Chi consiglia prodotti finanziari è pagato da chi li fa

eh già. E non è considerato conflitto di interessi. Quando gli affari riguardano la finanza è solo tutto in deroga. Con il beneplacito della “società civile”

24/11/2014

Chi ha un codice deontologico non può essere pagato da chi fa i prodotti. I consulenti finanziari sì
 
La vicenda dei “regali” ai pediatri che prescrivevano latte in polvere ha giustamente suscitato l’indignazione popolare. Il fatto che ci siano di mezzo i bambini ha fatto da cassa di risonanza, ma il problema sottostante è evidente e la lezione dovrebbe essere studiata anche in altri campi, in primis nella consulenza finanziaria.
Se un paziente si rivolge a un medico per sapere quale sia la terapia migliore per la sua patologia, il paziente non vuole avere il minimo dubbio che il medico possa consigliare un certo farmaco solo perché riceve da quella specifica casa farmaceutica un “kick-back”. Per fugare qualsiasi dubbio, la deontologia professionale proibisce qualunque forma di pagamento, in moneta o in natura, dalla casa farmaceutica al medico.
 
Il medico è il “consulente” del paziente e il suo consiglio non può essere viziato da relazioni economiche con le case farmaceutiche. Il principio è chiarissimo e dovrebbe applicarsi a tutti i professionisti che svolgono attività di consulenza, qualunque sia l’oggetto. Un architetto non dovrebbe farsi pagare dalle ditte che forniscono il cemento per la costruzione del palazzo. L’avvocato non dovrebbe farsi pagare dai periti che sceglie.
 
Ho usato il condizionale perché il principio deontologico è applicato a macchia di leopardo. Nel settore del risparmio e degli intermediari finanziari a cui i risparmiatori si rivolgono per ricevere consulenza, ad esempio, il principio non si applica. In Italia, la quasi totalità dei clienti ha firmato con la propria banca un contratto di consulenza. La banca consiglia prodotti d’investimento al proprio cliente e riceve dai “produttori” che confezionano tali prodotti (sgr, assicurazioni, emittenti) delle somme in denaro, le cosiddette “retrocessioni”.  Le somme pagate dai produttori ai consulenti finanziari sono proporzionali alle quantità vendute, al prezzo di vendita e al tempo di detenzione del prodotto stesso nel portafoglio del cliente. Se il consulente non vende più il prodotto o ne consiglia un altro, niente più retrocessioni.
 
Tutto questo flusso di pagamenti è assolutamente legale e regolamentato da contratti tra i “produttori” e le “banche”. Con il recepimento della Mifid (la direttiva europea sui servizi di investimento) nel 2007-2008 si vietarono alcune tipologie di pagamenti dai produttori e distributori. Ad esempio, si vietò alle società di gestione del risparmio (sgr, se preferite) o alle banche che esercitavano servizi di gestione individuale (le cosiddette gestioni patrimoniali) di percepire retrocessioni sui fondi comuni che venivano acquistati al loro interno.
 
Per il collocamento diretto dei fondi comuni, invece, le retrocessioni dalle sgr alle banche non furono vietate. In questo caso, l’unica regola che la regolamentazione attuale impone è che sia tutto «trasparente». Esiste un documento predisposto dal produttore, il cosiddetto Kiid, che il cliente dovrebbe ricevere dal consulente all’atto della sottoscrizione e dove viene informato dal “produttore” dell’esistenza delle retrocessioni con una frase del tipo: «Le spese sostenute sono utilizzate per coprire i costi di gestione del fondo e i costi legati alla distribuzione e alla commercializzazione dello stesso».
 
La trasparenza formale è salva. Il produttore e la Banca hanno assolto al loro dovere di informare il cliente. Banca d’Italia e Consob hanno la coscienza a posto. Alzi la mano chi tra voi sa cosa sia il Kiid. E soprattutto alzi la mano chi tra voi ha un fondo in portafoglio e sa qual è la commissione di gestione che sta pagando, quanto il proprio consulente sta guadagnando consigliando quel particolare prodotto o un altro che ha sullo scaffale. Non vergognatevi se non conoscete la risposta. Se mi chiedessero di leggere le mie analisi del sangue non saprei spiccicar parola, eppure sono molto più trasparenti di un Kiid: c’è anche l’asterisco di fianco ai valori fuori norma.
 
