Chi ci fa pagare due volte la stessa acqua?

Lettera del Comitato Acqua Pubblica Torino

Le ultime bollette dell’acqua sono aumentate, una nuova voce è entrata in tariffa,

il “ conguaglio ante 2012”

SMAT spa dice che è obbligata a farlo da una delibera dell’ATO3

 Chi è l’ ATO3 ?

L’Autorità  d’Ambito 3 Torinese  –ATO3 – è  costituita dai 306 Comuni della Provincia di Torino, che delegano 20 loro Sindaci nella Conferenza degli Enti Locali con compiti di governo e controllo del Servizio Idrico Integrato,  la cui gestione è stata affidata a SMAT spa nel maggio 2004 per la durata di anni 20.

 Nei mesi scorsi SMAT spa ha chiesto all’ATO3 l’autorizzazione di adeguare la tariffa applicata per gli anni dal 2008 al 2011 in quanto essa non teneva conto della diminuzione dei consumi  e dell’aumento degli investimenti sui quali la tariffa stessa veniva calcolata. Il conguaglio ottenuto da  SMAT spa “pesa” sulla bolletta di circa il 20%, in totale altri € 46 milioni sottratti alle tasche degli utenti, addebitati in tre rate annuali a partire dalle bollette del 2014.

 Una cifra analoga (€ 49 milioni) è uscita dalle casse di SMAT spa, negli  stessi anni dal 2008 al 2011, sotto forma di dividendi  che, come ogni Società per Azioni, distribuisce ai soci, nello specifico ai Comuni Soci .

 I RESPONSABILI SONO I NOSTRI SINDACI e i loro delegati nella Conferenza ATO3 che da un lato si prendono i dividendi e dall’altro ce li fanno ri-pagare con l’espediente del conguaglio. Il più ingordo è il Comune di Torino che da solo si prende il 64% degli utili SMAT spa. Poche e isolate le voci dei Sindaci fuori dal coro

 In precedenza, la stessa Conferenza dell’ATO3 aveva deliberato diversi aumenti della tariffa dell’acqua che negli ultimi due anni hanno raggiunto il + 16%.

 In questo modo SMAT spa può chiudere il bilancio 2013 con un utile di 42 milioni, dopo aver accantonato 25 milioni per rischi di morosità relativi  al conguaglio stesso!

 L’utile 2013 è stato destinato per l’80% a riserva e il 20 % pari a circa € 8 milioni distribuito ai Comuni direttamente per cassa e indirettamente escogitando la riduzione del 50% delle bollette dell’acqua dei Comuni stessi, e qualche briciola di riduzione per le famiglie meno abbienti, quandol’ammontare degli utili sarebbe più che sufficiente per una consistente riduzione della bolletta. Ma questo non passa nemmeno per la testa ai nostri Sindaci o loro delegati nell’ATO3– salvo rare e isolate eccezioni – che nella gestione dell’acqua si comportano come qualsiasi speculatore privato che considera l’acqua una merce  come tante, e non un bene comune da gestire senza scopo di lucro.

 Ecco perché l’attuale natura giuridica di Società per Azioni di diritto privato di SMAT spa deve essere trasformata  in Azienda speciale consortile di diritto pubblico per poter dar voce e potere alla gestione partecipativa degli utenti e dei lavoratori, in applicazione dell’esito referendario in cui si è espressa la volontà di oltre 26 milioni di italiani.

 Il Comitato Acqua Pubblica Torino svilupperà ogni possibile iniziativa di contrasto al comportamento di SMAT spa e ATO3 e invita i cittadini-utenti a chiedere conto ai loro Sindaci del perché lo hanno accettato o subito!

ComitatoacquaTorino

Torino. 9 ottobre 2014

Gli Usa: “Kobane non è strategica”. Ankara continua ad ammazzare curdi In evidenza

http://contropiano.org/internazionale/item/26818-gli-usa-kobane-non-e-strategica-ankara-continua-ad-ammazzare-curdicontropiano.org

Gli Usa: “Kobane non è strategica”. Ankara continua ad ammazzare curdi

I curdi resistono a Kobane, la città nel nord della Siria al confine con la Turchia martellata dal fuoco dei jihadisti dello Stato islamico che nei giorni scorsi sembravano sul punto di schiacciare la resistenza delle milizie popolari. «Abbiamo informazioni secondo le quali le milizie curde controllano la gran parte della città», ha affermato il Pentagono, che informa di aver intensificato i raid nell’area ma ammettendo che gli attacchi dall’aria potrebbero non salvare questo e altri centri assediati dai fondamentalisti sunniti.

Oltretutto qualche ora prima delle dichiarazioni del Pentagono il Dipartimento di Stato di Washington aveva affermato che Kobane non è «strategica». «Le immagini che ci giungono da Kobane sono orribili, ma dovete fare un passo indietro e capire qual è l’obiettivo strategico» degli Usa, aveva spiegato il capo della diplomazia Usa, John Kerry, rispondendo alle domande dei giornalisti sul perché Washington finora abbia fatto poco per aiutare i curdi siriani asserragliati nella città. «Malgrado la crisi in corso a Kobane, gli obiettivi originali del nostro impegno (militare in Siria) sono i centri di comando e controllo e le infrastrutture» di Isis, «e noi stiamo cercando di privare (lo Stato islamico) della capacità globale per ostacolarli non solo a Kobane, ma in tutta la Siria e l’Iraq». Dichiarazione quantomai contestabili visto che i jihadisti, nonostante i centinaia di bombardamenti dichiarati dai comandi militari di diversi paesi, stanno tuttora avanzando verso Baghdad in una direzione e verso il Rojava – l’autonomia curda – nel nord-est della Siria.

La notizia di oggi è che gli Stati uniti intendono inviare un’unità militare ad Ankara, la settimana prossima, per presunti colloqui con il governo della Turchia sul modo in cui affrontare la minaccia posta dai jihadisti dello Stato islamico.

“Un team militare americano si recherà ad Ankara la settimana prossima per proseguire queste discussioni” a livello militare, ha detto la portavoce del dipartimento di Stato, Jennifer Psaki.
Due inviati speciali statunitensi hanno già discusso ieri nella capitale turca delle “misure urgenti e rapide” da prendere congiuntamente per arginare l’avanzata dell’Isis, che però il governo di Ankara non sembra molto interessata a fermare finché non avrà il via libera da Ue e USA sull’invasione del nord della Siria, l’imposizione di una ‘no fly zone’ e la rimozione violenta del governo Assad.

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Mentre le truppe turche schierate al confine lasciano che i miliziani dello Stato Islamico facciano al loro posto il lavoro sporco contro i curdi siriani, le forze di sicurezza di Ankara sono impegnate in una durissima repressione contro le manifestazioni dei curdi turchi e delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria turca. Ormai da giorni scontri violentissimi sono in atto in tutto il paese: da numerosi quartieri di Istanbul fino a Smirne, Antiochia, Ankara e naturalmente in tutte le città curde, in molte delle quali il governo islamista ha imposto il coprifuoco e ha schierato nelle strade i militari. Che, insieme alla polizia e affiancati da squadracce di membri di organizzazioni islamiste radicali o di estrema destra, continuano a usare non solo idranti, lacrimogeni e pallottole di gomma ma anche munizioni vere.

Ma anche i dimostranti curdi di fronte alla repressione selvaggia hanno deciso di fare il salto di qualità. Due armerie a Diyarbakir sono state saccheggiate e centinaia di fucili rubati mentre secondo le agenzie di stampa turche due poliziotti sono stati uccisi in un agguato mortale a Bingol, nell’est della Turchia, e un terzo, il capo della polizia della provincia, si trova in ospedale in gravissime condizioni. Quattro dei presunti assalitori sarebbero stati uccisi in uno scontro a fuoco con la gendarmeria.

Se ieri pomeriggio il conteggio dei morti era di 22, con le ore il bilancio dei manifestanti uccisi sta crescendo. Mentre scriviamo i morti sono almeno 30. Le agenzie di stampa curde informano che ieri sera quattro persone sono state uccise e oltre 20 ferite quando alcuni sostenitori dell’Isis e di gruppi fascisti turchi (Lupi Grigi) sostenuti dalla polizia hanno attaccato i dimostranti che protestavano ad Antep (Gaziantep). Süleyman Balcı (15 anni), Sevgi Alıcı (16 anni), Ömer Uçeke (27 anni) ed un’altra persona non ancora identificata hanno perso la vita nell’aggressione. Anche gli edifici del curdo DBP (Partito della pace e della democrazia) nei quartieri di Şahinbey e Şehitkamil, sempre ad Antep, sono stati attaccati ed incendiati dagli estremisti.

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A Mardin la polizia ha sparato contro i manifestanti da un commissariato nel distretto di Dargeçit prendendo di mira dimostranti che partecipavano al funerale di Bilal Gezer e Sinan Toprak, due curdi uccisi mercoledì da alcuni membri del partito islamista curdo Hür Dava. Sotto i colpi degli agenti è rimasto ferito anche il vicesindaco di Dargeçit, Sinan Akan.

