Obama impone all’Ue di inasprire le sanzioni contro la Russia

si badroneBy Edoardo Capuano – Posted on 19 agosto 2014

 
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Obama: cancelleremo l’accordo di libero scambio, se l’Europa non dovesse cedere
 
Gli Stati Uniti minacciano l’Unione Europea con un primo ciclo di sanzioni, in caso la UE non dovesse imporre misure più dure contro la Russia. Secondo il portavoce della Casa Bianca, “l’esitazione europea nella decisione di imporre nuove sanzioni contro la Russia” potrebbe portare gli USA a interferire nel commercio fra le due sponde dell’Atlantico settentrionale.
Se l’Europa non dovesse aumentare il livello delle sanzioni prima di domenica, a partire dalla prossima settimana entreranno in vigore ampie restrizioni sulle operazioni commerciali transatlantiche.
Secondo il presidente statunitense Barack Obama, l’estensione delle sanzioni non è qualcosa di insolito, “perché gli Stati canaglia, come la Russia, hanno bisogno di sanzioni maggiori per cedere”. Durante la conferenza stampa, nella quale ha rivolto queste pesanti critiche al governo del presidente Vladimir Putin, Obama ha giustificato anche l’adozione di misure restrittive contro gli europei.
 
– E questo è esattamente ciò che vogliamo, convincere i nostri alleati in Europa (non che sia necessario) con una leggera pressione economica – ha affermato.
 
Il primo metodo adottato dalla Casa Bianca, in caso l’Europa non dovesse indurire le negoziazioni con la Russia, sarà l’archiviazione dell’accordo di libero commercio fra gli USA e l’UE.
 
Alcuni stati membri dell’Unione Europea come la Germania e la Francia, dipendenti dal gas russo per mantenere il ritmo della produzione industriale, sono stati accusati dalla diplomazia del nord America di “prendersela comoda con la Russia”. Se i due Paesi non sospenderanno le loro transazioni con la potenza slava, prima del termine stabilito dagli Stati Uniti, e non imporranno sanzioni più dure, le sanzioni all’UE verranno prese in considerazione, anche se, nella fase iniziale, saranno più lievi, ma capaci comunque di bloccare ulteriormente la complicata crescita economica della UE.
 
Secondo il portavoce del governo tedesco, Steffen Seibert, il governo federale tedesco dovrà portare le sue preoccupazioni a Bruxelles, poiché vi è il rischio, per 6,3 mila imprese tedesche, di perdere in fatturato, impiego e competitività, in caso vengano applicati tali metodi punitivi contro la Russia.
 
Articolo originale: correiodobrasil.com.br / Traduzione di Ambra Burroni / Fonte:statopotenza.eu
http://www.ecplanet.com/node/4352

Gli ultimi giorni della bolla

mercoledì, agosto 20, 2014

 Da Johnny Cloaca’s Freedonia di Francesco Simoncelli

Oltre al mercato azionario, pesantemente drogato dalla ZIRP della FED, fate attenzione anche al mercato obbligazionario societarioNella sua sconsiderata azione di pungolamento della domanda, in particolare quella di credito, l’Eccles Building ha creato un ambiente saturo di gas che può scoppiare in qualsiasi momento. Visto che i fondi con i quali hanno giocato nel casinò di Wall Street sono stati utilizzati prevalentemente per coprire operazioni di riacquisto di azioni, e non nell’ampliamento produttivo della società stessa, la natura artificiale della salute del mercato obbligazionario societario si regge su una fune tesa e sottile. Queste grandi società lo sanno e temono una corsa su questi bond. Per questo motivo sarebbero disposte ad accogliere a braccia aperte un intervento dello zio Sam: regolamentare ed eventualmente tassare coloro i quali, presi dallo “spavento”, decidano di affollare le uscite. Ironia della sorte, questo stesso evento rappresenterebbe un chiaro segnale di raggiungere le uscite. Se non basteranno multe e tasse, allora si imporranno addirittura divieti (come è accaduto anche qui da noi con i BTP). Aspettatevi di tutto da un sistema morente che fino all’ultimo respiro cercherà di restare attaccato alla propria vita.
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di David Stockman

Le banche centrali del mondo stanno perseguendo con noncuranza l’instabilità finanziaria. Questo è il risultato dei 68 mesi consecutivi di tassi a zero nel mercato monetario, implementati dalla FED e dai suoi alleati alla BoJ, BCE e BoE. La ZIRP alimenta un carry trade infinito e la raccolta di qualsiasi profitto che spunta tra costi di “finanziamento” trascurabili, rendimenti positivi e rendimenti su un ampio spettro di asset rischiosi.

Questa strategia, inoltre, si degrada e degenera nel tempo: all’aumentare dei prezzi degli asset dovuto alcarry trade degli speculatori e al diminuire progressivo dei redditi fissi — paura ed interessi di breve termine vengono sbattuti fuori dal casinò, rendendo gli acquisti sempre più redditizi e meno rischiosi. Infatti, la promessa esplicita da parte delle banche centrali che il tasso del mercato monetario rimarrà bloccato per tutta la durata necessaria e che il preavviso di un qualsiasi cambiamento nella politica dei tassi sarà annunciato in modo “trasparente”, è la peggior politica immaginabile dal punto di vista della stabilità finanziaria. Ciò significa che il peggior incubo di uno speculatore — finire improvvisamente “a testa in giù” a causa di un brusco picco nei costi di finanziamento — viene eliminato dalla banca centrale.

Detto in modo diverso, la ZIRP smantella sistematicamente i meccanismi di stabilità naturali del mercato. Un deterrente naturale ai giochi d’azzardo finanziari, per esempio, è il costo dell’hedging di un portfolio contenente “asset rischiosi”. In un contesto di mercato onesto, i costi dell’hedging consumano una quota elevata dei profitti, limitando fortemente la propensione al rischio e l’ammontare di capitali destinati a fini speculativi.

Al contrario, un periodo prolungato di ZIRP, insieme alla “scommessa” delle banche centrali sugli asset rischiosi, spinge il costo “dell’assicurazione” a livelli trascurabili perché gli adoratori dell’S&P 500 sono incoraggiati e sovvenzionati a raccogliere monetine (cioè, opzioni premium) di fronte al rullo compressore rappresentato dalla banca centrale. Questa assicurazione ultra conveniente, a sua volta, attrae nel casinò sempre più capitali speculativi.

Questo gioco pericoloso è andato avanti sin dal panico del Lunedì Nero nell’ottobre 1987 e la FED di Greenspan inondò il mercato azionario di liquidità. Questa ormai è una caratteristica endemica di Wall Street, la quale viene falsamente intesa come ordine normale delle cose. Anche perché, chi avrebbe raccolto monetine davanti al rullo compressore di Volcker?

Questa dinamica è evidente nel grafico dell’S&P 500. Le crisi sono diventate sempre più frequenti, mentre la ZIRP e le altre politiche delle banche centrali hanno eroso le difese naturali del mercato contro l’eccessiva speculazione. A metà del 2014, quindi, si può ragionevolmente dire che la paura e l’interesse di breve termine sono stati spenti quasi del tutto. Il casinò di Wall Street è diventato un mercato a senso unico che si spiralizza pericolosamente verso l’alto, divorziato completamente dai fondamentali del mercato e dalle condizioni del mondo reale.

