No tav: Caselli, i NO TAV sono fuori dalla democrazia

 

 

 

 

Giancarlo Caselli

“Pretendere con la violenza di impedire la realizzazione di un’opera deliberata rispettando tutte le procedure in ogni sede competente, europea e italiana, significa mettersi contro e fuori dalla democrazia”. Lo dice a proposito dei No Tav l’ex procuratore di Torino Giancarlo Caselli in un’intervista ad Affariitaliani.it.
Secondo Caselli questo discorso vale “sopratutto quando si aggredisce un cantiere, come quello di Chiomonte, mettendo a rischio la sicurezza di onesti lavoratori, che sono lì per guadagnarsi la pagnotta, e dei poliziotti costretti a vivere asserragliati in quel cantiere per difendere il diritto di lavorare”. “Sono troppi coloro che, per miopia o peggio, dimenticano queste verità elementari”, conclude l’ex procuratore. (ANSA).

Su AFFARITALIANI.IT: Da Lo Voi al governo Renzi, dalla prescrizione all’eliminazione dell’appello fino ai No Tav. Gian Carlo Caselli, ex procuratore capo di uffici importanti come Palermo e Torino, dice la sua sui temi “caldi” in materia di giustizia in un’intervista ad Affaritaliani.it.

Gian Carlo Caselli, come valuta la nomina di Lo Voi alla procura di Palermo? E’ lui l’uomo giusto per un ufficio così importante?

Più che sui nomi occorre ragionare sul rispetto delle regole. Per la nomina dei dirigenti il Csm ha una regola tassativa che deve tenere conto delle attitudini specifiche dimostrate sul piano organizzativo. Ora, il dottor Lo Voi non è mai stato né procuratore capo né procuratore aggiunto e quindi questi requisiti non potevano essere misurati a differenza dei suoi concorrenti. A questo punto il problema è soltanto di regole rispettate o meno, non di nomi.

L’azione del governo Renzi in materia di giustizia è soddisfacente?

Il governo Renzi sembra avere programmi che vanno nella direzione giusta ma prima di esprimere un giudizio che non sia soltanto una speranza bisogna aspettare che questi programmi siano tradotti in decreti legge o in disegni di legge nero su bianco, meglio ancora che siano approvati in modo da diventare legge dello Stato. Per il momento siamo ancora nel campo dei programmi.

Quali sarebbero le prime cose da fare?

Prima di tutto bisogna far funzionare il processo. Per quanto riguarda il civile qualcosa si sta muovendo, per quanto riguarda il penale siamo sempre al palo di partenza. Le cose da fare sono un’infinità. La più urgente, e tra le più significative. è la riforma della prescrizione. Noi siamo l’unica democrazia occidentale in cui la prescrizione non si interrompe mai. In tutti gli altri paesi si interrompe con il rinvio a giudizio, al massimo con la condanna di primo grado. Da noi invece non si interrompe mai e se la prescrizione non si interrompe mai il processo non finisce mai. Questa è una vergogna alla quale bisogna porre rimedio, non soltanto parlandone come di una cosa da fare ma facendola. E invece sono un bel po’ di anni, non soltanto mesi che ne parliamo e basta.

(…)

Nella vicenda No Tav i giudici di Torino hanno cancellato agli imputati l’accusa di “terrorismo”. Che cosa ne pensa?

Sull’accusa di terrorismo, sostenuta dalla procura di cui io ero capo ma poi anche dalla procura diretta dal mio successore e soprattutto avallata dal gip nel primo e nel secondo caso, quindi da un magistrato giudicante, non è stata confermata da altri magistrati giudicanti. Non si può che prenderne atto nel senso che nel nostro ordinamento l’ultima sentenza è quella che ha ragione anche se magari non sempre è quella giusta. Ma esaurito il discorso tecnico giuridico credo che non si possa dimenticare neanche per un momento che pretendere con la violenza di impedire la realizzazione di un’opera deliberata rispettando tutte le procedure in ogni sede competente, europea e italiana, significa mettersi contro e fuori dalla democrazia (ovviamente mi riferisco solo ai violenti tra i No Tav). Soprattutto quando si aggredisce un cantiere, come quello di Chiomonte, mettendo a rischio la sicurezza di onesti lavoratori, che sono lì per guadagnarsi la pagnotta, e dei poliziotti costretti a vivere asserragliati in quel cantiere per difendere il diritto di lavorare. Sono troppi coloro che, per miopia o peggio, dimenticano queste verità elementari.

PER CHIAREZZA, RIPUBBLICHIAMO IL VIDEO con la SINTESI della difesa dell’Avv. LOSCO al processo per il defunto compressore, che dimostra con prove e testimonianze che i FATTI (oltre alle parole nell’intercettazione) dimostrano che non c’era alcuna intenzione di fare male alle persone… e che si è trattata di un’azione di SABOTAGGIO ai danni, come sappiamo, di un compressore.

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Con la speranza che lo guardi anche l’ex procuratore Caselli. Chissà…

Simonetta Zandiri – TGMaddalena.it

Piccola controbiografia di Giancarlo Caselli – Parte prima: Gli anni Settanta

Lunedì 06 Gennaio 2014 12:34

La notte del procuratore (1)

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Gli inizi di carriera

Caselli, nato ad Alessandria e cresciuto a Torino, in Borgo San Paolo, si laureò negli anni Sessanta con una tesi in Storia del diritto e divenne assistente universitario. Pochi anni dopo, nel dicembre 1967, decise di cambiare lavoro e passò il concorso come magistrato, pochi giorni dopo l’occupazione dell’Università da parte degli studenti; e venne nominato giudice istruttore nel 1969, poco dopo la rivolta di corso Traiano, a Mirafiori, dove gli operai in sciopero si scontrarono per ore con la polizia contro le indicazioni del sindacato e del partito comunista, con a fianco gli studenti (a loro volta estranei al sindacato e al partito) che li avevano raggiunti. Questi episodi giungevano dopo due decenni di tensioni nel mondo comunista italiano. Il Pci del dopoguerra, su ordine dell’URSS di Stalin, aveva chiesto vent’anni prima, ai suoi militanti operai e partigiani, di deporre le armi e lavorare pacificamente per la ricostruzione dell’Italia nelle consuete forme dello sfruttamento capitalistico, che in verità il partito era nato per distruggere. L’accettazione della costituzione scritta con la Dc nel 1948, e quindi di una democrazia rappresentativa di tipo liberale, venne spiegata agli operai con l’idea che la democrazia parlamentare sarebbe stata l’anticamera del socialismo.

Questo sfondo politico è la radice profonda della scelta di Caselli di abbandonare la ricerca scientifica nell’ambito della storia e della giurisprudenza per sposare un ruolo del tutto diverso, dove al posto di un uso possibilmente critico e aperto dell’intelligenza è richiesta la subordinazione delle proprie facoltà intellettuali a un’autorità esterna, costituita dal corpus giuridico e dal giuramento di fedeltà all’istituzione che ne è fonte, lo stato. Ma cosa può c’entrare la politica del Pci del dopoguerra con la scelta di Caselli? Molto perché, sebbene egli fosse credente, non era un conservatore. Occorre rimarcare che l’idea della democrazia come anticamera di una trasformazione e di una società migliore, propugnata dal Pci, aveva maturato nel 1967 – quando Caselli entrò in magistratura – connotati diversi da quelli originari. Negli anni Cinquanta, per giustificare il compromesso costituzionale con la Dc, i dirigenti del partito raccontavano ai militanti che esso non era che una strategia di breve durata, in attesa di mutamenti sul piano internazionale; entro pochi anni avrebbero fatto scattare il segnale per “l’ora x”, ossia per l’insurrezione, con una presa violenta del potere sul modello russo.

Nella diversa fase degli anni Sessanta, in un momento in cui gli sforzi operai nell’industria e nell’edilizia avevano permesso un’evoluzione economica, tecnica e urbanistica che passò alla storia come “boom economico” (una rivoluzione essa stessa, sul piano delle abitudini di vita, dei consumi e dei costumi) il Pci lasciò gradualmente cadere la promessa insurrezionale e teorizzò sempre più apertamente un’evoluzione graduale anziché violenta. I dirigenti diffusero l’idea che l’Italia sarebbe sì diventata uno stato socialista, ma con metodi diversi e meno violenti di quelli russi, cinesi o jugoslavi. Si sarebbe trattato di costruire un’egemonia politica e culturale graduale nella società, soprattutto dentro le istituzioni nate nel 1948, e infine provvedere a una trasformazione legale dei rapporti sociali in senso socialista. Questa evoluzione fece serpeggiare forti perplessità in gran parte della popolazione che si era identificata nel Pci, facendo nascere in alcuni l’idea che per riprendere un’azione rivoluzionaria fosse necessario creare nuove proposte politiche dentro o fuori il partito e il sindacato; fece invece nascere un forte interesse in chi, interessato a un’idea di progresso ma fino ad allora ostile al Pci a causa della sua dubbia fedeltà alle istituzioni repubblicane, iniziò a vedere in questa politica un’occasione di innovazione istituzionale per il paese, ancora molto arretrato e non depurato delle eredità autoritarie.

Caselli incontrò la magistratura in questo clima, per una scelta che giustificherà in questi termini: attraverso l’ingresso di uomini diversi, più progressisti, nelle istituzioni (anche e soprattutto quelle repressive, tradizionalmente legate a personalità reazionarie) la società potrà cambiare. Il Pci intendeva penetrare nelle istituzioni anzitutto attraverso i settori legislativo, scolastico/accademico e giudiziario; e per quest’ultimo settore formò una corrente organizzata di magistrati (la costituzione lo permetteva), che Caselli contribuì a fondare alla fine degli anni Sessanta: Magistratura Democratica. Il potere giudiziario che la repubblica ereditava dalla prima unità nazionale e dal fascismo era composto da individui usi a perseguire i reati secondo una logica squisitamente di classe: il giudice era una figura altolocata e conservatrice il cui compito era riempire le carceri di povera gente e dissidenti politici (tra il 1938 e il 1943, anche di perseguitati razziali). La maggior parte dei magistrati italiani, quando fu fondata MD, obbedivano ancora completamente a questa logica e a questa concezione di fondo del proprio compito. I magistrati democratici intendevano prendere sul serio la rottura storica rappresentata dalla fine del fascismo e della monarchia e dall’adozione della carta costituzionale; come dirà Caselli stesso più volte, l’obiettivo era “realizzare” la costituzione, affinché la lettera scritta non restasse lettera morta, ma si incarnasse nei provvedimenti di autorità rinnovate nella composizione del loro personale.