Invece un bambino di otto anni è stato ucciso e tredici persone sono rimaste ferite quando i soldati turchi hanno aperto il fuoco su migliaia di persone che si erano radunate nella serata di ieri sui due versanti del confine tra Siria e Turchia nelle località gemelle di Qamishlo-Nusaybin. Migliaia di persone si sono radunate a Qamishlo (capoluogo del Rojava) e hanno marciato verso il confine e Nusaybin, alla presenza degli esponenti dell’Amministrazione democratica autonoma del cantone di Cizre. Ma i soldati turchi hanno attaccato i dimostranti prima con i lacrimogeni e poi hannno cominciato a sparare.

Ed incredibilmente questa mattina prima dell’alba la polizia di Ankara ha attaccato in forze l’ospedale di Suruç, la località del Kurdistan turco al confine con Kobane. Finora ci sarebbero già tre morti e decine di feriti.

India: le legge non riesce a fermare le tradizioni che opprimono le donne

L’India è uno dei quattro paesi (BRIC) che trainano l’economia mondiale. La velocità della crescita del Pil non si accompagna al cambio di mentalità dove un misto di tradizione e religione relega la Donna nel ruolo di accessorio spesso ingombrante al punto tale da eliminarlo fisicamente.

di Silvia Jethmalani

L’India e’ un mondo a parte. E’ il posto dove arrivi con le tue conoscenze e convinzioni e dove sei costretto a rivedere tutto, ad interrogarti nel profondo dell’anima.
Un paese vasto, affascinante da togliere il fiato, ricco di storia e contemporaneamente una nazione terribilmente ingiusta verso Il suo stesso popolo: razzista al suo interno e ancorata a tabù millenari da farla risultare, nella realtà quotidiana degli indiani, una nazione invivibile.

Povertà, ignoranza, intolleranza verso le persone disabili, corruzione altissima e radicata come una mafia, ottuse superstizioni, violenza sulle donne, divisione delle persone in caste di appartenenza. Discriminazione sociale, condizione inumana delle vedove specialmente nelle zone non urbanizzate e la lampante disparità di trattamento del genere femminile, considerato inferiore in tutto e per tutto a quello maschile.
Questa umiliante condizione della donna è l’aspetto che più colpisce il cuore quando parli con le persone. La riscontri camminando tra i mercati o gustando il masala chai [1] nella dhaba [2] o piuttosto nel lussuoso Cafè della Starbucks. Te ne accorgi se visiti il paese da viaggiatore, non come semplice turista e acquisisci una certezza: l’india non è un paese per donne. Anche se non tutti la pensano così.

La donna non può essere indipendente e autonoma.
La mentalità Indiana e’ ancora fortemente influenzata, oltre che dai precetti della religione, dagli scritti del legislatore Manu, il quale, nella sua opera dal titolo “Manu laws” o “Codice di Manu” (testo di data incerta ma databile intorno alla nascita di Cristo) assegnava alla donna lo status di “chattel” ovvero “bene mobile” e impartiva con le sue leggi il comportamento dell’uomo induista nella vita sociale e religiosa.
Manu affermava: “Dalla culla alla tomba la donna e’ dipendente dall’uomo: nell’infanzia dipende dal padre, nella giovinezza dal marito e nell’età’ avanzata dal figlio maschio” [3].

Dalla degradante considerazione della donna nascono costumi sociali umilianti e tragedie che avvelenano l’intera società. Uno di questi e’ senza dubbio quello della dote. Questa pratica risulta attualissima in India, sebbene sia stata legalmente abolita nel 1961. Come spesso accade modificare una legge è relativamente rapido ma cambiare la mentalità radicata nelle persone può richiedere intere generazioni.

donne indiane

L’esistenza della donna indiana viene offesa dal momento della sua messa al mondo a quello della sua dipartita. Una bambina e’ considerata solo un pesante fardello da sfamare, da controllare, da far sposare (costringendo la famiglia a pagare una dote) e dalla quale non si riceve nessun tipo di vantaggio.

L’infanticidio femminile in India ha raggiunto livelli vergognosamente alti. Non parliamo solo di soppressione di bambine nate, fatto di per sé terribile, ma anche di feticidio femminile. La legge ha reso illegale il test per stabilire il sesso del nascituro ma le famiglie con maggiore possibilità economica ricorrono alle cliniche private e, per mezzo dell’amniocentesi, lo verificano. Se sarà una bambina, in moltissimi casi, la eliminano tramite l’aborto senza tanti rimorsi. Paradossalmente la pratica abortiva è praticata da famiglie di buon livello sociale e ricche che considerano la “femmina” una “condanna economica”, un peso, una maledizione piuttosto che dalle famiglie povere e di poca cultura.

La figlia femmina e’ vista dalla maggior parte degli indiani come un vuoto a perdere. Però costituisce un “bottino” non indifferente per la “famiglia d’acquisto”, quella del potenziale marito.
In India il matrimonio e’ generalmente combinato dai clan familiari. E’ un contratto tra due famiglie. La donna non sposa l’uomo bensì la sua intera famiglia. La moglie va generalmente a vivere con il marito nella casa dei genitori di lui. Qui subirà altre vessazioni, soprusi e ricatti.
Le coppie che si scelgono per amore, in modo indipendente, sono ancora rare e socialmente mal viste.
La dote e’ un vero e proprio flagello economico, una condanna per i genitori della sposa e l’ennesima umiliazione per lei in quanto le viene attribuito un prezzo che la possa rendere “appetibile e competitiva” agli occhi della famiglia del futuro marito.

La famiglia di lei si sente obbligata a pagare costi altissimi per il matrimonio, per i festeggiamenti e per l’ingresso della figlia nella nuova casa. Un tempo la dote consisteva generalmente in denaro e in oro. Oggi sulla scia dello sviluppo economico nel bottino della dote confluiscono anche apparecchi tecnologici, mobilio, automobili, cellulari, scooter, condizionatori d’aria, televisori ecc.
Qui il problema è proprio culturale. Legalmente non c’è nessun obbligo a investire i risparmi di tutta una vita e a indebitarsi fino alla morte per pagare la dote. Ma chi non lo fa perde la faccia, l’onore, la rispettabilità. Inoltre la figlia non troverebbe probabilmente un marito. E in India una donna non sposata è vista negativamente, disprezzata, considerata a dir poco “strana” e, soprattutto tra le persone meno abbienti dove le donne generalmente non lavorano, vissuta nuovamente come un peso per il proprio nucleo familiare.

Se la dote non e’ ritenuta abbastanza generosa, cominciano vere e proprie torture psicologiche, soprusi e ogni genere di violenza verso la sposa, per costringere i suoi genitori a sborsare ancora più soldi. E quando il denaro non arriva più la soluzione e’ quella di togliere di mezzo la malcapitata giovane consorte per far spazio ad un’altra moglie e richiedere una nuova dote.
Si contano in India ogni anno oltre 8000 “morti per dote”. La maggior parte degli omicidi vengono fatti passare per incidenti domestici. In moltissimi casi la sposa viene letteralmente bruciata viva. I parenti del marito, o lui stesso, racconteranno che la donna ha preso fuoco vicino ai fornelli mentre cucinava per l’amata famiglia allargata.

sposa indiana

Nel caso in cui la donna pensasse di lasciare la casa del marito per paura di essere uccisa si ritroverebbe abbandonata da tutti senza sapere cosa fare e dove andare. Tornare dalla famiglia d’origine è fuori discussione in quanto dopo tutto quello che hanno speso per liberarsi di lei non sarebbero certo disposti a riprenderla in casa. Il disonore che potrebbe arrecare ai genitori e’ un altro fattore che incide sulla decisione.
Il più delle volte una moglie, se ancora in vita naturalmente, sceglie di rimanere a fare l’ospite indesiderato in casa dei suoceri nonostante tutte le prepotenze e le sopraffazioni che subisce. Poi, quando sarà il suo turno di interpretare il ruolo di madre o suocera su un’ipotetica figlia o su una nuora, commetterà gli stessi abusi un tempo subiti. E il circolo vizioso si riproduce.

La donna Indiana si ritrova in una ragnatela mortale dalla quale non riesce ad uscire. L’unico modo sarebbe quello di spezzare finalmente questa assurda catena che obbliga le donne a vivere esistenze imposte da altri, a prostrarsi ai piedi di uomini che impongono la loro legge, a sacrificare sogni progetti e sentimenti. Ma lo scotto da pagare è molto alto ma potrebbe diventare conveniente fosse solo per la sopravvivenza.