L’altro lato di questa moneta ci mostra la scomparsa della volatilità nei mercati azionari. Come illustrato di seguito, le letture attuali sono ai minimi di tutti i tempi, anche al di sotto dei minimi raggiunti alla vigilia della crisi finanziaria del 2008. Inutile dire che questa condizione pericolosa non è un caso: è il risultato inesorabile e sistematico delle ZIRP e degli strumenti associati alla pianificazione centrale monetaria.

Ma tutto questo viene ignorato dalle banche centrali perché i loro modelli idraulico-keynesiani contengono un difetto fatale. Questi modelli pretendono di raffigurare il funzionamento del capitalismo, ma non contengono bilanci e quasi nessun proxy per i mercati finanziari (i quali sono alla base delle moderne economie capitaliste). Di conseguenza, le banche centrali perseguono la ZIRP al fine di inflazionare il sistema idraulico della macroeconomia con più “domanda” e quindi più posti di lavoro, redditi, investimenti e PIL — ignorando la distruzione della stabilità finanziaria che deriva da queste stesse politiche.

I banchieri centrali keynesiani sono miopi. Considerando che controllano immense quantità di dati macroeconomici “in entrata”, che al limite sono banali e “rumorosi”, essi ignorano completamente i dati “in entrata” del mercato finanziario che segnalano problemi monumentali imminenti.

Per esempio, adesso il 40% di tutti i prestiti è stato declassificato a sub-investimento. Questo è un dato sostanzialmente più elevato rispetto al picco del 2007, ed è accompagnato da un focolaio ancora più virulento di condizioni di credito “cov-lite“. Infatti, il 60% di questi prestiti spazzatura non ha alcuna protezione contro la stratificazione del debito e la voglia di contanti degli azionisti — nonostante il loro status “senior” nella struttura del credito. L’implicazione ovvia, naturalmente, è che il “denaro facile” della FED è stato massicciamente deviato nel gioco d’azzardo della leva finanziaria e dell’LBO. Sin dal 1988 questo tipo di deformazione finanziaria ha portato ad un bust nel mercato del credito spazzatura per tre volte. Perché i pianificatori centrali monetari, che guardano i loro “monitor” come uno stormo di falchi, pensano che il risultato dovrebbe essere diverso questa volta?

Il politburo monetario resta imperturbabile, naturalmente, perché non sta monitorando la composizione e la qualità del credito. I loro modelli prevedono che la crescita aggregata dei prestiti alle imprese porterà ad una maggiore spesa per beni capitali ed alla conseguente espansione dei posti di lavoro. Tale assunto è palesemente sbagliato, perché è chiaramente evidente che la massiccia espansione del credito alle imprese dopo l’ultimo picco è finita nell’ingegneria finanziaria — riacquisti di azioni, LBO e accordi M&A — non nell’espansione di asset aziendali produttivi. Infatti, il total non-financial business credit outstanding è salito da $11 bilioni del dicembre 2007 a $13.8 bilioni allo stato attuale, o del 25%, ma gli investimenti reali in impianti e attrezzature è ancora a $70 miliardi o il 5% al di sotto del picco pre-crisi.

E questa è la spesa “lorda” per impianti e macchinari, come registrato nel parametro “I” del PIL. La misura di gran lunga più rilevante in relazione alla salute economica ed alla capacità di crescita, è “l’investimento netto delle imprese”. Cioè, al netto del consumo di capitali che si è verificato nella produzione del PIL attuale. Come mostrato di seguito, questa cifra in termini reali è del 20% al di sotto del picco raggiunto due cicli fa alla fine degli anni ’90.

In breve, la combinazione di un calo degli investimenti in impianti ed attrezzature giustapposti ai livelli di picco dei finanziamenti gonfiati, dovrebbero essere un segnale di crescente instabilità finanziaria. Invece i banchieri centrali ragliano che le valutazioni non sono fuori linea e la leva finanziaria è ragionevolmente ben contenuta.

L’affermazione “le valutazioni sono normali” offerta dalla Yellen e dalla sua banda di stampatori folli, rappresenta semplicemente un adattamento dei player di Wall Street alle proiezioni degli utili escluse alcune voci. Vale a dire, il tipo di stime sui “guadagni” che hanno omesso, in media, il 23% dei costi effettivi nell’analisi profitti/perdite durante il ciclo boom/bust del 2007-2010, causando svalutazioni per impianti, reputazioni, locazioni e costi di ristrutturazione, tra cui anche innumerevoli spese reali — le quali hanno consumato le risorse ed i capitali delle aziende. Come ho dimostrato in The Great Deformation, gli “utili totali esclusi alcuni elementi” riguardo l’S&P 500 durante il quadrienno sopra citato, sono stati pari a $2.42 bilioni rispetto agli utili registrati nel GAAP — cioè, quelli per cui non si va in galera se segnalati alla SEC — di soli $1.87 bilioni.

Di conseguenza, la FED non vede l’instabilità finanziaria perché non la vuole vedere, e definisce sciocche quelle chiacchiere che vogliono Wall Street in modalità “sell”. La scomparsa della volatilità nel grafico dell’S&P 500 mostrato all’inizio, per esempio, è quasi una replica identica del picco del mercato azionario del 2007. Tuttavia è stata decisamente ignorata la comparsa del segnale di avvertimento lanciata dal picco della bolla.

Il fatto è che i multipli PE sono ben al di sopra dei livelli “normali” basati sugli utili GAAP nel contesto storico. Durante il periodo terminato nel primo trimestre del 2014, gli utili dell’S&P 500 sono stati pari a $100 per azione al netto di un aggiustamento per una recente modifica nella contabilizzazione delle pensioni che non trova riscontro nei dati storici. Di conseguenza, anche i mercati più ampi offrono utili nel range del 19.6x — un livello raggiunto solo in punti in cui il mercato azionario era sull’orlo di una implosione.

Inoltre, oggi $100 di utili per azione è un numero altamente artificiale a causa dei massicci riacquisti di azioni finanziati dal debito a buon mercato e da una profonda repressione dei costi di carry trade sugli interessi. Le società dell’S&P 500 sono soverchiate da un debito di $3 bilioni in ascesa, ma se i tassi di interesse dovessero normalizzarsi — gli utili per azione scenderebbero a $10. Allo stesso modo, i margini di profitto sono ai massimi di tutti i tempi, indicando che l’inevitabilemean-regression” taglierà quantità significative di profitti attualmente riportati.

In altre parole, arrivati al sessantunesimo mese del ciclo economico attuale, e quindi già al di là della durata del ciclo medio sin dal 1950, perché qualcuno sano di mente dovrebbe dire che il mercato non è in bolla quando le varie negoziazioni danno vita a rendimenti nel range del 20x? Infatti, in un mondo in cui arriverà inevitabilmente la normalizzazione del tasso di interesse e dei tassi di profitto, il tasso di capitalizzazione per i rendimenti attuali dovrebbe essere ben inferiore al normale.