 In prima linea contro i movimenti sociali

 Il primo compito che Caselli si trovò ad affrontare, tuttavia, non fu la difesa dei diritti civili calpestati da secoli di oppressione, bensì l’attacco ai movimenti sociali esplosi a Torino nel 1967 e propagatisi in tutto il paese nell’anno successivo. Il programma riformistico del Pci non trovava molti adepti tra gli operai e gli studenti. I primi erano molto cambiati dagli anni Cinquanta, proprio nel senso che il genere di persona che si trovava a lavorare nella grande fabbrica del nord non era più l’operaio qualificato nato e cresciuto sul luogo, ma il giovane sradicato dalle sue terre (spesso le terre colonizzate del sud, dove lo stato era percepito come pura oppressione) che condivideva con migliaia di suoi simili un lavoro ripetitivo e spersonalizzato. Giovani che non avevano sentito parlare dell’ora x, e che alle promesse di un futuro radioso grazie alla lenta azione istituzionale dei dirigenti di un partito a loro estraneo preferivano occuparsi di cose concrete come il proprio salario e la durata dell’orario di lavoro. Gli studenti, dal canto loro, proprio perché studiavano, notavano la differenza profonda tra la linea del Pci e le strategie delle forze comuniste del passato, e del presente in altri paesi (anzitutto in Asia, in Africa, in Sudamerica); e ritenevano per lo più che fosse una chimera riformare lo stato in senso socialista, poiché esso disponeva di apparati militari che, come stava accadendo in Grecia e sarebbe presto accaduto in Cile, non avrebbero permesso un mutamento graduale e legale contrario agli interessi del capitale.

Caselli venne delegato in quegli anni, come giudice istruttore, a perseguire i reati commessi nell’ambito delle attività di questa “nuova sinistra”, che non diede vita a un movimento unitario o a un nuovo soggetto, ma a diversi soggetti che si rivelarono ben presto poco utili a dare uno sbocco organizzativo alle diverse ed eterogenee ondate di ribellione, in cui il Pci e la Cgil non ebbero alcun ruolo, ripiegando sempre più nelle istituzioni dello stato. Così, se i magistrati democratici speravano di poter volgere la legge contro gli abusi del potere e i residui del passato, si trovarono in prima linea contro la novità sociale e politica dell’epoca, ossia i movimenti portatori di una loro autonomia. Il loro obiettivo furono i militanti che organizzavano strutture politiche apertamente rivoluzionarie: mostrando la propria fedeltà allo stato (che pur in quegli anni rispondeva ai movimenti con le stragi nelle piazze, le bombe sui treni, l’organizzazione di forze paramilitari; tutte cose organizzate, dentro le istituzioni, proprio da chi non aveva digerito il 25 aprile) erano convinti di maturare un credito professionale che sarebbe stato speso in seguito per la costituzione, quando l’emergenza delle “contestazioni” fosse stata superata.

Rispetto ad altri magistrati dell’epoca, Caselli comprese meglio la situazione di quegli anni, dove chi decideva di contrapporsi alle istituzioni, non disdegnando – come in ogni tentativo rivoluzionario – l’illegalità e talvolta le armi, si trovava immerso in una società che si era fortemente spostata, dopo il fascismo, verso idee di progresso sociale, una società nuova che procurava ai ribelli solidarietà e simpatie diffuse. Se i militanti del Pci e della Cgil identificarono a giusto titolo i rivoluzionari come il principale nemico, gli elettori del Pci, gli iscritti al sindacato e i tanti non iscritti vedevano invece in essi, generalmente, persone perbene che si sacrificavano per una società più giusta. Caselli decise quindi di orientarsi su due fronti per estirpare il fenomeno: da un lato i militanti e le organizzazioni, armate ma non solo, dall’altro il mare in cui essi nuotavano, ossia la vasta rete di persone e movimenti che per essi simpatizzavano.

Il primo arresto del magistrato è quello di Giambattista Lazagna, nel 1974, un partigiano di Genova accusato di banda armata e addirittura di essere dirigente delle Brigate Rosse, un’organizzazione che in quegli anni si inseriva nelle vertenze contrattuali delle fabbriche con intimidazioni verso gli imprenditori; intimidazioni tanto più preoccupanti, per i magistrati, perché davano risultati concreti in favore degli operai. L’incriminazione di Lazagna, noto e rispettato in tutta la Liguria e il basso Piemonte per aver comandato, a soli vent’anni, la divisione partigiana Pinan-Cichero nella battaglia contro i nazisti detta “del ponte rotto”, in Val Borbera, vicino ad Arquata Scrivia, fu giustificata da Caselli con la soffiata di un infiltrato, che aveva dedotto da una frase del partigiano che egli conosceva Renato Curcio. Lazagna si farà quindi la prigione, poi due anni di confino a Rocchetta Ligure (perdendo il lavoro che gli dava da vivere) e infine verrà assolto dalle accuse.

L’uomo che l’aveva accusato (Silvano Girotto), era stato inviato ad infiltrarsi nelle Brigate Rosse per conto del generale dalla Chiesa, e riuscì infine a permettere l’arresto, a Pinerolo nel 1975, di Curcio e di un altri dirigente dell’organizzazione, Franceschini. Caselli si trovò faccia a faccia con quest’ultimo per l’interrogatorio e, nonostante all’epoca le BR non avessero ancora ucciso nessuno, quando l’arrestato pretese di essere qualificato agli atti come rivoluzionario di professione, Caselli perse l’autocontrollo e sbottò urlando “Lei è solo un assassino!”, e si prese un ceffone dal ragazzo che lo fece quasi cadere per terra. L’anno successivo, quando le BR uccisero un magistrato di Genova e dichiararono che avrebbero ancora attaccato la magistratura che li combatteva, il procuratore capo di Torino affiancò a Caselli altri due magistrati, Luciano Violante e Mario Griffey (si aggiungeranno poi Maurizio Laudi e Marcello Maddalena): tutti avrebbero seguito, in modo coordinato, le indagini sui gruppi sovversivi, affinché l’eventuale omicidio di uno di loro non vanificasse il lavoro di gruppo (gruppo che venne denominato col tempo “pool”). Iniziò un periodo (1976-1982) in cui lo scontro non tra lo stato e i gruppi armati, ma tra lo stato e tutti i movimenti che volevano un cambiamento radicale della società – di cui i gruppi armati non erano che una parte tra tante altre, anche perché le loro idee apparivano a molti, nei movimenti stessi, inadeguate e astratte – divenne durissimo, cambiando per sempre i connotati dell’Italia.

Le più grandi proprietà del paese operarono ristrutturazioni della produzione a vari livelli, per impedire l’organizzazione pratica degli operai e la riuscita degli scioperi, licenziando migliaia di lavoratori che si erano distinti nell’organizzazione delle lotte di fabbrica. Lo stato, invece, agì compattando l’alleanza tra le sue forme “tradizionali”, legate all’eredità militarista e fascista, e quelle “costituzionali” create dal Pci nel dopoguerra per propiziare la propria penetrazione istituzionale: al pool di Caselli si affiancarono così carabinieri e poliziotti che impedivano le manifestazioni e sparavano uccidendo i manifestanti, funzionari di stato e responsabili d’impresa che facevano licenziare gli individui politicamente sgraditi, militari che apprestavano organi occulti legati all’esercito (come Gladio o la Rosa dei Venti) per reprimere l’evoluzione sociale quando si fosse spinta troppo in avanti, e poi politici, giornalisti, generali e agenti segreti organizzati in una struttura, la “loggia p2”, volta a controllare le istituzioni senza l’intralcio della legge e delle elezioni; né si esitò ad utilizzare l’estrema destra per colpire i movimenti o l’intera popolazione (come avvenne a Bologna con la bomba alla stazione del 1980, in cui morirono 84 persone e ne restarono ferite 200), o a usare la stessa criminalità organizzata contro i movimenti attraverso l’intimidazione, l’assassinio (si pensi al caso di Fausto e Iaio a Milano, nel 1978) e la distribuzione capillare di sostanze che, diffondendosi tra i giovani, ne avrebbero reso impossibile l’azione politica (ad esempio l’eroina).

Caselli sapeva perfettamente da che parte stava, e di essere inserito in questo grande quadro nazionale di repressione, in cui era necessario che i magistrati democratici si alleassero anche con chi democratico non era, o era tutto il contrario, come il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa o il capitano Mario Mori, il primo già coinvolto in dure repressioni di piazza e in una strage di detenuti nel carcere di Alessandria, il secondo… lo ritroveremo in seguito. Ciononostante, profondamente convinto che se prevarrà la legalità repubblicana la società diventerà migliore, e lui stesso potrà eliminare l’ingiustizia e l’abuso dall’interno della macchina statale, assieme ai suoi colleghi magistrati, si impegnò anima e corpo a estirpare la malapianta dell’azione rivoluzionaria, sempre rivendicando l’intenzione di combattere la sovversione esclusivamente “dentro le aule dei tribunali”, ossia senza cedimenti all’autoritarismo o al militarismo: un’idea smentita non soltanto dalla natura dell’apparato di cui si servì e dal contesto istituzionale che rese possibile la sua opera di repressione, ma dalle stesse, terribili dinamiche che avrebbero portato ai successi investigativi suoi e dei magistrati impegnati nello stesso fronte.