S. J. 10.10.14

[1] letteralmente: “Tè speziato misto” o semplicemente Chai è un tè aromatizzato indiano ricavato dal tè nero con una miscela di spezie ed erbe indiane. (Wikipedia)

[2] tipico ristorante indiano

[3] in originale ”From the cradle to the grave a woman is dependent on a male: in childhood on her father, in youth on her husband, in old age on her son”. Tratto dal libro May you be the mother of a hundred sons di Elisabeth Bumiller, ed. Penguin Books

No Tav. Processo per terrorismo. Importanti precisazioni e momenti di commozione in aula bunker

“Bombe molotov? Io preferisco chiamarle bottiglie incendiarie” non sono bombe, non sono armi. Il “mortaio” un’arma da guerra? “un tubo lanciatore di fuochi artificiali, nient’altro”. Parola di consulente

di Gabriella Tittonel

È Stata un’importante udienza quella di ieri, giovedi 9 ottobre, nella vicenda del processo terrorismo, udienza che ha saputo fare chiarezza su alcuni aspetti finora non chiariti o meglio presentati in modo enfatico e quindi destinati ad essere non ben compresi.

Un processo iniziato con la deposizione della dottoressa Cristina Villa, dell’antiterrorismo di Milano. Teste che illustrando materiali rinvenuti e sequestrati nella perquisizione in casa di uno degli imputati cita anche l’opuscolo «Lavanda» e alcune annotazioni sul misterioso gruppo di Giacu.

Alla Villa è seguito il dottor Petronzi, che ha relazionato sull’attività di rilevazione svolta al cantiere in concomitanza coi fatti del 14 maggio 2013.

Ma le novità sono venute dall’ascolto dei due consulenti della difesa, Maurizio Abbà, geometra di Susa e Luca Soldati, consulente tecnico in armi, munizioni, esplosivi, iscritto all’Albo Periti di Milano.

“Ho notato discrepanze , facendo il rilevo topografico in dettaglio della zona, questo il 20 maggio, con quello realizzato dalla Polizia. Mi sono avvalso anche del materiale fotografico e video prodotto… Ho notato lo spostamento dell’impalcatura del tubo di aereazione, ho verificato le varie distanze tra i punti di lancio e i punti di ritrovamento dei reperti” – così ha sottolineato Abbà. Le sue osservazioni saranno certamente preziose per verificare i fatti.

“Bombe molotov? Io preferisco chiamarle bottiglie incendiarie… la definizione ‘bomba’ indica  manufatto in metallo che contiene materiale esplosivo… la bottiglia incendiaria contiene normalmente benzina, le sue potenzialità sono quelle di un liquido infiammabile, sono quindi manufatti a combustione semplice… altri sono gli esplosivi, deflagranti e detonanti, sono questi capaci di creare energie distruttive…. La combustione semplice non rientra  nella categoria degli esplosivi… Fa parte di un sistema ideato per fermare i carri armati, nel 1936, nella guerra di Spagna, utilizzato poi nelle manifestazioni di piazza degli anni ’70… ma non è un’arma, nessuna Forza armata ha mai adottato le bottiglie incendiarie, non può essere catalogata come arma di guerra… per quanto riguarda il mortaio qui non si tratta di arma da guerra ma di tubo lanciatore di fuochi artificiali, nient’altro…. Un tubo fissato nel terreno, interrato per i due terzi, questi oggetti in realtà sono di libera vendita, non sono armi ed è impossibile utilizzarli come strumenti lanciatori per bottiglie incendiarie…

A termine udienza è stata bocciata la richiesta, da parte dei PM, di presentare ulteriori documenti, tra i quali una consulenza della Bocconi di Milano.

Tra le note a fianco dell’udienza l’eliminazione tra le proteste del pubblico dei tanti cartelli incollati sui vetri separatori in aula tra la Corte ed il pubblico, cartelli posti per esprimere vicinanza e gioia a Chiara Zenobi, neo sposa dal giorno precedente. Una giovane donna gioiosa, nonostante tutto, alla quale è giunto l’augurio di tutto il movimento No Tav attraverso un bouquet da sposa: tante rose rosa, un nastro con su scritto “Auguri resistenti Non Tav – fino all’ultima battaglia, fino all’ultima bottiglia”. (bottiglia, a scanso di equivoci,  del neo nato gruppo NPA – Nucleo pintoni attivi)… A consegnarglielo, a fine udienza, dall’Avvocato Novaro.

Ora il processo riprenderà il 6 novembre, seguiranno il 14 ed il 26. Il 17 dicembre, ad un anno dalla carcerazione dei quattro imputati, è prevista la sentenza. Una sentenza in cui l’accusa vorrebbe vedere considerati anche i danni di immagine…

G.B. 10.10.14

Quello che i giornali non dicono: il TAV fa deragliare un Freccia Bianca

Posted on 10 ottobre 2014 by valpolcevera

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La frana provocata dal disboscamento di COCIV a Trasta per la realizzazione del cantiere del Terzo Valico, il cosiddetto cantiere “Galleria Campasso” in via Castel Morrone, ha bloccato un Freccia Bianca. La coltre di terra e detriti, staccatasi dal cantiere, è crollata su quattro vagoni del convoglio FrecciaBianca, ferendo incredibilmente solo il macchinista, causando il deragliamento del treno con la fuoriuscita dai binari di numerosi vagoni. Se il nostro cuore non stesse lacrimando per la rabbia e la devastazione, ci sarebbe da ridere. I media locali (ilSecolo, Primocanale, Repubblica) che sempre si prodigano nell’infiocchetare le virtù del Terzo Valico-TAV Genova Tortona, evitano di individuare la causa della frana, evitano di dire da dove si è staccata e perchè. Vergognosi, come al solito. Le immagini parlano chiaro, e confermano ancora una volta che la lotta al tav Terzo Valico è giusta e sacrosanta.
Lottare contro il  TAV- Terzo Valico vuol dire lottare contro tutto ciò che sta accadendo a Genova in questo ore, lottare contro i suoi responsabili e i suoi fautori. Ogni parola delle istituzioni e dei suoi burattini è pura menzogna.

galleria fotografica in aggiornamento

Monika Ertl. La donna che vendicò Che Guevara

http://contropiano.org/cultura/item/26827-monika-ertl-la-donna-che-vendico-che-guevara

contropiano.org

  •  Venerdì, 10 Ottobre 2014 13:25
  •  Nina Ramon

Monika Ertl. La donna che vendicò Che Guevara

Ad Amburgo, in Germania, erano le dieci meno venti della mattina del 1° aprile 1971. Una bella ed elegante donna dai profondi occhi color del cielo entra nell’ufficio del console della Bolivia e, aspetta pazientemente di essere ricevuta.

Mentre fa anticamera, guarda indifferente i quadri che adornano l’ufficio. Roberto Quintanilla, console boliviano, vestito elegantemente con un abito oscuro di lana, appare nell’ufficio e saluta, colpito dalla bellezza di quella donna che dice di essere australiana, e che pochi giorni prima gli aveva chiesto un’intervista.

Per un istante fugace, i due si trovano di fronte, uno all’altra. La vendetta appare incarnata in un viso femminile molto attraente. La donna, di bellezza esuberante, lo guarda fissamente negli occhi e senza dire nulla estrae un pistola e spara tre volte. Non ci fu resistenza, né lotta. Le pallottole hanno centrato il bersaglio. Nella sua fuga, lasciò dietro di sé una parrucca, la sua borsetta, la sua Colt Cobra 38 Special, ed un pezzo di carta dove si leggeva: “Vittoria o morte. ELN”.

Chi era questa audace donna e perché avrebbe assassinato “Toto” Quintanilla?

Nella milizia guevarista c’era una donna che si faceva chiamare Imilla, il cui significato in lingua quechua ed aymara è Niña o giovane indigena. il suo nome di battesimo: Monica (Monika) Ertl. Tedesca di nascita, che aveva realizzato un viaggio di undici mila chilometri dalla Bolivia persa, con l’unico proposito di giustiziare un uomo, il personaggio più odiato dalla sinistra mondiale: Roberto Quintanilla Pereira.

Lei, a partire da quel momento, si trasformò nella donna più ricercata del mondo. Accaparrò le facciate dei giornali di tutta l’America. Ma quali erano le sue ragioni e quali le sue origini?

Ritorniamo al 3 marzo 1950, data in cui Monica era arrivata in Bolivia con Hans Ertl –suo padre–attraverso quello che sarebbe stata conosciuta come la rotta dei topi, cammino che facilitò la fuga di membri del regime nazista verso il Sud-America, terminato il conflitto armato più grande e sanguinonso della storia universale: la II Guerra Mondiale.

La storia di Monica si conosce grazie all’investigazione di Jürgen Schreiber. Quello che io vi presento è appena una piccola parte di questa appassionante storia che include molti sentimenti e personaggi.

Hans Ertl (Germania, 1908-Bolivia, 2000) alpinista, innovatore di tecniche sottomarine, esploratore, scrittore, inventore e materializzatore di sogni, agricoltore, ideologico convertito, cineasta, antropologo ed etnografo affezionato. Molto presto ha raggiunto la notorietà ritraendo i dirigenti del partito nazionalsocialista quando filmava la maestosità, l’estetica corporale e le destrezze atletiche dei partecipanti nei Giochi Olimpici di Berlino (1936), con la direzione della cineasta Leni Riefenstahl, che glorificò i nazisti.