E questo vale per quasi ogni altra misura di valutazione nei mercati degli asset a rischio. Il Russell 2000, per esempio, elargisce rendimenti massimi nel range dell’85x. Quelli dell’S&P 500 sono pari a 24X, o sei volte superiori rispetto alla sua media di mezzo secolo.

Allo stesso modo, i mercati emergenti hanno accumulato $2 bilioni di debito in valuta estera sin dal 2008. Questo li rende molto più importanti nel sistema finanziario globale di quanto non fossero nel 2008 o addirittura al tempo della crisi dell’Est Asia alla fine degli anni ’90. E questo senza considerare l’enorme castello di carte in Cina, dove il debito nel mercato del credito è salito da $1 bilione alla fine del secolo scorso ai $25 bilioni di oggi.

Alla fine della giornata, la FED ed i suoi compagni di viaggio hanno sistematicamente smantellato i meccanismi naturali di stabilità nei mercati finanziari. Di conseguenza, i mercati finanziari sono ormai diventati casinò pericolosi in cui le bolle speculative raggiungono ampiezze impressionanti, mentre l’inflazione finanziaria della banca centrale guadagna trazione. Ecco dove siamo ora. Ancora una volta.

[*] traduzione di Francesco Simoncelli

http://www.cogitoergo.it/?p=27578

Gaza, Hamas accetta piano Anp: si’ alla Corte Aja per denunciare Israele

Gaza – Il movimento della resistenza islamico palestinese ha approvato la proposta dell’Autorita’ nazionale di Mahmoud Abbas di fare aderire la stessa Anp alla Corte penale internazionale dell’Aja, con l’obiettivo di denunciare Israele per crimini di guerra.
In caso di adesione alla Corte dell’Aja dell’Anp, però, Hamas a sua volta si esporrebbe alla possibilità di essere indagata. L’Anp aveva già avanzato la richiesta nel 2009, ma fu rifiutata poiché l’accesso è riservato ai soli Stati. Nel 2012, però, l’Anp ha ottenuto dall’Onu lo statuto di “Stato osservatore”, ottenendo l’accesso a organizzazioni e convenzioni internazionali. Israele ha sottoscritto lo Statuto di Roma, il trattato fondativo della Corte pernale internazionale, ma non l’ha mai ratificato.
http://italian.irib.ir/notizie/palestina-news/item/166643-gaza,-hamas-accetta-piano-anp-si-alla-corte-aja-per-denunciare-israele

Lista Tsipras: questo nome vi ricorda ancora qualcosa?

Alexis Tsipras, chi era costui? Ah sì, il leader di “Syriza”, una sinistra vincente in Grecia. E la Lista Tsipras italiana? «Il simbolo rosso, la campagna elettorale tra culi e speranze», il risultato alle europee «tutto sommato positivo, considerato lo scontro totalizzante in corso tra Renzi, Grillo eBerlusconiche oscurava il resto». Un mezzo miracolo, la conquista della soglia-salvezza del 4%, «considerati i soldi, pochissimi», nonché «il simbolo sconosciuto ai più e il nome di un leader difficile anche solo da pronunciare». Allora, dov’è finita la Lista Tsipras? Già praticamente scomparsa. Forse perché «la sinistra ha un grande nemico da combattere: se stessa», ipotizza Matteo Pucciarelli. Prima l’affare Barbara Spinelli, «ennesima figura poco edificante di una sinistra che predica in un modo ma il giorno dopo razzola in un altro», poi la deflagrazione di Sel («nota tutto sommato non proprio negativa, visti i personaggi che se ne sono andati»). Neanche il tempo di festeggiare, ed ecco «il disastro, la rarefazione», il suicidio politico.

Alla vigilia delle europee, Aldo Giannuli (già esponente di Rifondazione) fu lapidario: il voto a Tsipras è sprecato, perché quella lista non ha in sé alcun germe di futuro. Pucciarelli è stato invece “simpatizzante” della formazione promossa da Barbara Spinelli, e ad agosto ha fatto una telefonata «a chi forse poteva rispondere alla domanda iniziale: scusa, che fine ha fatto la Lista Tsipras?». La risposta, Pucciarelli la pubblica su “Micromega”. Il “personaggio” interpellato sintetizza: la lista ha centrato il 4% miracolosamente, grazie a Sel e al Prc, «e poi s’è praticamente eclissata dal dibattito politico nazionale», in cui impazza il renzismo rottamatore. Gli unici a fare opposizione, riuscendo anche a dire “qualcosa di sinistra”, sono i “grillini” e i reduci di Sel. Proprio il partito di Vendola è al centro del dibattito-fantasma in corso tra gli ex attivisti della Lista Tsipras: «La corrente più forte dice che Sel è la morte, non ci si può assolutamente mai alleare con il Pd manco sui singoli provvedimenti, neanche a livello territoriale, perché il Pd, come Sel, è la morte. Per loro, per essere brevi e schematici, allearsi con il Pd (magari sull’immigrazione) è come allearsi con la Lega Nord (sul NoTav)», scrive l’informatore di Pucciarelli.Altro capitolo depressivo, il dibattito-ombra sulla possibile candidatura della Lista Tsipras alle elezioni regionali della primavera 2015: «Non abbiamo la forzapoliticané mediatica per candidarci a marzo», scrive la fonte. «Se volevano candidarsi, dovevano lavorare a questo già dal 27 maggio, cosa che non è stata (scientemente?) fatta. Per ricostruire qualcosa dovevamo cominciare ieri. Per dire che siamo in ritardo, e ogni giorno che passa la lista muore di più». Il 19 luglio, gli attivisti hanno varato un coordinamento che si impegnasse almeno a promuovere qualche campagnapoliticain autunno (su scuola, immigrazione, reddito minimo). Problema: il coordinamento è affollato di 221 persone, «una follia». Ci sono dentro praticamente tutti: ex candidati, ex garanti, ex comitato operativo, nonché dirigenti di Sel, Prc e “Azione Civile”, e «interi comitati territoriali», che in alcune regioni hanno “cammellato” il coordinamento (per il Lazio, 35 delegati). «Tu immagina cosa può venire fuori da questo coordinamento: se ci va bene non ne viene fuori nulla, se va male – come temo – verrà fuori unaguerratra bande su ogni minima questione».