 Terrorismo di massa e torture

 Non si trattò di un’azione volta contro i soli militanti armati, come si legge sui libri di storia sulla base di un semplicismo interessato e censorio, bensì di un’operazione vasta e spietata, che in pochi anni passò come un rullo compressore su ogni forma di espressione sociale, politica e culturale che, a sinistra, non rientrasse nei ranghi della mediazione parlamentare. Si usò l’omicidio (si pensi agli studenti Francesco Lo Russo e Giorgiana Masi, uccisi dalla polizia nel 1977) e fu utilizzata la censura (con la chiusura delle radio libere, come Radio Alice chiusa dai carabinieri a Bologna, o la radio di Peppino Impastato a Cinisi, Radio Aut, chiusa da Cosa Nostra, i cui vertici fin dal dopoguerra operavano contro i movimenti per conto dello stato, con l’ausilio dei carabinieri), ma soprattutto gli arresti di massa, che furono il principale strumento di intimidazione e messa fuori gioco di quella generazione. Migliaia di persone furono rinchiuse in cella per mesi o per anni senza essere giudicati, sulla base di semplici “sospetti” sbandierati come fondati da magistrati come Calogero a Padova o Caselli e Violante a Torino, che si riveleranno in moltissimi casi del tutto pretestuosi e parte di un disegno squisitamente politico di repressione generalizzata.

Ciononostante, la storiografia ufficiale vuole oggi che Caselli abbia combattuto una “lotta contro il terrorismo”, e chiunque avanzi dubbi su questa ricostruzione (si tratti di chi ha vissuto quegli anni o di chi, nato successivamente, ne ascolta o legge i racconti) viene a sua volta bollato come una sorta di “terrorista” di ritorno. Indubbiamente diversi gruppi compirono in quegli anni la scelta della lotta armata, praticata con diverse forme e diverse intensità o strategie, e con diverse concezioni politiche; ed è vero che della repressione specifica dei movimenti giovanili e studenteschi si occupò soprattutto la procura di Padova (anche se non esclusivamente), mentre Caselli concentrò le sue attenzioni sulle organizzazioni Brigate Rosse e Prima Linea, che tra il 1976 e il 1988 usarono in molte occasioni le armi da fuoco, uccidendo magistrati, politici, poliziotti, fascisti e persino un sindacalista del Pci che li aveva denunciati alla polizia. Si trattò d’altra parte di una divisione dei compiti su scala nazionale, non di una scelta dettata da un’analisi diversa: per Caselli, come per Calogero e Violante, non si trattava di impedire omicidi, ma di impedire l’opera complessiva di tipo rivoluzionario, venisse o meno portata avanti con l’uso di armi.

Si può ben parlare, quindi, di lotta alla sovversione politica e alla lotta armata, ma l’azione della magistratura guidata da Caselli non può essere storicamente qualificata come “lotta al terrorismo” – come invece avviene regolarmente – per almeno tre motivi. Il primo è che la lotta armata, così come veniva praticata in quegli anni da alcuni gruppi di sinistra, non può essere tacciata di terrorismo (se non con riferimento, puramente tautologico, alla legge) poiché l’intenzione non fu mai quella, propria del “terrorista”, così come è concepito nella psicologia collettiva, di colpire nel mucchio, creando panico e terrore indistinto: le vittime delle azioni furono sempre mirate, e per quanto questo non rendesse affatto più tranquille le potenziali vittime, ne restringeva enormemente il cerchio, escludendo chi non prestava i propri servizi alle istituzioni politiche o repressive.

Per ciò che riguarda la nostra concezione dell’azione antagonista non ci riconosciamo in quel tipo di scelta politica, tanto meno siamo interessati a proporne una rivalutazione nostalgica o anacronistica, anche perché crediamo che ciò che di meglio emerse dai movimenti sociali di quegli anni non si espresse attraverso organizzazioni fortemente gerarchizzate e compartimentate, come le Brigate Rosse, o propense a identificare la forza del conflitto sociale con il numero di morti provocati nel campo avversario, come Prima Linea. Non condividere quelle scelte non può, tuttavia, giustificare in alcun modo il presentarle per quello che non sono state; perché in quegli anni il terrorismo esisteva davvero, con le bombe sui treni e nelle piazze, e non fu mai opera di chi agiva dentro o a lato dei movimenti, ma di fascisti e uomini dello stato, costantemente coperti ai livelli più alti delle istituzioni repubblicane.

La seconda ragione per cui non è possibile accettare la denominazione di “lotta al terrorismo” per quella fase della carriera di Caselli è che, anche in relazione alle indagini sulle BR e su Prima Linea (che non rappresentavano certo l’insieme del movimento di quegli anni, che anzi praticava per lo più lo scontro in forme completamente diverse), tra il 1976 e i primi anni Ottanta non furono perseguiti soltanto gli appartenenti ai gruppi armati, ma anche molte persone che di essi non facevano parte, accusate di avere con i militanti relazioni umane che, nella logica di Violante, Laudi e Caselli, rendevano evidente una complicità nei reati o una sorta di complicità “morale”; né valeva per i sospettati dire che non sapevano che i loro conoscenti fossero parte di un’organizzazione clandestina e quindi segreta: si ritrovavano comunque in carcere, talvolta in forme molto dure, sulla base della presunzione di colpevolezza di Caselli o dei suoi collaboratori. Per questo si parlò all’epoca, giustamente, di “caccia alle streghe”, e ancora oggi a Torino un’intera generazione ricorda gli anni in cui, di fatto, si aveva paura anche soltanto a dire cosa si pensava, perché qualsiasi cosa, di qualsiasi genere, detta in qualsiasi direzione poteva essere utilizzata contro le persone “troppo critiche” e quindi “sospette”.

Caselli, infine, non portò avanti una lotta al terrorismo poiché non soltanto l’apparato statale di cui era parte, ma lui stesso non disdegnò che venisse usato il terrore pur di ottenere i suoi obiettivi, se è vero che gli organi di polizia penitenziaria e giudiziaria da cui dipendevano molte delle informazioni che riuscì a ottenere torturarono gli arrestati per estorcere quelle informazioni sul variegato mondo della ribellione sociale che la società si ostinava a non fornire. Nel 1978, all’indomani dell’uccisione di Aldo Moro, la polizia politica fu trasformata in Digos (divisione per le operazioni speciali) e posta sotto il coordinamento dell’Ucigos (analogo acronimo, ma nazionale), alla cui direzione venne messo, tra gli altri, Nicola Ciocia, che verrà soprannominato dai colleghi Dottor De Tormentis a causa del suo ruolo, che era quello di comandare una squadra di cinque uomini noti in polizia come “i cinque dell’Ave Maria”, che si muovevano per l’Italia torturando e seviziando i giovani, gli studenti o gli operai arrestati al fine di estorcere informazioni da usare nelle operazioni di polizia e da consegnare alla magistratura inquirente. Visto che l’attività investigativa di Caselli e soci non aveva dato alcun frutto fino a quell’anno – se è vero che tra il 1973 e il 1978 le organizzazioni comuniste armate si moltiplicarono e raggiunsero migliaia di aderenti da nord a sud e fino in Sardegna – l’opzione della tortura fu resa sistematica, e non estemporanea, per debellare il fenomeno, con buona pace per l’ipocrisia circa un’azione “legale”, “costituzionale” o “democratica” delle autorità investigative in quegli anni.

Tutto questo fu denunciato immediatamente dai movimenti (e anche dai gruppi armati dell’epoca). Ai militanti che denunciarono di aver subito torture furono aumentate le pene (aggiungendo il reato di calunnia agli altri reati contestati). Inutile dire che Caselli non ha mai parlato di nulla di tutto questo, continuando a ripetere che tutto si è svolto nell’alveo della costituzione, anche se è il primo a sapere perfettamente che non è così. Non l’ha fatto neanche quando la denuncia e la memoria dei reduci sono diventate, dal 2009, rivelazione giornalistica (grazie alle ammissioni di uno dei torturatori, Salvatore Genova, a Chi l’ha visto?, cui è seguita la vera e propria rivendicazione politica delle torture da parte del Dottor De Tormentis, Nicola Ciocia, tuttora vivente e residente a Napoli). Nel 2013, tra l’altro, l’esistenza di quelle torture è addirittura diventata verità di stato (l’unica che Caselli riconosca, anche se certo non è l’unica che conosce) a causa di una sentenza che ha riabilitato uno dei brigatisti torturati e accusati di calunnia all’epoca, Enrico Triaca, giudicando in via definitiva che tortura ci fu e fu sistematica.

Del resto, il primo e più fruttuoso successo di Caselli fu l’arresto di Patrizio Peci (che diede indicazioni su dove arrestare i propri compagni), arresto la cui dinamica non fu mai chiarita da Caselli e dal generale Dalla Chiesa, protagonisti dell’episodio; quel che è certo è che i carabinieri di Dalla Chiesa andarono ad uno degli indirizzi forniti da Peci, in via Fracchia a Genova e uccisero nel sonno tutti coloro che vi dormivano. Le BR accusarono il fratello di Peci di essere coinvolto nell’arresto e lo rapirono, annunciando che sarebbe stato liberato se la famiglia del “pentito” avesse detto in Rai ciò che sapeva sulle dinamiche del suo “pentimento”; i familiari chiesero di parlare in Rai, ma il direttore Sergio Zavoli lo impedì, e il fratello di Peci, Roberto, fu ucciso. Sergio Zavoli non nominò questo e altri episodi nella sua ricostruzione televisiva di quegli anni (La notte della Repubblica); né lo fece Caselli, naturalmente, da lui intervistato in quella trasmissione. Nella quale, a pochi anni dalla caccia alle streghe, ebbe buon gioco a ripetere che lo stato era stato superiore ai sovversivi, perché li aveva battuti senza infrangere la legge, senza tema di essere smentito (anche perché molti tra coloro che avrebbero potuto smentirlo erano morti o in galera).

La guerra sporca di Caselli e dei suoi colleghi, unita alle politiche portate avanti in quegli anni dal Pci e dal sindacato, riuscirono ad azzerare sostanzialmente l’opposizione sociale nel paese già agli inizi degli anni Ottanta, producendo il vuoto culturale che dal craxismo avrebbe portato direttamente al berlusconismo. Proprio negli anni dell’ascesa berlusconiana Caselli volle tentare la sua guerra “pulita” contro Cosa Nostra in Sicilia, l’unica per la quale vorrebbe essere ricordato, nella totale amnesia (o distorsione storica) rispetto ai suoi anni precedenti; ma proprio in Sicilia la guerra in cui il procuratore sarà immerso rivelerà tutta la sporcizia possibile immaginabile, propria degli apparati autoritari di cui si era servito contro chi aveva lottato per una società diversa – come vedremo, in dettaglio, nella prossima puntata.