Tuttavia, ebbe l’infortunio di essere riconosciuto dalla storia (e a sua posteriore disgrazia), come il fotografo di Adolf Hitler, benché l’iconografo ufficiale del Führer sia stato Heinrich Hoffman dello squadrone di difesa. Secondo alcune fonti Hans era assegnato a documentare le zone di azione del reggimento del famoso maresciallo di campo, soprannominato la “Volpe del Deserto” Erwin Rommel, nella sua traversata per Tobruk, in Africa.

Come dato curioso, Hans non appartenne al partito nazista però, malgrado odiasse la guerra, esibiva con orgoglio la giacca progettata da Hugo Boss per l’esercito tedesco, come simbolo delle sue gesta in altri tempi, ed il suo garbo ariano. Detestava che lo chiamassero “nazista”, non aveva nulla contro di loro, ma neanche contro gli ebrei. Per ironico che sembri fu un’altra vittima della Schutzstaffel.

Al termine della Seconda Guerra Mondiale, quando il Terzo Reich crollò, i gerarchi, i collaboratori e parenti del regime nazista fuggirono dalla giustizia europea rifugiandosi in diversi paesi, tra cui, quelli del continente latinoamericano, col beneplacito dei loro rispettivi governi e l’appoggio incondizionato degli Stati Uniti. Si dice che fosse una persona molto pacifica e non aveva nemici, cosicché optò per rimanere in Germania per un periodo, lavorando in assegnazioni minori al suo status, fino a che emigrò con la sua famiglia. Prima di tutto in Cile, nell’arcipelago australe di Juan Fernandez, “affascinante paradiso perduto”, dove realizzò il documentario Robinson (1950), prima di altri progetti.

Dopo un lungo viaggio, Ertl si stabilisce nel 1951 a Chiquitania, a 100 chilometri della città di Santa Cruz. Arrivò fino a lì per stabilirsi nelle prospere e vergini terre come un conquistatore del XV secolo, tra la spessa ed intricata vegetazione brasiliano-boliviana. Una proprietà di 3.000 ettari dove avrebbe costruito con le sue proprie mani e con materia autoctona quella che è stata la sua casa fino ai suoi ultimi giorni; “La Dolorida.”

Il vagabondo della montagna, come era conosciuto dagli esploratori e ricarcatori, deambulava col suo passato in spalla, nell’immensa natura con la visione avida di sviscerare e catturare con la sua lente tutto quello che percepiva nel suo ambiente magico in Bolivia, mentre cominciava una nuova vita accompagnato da sua moglie e le sue figlie. La maggiore si chiamava Monica, aveva 15 anni quando è incominciato l’esilio e, qui incomincia la sua storia…

Monica aveva vissuto la sua infanzia in mezzo all’effervescenza dei nazisti della Germania e quando emigrarono in Bolivia imparò l’arte di suo padre, fatto che le è servito per lavorare poi col documentarista boliviano Jorge Ruiz. Hans realizzò in Bolivia vari film (Paitití e Hito Hito) e trasmise a Monica la passione per la fotografia. Certamente possiamo considerare Monica come una pioniera, la prima donna a realizzare documentari nella storia del cinema.

Monica è cresciuta in un circolo tanto chiuso quanto razzista, nel quale brillavano tanto suo padre come un altro sinistro personaggio che ella si abituò a chiamare affettuosamente “Lo zio Klaus”. Un impresario germanico (pseudonimo di Klaus Barbie (1913-1991) ed ex capo della Gestapo a Lyon, in Francia, meglio conosciuto come il “Macellaio di Lyon.”

Klaus Barbie, cambiò il suo cognome per “Altmann” prima di invischiarsi con la famiglia Ertl. Nello stretto circolo di personalità a La Paz,  quest’ uomo guadagnò sufficiente fiducia da fare si che, lo stesso padre di Monica, sia riuscito a fargli ottenere il suo primo impiego in Bolivia come cittadino Ebreo Tedesco, ma poi si dedicò ad essere “consigliere” delle dittature sud-americane.

La celebre protagonista di questa storia, si sposò con un altro tedesco a La Paz e visse vicino alle miniere di rame nel nord del Cile ma, dopo dieci anni, il suo matrimonio fallì ed ella si trasformò in una militante politica attiva che appoggiò cause nobili. Tra le altre cose aiutò a fondare una casa per orfani a La Paz, ora convertita in ospedale.

Visse in un mondo estremo, circondata di vecchi lupi torturatori nazisti. Qualunque indizio perturbatore non gli risultava strano. Tuttavia, la morte del guerrigliero argentino Ernesto Che Guevara nella selva boliviana (ottobre del 1967) aveva significato per lei lo spintone finale per i suoi ideali. Monica –secondo sua sorella Beatriz–“adorava il “Che” come se fosse un Dio.”

A causa di questo, la relazione padre e figlia diventò difficile per questa combinazione: un fanatismo aderito ad un spirito sovversivo; chissà quali fattori detonanti generarono una posizione combattiva, idealistica, perseverante. Suo padre fu il più sorpreso e, con il cuore rotto, la cacciò dalla tenuta. Forse questa sfida produsse in lui una certa metamorfosi ideologica negli anni 60, fino a trasformarlo in un collaboratore e difensore indiretto della Sinistra in Sud-America.

“Monica fu la sua figlia favorita, mio padre era molto freddo verso di noi e lei sembrava essere l’unica che amava. Mio padre nacque come risultato di una violenza, mia nonna non gli mostrò mai affetto e questo lo segnò per sempre. L’unico affetto che mostrò fu per Monika”, ha detto Beatriz in un’intervista per la BBC News.

Alla fine degli anni sessanta, tutto cambiò con la morte del Che Guevara, Monica ruppe con le sue radici ed ebbe un drastico cambiamento, fino ad entrare in pieno nella milizia con la Guerriglia di Ñancahuazú, come aveva fatto il suo eroe in vita, per combattere la disuguaglianza sociale.

Monica smise di essere quella ragazza appassionata per la macchina fotografica per convertirsi in “Imilla la rivoluzionaria” rifugiata in un accampamento delle colline boliviane. Man mano che sparivano dalla faccia della Terra la maggior parte dei suoi membri, il suo dolore si trasformò in forza per reclamare giustizia, trasformandosi in una chiave operativa per l’ELN.

Durante i quattro anni che rimase reclusa nell’accampamento, scrisse a suo padre solamente una volta all’anno, per dire testualmente; non vi preoccupate per me… sto bene. Tristemente, non l’ha potuta vedere mai più; né viva, né morta.

Nel 1971 attraversa l’Atlantico e torna alla sua Germania natale, ed ad Amburgo uccide personalmente il console boliviano, il colonnello Roberto Quintanilla Pereira, responsabile diretto dell’oltraggio finale a Guevara: l’amputazione delle sue mani, dopo la sua fucilazione a La Higuera. Con quella profanazione firmò la sua sentenza di morte e, da allora, la fedele “Imilla” si propose una missione di alto rischio: giurò che avrebbe vendicato il Che Guevara.

Dopo avere compiuto il suo obiettivo, cominciò una battuta di caccia che attraversò paesi e mari e che trovò la sua fine solo quando Monica cadde uccisa nel 1973, in un’imboscata che, secondo alcune fonti degne di fede, gli tese il suo traditore “zio” Klaus Barbie.

Dopo la sua morte, Hans Erlt continuò a vivere ed a filmare documentari in Bolivia, dove morì all’età di 92 anni (anno 2000) nella sua tenuta ora convertita in museo grazie all’aiuto di alcuni istituzioni della Spagna e della Bolivia. Lì rimane sepolto, accompagnato dalla sua vecchia giacca militare tedesca, la sua fedele compagna degli ultimi anni. Il suo sepolcro rimane tra due pini e terra della sua Bavaria natale. Lui stesso si incaricò di prepararlo e sua figlia Heidi di rendere realtà il suo desiderio. Hans aveva affermato in un’intervista concessa all’agenzia Reuters: “Non voglio ritornare al mio paese. Voglio, perfino da morto, rimanere in questo nuova mia terra”.

In un cimitero di La Paz, si dice che riposano “simbolicamente” i resti di Monica Ertl. In realtà non sono mai stati consegnati a suo padre. I suoi appelli furono ignorati dalle autorità. Questi rimangono in qualche posto sconosciuto del paese boliviano. Giacciono in una fossa comune, senza una croce, senza un nome, senza una benedizione di suo padre.

Così fu la vita di questa donna che in un periodo, secondo la destra fascista di quegli anni, praticava “il comunismo” e per conseguenza “il terrorismo” in Europa. Per alcuni il suo nome rimane inciso nei giardini della memoria come guerrigliera, assassina o chissà terrorista, per altri come una donna coraggiosa, che ha compiuto una missione. Secondo me, è una parte femminile di una rivoluzione che lottò per le utopie della sua epoca, e che alla luce dei nostri occhi ci obbliga a riflettere, un’altra volta su questa frase: “Non sottovaluti mai il valore di una donna.”