Inoltre, a parte il coordinamento, la lista è ora “suddivisa” in 7 gruppi, che affrontano temi comedemocrazia, Costituzione,welfare,lavoro. Gruppi troppo folti, suddivisi in sotto-gruppi. Il problema? «Non si vota niente, e quindi alla fine nessuno decide nulla». E i tre europarlamentari eletti, nel nome di “Un’altra Europa”? Non pervenuti: «Sono talmente scollati dal resto della lista che ormai sono tre pianeti a sé stanti che a stento si confrontano anche tra di loro», conclude la fonte. «Purtroppo non c’è trasparenza da parte loro, né la lista riesce a imporsi in questo senso». Un report «deprimente», di cui Pucciarelli tende a fidarsi a occhi chiusi. Il giornalista di “Micromega” crede ancora nella necessità di rifondare una sinistra in Italia, nonostante questo ennesimo disastro. Per contro, nessuna delle forze che hanno promosso Tsipras – Sel, Rifondazione – ha mai neppure lontanamente accennato a criticare i fondamenti economici del regime eurocratico, la confisca della moneta sovrana per poi procedere allo smantellamento dello stato sociale col pretesto deldebito pubblico. Gli eurocrati possono continuare a dormire sonni tranquilli, anche nel caso – molto improbabile – in cui la defunta Lista Tsipras dovesse un giorno resuscitare.
Scritto il 23/8/14
http://www.libreidee.org/2014/08/lista-tsipras-questo-nome-vi-ricorda-ancora-qualcosa/

ALIBI COLONIALISTICI: DAL FATTORE K AL FATTORE G

Sul suo blog Beppe Grillo si è riferito alla “Lunga Marcia” di maoistica memoria per illustrare la propria idea sui compiti del Movimento 5 Stelle nei prossimi anni. I commenti che si sono immediatamente attivati, hanno assunto spesso il registro della ridicolizzazione, anche se forse le parole di Grillo vanno inserite in una retorica meramente consolatoria ed esortativa, che è il riflesso di una situazione politica che sembrerebbe oggi bloccata.
Si potrebbe obiettare a Grillo che in politica la gestione del fattore-tempo è una delle più aleatorie ed illusorie. Se Fidel Castro non è passato alle cronache come uno dei tanti guerriglieri, è perché si rese conto che il tempo non avrebbe lavorato a suo favore. La stessa “Lunga Marcia” di Mao non fu concepita per essere lunga, ma è uno slogan di sintesi a posteriori per tattiche dettate da momenti diversi. Invece, come indicazione strategica aprioristica, in politica tutto ciò che rimanda al domani rappresenta o una sorta di confessione di impotenza per quanto riguarda il presente, oppure una larvata manifestazione di non volontà.
Ma l’implicazione interessante del discorso di Grillo non riguarda tanto queste possibili riflessioni teoriche, quanto piuttosto una sorta di eco e reminiscenza di un antico dibattito della politica interna italiana che risuona, più o meno consapevolmente, nello slogan della “Lunga Marcia”. L’espressione figurata “Lunga Marcia” fu infatti già applicata alla strategia del Partito Comunista Italiano degli anni ’60 e dei primi anni ’70.
Nel 1971 il giornalista Arrigo Levi pubblicò un libro che aveva proprio questo titolo: “PCI, la Lunga Marcia Verso il Potere”. Arrigo Levi, ancora vivente, era a quel tempo una delle firme più influenti del giornalismo italiano. Considerato portavoce della “Borghesia Illuminata”, Arrigo Levi era in effetti un agente sionista, egli stesso soldato israeliano nella guerra del 1948. Arrigo Levi fu direttore del telegiornale RAI e – guarda la coincidenza – fu proprio lui a gestire l’informazione pubblica, direttamente dal video, durante la “Guerra dei Sei Giorni” del 1967. Che una figura come Arrigo Levi accreditasse l’ipotesi di una presa del potere da parte del PCI, apparve allora come una luce verde della suddetta “Borghesia Illuminata” a quella stessa ipotesi.
Nel 1979 toccò però ad una firma altrettanto influente del giornalismo italiano, Alberto Ronchey, dalle colonne del “Corriere della Sera”, l’onore di seppellire quell’ipotesi, con la famosa teoria del “Fattore K” (dal russo “Kommunism”), un fattore che avrebbe impedito sine die un ricambio al potere in presenza di una opposizione egemonizzata da un partito comunista.
La “Borghesia Illuminata” confermò ancora una volta di essere l’insegna al neon di uno establishment coloniale, e si comprese che l’interesse dimostrato nei confronti del PCI aveva rappresentato solo una tattica di logoramento, peraltro rivelatasi più che efficace. Il “lungamarcismo” si era risolto per il PCI in un estenuante, umiliante ed interminabile esame di maturità, alla fine del quale la promessa promozione si era risolta in una definitiva bocciatura.
In realtà Ronchey, più che di “Fattore K”, avrebbe dovuto parlare di “Fattore N”, come NATO. L’inamovibilità della Democrazia Cristiana dal potere era giustificata con l’anomalia di un Partito Comunista di dimensioni inconsuete per un Paese “occidentale”, ma in effetti la crescita del PCI a scapito dell’altro partito della sinistra, il PSI, poteva anche essere interpretata come un ovvio risultato dell’esasperazione di una parte dell’elettorato per quella inamovibilità.
La Democrazia Cristiana diventò inamovibile a causa di equilibri internazionali, ma la stessa DC fu poi seppellita bruscamente dalla modificazione di quegli equilibri, con la fine della Guerra Fredda nel 1989, e con il conseguente Trattato di Maastricht nel 1992. Oggi è il berlusconismo, seppure in funzione di alleato, ad essere considerato inamovibile, e ciò a causa di una nuova “anomalia italiana”, cioè il “Fattore G”, G come Grillo; oppure “Fattore P”, come “populismo”. La colpa sarebbe, come al solito, dell’incorreggibile estremismo di una parte considerevole dell’elettorato italiano, che premia sempre forze non omogenee con la “democrazia occidentale”. Il problema dunque sarebbe il populismo della principale forza di opposizione, che la renderebbe, almeno per ora, un interlocutore inaffidabile. Il lungamarcismo grilliano potrebbe quindi prospettare un percorso analogo a quello del vecchio PCI: una serie di canali di finto “dialogo”, con il pretesto di recuperare il Movimento 5 Stelle ad ipotesi di collaborazione governativa e parlamentare, il cui sbocco alla fine si concretizzerebbe nei soliti meccanismi di esclusione.
Ma il Movimento 5 Stelle potrebbe anche scegliere di chiudersi nella propria orgogliosa diversità, rivendicando di essere l’unica forza democratica a fronte dell’attuale saccheggio di democrazia ai danni della Costituzione repubblicana. PD e FI da una parte e M5S dall’altra, potrebbero allora star lì a rimpallarsi a vicenda l’accusa di estraneità alla “democrazia occidentale”. Quella della “democrazia” è però sempre una strada piena di strane giravolte. Certo, ci si può legittimamente indignare per il fatto che una Carta Costituzionale scritta da persone che sapevano il fatto loro, sia oggi stravolta da cialtroni improvvisati e sfacciatamente malintenzionati; ma, in definitiva, è la stessa Costituzione del 1948 a vietare i referendum abrogativi su materie fiscali e sulla ratifica di trattati internazionali, cioè sulle due cose che veramente contano. Tutte le Costituzioni “democratiche” considerano il popolo un eterno minorenne.
A proposito di trattati internazionali, proprio l’anno prossimo dovrebbe essere firmato e ratificato l’accordo finale per il TTIP, il mercato transatlantico, o “NATO economica”. Una questione oggi del tutto assente dal dibattito politico, riguarda l’effetto destabilizzante dei trattati internazionali all’interno dei Paesi firmatari. Uno dei pochi ad occuparsene, nel secondo decennio del ‘900, fu Giovanni Giolitti, il quale in un suo discorso affermò che vi era stato un diretto rapporto di causa-effetto tra il Patto di Londra del 1915 ed il colpo di Stato del governo Salandra e del re, i quali avevano condotto l’Italia in guerra contro la volontà del parlamento.
Le osservazioni di Giolitti sulla perdita di sovranità parlamentare dovuta ai trattati internazionali, furono riprese negli anni ’60 da Pietro Secchia, dirigente del PCI in via di crescente emarginazione. Ovviamente Secchia ce l’aveva con la destabilizzazione interna dovuta al Patto Atlantico. Potrebbe essere infatti che la vera “anomalia italiana” consista nell’essere una colonia della NATO; ed inoltre il colonialismo ha tutto l’interesse a giustificarsi spacciandosi come colui che corre a “salvare” i popoli dalle loro stesse “anomalie”. Non c’è colonialismo senza razzismo ed autorazzismo.
Non si comprende nulla dell’imperialismo, se non si tiene conto del fatto che la posizione di “alleato” espone ad una aggressione coloniale a volte persino più brutale di quella che sopporta un nemico. I Paesi “alleati” sono fatti oggetto di una continua guerra strisciante, a bassa intensità, tendente ad aumentare il loro grado di subordinazione agli interessi coloniali.
E l’imperialismo non è neppure un processo unilaterale, ma una guerra mondiale dei ricchi contro i poveri, nella quale i gruppi affaristici e reazionari di ciascun Paese si rendono sempre più aggressivi ed arroganti per il sostegno che ricevono dall’alleato principale. I trattati internazionali costituiscono altrettanti incentivi per l’arroganza delle lobby affaristiche interne, in particolare per la lobby delle privatizzazioni e la lobby della finanziarizzazione. Se è già accaduto con il Trattato di Maastricht, è ovvio che ciò accada anche per il TTIP. Ecco che le cosiddette “riforme” consistono nella liquidazione di qualsiasi contrappeso istituzionale che possa non solo ostacolare, ma anche appena ritardare il saccheggio delle risorse pubbliche. Il Movimento 5 Stelle si è pronunciato sia contro l’attuale riforma costituzionale, sia contro il TTIP, ma non pare che intenda spingersi a collegare i due eventi; forse perché ciò comporterebbe un tipo di critica verso gli USA che sconfinerebbe dal recinto del consentito.
Ad esempio, a proposito dell’attuale situazione in Iraq, il massimo di critica che i commentatori ufficiali muovono agli Stati Uniti, è quello di essersi ritirati “troppo presto”, lasciando la popolazione irachena in balia del proprio stesso estremismo. La critica più “severa” che venga concessa nei confronti dell’imperialismo, è infatti quella di essere “troppo buono” e troppo fiducioso nella capacità dei popoli inferiori di accedere ai fasti della civiltà occidentale.
Adesso perciò si affaccia anche qualche commentatore ufficiale particolarmente “trasgressivo” che si lascia sfuggire addirittura che sarebbe stato un errore eliminare il tiranno Gheddafi, visto che il tribalismo rende il popolo libico immaturo per la “democrazia”. Che l’imperialismo abbia invece tuttora direttamente a che fare con la destabilizzazione dell’Iraq e della Libia, questa non potrebbe essere mai considerata una critica, ma solo volgare complottismo.
Di comidad del 14/08/2014