 To be continued

Renzi-Berlusconi: il Lodo Nazareno

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/04/renzi-berlusconi-lodo-nazareno/1313892/

di Marco Travaglio | 4 gennaio 2015

Marco Travaglio
Condirettore de Il Fatto Quotidiano e scrittore

Per dire quanto poco siamo prevenuti, ieri avevamo deciso di pubblicare per oggi su questa colonna un articolo intitolato: “Renzi ha ragione”, o “Bravo Renzi”, o ancora “Forza Matteo”. Non per i suoi virtuosismi sciistici sulle nevi di Courmayeur, già magnificati a dovere dall’agenzia Ansa-Stefani, ma per la battaglia contro lassenteismo nel pubblico impiego, annunciata su twitter con i toni giusti, senza la petulanza offensiva di Brunetta, che provò a far qualcosa ma rovinò tutto con le solite scalmane demagogiche.

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Poi ci ha chiamati un amico e ci ha messo una pulce nell’orecchio, a proposito del nostro titolone di ieri sulla denuncia del sottosegretario Zanetti riguardo al codicillo salva-evasori infilato da una manina di Palazzo Chigi (all’insaputa del ministero dell’Economia) nel decreto fiscale varato alla vigilia di Natale: “Ma lo sai perché e per chi lo fanno?”.

Ma per il solito, per Berlusconi. Tenetevi forte, perché questa è strepitosa. Il Caimano è stato condannato il 1° agosto 2013 a 4 anni per frode fiscale. Una sentenza che gli è costata pochissimo sul piano penale (mezza giornata a settimana a Cesano Boscone per nove mesi e 10 milioni di euro da rifondere all’Agenzia delle Entrate), ma moltissimo da quello politico: 2 anni di interdizione dai pubblici uffici, 6 anni di ineleggibilità e decadenza immediatada senatore in base alla legge Severino. Che cosa prevede la nuova legge penale tributaria, in base al codicillo-colpo di spugna (art. 19-bis)? Che i reati fiscali di evasione e frode sono depenalizzati se l’Iva o l’imposta sul reddito evasa non supera “il 3% rispettivamente dell’imposta sul valore aggiunto o dell’imponibile dichiarato”. Una vastissima area di franchigia regalata a evasori e frodatori al riparo da procure e tribunali. Ora, B. è stato condannato per aver frodato il fisco per 7,3 milioni: 4,9 sul bilancio Mediaset del 2002 e 2, 4 su quello del 2003. Tutto il resto della monumentale frode fiscale (368 milioni di dollari) con film comprati dalle major americane a prezzi gonfiati e rimbalzati su una serie di società offshore occultamente controllate da lui o da prestanome fra il 1995 e il ’98, si è prescritto.

Ma, alla mannaia del fattore-tempo, accelerata da varie leggi adsuam personam (falso in bilancio, condoni fiscali ed ex-Cirielli), sono scampati gli effetti fiscali “spalmati” sugli ammortamenti delle due annualità contabili. Ora che Renzi, o chi per lui (a proposito: di chi è la manina?), ha inventato il salvacondotto del 3%, la domanda è semplice: quella frode residua è sopra o sotto il nuovo tetto? La risposta, nell’era del Patto del Nazareno, è scontata: sotto, e di parecchio. Il calcolo è presto fatto. Negli anni 2002 e 2003 Mediaset dichiara un imponibile di 397 e di 312 milioni e B. ne froda 4, 9 e 2, 4. Che corrispondono all’ 1, 2 e allo 0, 7 %, ben al di sotto della soglia del 3% di non punibilità. Ergo, in base alla retroattività delle norme penali più favorevoli (favor rei, art. 2 Codice penale), “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. Grazie a una legge fascista, la n. 4 / 1929, il favor rei in materia fiscale e finanziaria non valeva: ma il centrosinistra, con la norma fiscale n. 507 / 1999, la cancellò 15 anni fa.

È già accaduto a Romiti, De Benedetti e Passera, condannati definitivamente per falso in bilancio: nel 2003, dopo la controriforma berlusconiana che lo depenalizzava, chiesero un “incidente di esecuzione” alla Corte d’appello, che non potè che revocare le loro condanne. Anche B. dunque potrà ottenere la cancellazione della sua, per una frode che non è più reato. E, se evapora la condanna, spariscono anche decadenza, ineleggibilità e interdizione. Così alle prossime elezioni potrà ricandidarsi, lindo come giglio di campo. Quando ce l’hanno raccontato, stentavamo a credere che Renzi potesse arrivare a tanto. Ma, come diceva Montanelli, di certi politici non si riesce mai a pensare abbastanza male.

Quel che è Stato è Stato – In primo piano

Venerdì 03 Gennaio 2014 13:18

Ciò che i media non dicono su Giancarlo Caselli

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(Introduzione a una Piccola controbiografia di Giancarlo Caselli)

Perché incensare Caselli? Beh, si dirà, anzitutto per il suo coraggio nella lotta alla mafia; ma se chiediamo ai suoi ammiratori di raccontarci l’esatta storia di Caselli in Sicilia, non saranno in grado di rispondere, o quantomeno si mostreranno sorpresi nello scoprire i rapporti del magistrato con i vertici dei Ros mentre questi trattavano con Provenzano, l’ordine di non perquisire la villa di Riina, l’istruttiva vicenda del depistaggio su via d’Amelio durante il quale Caselli difese pubblicamente, e a più riprese, l’uomo che torturò per mesi un innocente ragazzo palermitano (Vincenzo Scarantino) per fargli confessare ciò che non aveva fatto e accusare altre sei persone innocenti, al fine di tutelare i veri esecutori, che a quanto pare agirono anche per conto dello Stato. Quel torturatore, Arnaldo La Barbera, amico di Caselli, ce lo ritroveremo davanti alla scuola Diaz, a Genova, il 21 luglio 2001, a dare il via insieme a Mortola e a Canterini al bel pestaggio di massa e alle sevizie, successive, alla caserma di Bolzaneto. Ma per Caselli, come disse a Palermo mentre la gente scendeva in strada nei quartieri, contro quelle (meno conosciute) torture, La Barbera era “un uomo la cui eccellente professionalità non può essere messa in discussione”. E ci mancherebbe.

Non mettiamo in evidenza queste cose per “gettare fango” sul nostro avversario di questi anni: il fango, se c’è, prima o poi si vede e noi, se proprio dobbiamo – Caselli lo sa: e questo è il nostro saluto – preferiamo gettare altre cose. Né siamo interessati a leggere la storia siciliana degli anni di Caselli nel segno di una retorica dello stupore riguardo ai “rapporti”, ai “misteri”, alle “trattative”, del tutto normali in un paese a economia capitalista – dove chi possiede capitali, legali o illegali, fa affari con tutti gli altri. Lo stato è garante di questo scambio, nonostante gli incidenti di percorso, dove può capitare che un imprenditore di origini troppo “popolari” faccia saltare in aria dei giudici o uccida i politici suoi servitori quando non rispettano più i patti; e il cinico, si badi, non è chi di questa verità lampante prende atto, contrapponendosi tanto a quel capitale quanto alle sue istituzioni, senza farsi distrarre dal velo di Maya delle decorazioni giuridiche, ma chi finge di ignorarla, sperando magari che prosperi ancora mille anni. (E noi non siamo, inoltre, neanche lontanamente vicini alla lettura legalitaria della situazione siciliana, e più in generale meridionale o italiana: la contrapposizione, per noi, non sarà mai tra cittadini e delinquenti, ma tra chi è sfruttato e chi non lo è; ad ogni latitudine e in qualsiasi impresa, più o meno “di stato”, più o meno “privata”, più o meno “mafiosa”).

 Torture, depistaggi, insabbiamenti, sparizione di prove e uomini d’affari e di governo che stringono accordi per il futuro. Caselli, intervistato da Fabio Fazio a Che tempo che fa nel febbraio del 2012, dopo aver concluso la sua abituale filippica contro i No Tav, di fronte alla domanda sulla “trattativa”, cambia discorso con una nonchalance che lascia di sasso persino il non proprio vivace intervistatore (guardare su youtube per credere). Nel suo ultimo libro, scritto con Ingroia, afferma di non aver mai saputo, né compreso, mentre era a Palermo, che tanto chi stava sotto di lui (i vertici di polizia e carabinieri) tanto chi stava sopra (il ministro dell’Interno, il ministro della Giustizia, il presidente della repubblica) aveva messo in piedi questa “disgustosa trattativa”. Vogliamo essere magnanimi, gli diamo il beneficio del dubbio: è stato un idiotés, uno che si è isolato per sottrarsi al difficile sforzo di pensare il politico – secondo l’etimo greco; una tigre di carta utile per la TV, in una “battaglia” che, pur con morti ed ergastoli, nella vera sostanza non è mai esistita.

L’errore di Caselli, insomma, è stata l’ingenuità: credere che quegli uomini, che l’avevano servito con tale abnegazione quando si trattava di arrestare o uccidere i sovversivi degli anni Settanta (come il generale dei carabinieri Mario Mori, protagonista dei famosi colloqui con Vito Ciancimino nei rari momenti in cui, tra fine 1992 e inizio 1993, non era a pranzo o a cena con Caselli), avrebbero messo lo stesso impegno nel debellare ciò che ancora il procuratore pensava essere una folkloristica società occulta siciliana. Oppure l’errore fu credere che l’autorità giudiziaria, che lui credeva il faro dell’Italia perché aveva distribuito un po’ di galera contro chi aveva contestato tutto quel sistema corrotto pochi anni prima, avrebbe spedito in carcere colui contro il quale i contestatori avevano gridato e tentato di sovvertire, ossia il Divo Andreotti.