* Da Cubadebate.cu, traduzione di Ida Garberi

QUELLI CON GLI SCARPONI CHIODATI, QUELLI CON LE PANTOFOLE (SULLO SCARPONE), QUELLI SCALZI

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MONDOCANE

GIOVEDÌ 9 OTTOBRE 2014

Dobbiamo andare avanti nella difesa dell’amore. Siamo qui per difendere i diritti umani e porre fine alla discriminazione e alle diseguaglianze ancora in molti paesi a regime dittatoriale, come Cina, Russia, Iran, Siria, Cuba…” (Un neocon Usa? No, Nichi Vendola 2011)
Metterei nella mia agenda il diritto alla sicurezza dello Stato di Israele… Siamo tutti ebrei” (Nichi Vendola 2010)
A New York ho incontrato i rappresentanti della Fondazione Rockfeller e della Fondazione Ford con i quali ho approfondito la discussione su temi come la deforestazione, la desertificazione, la difesa dell’acqua  come bene comune. (Nichi Vendola 2010)
L’impegno di due grandi cattedre: quella di Papa Ratzinger e quella del papa laico, Mario Draghi. Ambedue hanno colto nella precarietà un dato di crisi globale della nostra società. Il mondo mette in movimento tanti mondi. Tanti mondi mettono in movimento il mondo. (Nichi Vendola 2011)
Askavusa
A Lampedusa ci arriva chi è scampato al mare (a volte anche no). A Lampedusa ci va chi lacrima sui poveretti e se la ride sotto i baffi per come infinocchia vivi e morti. A Lampedusa ci va, quatto quatto, gente con le stellette e le stelle a strisce a impiantare basi e radar e nascondere sotto gli stracci e le ferite dei fuggiaschi le leucemie da onde elettromagnetiche degli indigeni. Ma a Lampedusa ci va anche chi  vuole lasciarsi dietro questa melma continentale di UE, Nato, l’orda di guitti del grullo parlante calzati di scarponi chiodati, con dietro il caravanserraglio dei suoi corifei, dichiarati, quelli con gli anfibi, o mimetizzati, quelli in pantofole, comandati a fare da esecutori testamentari del paese. Corifei pantofolai mimetizzati, come quelli della recente kermesse ai Santi Apostoli di Roma, dove gli eterni revenants Vendola (il consociato USraeliano sopra citato), la guest star Civati (il chierichetto riluttante), Landini (uragani di paroloni, ma nemmeno un’ora di sciopericchio contro l’apocalisse padronale) e relitti vari del bluff tsiprasiano, al passo delle trombette di latta del “manifesto”, rilanciano l’ennesima uscita dalla bara dello zombie “sinistra radicale”. Non è detto che a Lampedusa li si possano evitare, come vedremo più avanti, ma l’isola lì accoglierà a dovere.
 Svendola e l’Ilva
Giacomo, Fabrizio, Luca, Francesca, Marzia, Alessia e i tanti altri dell’Associazione Askavusa (pronuncia Askausa, scalzi) sono un presidio del sud del mondo, del mondo vivo, su quest’estrema propaggine di un Occidente necrofilo e necrofago. Per la sesta volta il loro “Lampedusainfestival” ha raccolto a fine settembre voci e opere di chi guarda il mondo, non solo dei migranti, consustanziali a Lampedusa, con occhi suoi, avendo frantumato le lenti distorcenti che si affannano a metterci addosso tra prima elementare, catechismo, società civile, ONG e ordini di servizio della BCE. Sei giorni di cinema, mostre itineranti, libri, convegni, concerti, poesia, da “Imperialismo e militarizzazione”  alla musica senegalese dei Super Griot, da “Lavoro e immigrazione” a “Migranti: altre economie possibili”, da “Xenophobie Business” allo “Stato della pesca nel Mediterraneo nell’Europa che sarà”, a “Resistenze in Europa”, a “Orizzonti Mediterranei: storie di migrazioni e di violenze”, a “Lampedusa 3 ottobre”…E ovunque affollamento di un pubblico partecipe, consapevole, venuto anche da aldilà del mare, disposto addirittura a rinunciare al richiamo di calette sabbiose davanti a un mare di smeraldo trasparente e sotto un sole che non si sarebbe rivisto per un bel po’.
Con quattro soldi di autofinanziamento e di generosità insulare, rinunciato al modesto finanziamento istituzionale per via delle contraddizioni che vedremo, Askavusa ha mostrato a centinaia di persone sera dopo sera, nell’atmosfera magica di una Piazza Castello proiettata sul porto e sullo scintillio dai promontori, brani di realtà, terre, vite orizzonti calpestati e annientati, o riscattati dall’intelligenza, dall’amore, dalla resistenza. Vi ho ritrovato, restituiti alla loro integrità politica e umana, vicende e volti incontrati nei miei attraversamenti di guerre e predazioni, quelli che le cellule mediatiche del carcinoma imperiale deformano o cancellano.
Vi ho trovato, soprattutto, l’assonanza con quanto, in quattro gatti qui da noi e qualche gatto in più fuori, andiamo da tempo  sgolandoci su migranti e migrazioni, facendoci largo nell’alluvione di piagnistei e vesti stracciate in cui annegano il colto e l’inclita, proprio i responsabili primi di migranti e migrazioni. Un qualcosa che risplende alla luce del sole con un’evidenza che neanche i più accaniti dei bugiardi, calzati di anfibi o pantofole, nella scala da Obama al grullo parlante, dovrebbe poter oscurare. Si distrugge un paese dopo l’altro, si ammazzano milioni di innocenti, si divora quanto resta del pianeta, primo, per appropriarsi di risorse umane e naturali, o cancellarle, e insediare sulle macerie e sulle fosse comuni fantocci Pinochet e, secondo, per dissestare, con l’afflusso di numeri insostenibili e la coltivazione di conflitti etnico-sociali, società ed economie che si temono concorrenziali.
Con questa danza macabra, guidata per conto della Cupola dai cavalli di razza Usa, Israele ed élite sadomaso di Bruxelles, l’Europa, prima il Sud e poi il resto, deve essere fatta a pezzi e ridotta ad appendice sbrindellata dell’Impero. La ciliegina sarà poi il trattato di “libero” scambio, TTIP, con cui il cannibalismo transnazionale Usa si ciberà delle briciole della torta Europa. Arrivano da Siria, Iraq, Palestina, Afghanistan, Sahel; prima dal Maghreb e prima ancora dall’est europeo, tutti luoghi su cui è piombato l’Occidente incenerendoli, o sgozzandoli con il neoliberismo dei pezzenti. E’ casuale, o è programmato, che gli effetti apocalittici di quegli interventi si stiano abbattendo sull’Europa? E’ casuale, una dimenticanza, una svista, che lamentando guerre, fame, disastri sociali e ambientali, le Sturmtruppen della compassione non menzionino mai chi queste guerre le fa, chi questa fame la promuove, chi questi disastri li provoca? Né casuale, né svista. Se non lo fanno è perché si vedrebbero nello specchio.
Ai vascelli pirata di Askavusa che, soli in un mare-cimitero, sparavano su colpevoli e complici piagnoni bordate di verità e di condanna, rendendo voce alla sconfinata schiera di testimoni che i flutti avevano silenziato, quelli con gli stivali e con le pantofole hanno cercato di rispondere con una corazzata. Il 3 ottobre, anniversario dell’annegamento dei 368 migranti, morti in mare perché a casa loro non li lasciavano più vivere e che uno Stato cialtrone non è riuscito in gran parte nemmeno a identificare, i corresponsabili della strage sono venuti in pompa magna a farli sparire un’altra volta. Li hanno sotterrati sotto la pietra tombale di un lutto con rinfresco a seguire.
Organizzati da Comune, Regione e ARCI (del resto anche la cugina ANPI onora i “patrioti” di Kiev), tre giorni di kermesse intitolata “Sabir”, per cercare di riprendere il controllo sulle luci accese in cuori e menti dal Festival di Askavusa.Tre giorni di impudenza di regime con i quattro somari dell’apocalisse Mogherini, Boldrini, il viceministro di polizia (ché Alfano non se  l’è sentita…) e, al centro, l’officiante europeo della danza macabra, Martin Schultz, presidente del Parlamento europeo, proconsole nella marca europea dell’Impero, sodale di tutte le guerre per la democrazia, i diritti umani e contro le dittature. E’ stata una soddisfazione grande quando le oscene giaculatorie sulle “vittime del mare e dei trafficanti”  e gli obesi peana al trucco militarista di “Mare Nostrum”, di questi collusi con tutti i crimini all’origine degli sradicamenti, sono stati interrotti dalle urla di verità di Giacomo e poi dalle manifestazioni di piedi nudi che schiacciavano gli scarponi insanguinati dei celebranti la danza macabra.
Chi, oltre alle “istituzioni” con ben 80mila euro, che sarebbe meglio fossero stati impiegati per collocare ai quattro angoli del mondo i “wanted” degli assassini, celebranti a Lampedusa compresi, ha sostenuto con munifica offerta lo spettacolo di finzione, doppiezza, simulazione? Ma è ovvio, il Gran Maestro di tutte le rivoluzioni colorate, dei governi legittimi destabilizzati, del tappeto rosso finanziario alle Gestapo e alle SS dell’Impero, dei paesi rasi al suolo e depredati dei beni comuni con il sabotaggio della loro moneta (Italia 1992, complici Draghi, Ciampi, Dini, Amato, Prodi). Diamanti di sangue offerti dall’ atlantico-sionista George Soros, filantropo di golpisti e mercenari nazisti,  perché la corrazzata degli ascari europei potesse sterminare i vascelli pirata.Il reddito da tradimento, inganno, delitto contro l’umanità, offerto per lustrare stivali amici e foderare pantofole complici (trattasi di sineddoche). Queste le indossavano i capifila di una “sinistra”  che ciabatta in pantofole appresso a qualsiasi anfibio li guidi ai diritti umani: Erri De Luca, Ascanio Celestini, Fiorella Mannoia (che pena!). L’avreste mai detto? Io sì. Il motto della combriccola l’ha ben espresso Celestini: “Non m’importa da dove vengono i soldi, m’importa come vengono spesi”. Già, come quelli del sinedrio a Giuda.
Lampedusa in mimetica
A che cosa serve da anni, oltre che a coprire con la foglia di fico della solidarietà-commiserazione le proprie responsabilità del fenomeno, tutto l’assordante ambaradan lampedusano dell’accoglienza-carcerazione-integrazione-espulsione, a seconda di come conviene ai genocidi? Il coro mediatico, governativo, partitico e delle Ong, di tutti i singhiozzanti sulle tragedie di Lampedusa e dintorni, è come iltaser, la pistole elettrica, “arma non letale”, recentemente data in dotazione agli inermi sbirri italiani, dopo che in tre anni aveva ammazzato oltre 350 disarmati statunitensi. Ti pietrifica e acceca, il taser, e non vedi cos’ha nell’altra mano il fulminatore: per esempio, in questo caso, un fascio di antenne come le folgori in mano a Giove.
A Lampedusa hanno installato, dopo aver chiuso la base Nato “Loran”, ora tornata CIE, tre basi delle forze armate italiane: Marina, Aereonautica e Guardia Costiera. Lo sapevate che Lampedusa è come Niscemi, come Sigonella, come Lago Patria a Napoli, come Vicenza, come Aviano, come Camp Darby, come altre cento basi nostre e altrui, una lastra d’acciaio nella plancia dell’Italia portaerei di Usa e Nato?  Un avamposto delle forze italiane e Nato nel Mediterraneo? Chi l’avrebbe detto, a vedere tutti quegli spiaggiati in stracci, tutti quei soccorritori con salvagente? Tutta l’umana sollecitudine di Mare Nostrum?
Una compagna di Askavusa mi ha fatto fare il giro dell’isola, la parte che guarda il Sud, 30 miglia dalla Tunisia. Chilometri di filo spinato all’israeliana, cartelli “zona militare, vietato l’accesso” (sennò ti sparano, secondo legge), occhiuti avanti e indietro di vetture, selve di antenne svettanti e di radar basculanti, lunghi edifici. Tre piattaforme di morte, come la Niscemi del MUOS statunitense. Informazioni e comandi trasmessi alle centrali operative italiane e poi a una trentina di paesi Nato. Insieme governano le guerre di metà Sud del mondo. Insieme prefigurano una garanzia di rappresaglia  del “nemico”, che si abbatterebbe su popolazioni a cui nessuno assicurerà mai un’evacuazione, o un rifugio. E allora altro che 368 annegati… Intanto le antenne crescono e i radar vengono potenziati  e tsunami di onde elettromagnetiche si abbattono su nativi, migranti, territori.
E della militarizzazione fa parte anche la nuova, sproporzionata, pista in costruzione di un aeroporto appena terminato. Ai turisti, di cui Lampedusa vive e che da Lampedusa vengono semmai allontanati da una presenza guerrafondaia, le infrastrutture esistenti bastavano e avanzavano. A che serve questo nuovo squarcio di cemento? Per i C-130 forse, o per gli F-35?
Ma anche qui Askavusa ha saputo innescare conoscenza e coscienza e gli abitanti si stanno organizzando. Contro la passerella dei bonzi, corresponsabili anche di questa danza macabra, si è abbattuto a ripetizione il grido “No Radar!” (e, come si vede qui sotto, con l’opportuna integrazione internazionalista per il Donbass e contro quegli altri nazisti (cari a Schultz e Mogherini)
Anche Askavusa pratica la lezione di Maria Montessori: sono i dettagli che contano, e le connessioni. I fili della ragnatela che legano l’un nodo all’altro. E’ un dettaglio non da poco quel radar che spazza mari, cieli  e continenti per indirizzare morte e distruzione. E se segui i fili, di nodo in nodo, arrivi, come hanno fatto le proiezioni e i racconti di “Lampedusainfestival”, chissà, nel Donbass russo, in Siria e Iraq. dove hanno mandato lo Stato islamico ad ammazzare siriani, iracheni e curdi, negli Stati Uniti dove la marcia su Wall Street è stata presa a mazzate, gas, urticanti e arresti, nella Hong Kong dove i furbastri Soros e compari hanno inventato un “Occupy Central”  che rovescia l’originale di Wall Street nel suo contrario e minchiona i gonzi. Fino ad arrivare, hai visto mai, al punto di partenza, dove al manovale Renzi gli oligarchi delle armi fanno installare antenne e radar.
Pantofole col puntale
Mi è capitato di individuare un altro tipo di calzatura, l’anfibio nascosto nella pantofola. In questo cattolico paese di monaci torturatori è diffusissimo, ma spesso la morbidezza del velluto non fa percepire la durezza del puntale di ferro. Sono i False Flag umani. Il loro buonismo sta alle intenzioni vere come Obama sta all’ISI, o come Bush alle Torri Gemelle.. Spesso si accoppiano con Fabio Fazio in uno sversamento di melassa umanitaria, hanno in uggia le cattive maniere, si inalberano contro il razzismo, si sbracciano per le donne qualunque esse siano e, al limite dell’eterofobia, vanno in solluchero per i matrimoni omo. Non c’è verso di impedirgli occhi lucidi al racconto dell’ennesima falcidie di migranti. I loro guru di riferimento sono il Papa, Madre Teresa, Mandela, Luther King, Primo Levi, Luxuria… Dopo Roberto Saviano, vipera con l’aureola, l’erogatore di saliva di regime, Fazio, si accompagna ora a Massimo Gramellini, vicedirettore, non per niente, del giornale diretto dal figlio del commissario Calabresi (Pinelli, ricordate?).
Gli dedico questo spazio spropositato perché corrisponde al ribrezzo spropositato che, con me, deve aver provato chi si ostina a guardare Fazio per vedere a che livelli di servilismo, collaborazionismo,  ipocrisia la sua trasmissione scenda. Questo Gramellini, con su la grassa faccia da soddisfatto sensale di New Town, lacrimato su una vedova, sfogliata una margherita per l’ottantenne sfrattata, ha fatto trasparire il puntale di ferro. Due calcioni alla realtà. Prima, un sermoncino, in pratica un appassionato sostegno, sulla miseranda origine della povera nera Marina Silva, che giura che mai e poi mai una ex-povera come lei avrebbe disfatto le tutele sociali dei precedenti Lula e Rousseff (la Silva è quella creatura Cia, per via di integralisti evangelici Usa, che si è candidata contro la Rousseff  e contro le alleanze integrazioniste dei paesi progressisti latinoamericani, per un Brasile filo-Usa, neoliberista, feudal-agrario). Poi,  il messaggio d’ordinanza Cia sulla “rivoluzione democratica dei ragazzi di Hong Kong” contro la dittatura di Pechino. Sedizione (come quella di Tehran del 2009), agitata dai figli viziati di una borghesia che, senza inglesi e con Hong Kong messa all’angolo da Shanghai, nuova porta al continente,  ha  perso milioni e dominio. Jacquerie dissoltasi sotto l’urto dell’opposizione proletaria e sottoproletaria (che guarda alla Cina per i suoi migliori standard sociali) e per manifesto sputtanamento dei suoi leader ospitati a Washington e allevati dalla NED. Mandato di Obama, Cia, Pentagono e Mogherini, assolto.
 