I guasti dell’americanismo

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Nei primi decenni del Novecento l’ingegnere americano Taylor promuove la razionalizzazione scientifica dell’organizzazione del lavoro che, negli anni Trenta, il produttore di automobili Henry Ford, con la sua politica economica e industriale, perfeziona e radicalizza, favorendo lo sviluppo industriale e capitalistico statunitense. Dalla fabbrica lo sviluppo taylorista investe l’intera società americana e diventa un modo di fare e pensare la vita: l’americanismo. Già Gramsci (1891 – 1937), nel Quaderno 22 dal carcere, definiva l’americanismo novecentesco una rivoluzione passiva, la cui l’egemonia non si limitava al controllo produttivo in fabbrica ma tendeva a occupare la società civile a tutti i livelli, morale, culturale e politico. L’intellettuale comunista critica l’intento capitalista di razionalizzare e di controllare capillarmente non solo il lavoro, ma perfino la coscienza e la vita privata del lavoratore: un produttore da ridurre a “gorilla ammaestrato”, privato di coscienza e pensiero. Il passaggio a questa fase egemonica – avverte Gramsci – avrà l’effetto di formare un “nuovo tipo umano”, condizionato al punto da fargli esprimere una diversa sensibilità, una nuova mentalità e un altro senso comune. La classe dominante, estendendo il potere della fabbrica alla società, organizzava anche l’imponente “struttura ideologica” vòlta a controllare le coscienze morali dei singoli tramite la stampa, le case editrici, i giornali, le riviste, le biblioteche, le scuole, i circoli, i clubs, ecc., tutto ciò che, direttamente o indirettamente, condizionava l’opinione pubblica. L’americanismo-fordismo dunque consisteva nell’imperniare tutta la vita del paese e tutto il sistema di accumulazione del capitale finanziario sulla produzione industriale. “L’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno per esercitarsi che di una quantità minima di intermediari professionali della politica e dell’ideologia” (Q. 22, 2146). Oggi l’egemonia nasce dal capitale finanziario e sembra poter fare a meno di quantità anche minime di intermediari ma, sempre più spesso, mira a occupare direttamente le istituzioni politiche con i suoi impiegati e consulenti. Gramsci, pur definendolo razionale e progressivo, sostiene che l’americanismo-fordismo è destinato a fallire, perché non sarebbe in grado di superare le contraddizioni sociali della crisi organica del capitalismo. Questa sua riflessione, non confermata dalla realtà storica successiva, ci consente però di capire l’americanismo dei nostri tempi in cui, non l’organizzazione industriale estesa alla società, ma i mercati finanziari sorretti dal potere massmediatico colonizzano le coscienze.  Il nesso tra potere economico, culturale e politico costituisce un elemento di grande attualità per interpretare anche la società del nostro tempo, assalita e affatturata dai mass media.
 