Non è, d’altro canto, compito del consumatore interpretare il prospetto di un fondo o un esame diagnostico e men che meno essere in grado di confrontare l’efficacia di un medicinale rispetto a un altro. Per questo esiste l’ordine professionale dei medici e dovrebbe esistere l’ordine dei consulenti finanziari. Se un professionista vuole fare il consulente, deve essere disponibile a troncare qualsiasi rapporto economico con i “produttori”. Il conseguente conflitto d’interessi rischierebbe di minare la credibilità dei suoi consigli.
 
Un motivo dietro questo peculiare trattamento della consulenza finanziaria sta nel fatto che si tratta di una professione giovanissima, soprattutto se confrontata con quella del medico o dell’avvocato. Basti pensare che gli operatori finanziari che oggi svolgono veramente un’attività di consulenza si chiamano ancora “promotori” e che la prima direttiva europea che riconosce esplicitamente il ruolo della consulenza finanziaria come un vero e proprio servizio di investimento è di meno di dieci anni fa.
 
Più passa il tempo, però, e meno vale la motivazione dell’inesperienza. In primo luogo, ci sono realtà che stanno sperimentando con successo la vera consulenza e ci sono già private bank che ai loro clienti propongono, con coraggio e senza badare troppo al profitto di breve, le proprie gestioni patrimoniali personalizzate, che sono immuni per legge dal rischio di conflitto d’interessi).   In secondo luogo, la nuova regolamentazione europea, la cosiddetta Mifid 2, chiarisce che la consulenza finanziaria indipendente può essere remunerata solo ed esclusivamente dai clienti. Una forma di consulenza non indipendente potrebbe ancora essere prevista per chi promuove esclusivamente i propri prodotti, cioè per quegli intermediari finanziari che prevedono un modello, integrato verticalmente, di produzione-distribuzione. Un po’ come accade quando si va in un mobilificio e ci si avvale della consulenza dei dipendenti per arredare la propria cucina o il proprio salotto con i prodotti del mobilificio. In questo caso, il cliente è assolutamente consapevole che il consiglio si concretizzerà nella proposta di vendita dei propri mobili.
 
Purtroppo, però, siamo in Italia e quello che dobbiamo scongiurare è che il recepimento della Mifid 2 avvenga “all’italiana”, magari con lo stesso consulente che nello stesso posto di lavoro  -la banca – possa mettersi una volta la giacchetta del consulente indipendente e un’altra volta quella del consulente che non lo è.
 
Un appello quindi a Banca d’Italia e Consob: non inventiamoci la distinzione tra consulenza indipendente e consulenza non-indipendente. Per il cliente la distinzione non ha senso. Se un professionista fa il consulente finanziario o una banca vuole svolgere il servizio di consulenza finanziaria, il cliente deve avere la certezza strutturale di ricevere un consiglio scevro da qualsiasi conflitto d’interesse. Questo si ottiene azzerando tutti i rapporti economici tra produttori e consulenti. Ovviamente, se una banca decide di offrire solo un servizio di collocamento ai propri clienti, potrà ricevere dal produttore una parte delle commissioni di collocamento esplicitamente previste dal prospetto e pagate direttamente dal cliente (come accade con le emissioni obbligazionarie) ma mai e poi mai potrà ricevere nel continuo una commissione legata al mantenimento del cliente.
 
In Europa c’è già un esempio ed è l’Inghilterra. La Fsa, l’autorità di regolamentazione, ha deciso che per la consulenza finanziaria dal 2013 devono valere gli stessi principi di qualunque altra attività professionale. Grazie a questa mossa sembra che le commissioni di gestione sui fondi comuni commercializzati in Inghilterra si siano miracolosamente dimezzate nel giro di pochi mesi. Per le banche, soprattutto, sappiamo che farsi pagare dai clienti sarà difficile: dovranno dimostrare di creare valore per i loro clienti. Ma il passaggio all’unica forma di trasparenza che ha senso, quella creata dall’assenza strutturale di conflitti d’interesse, è cruciale per la sopravvivenza delle nostre banche nel lungo periodo. Che futuro può avere un business se i suoi clienti quando varcano la porta del negozio, al posto di fermarsi a guardare il bancone della merce, scappano via il più in fretta possibile per evitare di farsi rifilare una fregatura? Vogliamo che la telefonata del promotore sia accolta in famiglia allo stesso modo di quella del call centre che chiama a ora di cena per proporre un nuovo e rivoluzionario piano tariffario?
Chi consiglia prodotti finanziari è pagato da chi li faultima modifica: 2014-11-26T18:27:04+01:00da davi-luciano
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