Soluzione finale. Questa volta vera.
Tale è la stampa italiana nell’era di una corsa verso l’ultrafascismo di Renzi e sguattere varie, fascismo ideologicamente da farsa di Plauto, ma di sostanza nazi-tecnologico-finanziaria, con il surplus di una irrobustita coalizione Stato-criminalità mafiosa- criminalità civile (vedine i segni nella persecuzione, da parte di una magistratura incorporata, di onesti come De Magistris, Robledo, Forleo, nei servitorelli eletti al CSM, negli impresentabili caporali di giornata di Napolitano candidati alla Consulta, nelle sistematiche mitragliate dall’alto Colle su chi si ostina a perseguire delinquenti e a rispettare la Costituzione.
Tutto questo avanza sul comodo scivolo allestito ai S.S. Apostoli da un gruppetto di morti viventi, lirici pompieri, piromani a chiacchiere, un seguito di minchioni, che ci hanno illustrato la loro manovra a tenaglia per prolungare un po’ il proprio coma vigile: arcate sopraccigliari aggrottate in opposizione a un Renzi che mena con la falce, nel caso nel nuovo crocchio arrivasse qualche perplesso del PD e si ricuperasse dalla polvere qualche Tsipras; strizzatina d’occhio, invece, al Renzi che sventola il tricolore, qualora nell’ultradestro PD sopravvivesse un detrito renitente, con cui accasarsi chiamandosi ancora “centrosinistra”.
Col P.U.R., Partito Unico Renzusconi, i purulenti hanno chiuso il paese in una cerchia di gironi infernali successivi, con in fondo i ghiacci della Giudecca. Piano piano si stringono su di noi. Il più largo è il Nuovo Ordine Mondiale con la storica criminalità anglo-ebraica a passare le consegne verso il basso. Segue il cinturone borchiato con “Gott mit uns” dei terminator Usa e Nato, di poco sopra al girone a cappio dell’UE. mInfine, il collare a strozzo indossato a partire da Monti e che lo Stenterello-killer, assunto dai Gran Maestri, sta serrando ogni giorno di un buco. Si sono sentiti, dal vertice europeo a Milano, gli applausi con cui i cordari del cappio hanno accolto la stretta del puntale sui buchi Jobs Act  (dovrebbe essere Job Act, ma il pirla sta all’inglese come mio nipote alle elementari sta alla fisica quantista) e Sblocca Italia. La scena è quella dei conigli neri che portano la bara a Pinocchio malato che non vuole bere la medicina di schifo.
SEL dello Svendola, e i suoi più disinibiti cascami miglioristi(dal pupazzone mal cresciuto, Migliore), mentre i Cinque Stelle scatenavano il sacrosanto putiferio al Senato contro una legge delega in bianco sul lavoro al padrone del collare, impegnavano i loro istinti rivoluzionari contro il troglodita del Viminale che non gradisce sposalizi interni al genere. C’è un Rottweiler a denti sguainati, ma intanto toso il barboncino. Il loro guru, quello che ha svenduto la vita dei pugliesi ai Riva, la salute dei pugliesi a Don Verzè, l’aria dei pugliesi agli inceneritori di Marcegaglia,  guida un’opposizione di sistema che sta a quella dei pentastellati come un punto croce sta all’armatura del Colleoni. Recuperati i naufragi delle precedenti repubbliche malavitose, ora si va alla rottamazione vera, del paese e dei cittadini. Dal Jobs Act rifiorisce, nei campi di cotone dei padroni, la schiavitù, codificata oggi in una diseguaglianza di ricchezza scoperta pari a quella del 1820. Il parco buoi (stavolta sì) del parlamento sovrano, con la delega al governo, ha firmato in bianco una cambiale che dovremmo pagare con la libertà e, un  po’ per volta, con la vita. Nel patto segreto del Nazareno c’è anche una voce: “Sacco e Vanzetti” (in corso di elaborazione in Val di Susa), per chi non volesse starci.
Dall’ ”Ammazza Italia” uscirà  quel mostro deforme con cui la Cupola ha ingravidato il pianeta. Privatizzazione e deregolamento di tutto, lo Stato limitato alle regole per il trasferimento di ricchezza verso la cima e alla gendarmeria in casa e fuori. Libera cementificazione, libera trivellazione, libero riscaldamento dell’atmosfera, libero dissesto idrogeologico, libero commercio del patrimonio culturale e artistico (le Sovrintendenze ridotte a portinai), assenso-consenso per ogni stupro del territorio, centri commerciali e bische dove c’erano guglie gotiche e archi romani, autostrade a pioggia con cui qualcuno specula sui nostri polmoni, libero espandersi delle “aree strategiche dello Stato” e quindi dello Stato di Polizia. E’ il decreto di Maurizio Lupi, capocantiere della rottamazione nel nome di CL e, dunque, della Chiesa bergogliana della povertà e del martirio. Perché la società si adegui a tutto, una scuola di selezione dei ricchi e di idiotificazione di tutti gli altri. I terreno è pronto per il rullo compressore finale: TTIP.
Di nodo in nodo…fino a Kobane
Intanto i gironi più in alto si danno da fare tutt’intorno. Mentre bombardano sabbie, cardi ma soprattutto infrastrutture della Siria di Assad, facendo finta di intralciare gli ascari jihadisti, lasciano divertire questi ultimi  a sgozzare quei curdi siriani che, a differenza dei sionizzati curdi iracheni, hanno avuto l’impertinenza di allearsi con il governo di Damasco e la Siria libera, contro le orde dei lanzichenecchi con barba e patente Nato in tasca. E in cambio avevano ottenuto il diritto all’ autogoverno e all’autodifesa, che hanno praticato con successo fino a quando i grandi burattinai non hanno deciso di mettere in campo un’armata ben addestrata, pagata, armata. E di farla finita. Avremo un Medioriente all’insegna della democrazia, quella cara ai burattinai, quella saudita.
Questa è la storia di Kobane. E’ Guernica, è Donetsk, è la Comune di Parigi, è Derry, ma il mondo, tra il distratto, il compiaciuto e l’attonito, sta lì a guardare. E’ a guardare c’è anche il califfo di Ankara, con tutto il suo esercito, immobile a due passi da Kobane, ma attivissimo nel gasare, picchiare, sparare i curdi in fuga o quelli che li vorrebbero aiutare.
Aspetta, il Pinochet turco, che i suoi mercenari con la bandiera nera compiano la strage degli odiati curdi, tanto più perché laici e difensori della Siria, per poi, vasellinato da un consenso pubblico suscitato dall’orrore, entrare con le sue armate e appropriarsi di un primo pezzo di Siria, carinamente chiamato “zona cuscinetto”. Il bello verrà poi, quando tutti insieme, turchi e bande di ventura dell’ISIL, si avventeranno sul resto della Siria con tanto di copertura aerea Nato e rinforzi dai predoni del Golfo. Il Fratello Musulmano, che già si vede sultano ottomano, incassata la sconfitta della sua setta in Egitto, in bilico quella in Yemen, bloccati da Hezbollah i rigurgiti libanesi, con Damasco e il suo popolo che non s’incrinano neppure, con le milizie scite, comandate dai pasdaran iraniani, unica forza in Iraq che le sta dando ai suoi jihadisti, con l’Iran fermo e solido sull’altra sponda, doveva fare la mossa del cavallo.
Criminale, oltreché demente, questo cavallo elevato al potere dai Caligola USraeliani, è la controparte che Ocalan ha scelto per concordare pace e moderazione. Un bell’assist al tiranno pazzo, proprio mentre il suo popolo veniva massacrato nelle piazze e i suoi sicari squartavano la Siria. Tanto che il beneficiato ha capito l’antifona e ne ha ammazzato negli ultimi due giorni altri 25, di curdi e turchi, in rivolta contro l’abominio di Kobane.  Ora ha annunciato che, se Kobane viene fatta cadere in mano all’ISIL, le trattative di pace saranno a rischio. Maddai!

