poche ore prima aveva affidato ad un post sul suo profilo facebook.

Il dipendente del comune di Firenze in una intervista rilasciata a laretenonperdona.it, rivela questa volta che due giornalisti di stampa nazionale (quali Andrea Casadio della redazione del programma di Santoro e David Vecchi del FattoQuotidiano) gli avrebbero confermato attraverso una telefonata l’esistenza di quattro “foto compromettenti”, riguardanti il premier Matteo Renzi e la ministra Maria Elena Boschi.

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Maria Elena Boschi ministro del governo Renzi

Secondo quanto affermato dal dipendente comunale, le foto sarebbero tutt’oggi nelle mani del direttore di Sorrisi e Canzoni Alfonso Signorini e che il giornalista Andrea Casadio alla  domanda sul perchè non fossero mai state pubblicate, gli rispose “pena la probabile caduta dell’attuale governo”.

E’ doveroso evidenziare che la questione nata da un semplice post di Maiorano su facebook comincia a questo punto ad appesantirsi, ciò non fosse per l’uscita di nomi e cognomi eccellenti del giornalismo italiano.

La redazione de laretenonperdona.it qualora lo volessero si renderà sin dall’immediato disponibile a dare spazio alle eventuali repliche o smentite da parte dei diretti interessati.
INTERVISTA AUDIO INTEGRALE

Source: Fabio Piras per laretenonperdona.it

Le compensazioni: un concetto barbaro, da predatori

notav.info
post — 16 dicembre 2015 at 15:28

cantiere tav[riceviamo e pubblichiamo] – Le compensazioni proposte ai Valsusini, in cambio di  un Si alla Torino Lyon,  discendono direttamente dalle indennità che negli anni 60/70, in genere nelle grandi industrie,  erano erogate agli operai che svolgevano le lavorazioni più inquinanti e nocive.

Il barbaro concetto era: poche lire di aumento sulla paga oraria in cambio della rinuncia alla tutela della propria salute.

Molto vantaggioso per il profitto del  datore di lavoro,  che poteva rinviare all’infinito gli  investimenti per migliorare l’ambiente di lavoro, nefasto per i lavoratori per il conseguente elevato tasso di malattie professionali e di decessi archiviati come “casualità” ma che, in realtà, erano da considerarsi  tra le morti sul lavoro.

In sostanza ai Valsusini viene fatto lo stesso discorso: compensazioni economiche  in cambio della definitiva trasformazione della Valle in un corridoio di transito per le infrastrutture, la cui conseguenza può essere solo un ulteriore declino.

Concetto barbaro, da predatori: ti porto via il territorio in cui vivi  in cambio di soldi, danneggio l’ambiente della vallata alpina in cui vivi ma ti pago…..possibilmente poco….meglio niente.

E le compensazioni proposte ai Valsusini, oltre ad essere ben poca cosa, sono davvero particolari: ci sono e non ci sono, appaiono e scompaiono.. a giorni alterni.

Ricordano, in sostanza, la Tela di Penelope: da anni si susseguono dichiarazioni di stanziamenti e progetti di sviluppo che ci sono il lunedì e scompaiono il martedì, precedono le manifestazioni di protesta e scompaiono il giorno dopo.

Dalla Regione, in sintonia  con l’ex assessore romano, viene “richiamato” il Governo perchè  lo stanziamento promesso è nuovamente scomparso e….. infine il Ministro e poi tutti insieme rassicurano.

Questo balletto indecente che si ripete da anni spiega molto bene come della Val di Susa e dei suoi cittadini non importi nulla a Governi, nazionali e regionali, che si limitano al ruolo di notai di decisioni prese dalle lobbies economiche che sull’Alta Velocità hanno piazzato il loro bancomat privato con cui spolpare la finanza pubblica.

Chi pensa quindi che le compensazioni possano risarcire la devastazione del territorio, i rischi per la salute  e la chiusura di un qualunque positivo modello di sviluppo per questa Valle più che ingenuo, nei fatti, diventa complice o strumento degli “affaristi” del TAV.

E di quali compensazioni si parla ? Dell’asfaltatura di qualche strada ? della messa in sicurezza di un torrente ? di progetti di sviluppo con ricadute occupazionali con nomi tanto roboanti quanto vuoti di credibili progettualità ? di un nuovo ascensore sul lato sud del Forte di Exilles ? (simbolo del massimo spreco delle risorse pubbliche: una folle spesa di quasi  5 milioni di euro che ha solo anticipato il conseguente declassamento dell’importante sito museale per mancanza di fondi !)

Compensazioni: sventolate solo nell’inutile speranza di creare divisioni in una comunità che invece è ben consapevole delle proprie ragioni.