Gramsci, riflettendo sull’americanismo non solo in termini economici ma geoculturali e geopolitici, ci offre la chiave di lettura del permanere dell’americanismo oltre l’epoca del fordismo.  Ai nostri giorni l’americanismo diffonde e impone uno stile di vita improntato al mito della velocità, della corsa folle e insensata, e del consumo ossessivo non solo delle risorse, ma anche dell’esistenza. La fretta e la velocità, infatti, divorando lo spazio e sconvolgendo il tempo biologico, accelerano il ritmo e il logorìo anticipato dei rapporti umani, impediscono di cogliere il senso delle cose, vanificano e banalizzano la fruizione della natura e dell’arte. Il produttivismo e il consumo forsennato ci precludono il vivere sereno, ci volgarizzano, come aveva ben intuito un quasi contemporaneo di Gramsci: «L’americanismo è la peste che avanza volgarizzando, rimbecillendo, imbestialendo il mondo, avvilendo e distruggendo alte, luminose, gloriose civiltà millenarie». (“Aforisma a buon mercato” Ardengo Soffici (1879- 1964). L’influenza e il condizionamento di questa cultura d’oltreoceano, avvertiti come un flagello negli anni Venti e Trenta da intellettuali e artisti di diversa estrazione ideale e culturale, si ripresentano nella seconda metà del secolo scorso. A partire dal dopoguerra la prepotente siringa del piano Marshall, iniettando non solo soldi ma anche modi di vivere e di pensare, è stata determinante nel cambiare antropologicamente i popoli occidentali tutti, e in particolare quello italiano, a cui i vincitori hanno imposto l’american way come l’unico civilmente valido, attraente e moderno, tramite soprattutto televisioni e cinema.  Così come nel secolo scorso la cultura ufficiale estendeva, nell’egemonia del capitale produttivo, l’idea di produttività fordista alla società civile, oggi dilata, nel dominio globale del capitale finanziario, l’idea del “mercato” a tutte le forme di esistenza; spinge per integrare definitivamente l’amministrazione, la produzione e le menti nella dimensione liberista e per appiattire, tramite i massa-media, le coscienze su un modo particolare di rapportarsi alla realtà, al lavoro, ai problemi sociali, alla fede religiosa, al guadagno.
 
Da vent’anni a questa parte la classe politica ed economica sub-dominante ci impone di competere, di concorrere, di conformare la nostra dimensione materiale e culturale alle esigenze liberiste imposte dai mercati, di “lasciare a tutti la libertà di sopprimere la nostra” – così A. Soffici definiva il liberalismo . Gli Italiani dunque dovrebbero adeguarsi non soltanto ai modelli economici e giuridici eurounionisti, ma omologarsi e rassegnarsi, in tutto e per tutto, all’americanizzazione dell’Occidente. Adeguarsi ossessivamente all’ideologia del mercato globale imitando scimmiescamente lo spirito angloamericano, le logiche del profitto, la concorrenza e la competizione, illudendosi di appagare i mercati e i rapaci investitori stranieri, significa stravolgere e snaturare i valori comunitari che storicamente abbiamo ereditato e che simbolicamente avremmo il dovere di trasmettere. A una società ad economia liberista, dove al profitto segue immediatamente l’uso e il consumo, appare assurda ed estranea l’idea di un popolo istintivamente risparmiatore, che regge la sua storia su una tradizione di economia reale e di capitale sociale, piano sul quale dobbiamo fondare la nostra rinascita, e non sulla pura finanza speculativa, livello su cui saremo sempre perdenti e dominati.
 
Perciò dovremmo chiederci se la logica mercatista è connaturata al nostro modo di essere, se si concilia con i nostri schemi di interpretare la realtà, con l’insieme delle nostre pratiche quotidiane, con le nostre varietà interculturali. Noi apparteniamo a una cultura che, per quanto il gruppo politico sub-dominante pretenda di trasformare in apolide e cosmopolita, rimane provinciale nel senso più umano e positivo del termine, perché da secoli la dimensione provinciale garantisce la percezione del senso del limite, della misura, dell’equilibrio e l’orrore per la hybris, per l’empietà. 
 
“Il piacere della convivialità, dell’otium contemplativo e della bellezza, la ricerca dell’equilibrio fra gli estremi, che confligge frontalmente con l’inclinazione ‘oceanica’ per l’informe e per la violazione di ogni limite, sono doni elargiti nella stessa misura a Napoli come a Tunisi o a Giaffa”. (G. Marano, Per l’indipendenza della grande patria mediterranea).
 La nostra cultura quotidiana, incline al godimento qualitativo del vivere, diverge da quella americanista iperattiva e tesa alle quantità mai bastevoli. Le relazioni sociali, l’ospitalità, i comportamenti che oscillano tra l’onore e la vergogna, esprimono una sensibilità contadina, una visione estranea alle logiche delle megalopoli indistinte e uniformi, degli spazi vasti e indifferenziati, degli scali attraversati da folle di eterni nomadi che non “popolano” mai nessuna terra e ignorano l’esistenza di “… popolazioni che si conoscono, si incontrano e – fecondamente – si scontrano da millenni. Genti che nelle varianti di un unico idioma fondamentale esprimono l’identica gioia di vivere fuori dai dettami del profitto e dell’utile” (G.Marano, La grande patria mediterranea). Siamo chiamati a ripensare, a ricostruire, a far rinascere l’Italia, tenendo conto delle sue peculiarità e della dimensione ideale che la caratterizza, a cui dare forza per tracciare un’identità in armonia con la dimensione materiale – la nostra economia, i nostri prodotti, le nostre creazioni –. Ci piace credere che l’Italia, in cui valori irrinunciabili precedono il perseguimento dell’accumulo e della rendita, possa rappresentare un bastione a difesa dalla degenerazione turbocapitalista.  “…si tratta di uno scontro, quasi antropologico, tra una cultura universale indifferenziata e tutto ciò che, in qualsiasi contesto, conserva qualcosa di irriducibile” (Jean Baudrillard)
di Luciano Del Vecchio – 18/08/2014
 
Fonte: Il giornale del Ribelle

LUC MICHEL: COMMENT LES MEDIAS DE L’OTAN MENTENT SUR LA GUERRE AU DONBASS

 Le duplex de Bruxelles avec ‘Afrique Media TV’ de ce 27 juillet 2014

Filmé en direct par PCN-TV à Bruxelles

 Comment les médias de l’OTAN mentent sur la sale guerre de la Junte de Kiev au Donbass …

PCN-TV - AMTV LM médiamensonges guerre donbass (2014 07 27) FR

 Video intégrale sur : https://vimeo.com/104145168

 Luc MICHEL sur AFRIQUE MEDIA TV

dimanche 27 juillet 2014 dans le ‘Débat panafricain’

avec Bachir Mohamed Ladan.

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https://vimeo.com/pcntv

https://www.facebook.com/PCN.NCP.TV

AIDE HUMANITAIRE AU DONBASS : LES MASQUENT DE KIEV, VARSOVIE ET BRUXELLES TOMBENT DEFINITIVEMENT !

Luc MICHEL/ En Bref / Avec RIA Novosti – PCN-SPO/ 2014 08 23/

LM.NET - EN BREF les masques tombent (2014 08 22) FR

Le ministre ukrainien de la Défense de la Junte de Kiev, Valeriy Geleteï, menace de représailles le convoi humanitaire russe, civil et non armé. Il a déclaré qu’il y aura une « réaction appropriée » au déplacement sur le territoire de l’Ukraine du convoi humanitaire russe.« Attendons un peu , et la réaction sera appropriée », a déclaré le ministre ce vendredi devant les journalistes.