No, procuratore: come ha visto durante l’arco della sua carriera, non funziona così. Oggi ancora pochissimi hanno un’immagine corretta di ciò che la parabola professionale di questo magistrato ha significato – assieme a quelle di molti suoi colleghi – per l’Italia. L’azione della magistratura italiana negli anni Settanta è ancora un tabù. Affermare che le informazioni ottenute al fine di sgominare, ad esempio, le organizzazioni armate di sinistra, furono ottenute grazie all’uso non estemporaneo o casuale, ma sistematico e scientifico della tortura – dal water boarding allo stupro delle accusate con bottiglie di vetro – è oggi ancora dire qualcosa di sconvolgente, nonostante da pochi mesi anche una sentenza della cassazione lo abbia confermato (senza che per noi la parola di un giudice valga più di quelle, gridate nel silenzio assordante da quarant’anni, dei reduci; anzi!). Certo, si dirà, chi dichiara guerra allo stato riceve guerra in cambio; ma se da un lato sono possibili criteri di comportamento anche in guerra (e va detto che chi attaccò lo stato uccise, e anche molto, ma non torturò), va sottolineato che Caselli non ha mai smesso di propinare la favola secondo cui il “terrorismo” sarebbe stato sconfitto “nelle aule dei tribunali”, ossia nell’alveo della costituzione. Balle.

Come una balla è che la magistratura e la sua polizia giudiziaria, in quegli anni, abbiano operato soltanto contro la lotta armata, quando in realtà attaccarono soprattutto l’iceberg dei movimenti sociali e delle loro avanguardie, anche disarmate, per far affondare in ultima battuta la punta dei gruppi militarizzati (e anche loro, i servitori dello stato, uccisero, e molto, per raggiungere questi obiettivi – ma non lo dicono). La chiusura delle Radio Libere, gli arresti di massa, l’uso arbitrario (per anni, e non per mesi, come avviene oggi) della detenzione preventiva in carcere, senza processo; gli omicidi di manifestanti, i pestaggi sistematici, i ricatti allucinanti di cui nessuno sa, e che soltanto i ricattati raccontano, e ancora adesso hanno paura, se sono ancora vivi. Soprattutto il grande piano, la grande alleanza che purtroppo funzionò, tra magistratura “democratica”, da un lato (Caselli, Laudi, Violante) e alti ambienti militari, non “democratici” che avevano stabilivano in segreto il piano Solo, il piano Borghese, piazza Fontana, e ora stabilivano piazza della Loggia e la stazione di Bologna, Gladio, la P2 e la Rosa dei Venti. Lo stato “deviato”: balle. Quegli apparati non sono mai stati “deviati”: erano, semplicemente, gli apparati dello stato, del nostro stato, la repubblica italiana.

Nel suo ultimo libro, Marco Travaglio evidenzia che in un discorso di qualche anno fa Giorgio Napolitano criticò “certa storiografia che ha sdoganato o teorizzato la teoria del doppio stato”. Travaglio fa notare che, dalle bombe degli anni Settanta a quelle del 1993, il doppio stato è una di quelle evidenze che è un dovere civico ammettere e smascherare, proprio contro chi, come Napolitano, pretende ancora di celarle dietro l’immagine eterea di uno stato “unico”, democratico e innocente. Secondo noi il discorso va capovolto. Gli stati possono essere due, anche tre o quattro (e in effetti, studiando la storia, ci si accorge che lo stato è nei fatti, in modi diversi nei tempi e nei luoghi, uno spazio attraversato anche da forze contraddittorie), ma in fin dei conti lo stato è sempre uno, è lo stato: ed è colpevole per conto di tutti gli stati bis, tris, quater che porta in seno, se è vero che in ultima analisi i morti delle stragi, da Milano a Lampedusa, o i torturati dai collaboratori di Caselli (non da lui in persona, per carità: lui è una persona pulita) preferirebbero, almeno su questo, non essere presi per il culo – né con la storia dello stato innocente, né con la storia del “doppio”, “triplo” o “quadruplo” stato.

Proprio così, cari studenti di giurisprudenza che volete fare i magistrati: chi sceglie di operare per conto delle istituzioni porta su di sé, direttamente, tutte le loro colpe e le loro responsabilità di fronte alla storia; si prende, se i giuramenti hanno un senso, tutto il pacchetto. Non vediamo oggi forse quanto sia diffusa l’incredibile abitudine di presentarsi in TV dopo aver commesso qualche misfatto (appoggiato riforme del mercato del lavoro, promulgato leggi elettorali, avvelenato popolazioni, istituito lager per migranti) e parlare come se niente fosse, con impressionante disinvoltura, di fronte a giornalisti compiacenti, lavandosi delle proprie responsabilità precise e oggettive davanti all’opinione pubblica, con un semplice, strabiliante, ripetere che “è proprio un dramma”, che “da adesso non possiamo più fallire” e che “bisogna proprio fare qualcosa”?085008383-4465775f-8790-4471-9ba6-07dd52567470

È questo sdoganamento politico e culturale del rifiutarsi di prendere e dare le responsabilità, per il presente e per la storia, che permette che Caselli sia un esempio e il suo amico La Barbera, quando è morto, sia stato compianto dai giornali; e a furia di disperdere il senso delle cause, dei nomi e delle istituzioni sugli anni Duemila, sugli anni Novanta o sugli anni Settanta, perderemo tutto, se è vero che è divenuto normale anche tornare ad attribuire la responsabilità delle colpe fasciste “all’Italia”, “agli italiani”, o magari a qualche generica “malattia morale” di crociana memoria.

Quindi no, non fa eccezione Caselli, e ci mancherebbe: per i suoi arresti, le sue caccie alle streghe, le sue menzogne di oggi e di ieri, la sua disonestà intellettuale, le sofferenze che ha spalmato su chi si è ribellato in una vallata del nord o sulle popolazioni di quartieri palermitani vittima delle manovre dei piani alti dello stato. Sofferenze e manovre di cui lui era complice in quanto uomo di stato, difensore di questo apparato decrepito e immondo, convinto ideologo dell’imposizione a qualsiasi costo, prima di qualunque altra cosa, di queste regole farlocche, che non soltanto costituiscono ancora e sempre il solito, stantio e spietato, diritto di classe, ma sono regolarmente infrante proprio da chi, come lui, ha sempre piegato le garanzie giuridiche alle esigenze dell’accusa, e da chi, attorno a lui, le ha infrante a qualsiasi prezzo per difendere lo scranno e la bandiera dietro alle quali lui ha potuto proludere alle sue requisitorie. E già si ode arrivare il mesto ronzio: ma se criticate anche Caselli, anche un uomo come lui, buono e pulito, dovete essere delle cattive persone; dovete avere soltanto odio dentro. Invece no; chi ci arresta e ci indaga in nome della legge sarà sempre anche sotto indagine da parte nostra, con l’unico potere che ha chi non ha potere: il sapere.

La notte del procuratore. Piccola controbiografia di Giancarlo Caselli vedrà la luce su queste pagine nei prossimi giorni, in 3 puntate: 1- Gli anni Settanta; 2 – Sicilia; 3- La Val Susa

Tav Genova, un progetto per «educare» i bambini

http://www.lettera43.it/esclusive/tav-genova-un-progetto-per-educare-i-bambini_43675152677.htm

Lettera43

Il general contractor promuove un’iniziativa per «costruire consenso» in 200 istituti elementari. Le madri degli alunni: «Questo è lavaggio del cervello».

04 Gennaio 2015 

Il progetto della Ferrovia Tortona/Novi Ligure-Genova.

Il progetto della Ferrovia Tortona/Novi Ligure-Genova.

Hanno provato a portare la Tav sui banchi di scuola. Ci hanno provato, ma non ci sono riusciti. Per via, in primis, dell’opposizione delle mamme. 
Il tentativo porta la firma del consorzio Co.Civ, general contractor del Terzo Valico Alta Velocità Genova-Alessandria. 
Tutto è cominciato a novembre, quando la madre di un alunno della scuola elementare di Campomarone, comune dell’entroterra genovese, ha trovato per caso l’abstract di un progetto aggiornato al 18 settembre dal nome “Destinazione Europa”.

UN PROGETTO PER CREARE CONSENSO. Nella descrizione si leggeva: «Destinazione Europa è un progetto educational per le scuole primarie delle province di Alessandria, Asti, Genova, Imperia, La Spezia e Savona, finalizzato a costruire consenso e conversazioni positive attorno alle grandi opere come strumenti utili per la crescita e lo sviluppo del “sistema Paese”».
Il progetto si concentrava in particolare sul Terzo Valico ed era destinato a coinvolgere 200 scuole elementari tra Liguria e Piemonte.

«UN’INIZIATIVA SCORRETTA». Così i genitori hanno fatto partire una raccolta firme. Ad attivarsi, due istituti su tutti: quello di Campomarone e quello di Pontedecimo.

Sara Marchese, una delle madri del consiglio d’istituto di Pontedecimo, ha raccontato a Lettera43.it: «Io ho un figlio che frequenta le elementari. Trovo questa iniziativa a dir poco scorretta: sembra quasi che l’intenzione sia quella di fare un lavaggio del cervello ai nostri figli in vista di futuri dissensi verso l’opera».
E ancora: «Parliamo di bambini delle elementari, che non hanno gli strumenti critici per interpretare ciò che viene detto loro. Per questo abbiamo redatto una raccolta firme nel nostro istituto a cui hanno aderito 80 tra genitori e insegnanti. Parallelamente la stessa cosa è avvenuta nella scuola di Campomarone».

PARERE NEGATIVO ANCHE DAI PRO-TAV. Sara ha precisato che la raccolta firme non è contro l’opera in sé, sebbene lei non ne condivida la realizzazione: «Tant’è che tra le firme si trovano anche quelle di genitori apertamente pro-Tav».
Anche tra i dirigenti di istituto ci sono delle perplessità, sebbene questi ultimi non l’abbiano messo nero su bianco. Ora le firme sono depositate presso gli uffici regionali e al Provveditorato.

Terzo Valico, limite di spesa di 6,2 miliardi di euro

Il limite di spesa per il Terzo Valico è fissato a 6,2 mld.(© GettyImages) Il limite di spesa per il Terzo Valico è fissato a 6,2 mld.

L’Alta Velocità del Terzo Valico collegherebbe Genova e il suo porto con Tortona da un lato e con Novi Ligure dall’altro (entrambe in provincia di Alessandria) andandosi a incrociare con le ferrovie del Nord Italia e inserendosi in quello che viene definito come Corridoio Europeo Reno-Alpi, cioè sull’asse Genova-Rotterdam.
Secondo le informazioni pubblicate sul sito dell’opera i lavori di realizzazione sarebbero dovuti partire nel 2012 per finire nel 2020. L’infrastruttura, composta da sei lotti costruttivi, ha un limite di spesa fissato dal Cipe in 6,2 miliardi di euro.