Compensazioni: ma di concreto ci sono solo le “scompensazioni” come il continuo ridimensionamento dei servizi sanitari in Valle e la recente chiusura del punto nascite dell’Ospedale di Susa, la conseguente chiusura del pronto soccorso pediatrico, per cui i nostri figli, in età da 0 a 14 anni, nelle situazioni di emergenza dovranno essere  portati all’Ospedale di Rivoli, già sovraccarico  dall’utenza della cintura metropolitana

Questa è la fotografia reale di come non sono tenuti in considerazione i diritti dei cittadini.

Non c’è  quindi alcuna alternativa al mantenere la più ferma opposizione alla Torino Lyon, e solo con l’abbandono di questo inutile progetto e la chiusura di questa brutta pagina di democrazia violata e violentata, si potranno utilizzare le energie e le intelligenze di questa Valle, da troppi anni impegnate in questa necessaria opposizione, per  trovare il giusto modello di sviluppo che ancora manca dopo il ventennale declino causato dalla violenta crisi industriale.

Giovanni Vighetti

Orrore dell’Isis a Sinjar, in fosse comuni i corpi di 130 yazidi

ci sono donne e donne. Quelle vittime dei tanto amati “ribelli democratici” contro il cattivo Assad non contano. Come non ricordare fiumane di interviste sulla stampa politically correct a donne “perseguitate” dal regime prima di Ghedafi poi di Assad, mai alle donne dell’Arabia Saudita (dove votano questo anno per la prima volta cosa che in Siria avviene dal 1949 regolarmente) o nello Yemen o Bahrein, nei paesi arabi amici di Washington è tutto OK
Per queste donne nessuno striscione alla Farnesina, nessun sit in delle donne moralmente superiori
 
domenica, 15, novembre, 2015
 
Un’altra fossa comune contenente i corpi di 50 uomini yazidi e’ stata trovata a Shingal, villaggio a sud della citta’ irachena di Sinjar, recentemente liberatadallo Stato islamico (Isis). Lo riferisce l’agenzia d’informazione curda irachena “Rudaw”.
 
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Ieri le forze curde Peshmerga avevano trovato una fossa contenente i corpi di 80 ragazze yazide.
 
Venerdi’ scorso, 13 novembre, il presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno, Masoud Barzani, aveva annunciato la vittoria sullo Stato islamico a Sinjar in una conferenza stampa trasmessa in diretta dal monte Kursi, che domina la citta’ a nord. L’Isis conquisto’ Sinjar nell’agosto del 2014, circa due mesi dopo la presa di Mosul e la proclamazione del “califfato” da parte di Abu Bakr al Baghdadi. La presa della citta’ e’ stata caratterizzata da violenti massacri e da deportazioni di massa di membri della minoranza yazidi, definiti dagli estremisti islamici come “adoratori del diavolo”, a causa della loro antica religione di influenza persiana precedente alla nascita dell’Islam. (AGI) .

L’attacco in aula contro la Boschi. Arriva la sfiducia: la sua reazione

il conflitto di interessi che non infastidisce la società civile del se non ora quando e varie. Chi non è del PD è una bestia ha sentenziato il grande capo
 
La mozione
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Arriva in Parlamento lo scontro politico sul crac banche. Il Movimento Cinquestelle ha presentato nel pomeriggio una mozione di sfiducia contro il ministro della Riforme Maria Elena Boschi, accusata di essere in conflitto di interesse per il coinvolgimento del padre e del fratello nel commissariamento della Banca Etruria e il successivo salvataggio da parte del governo: “Il Ministro Boschi – hanno scritto i grillini nel documento – ha dichiarato che i genitori ed i fratelli non hanno prestato il consenso alla pubblicazione sul sito del Governo dei dati inerenti alla loro situazione patrimoniale, ad onta del principio generale di trasparenza”. Nella mozione, pubblicata da Beppe Grillo sul suo profilo Twitter, si legge: “I fatti citati e la loro concatenazione temporale gettano un’ombra sul ministro e la sua funzione istituzionale con riguardo alla cura ed alla salvaguardia degli interessi pubblici, del principio generale di assoluta imparzialità, nonchè della necessità di tutelare il risparmio in tutte le sue forme, come espressamente previsto dall’articolo 47 della nostra Costituzione al momento vigente; anche il solo sospetto che, attraverso la sua funzione di governo, il ministro Boschi abbia potuto interagire ovvero influenzare l’intera compagine governativa al fine di perseguire interessi personali e familiari, non ne consente la permanenza nel prosieguo dell’incarico per tali motivi, visto l’articolo 94 della Costituzione, visto l’articolo 115 del Regolamento della Camera dei deputati, esprime la propria sfiducia al ministro per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, e lo impegna a rassegnare immediatamente le proprie dimissioni”. A stretto giro ha risposto anche la Boschi: “Discuteremo in Aula, voteremo e poi vedremo chi ha la maggioranza”.