De son côté, l’Union européenne, petite putain vieillie aux ordres du proxénète Obama, a qualifié « l’envoi du convois humanitaire russe sans l’accompagnement du Comité international de la Croix-Rouge de violation de la frontière ukrainienne » et a encouragé les autorités russes à changer d’avis . C’est le refus de Kiev de garantir la sécurité du convoi qui a écarté le CICR …

Le ministère polonais de la Défense, lui, est en train d’envoyer des convois humanitaires … destinés aux militaires ukrainiens, rapporte son site. Aider les bourreaux de Kiev et laisser le peuple du Donbass sans aide face à ce qui s’apparente à quelque chose entre la purification ethnique et le génocide ! Varsovie, qui aide les héritiers de Bandera amenés au pouvoir par le putsch du 21 février, avec l’aide de l’OTAN, a bien oublié les centaines de milliers de Polonais exterminés dans les pogroms banderistes de 1941-45 …

 MOSCOU CHOISI L’ACTION HUMANITAIRE

 Les premiers camions Kamaz du convoi humanitaire russe destiné aux habitants du sud-est de l’Ukraine sont malgré tout, et contre le sabotage des occidentaux et de la Junte, arrivés à Lougansk, ont annoncé ce vendredi les dirigeants de la République Populaire de Lougansk (LNR). Le convoi humanitaire russe, qui se trouvait depuis plusieurs jours près de la frontière ukrainienne, a franchi vendredi la frontière et s’est mis en route vers Lougansk.

Le ministère russe des Affaires étrangères a déclaré que « Kiev faisait traîner en longueur la procédure de contrôle douanier du fret humanitaire ». Les autorités russes ont mis en garde vendredi la partie ukrainienne « contre toute tentative de faire échouer cette mission strictement humanitaire organisée sous l’égide du Comité international de la Croix-Rouge (CICR) et au terme d’entretiens avec l’Ukraine ». Le ministère russe des Affaires étrangères a rappelé que « le CICR avait reçu une liste des produits acheminés et a approuvé l’itinéraire du convoi ».

 Le vice-ministre russe de la Défense Anatoli Antonov a démenti jeudi les déclarations faites par les dirigeants de plusieurs pays de l’UE et de l’OTAN et portant sur une possible intervention militaire russe en Ukraine « sous prétexte d’une opération humanitaire ». Il a qualifié ces propos de « spéculations ». Selon M.Antonov, les Kamaz russes transportant l’aide humanitaire « ont été inspectés à plusieurs reprises et ces contrôles n’ont révélé rien d’illégal ». Il a souligné « qu’aucune escorte militaire n’était prévue pour protéger le convoi humanitaire russe sur le territoire ukrainien ».

Le ministère russe des Affaires étrangères a précisé que la Russie ne pouvaitt plus rester indifférent face à la situation catastrophique de la population civile dans le Sud-est de l’Ukraine, opposée aux autorités ukrainiennes. « Faire appel aux normes du droit international que nous avons toujours respectées, que nous respectons et que nous respecterons toujours, c’est vraiment blâmer celui qui est innocent. Nous agissons en respectant entièrement les normes du droit humanitaire international », mentionne la déclaration du vice-ministre des Affaires étrangères Sergueï Riabkov concernant la livraison de l’aide humanitaire dans les régions au Sud-Еst de l’Ukraine.

Le convoi russe comprend 280 camions Kamaz blancs transportant des denrées alimentaires, dont 400 tonnes de céréales, 100 tonnes de sucre, 54 tonnes d’équipements médicaux et de médicaments, 12.000 sacs de couchage et 69 groupes électrogènes de différentes puissances. Les camions ont quitté la région de Moscou le 12 août.

Intolérable pour Kiev et Bruxelles !

 Luc MICHEL

 http://www.lucmichel.net/2014/08/22/lucmichel-net-aide-humanitaire-au-donbass-les-masquent-de-kiev-varsovie-et-bruxelles-tombent-definitivement/

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LE SOMMET ‘USA-AFRICAN LEADERS’ OU LES MAUVAISES VUES DE WASHINGTON SUR L’AFRIQUE

Analyse du Sommet des ces 4-5-6 août 2014 à Washington …

Luc MICHEL pour EODE Think Tank /

Avec EODE Zone Africa – AP – EODE Press Office / 2013 08 15/

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http://www.eode.org/ EODE TT - LM le sommet usa-afrique (2014 08 15) FR

Ces 4-5-6 août 2014 les chefs d’état africains étaient convoqués par Obama à Washington, pour un sommet intitulé « USA-African Leaders ». U nsommet, où ce qui est officiel et ce qui se trame en coulisses doivent inquiéter profondément les panafricanistes et tous les africains.

 LES « YALI » OU COMMENT POUSSER LES CHEFS D’ETAT AFRICAINS VERS LA SORTIE …

Le sommet USA-Afrique s’est donc ouvert le 4 août sur une offensive politique des USA. Déjà la veille 3 août, des rencontres, telle que celle d’Obama avec les « Young African Leaders », les YALI, une initiative d’Obalma et surtout un réseau américain en Afrique, ont donné le ton. Washington a lourdement insisté ce lundi sur les composantes de la démocratie made in USA au premier jour d’un sommet USA-Afrique sans précédent, et largement centré sur l’économie.

Il faut voir la video sur le Meeting des YALI, la « Young African Leaders Initiative » avec Obama le 3 août. Sans aucun doute la plus grande menace pour l’Afrique. Il faut assister à l’ « américanolatrie » de ces jeunes africains, formatés pour servir les intérêts US en Afrique. Et avec qui Obama entend remplacer les chefs d’état africains actuels et asservir l’Afrique.

 EBOLA EN INVITE SURPRISE

Mais c’est une crise sanitaire, celle du virus Ebola, à l’origine de déjà près de 900 morts en Afrique de l’Ouest lors de l’ouverture du sommet, qui était dans tous les esprits au lancement de ce sommet. Accaparés par la gestion de la crise, le président sierra-léonais Ernest Bai Koroma et son homologue libérienne Ellen Johnson Sirleaf ont renoncé à venir aux Etats-Unis.

Cinquante pays étaient donc finalement représentés dans la capitale fédérale américaine: 35 présidents, neuf Premiers ministres et un roi, celui du Swaziland, dernière monarchie absolue d’Afrique, avaient notamment fait le déplacement pour cette rencontre de trois jours qui débutait au moment où le continent fait face à l’épidémie d’Ebola la plus meurtrière jamais enregistrée.

Des contrôles médicaux ont été mis en place à l’arrivée sur le sol américain pour les délégués venant de pays affectés, avec un éventuel placement en quarantaine si un individu présente des symptômes de la maladie. Imposés même aux chefs d’état, comme celui du Sud-Soudan, ils ont indigné l’Afrique et révélé le peu de poids des chefs d’état africains aux USA …

 L’ECONOMIE OU LES CHANGEMENTS DE REGIME ?

« Tisser des liens économiques plus solides entre les Etats-Unis et l’Afrique, région prometteuse à la croissance supérieure à celle du reste du monde » (le FMI table sur 5,8% en 2015): tel est l’objectif central officiel de ce sommet annoncé il y a un an par le président US Barack Obama.

La prolongation de l’Agoa, le programme américain accordant des avantages commerciaux à certains produits africains, ou encore l’initiative “Power Africa”, qui vise à doubler l’accès à l’électricité en Afrique subsaharienne, étaient au menu des discussions.

