Non era la silicosi a decimare i giovani minatori di Oulx: “Trent’anni dopo tornarono a scavare uranio nucleare”
“Cessati i contributi dello Stato, la Fiat sospese le ricerche e poi chiuse il cantiere. Negli anni ’60 – nel periodo del boom dell’energia atomica – arrivarono degli specialisti e interpellarono mio fratello. Erano del Centro ricerche termonucleari, avevano contatori Geiger, macchinari moderni, perforatori. E cominciarono i sondaggi. A cento metri dalla ex miniera di ferro della Fiat individuarono un filone di pechlenda, la roccia d’uranio. Furono installati dei dormitori ed aprirono due gallerie. Poi improvvisamente se ne andarono, con la scusa che un dirigente del gruppo aveva commesso delle irregolarità. In verità fu che il boom atomico era in mano alle grandi potenze e noi fummo messi da parte”.
Edoardo Rey ha una pausa, riflette. E precisa: “Ecco perchè quei minatori della miniera di ferro non erano morti di silicosi: furono le radiazioni dell’uranio a minarli lentamente. E senza scampo”. Prosegue: “Forse fecero anche degli scavi, ma segreti, in quel di S. Romano, che è proprio sotto la direttrice verticale della vena uranifera del Seguret, che è posta ai piedi delle rocce scistose e su quelle poggiano le pareti dolomitiche. E in questo tratto ci sono diverse sorgenti. Altre ricerche di rocce uranifere – continua Rey – furono fatte da un certo Nurisso di Gravere alla frazione Beaume di Oulx, poi in un vallone sotto la via Rossa che porta alla strada dei Duemila, dove ho lavorato per estrarre pirite, solfuri e calcio- pirite. Allora di uranio non se ne parlava proprio”. Le zone geologiche con l’uranio? “Eccole. E’ una linea unica da sud verso nord. Dalle rocce del Peyron ai piedi del Galambra, fino alle Grange della Valle, al colle Clopaca, al Vaccarone e al Col Clapier, in direzione del piccolo Moncenisio. Ricordo di ricerche, che io guidavo come capocantiere, per conto di un geologo di Torino, che recuperava campioni di rocce e minerali per un ignoto committente”.
Rey ha una pausa. Poi dice: “Le faccio vedere una cosa”. Apre una bacheca, ricchissima di minerali, tale da far invidia ad un museo. “Sì, ho studiato, ma è stata quella la mia università”. Assieme ai chilometri percorsi sulle montagne seguendo le tracce delle rocce che affiorano. E per lui la val Susa geologica e mineraria non ha segreti. Poi racconta di quando era capocantiere alle miniere di Traversella, già note ai tempi dell’imperatore romano Tito Livio, della sua vita con i geologi, i tecnici, gli operai che scavavano ogni giorno. E ricorda ogni dettaglio.
Il vecchio delle montagne (anche la Sitaf lo ha consultato per le sue gallerie) si addentra in una riflessione: “Qui si scava dappertutto e sovente senza criterio. Un esempio: a Cels scomparve l’acqua poichè bucando i tunnel furono tagliate le sorgenti. E’così che la montagna muore. Adesso si realizzeranno altre gallerie dalla val Clarea a Pont Ventoux: c’è il rischio di tagliare altre sorgenti e falde d’acqua. Due gallerie per l’alta velocità sotto l’Ambin, ma sono sicuri di quello che fanno? In alta montagna scompaiono i laghetti, poichè li si dissangua dal basso, ora si svuotano anche le riserve sotterranee. Nulla sarà più come prima”.
Sospira. “Vuole saperne una? Qui, nella zona di Salbertrand la piccola selvaggina è scomparsa. Perchè? E’ l’autostrada che ha tagliato in due la valle ed ora impedisce agli animali di muoversi da un versante all’altro”. Parola di saggio. Ma c’è qualcuno disposto ad ascoltarlo?