RAPPORTO NEGATIVO COSTI-BENEFICI. Nella realtà dei fatti i cantieri sono stati aperti nel 2013, dopo diversi problemi con gli espropri, per non contare che è già dal 1991 che questa linea è in discussione.
Con un rapporto costi-benefici negativo (il docente di Economia dei Trasporti Marco Ponti parla di 4,24 miliardi) e senza nessuna garanzia di miglioramento degli investimenti sulla tratta a fronte della spesa da sostenere (non esiste infatti un’analisi costi-benefici presentata dai costruttori) la linea, per le ragioni appena descritte, per il suo impatto ambientale e con l’ombra delle infiltrazioni criminali (vedasi il rapporto «Ecco a chi porta lavoro il Terzo Valico»), è duramente contestata dal movimento NoTav locale e numerose sono state le manifestazioni di protesta e gli scontri con le forze dell’ordine per impedirne la continuazione.

Il consorzio: «Volevamo solo verificare l’interesse delle istituzioni»

Un manifestante No Tav.(© Imagoeconomica) Un manifestante No Tav.

Dopo il polverone creato dalla reazione dei genitori e un’interrogazione comunale presentata da Davide Ghiglione, capogruppo FdS nel consiglio di Valpolcevera, la risposta di Co.Civ è stata affidata a una rettifica pubblicata sui giornali locali e firmata dal direttore Angelo Pelliccia.
Nella nota il consorzio spiega che l’abstract del progetto serviva solo per «verificare l’interesse delle istituzioni a un’eventuale attività didattica sulle grandi opere» e che «a oggi non ha presentato alcun progetto agli uffici competenti».

«VOLEVANO INDOTTRINARE I NOSTRI FIGLI». «Volevano fare proseliti a favore di cementificazione e devastazione tra le giovani generazioni», è la risposta del Comitato No Tav Terzo Valico Pontedecimo e San Quirico. «Vorremo fare anche una riflessione sulla logica privatistica che muove da questa iniziativa in cui uno sponsor paga e può fare quello che vuole dentro la scuola. Ma fortunatamente non è così, c’è ancora chi s’indigna ed è pronto a far valere le ragioni della scuola pubblica in cui i nostri figli e le nostre figlie non devono essere indottrinati come all’epoca del ventennio fascista».
Soddisfatta Sara Marchese: «Co.Civ ha tirato i remi in barca dopo aver visto l’opposizione dei genitori e degli insegnanti», ha concluso. «Tra tutte le persone con cui ho parlato non ho trovato nessuno a supporto di questa idea».

Al varo della Norma salva-banana avrebbe partecipato pure l’avvocato del Cavaliere, Coppi

5 GEN 2015 15:43

1. A QUANTO RISULTA A DAGOSPIA DA FONTI ATTENDIBILI (E CREDIBILI), ALLA VIGILIA DEL VARO DELLA NORMA SALVA-BANANA CI SAREBBE STATA UNA RIUNIONE RISERVATA AL TESORO A CUI AVREBBE PARTECIPATO PURE L’AVVOCATO DEL CAVALIERE, IL PROFESSOR FRANCO COPPI – 2. ALL’INCONTRO AVREBBERO PARTECIPATO L’ATTUALE RESPONSABILE DEL DICASTERO, PIER CARLO PADOAN, E UN ALTRO SOMMO PROFESSORE DI DIRITTO, FRANCO GALLO, COORDINATORE DELLA COMMISSIONE CHE, MATERIALMENTE, HA SCRITTO AL TESORO IL TESTO INCRIMINATO – 3. “SALVACONDOTTO” RENZIANO IN CAMBIO DEI VOTI AZZURRI PER L’ELEZIONE DEL CAPO DELLO STATO PER APRIRE LE PORTE DEL QUIRINALE PROPRIO AL MINISTRO PIER CARLO PADOAN? – 4. IL “PASTICCIACCIO BRUTTO DI VIA XX SETTEMBRE” PRIMA PARTE DI “ROMANZO QUIRINALE”?

DAGOREPORT

 Franco Coppi

FRANCO COPPI

Più che una “manina” sarebbe stata una “manona” eccellente (e interessata) a vergare nel decreto di Natale il “salvacondotto” politico per resuscitare ancora una volta Silvio Berlusconi.

 A quanto risulta a Dagospia da fonti attendibili (e credibili), alla vigilia del varo della norma – che nel governo oggi tutti disconoscono dopo averla approvata a palazzo Chigi senza battere ciglio -, ci sarebbe stata una riunione riservata al ministero dell’Economia a cui avrebbe partecipato pure l’avvocato del Cavaliere, il professor Franco Coppi.

 silvio berlusconi

SILVIO BERLUSCONI

Di sicuro, qualcuno in via XX Settembre, sede dell’ex dicastero romano del Tesoro, avrebbe visto l’illustre penalista entrare e uscire dal palazzone umbertino in cui è ancora conservata come una reliquia, la scrivania dell’ex ministro del Regno, il mitico Quintino Sella.

 All’incontro avrebbero partecipato il plenipotenziario di Renzi, lo scapigliato Luca Lotti, l’attuale responsabile del dicastero, Pier Carlo Padoan, e un altro sommo professore di diritto, Franco Gallo, coordinatore della commissione che, materialmente, ha scritto al Tesoro il testo incriminato.

 matteo renzi pier carlo padoan

MATTEO RENZI PIER CARLO PADOAN

L’ex presidente della Corte costituzionale ha però subito precisato che lui in quelle righe-salvacondotto “non si riconosce”. Tant’è, che ha nuovamente riunito la commissione per “esprimere apertamente” il proprio dissenso.

 E altrettanto ha fatto il parolaio Matteo Renzi che ha annunciato di aver ritirato il decreto di Natale pur riconoscendone “la validità dei principi” per quanto riguarda il decreto delegato sul fisco che avrebbe rappresentato un “salvacondotto” anche per molti banchieri di prima fila.

 gallo franco

GALLO FRANCO

Dunque, mentre continua l’indecoroso balletto di responsabilità tra il premier Renzi e il suo ministro Padoan, Franco Gallo si tira fuori dal pasticciaccio brutto di via XX Settembre.

E altrettanto ha fatto il parolaio Matteo Renzi, che ha annunciato di aver ritirato il decreto di Natale pur riconoscendone “la validità dei principi”. Senza, tuttavia, chiedere al ministro Padoan di trarre le conseguenze (dimissioni) del pasticcio-inciucio fin qui di padre ignoto.

Fino a quando, però?

 MINISTERO via XX Settembre

MINISTERO VIA XX SETTEMBRE

Se le informazioni raccolte da Dagospia dovessero trovare conferma o non fossero smentite subito – come ci auguriamo -, appare a dir poco inquietante che, sia pure in qualche misura (lieve), l’avvocato difensore di Berlusconi avesse partecipato, senza titolo alcuno, a una riunione al ministero dell’Economia su un provvedimento che avrebbe riguardato un suo assistito (l’ex Cavaliere).

 E a differenza di quanto scrive Stefano Folli su “la Repubblica” sceso subito in soccorso del premier Renzi e del suo “maestro” Berlusconi, non si tratterebbe allora soltanto di una operazione “maldestra” o di una “buccia di banana” sulla via del Nazareno.

stefano folli

STEFANO FOLLI

 Anche se la dietrologia è un’arte da trattare con estrema prudenza, di certo un eventuale “scambio” di favori tra i contraenti forti del patto (“salvacondotto” renziano in cambio dei voti azzurri per l’elezione del capo dello Stato?) avrebbe potuto aprire le porte del Quirinale proprio al ministro oggi sconfessato dal premier, Pier Carlo Padoan.

Eugenio Scalfari

EUGENIO SCALFARI

 Uno dei papabili “giusti” a succedere a Napolitano per il nobile maestro Eugenio Scalfari.

Il che fa pensare, comunque, che il “Pasticciaccio brutto di via via XX Settembre” forse costituisca il primo capitolo dell’annunciato grande “Romanzo Quirinale”.

RENZI LOTTI

RENZI LOTTI

La “sorprendente” proposta della Russia all’Ue: stracciate il TTIP e unitevi all’Unione Eurasiatica

http://italian.irib.ir/analisi/articoli/item/177511

irib

Lunedì, 05 Gennaio 2015 16:53

La "sorprendente" proposta della Russia all'Ue: stracciate il TTIP e unitevi all'Unione Eurasiatica

Appare sempre più evidente come le sanzioni decise dall’UE e dagli Usa alla Russia in seguito alla crisi ucraina e più in generale il blocco finanziario contro Mosca abbiano prodotto le sue conseguenze più nefaste contro i paesi membri dell’Ue.