Mais au premier jour des discussions, le vice-président Joe Biden a d’abord appelé les leaders africains à lutter contre “le cancer de la corruption” tandis que le secrétaire d’Etat américain John Kerry insistait sur la nécessité d'”une société civile forte, le respect pour la démocratie, l’Etat de droit et les droits de l’homme”. Dans la ligne de mire, pour commencer : Teodoro Obiang Nguema, Paul Kagame, Yoweri Museveni, Eduardo dos Santos et Paul Biya, tous invités à Washington.

Au fur et à mesure que la grand messe du Sommet US-AFRICA LEADERS bâtait son plein à Washington, de plus en plus la cible américaine apparaissait en pleine lumière : implication US en Afrique, contre la Chine mais aussi l’UE, et surtout les changements de régime.

Ce 5 août, Kabila rencontrait John Kerry. Et le président de RDC a du se faire sonner les cloches sans aucun doute. La RDC est, avec le Rwanda, le centre de la nouvelle implication des USA dans la région des Grands Lacs. Et Washington ne veut pas d’un troisième mandat de Kabila et le fait savoir inlassablement. On notera que c’est la seule rencontre bilatérale en marge du sommet.

Le 5 août, Obama, lui, dans une journée pourtant consacrée à l’économie, a réussi à insister lourdement sur les changements de régime. Obama a insisté sur « la responsabilité des dirigeants africains dans la mise en place d’un environnement politique propice au développement économique ».

La grand messe américaine sur l’Afrique s’est terminée le 6 août.

Les chefs d’état africains, mêlés à une multitude d’intervenants américains et africains, ONG, intellectuels, militants pro-américains, tous qualifiés indistinctement de « leaders africains », ont assisté aux trois sessions du Sommet proprement dit : « investir dans l’avenir de l’Afrique », « paix et stabilité régionale » et « bonne gouvernance ». Un grand show de communication de l’administration Obama. Certains diront de propagande.

 LA SECURITE ET LA « GUERRE AU TERRORISME » :

ETERNELS CHEVAUX DE TROIE DE L’AFRICOM

Obama, qui recevait l’ensemble des dirigeants à la Maison Blanche le 5 août soir pour un dîner, a également souligné qu’il entendait “parler de sécurité et de paix”. Thématique qui a été effectivement soulevée lors du « Sommet des chefs d’état et de gouvernement », ce 6 août.

Sans vergogne, le prix nobel qui mène, entre autres, des guerres sanglantes en Afghanistan, en Irak, organise la guerre en Syrie, a détruit la Jamahiriya libyenne et légalisé les frappes permanentes de ses drones, n’a pas hésité à déclarer : “L’avenir appartient à ceux qui construisent, pas à ceux qui détruisent. Il est difficile d’attirer des investissements et extrêmement compliqué de bâtir des infrastructures et d’encourager l’esprit d’entreprise au beau milieu d’un conflit”.

Les USA apportent-ils la sécurité à l’Afrique ? Washington peut-elle assurer la paix sur le continent africain ? Telles sont les véritables questions qui se posent à l’Afrique.

Sur le dossier sécurité, la menace d’Al-Qaïda au Maghreb islamique (Aqmi), les attaques répétées de Boko Haram, la guerre civile au Soudan du Sud ou encore les offensives meurtrières des shebab somaliens au Kenya ont été immanquablement abordés.

Pour le président des Etats-Unis, l’un des sujets centraux du sommet sera “de trouver les moyens de renforcer les capacités africaines dans les efforts de maintien de la paix et de résolution des conflits”.

Avant son départ pour Washington, le président camerounais Paul Biya a souligné que cette rencontre devait être l’occasion de mettre en place, avec le Nigeria, le Niger et le Tchad, une véritable “stratégie régionale” pour lutter contre Boko Haram. Toujours la « guerre au terrorisme » comme cheval de Troie américain. Souvent ce sont les africains eux-mêmes qui l’introduisent.

John Kerry s’est entretenu dès le lundi avec le président burundais Pierre Nkurunziza devant qui il a plaidé pour le “respect de la loi, de l’appareil judiciaire, de l’armée et d’institutions qui protègent les citoyens”. Le chef de l’Etat burundais lui a répondu, en français, que son pays était en “post-conflit” et qu’il “savourait aujourd’hui les dividendes de la paix”. La communauté internationale et des organisations occidentales des droits de l’homme, toujours les mêmes, s’inquiètent depuis plusieurs mois d’une montée des tensions sur fond de violence politique et d’entraves aux libertés au Burundi, à l’approche du scrutin de 2015 dans ce pays des Grands Lacs sorti en 2006 de 13 ans de guerre civile.

 LA FAILLITE DELA PRESSE AFRICAINE

Le Sommet a été aussi la grande faillite des médias africains. Qui se sont contentés de diffuser, sans recul, critique ou explications, les videos de propagande fournies toutes faites par la Maison Blanche et le Ministère de la défense US. Beaucoup de journalistes africains se sont laissés prendre à l’intérêt soudain d’Obama pour l’Afrique, y voyant à tort, selon eux, « une Afrique qui compte enfin ». Alors que ce n’est que l’intérêt du prédateur pour sa proie !

Deux faits significatifs.

* La presse européenne, russe ou chinoise a accordé peu d’importance au Sommet. A part quelques images rapides dans les JT (30 secondes sur France 24 hier par exemple), un dossier dans Libération (Paris) et une interview sur RT, l’ex Russia Today, rien. Et une seule interview des services Afrique de LA VOIX DELA RUSSIE, la grande radio d’état russe, précisément de Luc MICHEL, notre analyste.

* Le service de presse du State Department US à lui beaucoup communiqué mais n’a publié aucune interview ou intervention des chefs d’état africains au Sommet !

Ce 6 août se tenait la Session « gouvernance pour les générations futures » du Sommet. Dans laquelle on voit le véritable enjeu de cette grand messe américaine. Et dont, mais ne n’est pas hasard, les médias occidentaux ont peu parlé.

Je ne partage pas les visions optimistes sur ce Sommet, naïves et mal informées. Après les « révolutions de couleur » et le pseudo « printemps arabe », j’annonce la préparation d’une vague de déstabilisation et de tentatives de changements de régime en Afrique.

Luc MICHEL / EODE Think Tank

# EODE-TV & AFRIQUE MEDIA/

LE SOMMET USA-AFRICAN LEADERS DECRYPTE

AFRIQUE MEDIA, la grande télévision panafricaine, a co-produit 3 émissions spéciales en direct avec Luc MICHEL et sa chaîne EODE-TV.

Au menu, le dessous des cartes de ce Sommet de Washington, tous ses enjeux développés et décryptés un par un, des analyses percutantes.

Et en prime grâce à une journaliste d’EODE-TV qui a pu se faire accréditer, malgré des refus massifs du State Department, des images de tous les grands événements…

 Emission 1 sur :

LES USA PREPARENT-ILS UN « PRINTEMPS AFRICAIN » ? https://vimeo.com/102962474

 Emission 2 sur :

LES USA AIDENT-ILS A SECURISER L’AFRIQUE ?

https://vimeo.com/102962475

Emission 3 sur :

LES USA BIEN PLACES POUR PARLER DE « BONNE GOUVERNANCE »? https://vimeo.com/102962473

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