Un ”Fondo di solidarietà” finanziato con 100 milioni per i risparmiatori vittime del crac

banche o governo
Un ”Fondo di solidarietà” finanziato con 100 milioni per i risparmiatori vittime del crac, ma ci sono quasi 16 miliardi di euro di azioni di circa 20 istituti di credito, non quotati sui mercati regolamentari e difficilmente scambiabili che potrebbero perdere una parte del loro valore nei prossimi mesi oltre che essere soggetti a eventuali bail in. Poi c’è una massa di oltre 60 miliardi di obbligazioni subordinate emesse dalla banche italiane, più o meno redditizie, nelle mani di piccoli e piccolissimi risparmiatori o di grandi investitori, scambiabili o meno sul mercato. Inoltre arriva un finanziamento ponte da 2,5 miliardi per il fondo di risoluzione unico previsto dal decreto ”salvabanche”. Lo prevede uno degli emendamenti del governo sulle banche coinvolte dal crac.
 
Spetterà a Bruxelles di stabilire se sono stati venduti prodotti fraudolenti ai privati. A quel punto possono scattare i rimborsi a carico delle bad bank. Per realizzarli in tempi brevi, lo Stato può fare un pre-finanziamento alle bad bank, ma queste dovranno restituire i soldi nel corso del processo di risoluzione.
 
Riguardo la possibilità di aiuti umanitari per le vittime del crac, le stesse fonti europee sottolineano che il fallimento di una banca e l’eventuale perdita, per esempio, di un appartamento da parte degli obbligazionisti che hanno subito perdite non può essere considerata una crisi umanitaria come quelle provocate da alluvioni o altri disastri. (Ansa)
 
ah ah “spetterà a Bruxelles di stabilire se sono stati venduti prodotti fraudolenti ai privati”…. ma se è tutta una truffa!!!!
Tania Niki su FB

#IoSeFossiBoschi prima di parlare ci avrei pensato.

come dice Renzi? Chi non è del PD è una bestia. Grande esempio di democrazia e tolleranza che a giudicare dalle piazze è gradito agli italiani.
 cancellieri boschi
Se fossi Boschi cosa faresti?
 
Boschi se fosse Cancellieri si sarebbe dimessa, Boschi se fosse Boschi “vedremo chi ha i voti in Aula per la sfiducia”. All’epoca della mozione di sfiducia del M5S contro la ministra Cancellieri per un favore alla famiglia Ligresti, la Boschi (all’epoca semplice parlamentare) disse che se fosse stata al suo posto si sarebbe dimessa, se invece i favori restano in famiglia con un conflitto di interessi palese non si dimette. Son tutti dimissionari con le poltrone degli altri. Di seguito un estratto del discorso della Boschi sul caso Cancellieri.
 
Trova le differenze:
 
“Questa è una vicenda che mi lascia un senso di tristezza addosso. Perchè non è tanto se ci debbano essere o meno le dimissioni del ministro Cancellieri, se viene meno la fiducia nei confronti del governo. Il punto vero è che è in gioco la fiducia nel confronto delle Istituzioni. Il ministro Cancellieri può decidere di dimettersi, il presidente Letta può chiedere le dimissioni come ha fatto in passato in altre occasioni. al suo posto lo avrei fatto: mi sarei dimessa.
 
Perchè c’è un punto grave in tutta questa faccenda. Il punto grave è che ancora una volta si è data l’immagine di un Paese in cui la legge non è uguale per tutti, ma ci sono delle corsie preferenziali per gli amici degli amici. Credo che non dobbiamo più dare la sensazione di un Paese in cui la giustizia funziona per chi ha i santi in Paradiso. Abbiamo perso un’altra occasione davanti ai cittadini.”

Da un post di Khalid Torkezi

Noi ridiamo e scherziamo, ma intanto là fuori c’è gente come Khalid Chaouki che dopo aver appreso di essere nella lista [del Dossier della Difesa] dei “musulmani più pericolosi d’Italia”, per pararsi il culo ha cominciato a rilasciare interviste dove spara a zero contro l’Islam.
Esempio: «Nel Corano c’ è un versetto in cui il profeta annuncia che “un giorno prenderemo Roma”.
La città eterna è da sempre meta di conquista dell’ Islam e ha un valore simbolico unico. La minaccia è reale».
 
Forse Chaouki possiede una copia del “Corano” scritta da Magdi, ex cristiano, Allam & Matteo Salvini ?
 
Perché qui le cose sono due:
 
1- Chaouki ha paura di perdere il posticino da onorevole (?), quindi, si inventa versetti a casaccio?
 
2- Chaouki ha paura di perdere il posticino da onorevole (?), quindi, si inventa versetti a casaccio?
 
Opterei per la prima, ma anche per la seconda.
 
Della serie cari servizi italiani/USA/Mossad … io tengo famiglia, sono renziano e anti Siria, quindi ‘sto lavorando per voi’ , lasciatemi sparare cazzate !
 
da un post di Khalid Torkezi