La Germania è stata la prima ad ammetterlo alla fine del 2014 con la sua economia ormai sull’orlo della recessione. Ma si tratta di una considerazione ormai di uso comune all’interno dell’Ue. L’ex primo ministro italiano Romano Prodi, ad esempio, ha scritto sul Messaggero che un’economia russa debole non è desiderabile e profittevole per l’Italia. Secondo Prodi le sanzioni alla Russia per la crisi ucraina e l’abbassamento dei prezzi del petrolio e del gas faranno crollare il Pil russo del 5% annuo, determinando, a sua volta, un crollo delle esportazioni italiane del 50% nel paese. In altre parole, scrive Zero Hedge, il mondo sta iniziando ad avvicinarsi ad un periocoloso punto di rottura: non è tanto l’esposizione finanziaria alla Russia, o la minaccia di un contagio finanziario che Mosca potrebbe soffrire. Ma, peggio, è una questione molto più semplice che condurrà ad un’atroce sofferenza per i paesi europei: la mancanza di commercio con un partner strategico fondamentale in una fase di crisi già drammatica. Mentre le Banche centrali possono continuare a monetizzare e ritardare il punto di rottura, creando bolle azionarie senza precedenti per gonfiare la fiducia di investitori e consumatori nel breve periodo, non possono “stampare commercio”, che resta il più importante veicolo di crescita nel sistema globalizzato attuale. In questo contesto un articolo della Deutsche Wirtschafts Nachrichten va controcorrente ma nella giusta direzione nello scrivere come la Russia ha una proposta “sorprendente” verso l’Europa che questa dovrebbe prendere in considerazione, vale a dire rinunciare all’area di libero mercato con l’Usa – che impone la perdita di commercio con la Russia e quindi l’ennesimo anno di crollo economico – e unirsi all’Unione economica euroasiatica. Dall’articolo si legge: “La Russia ha presentato una proposta sorprendente per superare le tensioni con l’Unione Europea: l’Ue dovrebbe rinunciare all’accordo di area di libero scambio con gli Stati Uniti, il TTIP, ed entrare come partner nella nuova Unione Economica Euroasiatica. Un’area di libero scambio con i vicini che avrebbe sicuramente più senso che un accordo con gli Usa. Sicuramente lo avrebbe ma  poi come come potrà l’Europa fingere indignazione quando la NSA si trova ad aver spiato ancora una volta uno dei sui “partner commerciali più stretti?” Vladimir Chizhov, l’ambasciatore russo presso l’Unione Europea, ad Euobserver ha dichiarato: “La nostra idea è quella di iniziare contatti ufficiali tra l’Ue e l’EAEU il prima possibile. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha parlato di questo non tanto tempo fa. Le sanzioni dell’UE alla Russia non sono un ostacolo. Credo che il senso comune ci consigli di esplorare la possibilità di stabilire uno spazio comune economico nella regione euro-asiatica, incluso il focus nei paesi dell’Eastern Partnership [una politica Ue con legami più stretti con Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Georgia, Moldovae Ucraina]”. E ancora: “Potremmo pensare ad una zona di area di libero scambio che inglobi tutte le parti interessate in Eurasia”. Chizhov descrive la possibilità come un’opportunità molto migliore per i paesi dell’Unione Europea: “Pensate saggio spendere così tante energie politiche per un’area con gli Usa mentre avete partner naturali così vicini da casa?”, ha dichiarato l’ambasciatore. E quindi la palla è oggi nelle mani dell’Europa: con la sua recessione che da triple-dip sta per divenire quadrupla e con l’unica risposta che resta una spinta monetaria da una Banca centrale controllata da Goldman Sachs finalizzata a distruggere ulteriormente la classe media a favore di pochi fortunati, deciderà l’Europa di averne avuta abbastanza e spostare i suoi obiettivi strategici e di commercio dall’occidente – parlando del TTIP, il ministro dell’agricoltura tedesco ha recentemente dichiarato: “Non possiamo proteggere ogni slasiccia” – verso oriente?  Considerando che gli interessi delle corporazioni multinazionali e finanziarie che spingono verso il TTIP sono oggi dominanti attraverso le burocrazie non elette di Bruxelles, conclude Zero Hedge, la risposta è negativa. E considerando che sono Renzi, Gentiloni e Mogherini a dover rappresentare gli interessi strategici nazionali, dall’Italia non possiamo attenderci altro che cieco servilismo all’”alleato” americano.

Crolla ponte: Renzi si infuria, ma è un’opera delle Coop rosse

Postato il  gen 4 2015 – 6:13pm  by Francesco Meneguzzo

Era stato inaugurato alla vigilia di Natale, il viadotto Scorciavacche sulla Palermo-Agrigento è crollato a Capodanno. L’Anas parla di “un anomalo cedimento del piano viabile in corrispondenza del rilevato retrostante della spalla del viadotto“. Metà carreggiata è sprofondata e la restante presenta una profonda spaccatura. Per fortuna nessun veicolo transitava quando è avvenuto il collasso dell’arteria. L’Anas ha dunque deciso di chiudere al traffico la strada statale 121 tra il chilometro 226 e il chilometro 227 nei pressi di Mezzojuso.

 “Viadotto Scorciavacche, Palermo. Inaugurato il 23 dicembre, crolla in 10 giorni. Ho chiesto a Anas il nome del responsabile. Pagherà tutto. #finitalafesta”. Lo scrive, immancabilmente su Twitter, il presidente del Consiglio Matteo Renzi, dopo aver appreso della vicenda del viadotto crollato nel palermitano.

 Il problema – per Renzi – è che, secondo quanto riportato da LiveSicilia e ripreso anche dall’Ansa, a realizzare i lavori è stata la “Bolognetta scpa“, raggruppamento di imprese tra la capofila CMC di Ravenna, Tecnis e CCC, cioè due grandi e notissime Cooperative “rosse” emiliane (Cmc o Cooperativa Muratori e Cementisti,  con sede principale a Ravenna, e CCC o Consorzio Cooperative Costruzioni con quartier generale a Bologna) e una grande azienda privata – Tecnis – registrata a Catania.

 Alla guida del Contraente generale il capo progetto Pierfrancesco Paglini, coadiuvato da Davide Tironi, dal direttore tecnico Giuseppe Buzzanca e da una squadra di professionisti.

 Quindi Renzi, loquace e tempestivo presidente del consiglio, ha già i nomi dei responsabili cui “far pagare tutto”. Lo farà? Sarà finita la festa anche per le Coop rosse? Non resta che aspettare e soprattutto ricordare.

 Da parte sua, l’Anas ha subito contestato al contraente generale a cui è affidata l’esecuzione dell’opera il difetto di esecuzione, disponendo l’immediata installazione di un sistema di monitoraggio di tutte le strutture su cui si regge la strada realizzate nell’ambito del tratto interessato e ordinando di procedere al ripristino della carreggiata nel più breve tempo possibile. Il traffico è stato provvisoriamente deviato sulla strada provinciale 55, dal chilometro 10,5 al chilometro 12,4.

 Il ministro dei trasporti Maurizio Lupi, inoltre, ha promesso che pagheranno costruttore e controllore. Il crollo del viadotto sulla Palermo-Agrigento, “è un fatto inaudito e inaccettabile. Ho immediatamente chiesto all’Anas una relazione dettagliata sull’appalto, sui lavori e anche sulla commissione di collaudo“. Lo dichiara in una nota lo stesso Lupi: “c’è chi l’ha costruito male, chi non ha controllato che i lavori fossero fatti a dovere e chi ha dato il via libera alla circolazione“. Ora “ogni negligenza irresponsabilità in tutto questo non verrà assolutamente giustificata“.

 L’apertura della variante di “Scorciavacche” era avvenuta il 23 dicembre, con tre mesi di anticipo rispetto ai tempi previsti. Il viadotto rientra nei lavori di ammodernamento dell’itinerario Palermo-Lercara Friddi sulla statale 121. Davvero notevole che il presidente dell’Anas Pietro Ciucci avesse salutato con favore l’inaugurazione anticipata della struttura.

 Il ponte crollato rientra nel progetto esecutivo approvato dall’Anas, che aveva autorizzato il contraente generale all’avvio dei lavori in un tratto della Statale 121 compreso dal km 14,4 al km 48, per un importo di oltre 295 milioni di euro, denominato “Lotto 2″. Il costo dell’opera crollata è stato di circa 13 milioni. Lungo i 34 chilometri interessati al progetto sono previste numerose opere: una galleria, 5 nuovi viadotti, 12 svincoli, oltre a interventi di restauro, miglioramento sismico e adeguamento di 16 viadotti e ponti esistenti. All’apertura della variante “Scorciavacche”, un nuovo tratto di un chilometro, il presidente dell’Anas aveva sottolineato che il cronoprogramma era stato rispettato, “anche con l’anticipo di qualche tappa. E’ un passo avanti importante verso la realizzazione dell’intero itinerario, strategico per l’intera Isola, perché costituisce l’unico collegamento diretto tra le provincie di Palermo ed Agrigento“. “Il tratto aperto – aveva aggiunto Ciucci – è uno dei più impegnativi dal punto di vista realizzativo“. Abbiamo visto come è andata a finire.

 Il video sottostante, come alcuni dei fatti riportati sopra, è tratto da un articolo del Giornale di Sicilia.

 Francesco Meneguzzo

http://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/crollo-ponte-palermo-agrigento-12939/

LA BUFALA DELLE TLTRO AL SERVIZIO DELL’ECONOMIA REALE

È chiaro ora quali interessi sostengono coloro che promuovono le iniezioni di liquidità adducendo di voler sostenere l’economia reale contrariamente all’evidenza dei fatto? E’ chiaro perché la Germania che vi si oppone sia tanto “cattiva” e lo fa apposta per infliggere dolore alle imprese e famiglie cosa che invece le care amiche banche mai farebberro? 

 Cosa sono le TLTRO?

 Lo scorso 5 giugno 2014 il consiglio direttivo della Banca Centrale Europea ha deciso di “condurre per un periodo di due anni una serie di operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine (TLTRO, Targeted Longer-Term Refinancing Operations), con l’obiettivo di “migliorare l’erogazione di prestiti bancari a favore del settore privato non finanziario”. Il 29 luglio successivo la BCE ha pubblicato dettagli e modalità delle 8 operazioni TLTRO, le prime due a settembre e dicembre 2014 e le successive a distanza di tre mesi l’una dall’altra a partire da marzo 2015.

 Il rimborso dei finanziamenti derivanti da tutte le operazioni TLTRO avverrà nel settembre 2018, ma le banche avranno l’opzione di rimborsare con frequenza semestrale qualsiasi quota degli importi ottenuti in una qualsiasi operazione TLTRO già a partire da 24 mesi dopo detta operazione.

 Tasso di interesse concesso?

 Il tasso di interesse applicato sulle operazioni TLTRO sarà pari a quello delle operazioni di rifinanziamento principali dell’Eurosistema in essere al momento dell’operazione più uno spread di 10 punti base.

 Attualmente il TUR=0,05%, quindi vuol dire che le banche aderenti alle TLTRO sconteranno un tasso di interesse del 0,15% (0,05 tasso base + 0,10 spread) sul prestito concesso dalla BCE.

 Un gran bel regalo di Draghi alle banche verrebbe da pensare.

 La differenza tra LTRO E TLTRO?

 L’obiettivo delle TLTRO sarebbe quello di aprire linee di credito a famiglie e imprese, ossia far confluire nell’economia reale tutti questi miliardi concessi da Draghi quasi a gratis.

 Ed è ciò che differenzia la magica sigla “Tltro” dalla più nota “Ltro” che tra il 2011 e 2012 servì a iniettare una buona dose di liquidità nel sistema bancario Ue affetto da una paralisi pressoché totale, soldi che le banche utilizzarono per ricapitalizzare i loro bilanci e\o per speculare sui mercati finanziari.