Il resto è Ebola, l’ultima trovata degli sfoltatori del pianeta. E lì sono cazzi.
Comunque staremo a vedere. Quello che servirebbe sarebbero più piedi scalzi,askavusa.

Appuntamenti con Fulvio Grimaldi

messico copertina
ANGUILLARA (RM), Stazione del Cinema (a 20 m. dalla stazione ferroviaria), Via Anguillarese,  dalle ore 17.00 dell’11 ottobre, nel quadro della presentazione della nuova stagione di Escamontage, film, poesia, canzoni,  il PREMIO ALLA CARRIERA A FULVIO GRIMALDI, giornalista e documentarista, con estratti dei suoi ultimi docufilm.
VIGNOLA (MO), 20 ottobre, ore 21.00, al Circolo Rivalta, Lavabo di Via Zenzano, FULVIO GRIMALDI  presenta il docufilm FRONTE ITALIA-PARTIGIANI DEL 2000, DAI NO TAV AI NO MUOS TUTTI I NO DELLA RESISTENZA.”
 
PIACENZA, Ass Naz. Italia-Cuba, Sala Giordano Bruno, Via G. Bruno 6, ore 21.00 del 14 ottobre, FULVIO GRIMALDI PRESENTA IL DOCUFILM “MESSICO, ANGELI E DEMONI NEL LABORATORIO DELL’IMPERO, un esempio agghiacciante di cosa il TTIP, trattato di libero scambio UE-USA provocherà in Europa.
VIGNOLA (MO), 20 ottobre, ore 21.00, al Circolo Rivalta, Lavabo di Via Zenzano, FULVIO GRIMALDI  presenta il docufilm FRONTE ITALIA-PARTIGIANI DEL 2000, DAI NO TAV AI NO MUOS TUTTI I NO DELLA RESISTENZA.”

Tav, accolto il ricorso al Tribunale dei Popoli: violati i diritti dei valsusini?