 Con le LTRO parlavamo di oltre mille miliardi di euro:

 -1a asta: il 22 dicembre 2011, quando 523 banche hanno partecipato all’asta LTRO richiedendo 489,191 miliardi di euro;

 -2a asta: il 29 febbraio 2012, quando 800 banche hanno partecipato all’asta LTRO, richiedendo 529,53 miliardi di euro.

 Di questi 1.018 miliardi di euro l’economia reale non ha visto nemmeno un centesimo.

 Adesso, invece, questi fondi messi a disposizione dei vari istituti avrebbero un obiettivo ben preciso. “Avrebbero”, ho usato volutamente il condizionale!

 Nella realtà: non accadrà nulla di quanto prefissato. Perché non c’è un vero meccanismo che costringa le banche a erogare nuovo credito. L’unico deterrente perché lo facciano è dato dalla restituzione anticipata di un paio d’anni dei soldi presi in prestito per chi non rispetta le regole del gioco (ossia settembre 2016, anziché settembre 2018).

 Come sono andate le ultime due aste in TLTRO?

 -1a ASTA: il 18 settembre 2014 la BCE ha concesso 82,6 miliardi di euro alle banche europe, di cui 23 miliardi di euro assegnati alle banche italiane;

 -2a ASTA: il 11 dicembre 2014 la BCE ha concesso 128,9 miliardi di euro alle banche europe, di cui 26 miliardi di euro assegnati alle banche italiane;

 I soldi della prima asta sono finiti tutti a famiglie ed imprese? Direi proprio di NO. Secondo quanto riferisce la Banca d’Italia, gli istituti di credito italiani hanno investito ad ottobre 18,4 miliardi di euro in BTp (Buon del tesore poliennali), portando gli asset governativi al livello mai raggiunto prima di 414,3 miliardi di euro. I nuovi acquisti in Btp, in sostanza, consistono in oltre i due terzi di quei 23 miliardi di euro che le banche hanno preso dalla Banca centrale europea nell’asta Tltro del settembre scorso.

 In conclusione: Draghi sta regalando per l’ennesima volta miliardi di euro alle banche commerciali (Unicredit, Intesa Sanpaoli, MPS, BPM, UBI, etc.), ma queste ultime preferiscono specularci in borsa e\o acquistare il nostro debito, invece di supportare un’economia reale in completa recessione, in cui le famiglie non riescono ad arrivare alla fine del mese,  mentre nel settore imprenditoriale si registrano 2 fallimenti ogni ora.

 Chi vigila o dovrebbe vigilare su tutto questo?

 Dovrebbe farlo il forse il CICR (Comitato interministeriale per il credito e il risparmio), un organismo presieduto dal ministro dell’Economia e delle Finanze italiano con compiti di alta vigilanza in materia di credito e di tutela del risparmio? Questa CICR andrebbe soppresso visto che finora non ha mosso un dito a tutela del risparmio (e non muovono un dito nemmeno sui tanti contratti bancari viziati da illeciti, quali usura e anatocismo).

 Può essere mica che il CICR agisca in conflitto di interessi, visto che delibera i criteri che regolano l’attività di vigilanza e sulla trasparenza delle condizioni contenute nei contratti bancari su proposta della Banca d’Italia d’intesa con la Consob (Commissione Nazionale per le Società e la Borsa)?

 Perchè il Parlamento non adotta una commissione interparlamentare composta da esperti in materia economica, indipendenti sia dal potere politico e che da quello finanziario, allo scopo di vigilare sul buon esito di queste iniezioni di liquidità, facendo pressione sulle banche che godono di questi finanziamenti quasi gratuiti affinchè questo denaro confluisca realmente nelle tasche dei cittadini, invece che nei meandri della finanza? 

 Come al solito vige l’immobilismo politico e mediatico su vicende di importanza vitale per il Paese e per i cittadini.

 Salvatore Tamburro

 http://salvatoretamburro.blogspot.it/2014/12/la-bufala-delle-tltro-al-servizio.html

La morte del Carabiniere Luis Miguel Chiasso ha attinenza con il virus Ebola?

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Un carabiniere originario della provincia di Terni, Luis Miguel Chiasso, è stato trovato esanime, con un colpo di pistola al cuore, il 25 novembre 2014 nella sua stanza nella caserma dove prestava servizio, a Roma.

Poco prima di morire, sul suo profilo Facebook Chiasso, o chi per lui, aveva scritto: “Lavoro per i servizi segreti italiani ed internazionali”, aggiungendo “mi resta poco da vivere: so già che stanno arrivando per chiudere la mia bocca per sempre”.

È accaduto intorno alle 22.30 nella caserma “Salvo D’Acquisto”, nella zona nord della città. Il giovane è stato trovato privo di vita da alcuni colleghi nella sua stanza, chiusa a chiave dall’interno. Secondo quanto si è appreso, poco prima di morire, il giovane ha chiamato il 112 in stato confusionale. A dare l’allarme è stato il militare che ha risposto alla chiamata. Sulla vicenda indagano i Carabinieri del Nucleo investigativo. La procura, intanto, ha disposto l’autopsia.

L’A.N.S.A., citando non meglio definite “fonti qualificate”, smentisce che Luis Miguel Chiasso abbia mai lavorato per i servizi. Intanto per spiegare il decesso, è stata diffusa la solita versione di copertura: suicidio. E’ una versione non plausibile: il militare, appartenente all’VIII Reggimento Lazio, si sarebbe sparato al petto e non alla tempia, a differenza di una persona che ha intenzione di togliersi la vita. Era un giovane solare che amava la vita. Chiasso inoltre operava in una caserma strategica e forse era a conoscenza di qualche segreto scomodo. E’ singolare che in una delle fotografie pubblicate dopo la morte del Carabiniere, compaia, fotomontato, un mazzo di rose rosse: un cenno ad una ritualità? Da una rosa, quella in primo piano, stilla una goccia di sangue. Le indagini sul decesso del Carabiniere sono state affidate ai Carabinieri medesimi, contro ogni prassi.

Altri particolari non quadrano: per ragioni linguistiche alcuni messaggi all’interno del suo profilo Facebook, non pare si possano attribuire a Chiasso: vi compaiono, infatti, termini spagnoli errati, sebbene Chiasso avesse origini colombiane. Sulla pagina Facebook, dopo la tragica fine del militare, qualcuno ha continuato a scrivere dal suo account e ad accettare richieste di amicizia. In particolare ha subito destato sospetti l’ultimo post nel quale il militare “confessa” di essere Adam kadmon. Chiara l’intenzione, da parte degli autori dello scritto, di avvalorare la tesi del suicidio ad opera di uno squilibrato.

La caserma “Salvo D’Acquisto” dell’Arma dei Carabinieri, sita in viale di Tor di Quinto a Roma, è la sede del Centro nazionale di selezione e reclutamento, del Comando delle unità mobili e specializzate Carabinieri “Palidoro”, dell’ottavo Battaglione “Lazio”, del quarto Reggimento Carabinieri a cavallo, del Raggruppamento dell’Arma investigazioni scientifiche (Ra.C.I.S.) e del Reparto investigazioni scientifiche (R.I.S.) di Roma.

Il Comando delle unità mobili e specializzate Carabinieri “Palidoro” è un’importante unità al vertice dell’Organizzazione mobile e speciale dell’Emerita. Il Comando esercita le funzioni di direzione, coordinamento e controllo dei comandi dipendenti: essi comprendono i reparti dedicati all’espletamento di compiti particolari o che svolgono attività di elevata specializzazione, ad integrazione, a sostegno o con l’ausilio dell’organizzazione territoriale.

Un settore della disinformazione si è subito avventato sul ferale evento, diffondendo l’indiscrezione secondo cui Luis Miguel Chiasso sarebbe stato addirittura il negazionista Adam Kadmon. Claudio Cavalli, ideatore e produttore di “Mistero”, ha subito smentito, ma nel frattempo in Rete ha cominciato a serpeggiare questa identificazione che tende a trasformare Adam Kadmon in una vittima del sistema, anche se solo per pochi giorni e tra fans creduloni dell’”uomo mascherato”.

E’ una strategia molto scaltra: in questo modo si cerca di ridare smalto all’immagine appannata di Adam Kadmon, la sentinella della disinformazione. Non dimentichiamolo: l’uomo travisato asserisce che la geoingegneria clandestina non esiste o, al limite, che essa è “per il nostro bene”. Non dimentichiamolo: egli ha accreditato la mistificazione di un presunto terrorismo islamico che congiura contro il mondo occidentale. Non dimentichiamolo: Adam Kadmon è inciampato in numerose contraddizioni. Tali incongruenze non sono certo sanate da qualche servizio sui cantanti che veicolano messaggi subliminali.

Perché Luis Miguel Chiasso è stato ucciso? Pare che il giovane fosse venuto al corrente di qualche verità spinosa circa l’Ebola, il patogeno la cui pericolosità è stata enfatizzata per perseguire i soliti obiettivi: diffondere la paura, convincere le persone a vaccinarsi, vendere farmaci e via discorrendo.

Il 9 novembre 2014 Luis Miguel Chiasso infatti scriveva:

Gli occidentali hanno bisogno di sapere cosa sta succedendo qui in Africa dell’est. STANNO MENTENDO!!!
Il virus dell’ebola non esiste e non si diffonde. La Croce Rossa ha portato una delle malattie a quattro paesi specifici per quattro motivi particolari ed è contratta solo da coloro i quali ricevono iniezioni e cure dalle associazioni internazionali. Per questo motivo i Nigeriani ed i Liberiani hanno iniziato a cacciare dai loro paesi la Croce Rossa e riportano nei loro TG la verità
“.

Il giorno 1 gennaio 2015 le autorità italiane dichiarano che il medico di Emercency Fabrizio Pulvirenti è guarito dal virus dell’Ebola grazie a quattro farmaci sperimentali. A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.

Il discernimento ci deve aiutare a prendere sempre con le pinze le notizie dei media ufficiali e ad approfondire vicende e retroscena con meticolosa pazienza.

Fonte: seven-network

Integrazioni investigative a cura di Tanker Enemy