I blog de IlFattoQuotidiano.it

Fabbio Balocco
Ambientalista e avvocato
 
NoTav-640
In un mio precedente post annunciai l’esposto da parte del Controsservatorio Valsusa al Tribunale Permanente dei Popoli (Tpp) relativamente alla questione Tav.

Ora il Tpp si è espresso con nota del 20 settembre scorso affermando testualmente che: 

La questione posta dal ricorso Tav è di grande interesse generale, posto che essa riguarda numerosi altri casi di opere pubbliche di grande importanza, europee ed extra europee. Non per nulla essa è stata fatta oggetto di una Convenzione internazionale ed è trattata in varie sentenze della Corte europea dei diritti umani che toccano temi ambientali. In ordine alla questione della idoneità e adeguatezza delle consultazioni, si pongono problemi importanti di carattere generale che, anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e della Corte interamericana di San José, prospettano temi di grande complessità e importanza, probabilmente non definibili con regole generali e astratte, ma piuttosto legati alle peculiarità di ciascun caso.

La vicenda Tav costituisce per il Tpp – insieme e in raffronto ad altre similari vicende europee ed extra europee – l’occasione di approfondimento e di dibattito, non per gli aspetti più strettamente tecnici (affidabilità o meno di dati economici e/o di rischio per la salute), quanto per ciò che riguarda le finalità e l’effettività delle procedure di consultazione delle popolazioni coinvolte e l’incidenza sul processo democratico. Sempre più chiaramente si evidenziano anche nei Paesi cosiddetti “centrali”, situazioni ‒ più volte rilevate nei Paesi del Sud anche in sessioni del Tpp per quanto riguarda il rapporto tra sovranità, partecipazione delle popolazioni interessate, livello delle decisioni politico-economiche – che mettono in discussione e in pericolo l’effettività e il senso delle consultazioni e la pari dignità di tutte le varie componenti delle popolazioni interessate.

In conseguenza di queste premesse, il Tribunale avvierà un’istruttoria per valutare se effettivamente per realizzare l’opera non sono stati violati i diritti delle popolazioni locali, istruttoria che presumibilmente terminerà nei primi mesi del 2015. Il procedimento aperto è il primo, nei 35 anni di storia del Tpp, che affronta problemi di violazione di diritti fondamentali connessi alla realizzazione di un grande opera in Europa: segno che esistono i presupposti per ipotizzare che la Val di Susa rappresenti un laboratorio di ricerca avanzata di una nuova politica coloniale diversa nelle forme rispetto a quelle tradizionali ma non per questo meno devastante.

Quando in un mio post precedente parlai dell’esposto al Tpp ci fu chi commentando disse che il Tribunale non contava nulla. Certo il Tpp non può fermare un’opera ma il suo giudizio non può passare inosservato presso la comunità internazionale. Esso è erede del Tribunale Russell ed è composto da eminenti personalità della cultura internazionale, fra cui anche premi Nobel.

Ciò detto, ritorno su quanto ho ripetuto da questo mio piccolo spazio. Quante volte le opere sono di pubblica utilità solo di nome e quante volte in nome di un presunto interesse pubblico vengonocalpestati i diritti di chi abita il territorio? Pensiamo ai grandi impianti idroelettrici in Cina, nel sud-est asiatico, e nel Sudamerica. Pensiamo alle persone deportate, oltre che ai territori distrutti ed ai microclimi alterati. Quale consultazione democratica avviene in questi casi? E questo è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare.

Ma penso anche alla frase dello scout contenuta nell’intervista al Corsera del 13 luglio scorso: “Nel piano Sbloc­caI­ta­lia c’è un pro­getto molto serio sullo sblocco mine­ra­rio… Io mi ver­go­gno di andare a par­lare delle inter­con­nes­sioni fra Fran­cia e Spa­gna, dell’accordo Gaz­prom o di South Stream, quando potrei rad­dop­piare la per­cen­tuale del petro­lio e del gas in Ita­lia e dare lavoro a 40 mila per­sone e non lo si fa per paura delle rea­zioni di tre, quat­tro comi­ta­tini.…”. Comitatini. Ecco, la popolazione locale che si esprime contro una grande opera è definita con disprezzo “comitatino”. Questo la dice lunga su quanto dia peso il nostro leader alla consultazione dei cittadini ed all’opposizione di chi vive sul territorio. E lui che si autodefinisce “democratico”. E magari anche ci crede.

LA BANCA MONDIALE DELLE GRANDI OPERE

http://www.recommon.org/la-banca-mondiale-delle-grandi-opere/

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SCRITTO DA ADMIN IL 09/10/2014. 

 [di Antonio Tricarico]

 Trenta anni fa la Banca mondiale era uno dei principali finanziatori di grandi opere nei paesi in via di sviluppo. Dighe, oleodotti e altri interventi devastanti sui territori scatenavano le proteste popolari e le conseguenti repressioni dei governi, dall’India al Sud America, passando per le realtà più povere dell’Africa.

Tali movimenti di resistenza ottennero che la Banca, ossia la principale istituzione di sviluppo del pianeta, si dotasse di standard e politiche ambientali e sociali, quanto meno per ridurre i danni per i più poveri associati alle grandi opere costruite proprio in “nome dello sviluppo”.

Oggi, la nuova presidenza della Banca mondiale, affidata da Barack Obama al medico di fama internazionale Jim Yong Kim, ha deciso di ristrutturare l’istituzione e con questa riforma di annacquare le regole ambientali e sociali. Il fine è quello di accorciare i tempi di valutazione e facilitare i finanziamenti, nonché il coinvolgimento del settore e dei finanziatori privati. In questo modo la Banca mondiale scarica ogni responsabilità per gli impatti ambientali e sociali dei suoi progetti sui paesi in via di sviluppo, i cui governi spesso non sono in grado o non hanno voglia di imporsi sugli interessi privati a scapito di quelli delle comunità locali e dei più poveri.

Con uno statement internazionale firmato da più di 350 organizzazioni, la società civile globale obietta fortemente contro questa proposta di nuove politiche di salvaguardia ambientale e sociale avanzata dalla Banca mondiale, poiché è ben lontana da quelle regole necessarie per proteggere l’ambiente e rispettare i diritti delle comunità impattate, dei lavoratori e dei popoli indigeni. La bozza di proposta deroga da standard internazionali consolidati e smantellerebbe di fatto il miglioramento di queste politiche avvenuto negli ultimi trenta anni. Si creerebbe inoltre un pericoloso precedente per le istituzioni nazionali, regionali e globali.

Eliminando tali salvaguardie, fondamentali proprio in un momento in cui la Banca ha annunciato la sua intenzione di espandere i suoi prestiti alle infrastrutture più rischiose, le grandi dighe e sistemi di mega-progetti, l’istituzione globale non riesce a riconoscere che politiche forti e vincolanti sono essenziali per garantire che i benefici dei progetti siano equamente condivisi e che i costi non siano a carico dei poveri e degli emarginati. Indebolire le politiche di salvaguardia attualmente in vigore può così rendere impossibile il raggiungimento degli obiettivi della Banca di porre fine alla povertà estrema e promuovere una prosperità condivisa.

La società civile rifiuta radicalmente il modo in cui la revisione e l’aggiornamento delle politiche di salvaguardia è stato condotta fino ad oggi, segnato dall’esclusione degli attori sociali e dalla mancanza di trasparenza. Il processo di revisione non è riuscito a incorporare gli input e le richieste delle organizzazioni della società civile, di esperti indipendenti e studiosi, delle popolazioni indigene, dei sindacati e soprattutto delle comunità colpite dai progetti.

L’esercizio di “riesame e aggiornamento” avrebbe dovuto prendere come base le politiche della Banca Mondiale esistenti, che costituiscono il contratto sociale e ambientale dell’istituzione con il mondo in cui viviamo. Coerentemente con questo contratto, questo “riesame e aggiornamento” prevederebbe di incorporare disposizioni aggiuntive e migliori dove opportuno, per correggere o eliminare gli elementi obsoleti o non necessari, e sostituirle – in modo trasparente – con formulazioni alternative che sono oggetto di successiva discussione pubblica. Invece, le politiche esistenti sono state eliminate e sostituite con testi completamente diversi di vaga somiglianza. Durante la prima fase di revisione, non è stata offerta alcuna opportunità di discussione candida circa i cambiamenti fondamentali che sono stati inseriti nel progetto.

È urgente un processo che includa tutti gli attori interessati e discuta come rendere operativo e applicare effettivamente le norme internazionali. Questo processo deve prendere il tempo che è necessario per sollecitare e sviluppare modelli di salvaguardia di successo che sono basati su decenni di ricerche empiriche su come garantire che lo “sviluppo” almeno non faccia male. Deve inoltre essere basato sulla comprensione che i diritti umani e la sostenibilità sono componenti fondamentali che devono essere centrali negli sforzi della Banca per eliminare la povertà estrema e aumentare la prosperità condivisa. Ma per la Banca mondiale questo vorrebbe dire accettare il rischio che numerose mega opere non siano più finanziate, senza sé e senza ma. Un business troppo lucrativo per essere abbandonato?