Il Presidente Costa 1.4 Miliardi di Dollari l’anno

·                                 05 Dicembre 2012  03:03

·                                  ·                                 Uno dei miti più obsoleti ma pervicaci è l’idea che “solo l’Italia” ha politici che rubano e sprecano o evasione e che invece l’America e l’Inghilterra (vedi un articolo qui ieri anche su byoblu sui politici inglesi come esempio morale per noi. Un paese come l’Inghiltera, dove il primo ministro quando smonta diventa un lobbysta di banche e fondi e come Tony Blair guadagna 30 milioni l’anno (20 milioni di sterline) usando i suoi contatti e influenza politica per i suoi clienti di affari


E’ appena uscito un libro molto documentato in America Robert Keith Gray: “Presidential Perks Gone Royal: Your Taxes Are Being Used For Obama’s Re-election che ha calcolato quanto costa ora il Presidente ai contribuenti americani, il costo della Presidenza paragonato ai costi della nostra Presidenza o Senato con cui Giampiero Stella e altri hanno costruito una carriera giornalistica ed editoriale

Bene Obama ad esempio una volta che calcoli i costi del suo staff, sicurezza, vacanze, viaggi di ogni genere inclusi quelli frequentissimi per campagne elettorali e raccolte fondi e la sua famiglia è costato 1.4 MILIARDI DI DOLLARI L’ANNO SCORSO. Il primo ministro inglese è costato circa 50 milioni di sterline l’anno, 30 volte di meno.

La sicurezza è una voce che costa moltissimo, basta pensare che si mobilitano anche navi da guerra quando va in visita all’estero che incrociano ad esempio al largo della città se è sul mare e un intero esercito di centinaia di agenti

Ma poi esempio quando Obama e la moglie vanno in vacanza il loro cane li segue, a volte con un volo separato perchè il cane parte magari dopo ed è accompagnato sempre dal suo “handler”, cioè un addetto che ha come unico lavoro tenere dietro al cane e il cui costo è di 103mila dollari l’anno. La moglie di Obama ad esempio a differenza della moglie di Napolitano ha un suo staff di una ventina di persone che la segue ovunque anche in vacanza per cui dato che in genere va in vacanza per conto suo si prenotano per lei una ventina di stanze negli Hilton più un altra trentina di stanze per l’enorme servizio segreto che la protegge. Una vacanza di Michelle Obama (da sola, per cui non è nemmeno che conforta il Presidente) richiede sempre di prenotare due piani di un albergo di lusso. La cosa più straordinaria è però l’uso di tutto l’apparato presidenziale che viaggia sul mega jumbo corazzato Air Force One per continui viaggi, quasi ogni settimana, per raccogliere fondi e fare campagna elettorale, per se e per altri candidati, tutti pagati interamente dal contribuente

Il non approfittare dei soldi pubblici da parte dei politici è ovviamente molto importante come problema, ma NON E’ QUELLO CHE OGGI HA RIDOTTO L’ITALIA ALL’ULTIMO POSTO tra i paesi industriali. Se fosse quello gli Stati Uniti sarebbero rovinati.

 

http://www.cobraf.com/forum/topic.php?reply_id=123500992#123500992

Vergogna Ilva: quanti morti, ancora, per salvare lo spread?

Scritto il 06/12/12 

Il decreto del governo salva-Riva ha ottenuto un consenso di unità nazionale, compresi Camusso e Landini. Vediamo prima di tutto il fatto. All’Ilva è in corso d’opera un grave reato contro la salute dei cittadini e dei lavoratori: la magistratura interviene per fermarlo e il governo interviene per fermare la magistratura. Questa la sostanza giuridica del decreto di cui speriamo la Corte Costituzionale rilevi la palese incostituzionalità: in un paese in cui tutta la classe politicasi riempie la bocca delle parole “regole” e “legalità”, un decreto come questo si iscrive alla più pura tradizione berlusconiana di cambiare la legge per fermarne l’applicazione quando sono colpiti interessi potenti. In questo caso si giustifica l’atto affermando che gli interessi in campo non sono quelli del padrone, ma dei lavoratori che rischiano il posto e del paese che rischia di perdere una azienda strategica. Naturalmente si afferma che la salute viene comunque salvaguardata e che quindi conflitto non c’è con l’iniziativa della magistratura, che viene invitata a “capire”.

Qui bisogna essere chiari: o la magistratura ha torto, il rischio non è così grave e la sua iniziativa è avventata, oppure ha ragione. Se la magistratura Giorgio Cremaschiavesse torto le pubbliche istituzioni avrebbero dovuto affermarlo, cioè dire che non si muore di Ilva. A dir la verità il ministro Clini ci ha provato, ma è stato smentito da suoi stessi colleghi di governo e dalle strutture sanitarie. Gli stessi sindacati più vicini all’azienda non si sono mai sognati di smentire la gravità della minaccia alla salute. Anche l’azienda, soprattutto dopo le intercettazioni e le incriminazioni per corruzione, non smentisce più la gravità della situazione. Dal momento che nessuno ha dunque sostenuto che non sia vero che di Ilva si muore, il decreto del governo che autorizza l’Ilva a produrre alle attuali condizioni mentre si risana, evidentemente entra nel concetto di rischio necessario ed accettabile. Cioè un certo numero di malattie, infortuni, morti è un prezzo inevitabile da pagare se si vogliono salvare l’azienda e ventimila posti di lavoro.

D’altra parte, si obietta, all’Ilva si è sempre lavorato così e si possono ben spendere altri due anni pur di cambiare. Questa obiezione, apparentemente di buon senso, è la più scandalosa. Anche con l’amianto c’è stato un intervallo di tempo dal momento in cui se ne scoprì tutta la nocività, a quello in cui se ne fermò definitivamente la produzione e l’uso. E i processi per strage colpiscono proprio quel periodo. Alla ThyssenKrupp di Torino l’azienda è stata condannata per omicidio volontario proprio perché ha continuato a far lavorare quando le condizioni organizzative e ambientali non lo permettevano più. È evidente dunque che nessun rischio è accettabile, soprattutto quando tale rischio per la salute dei cittadini e dei lavoratori è manifesto e conosciuto. Il principio fondamentale della tutela e della salute nell’organizzazione del lavoro è che quando un impianto o una produzione mettono chiaramente a rischio le persone, la produzione vaOperai dell'Ilva di Tarantofermata fino a che non vengano ripristinate o affermate le condizioni di sicurezza.

Se si rischia la salute, non si lavora: questo è il principio che da anni, con ovvi conflitti anche con i lavoratori interessati, sostengono la medicina del lavoro, il diritto e la magistratura, il sindacalismo indipendente dalle aziende. Perché allora all’Ilva si lavora nonostante il rischio? La foglia di fico ideologica utilizzata dal decreto è che sia possibile continuare a produrre limitando al minimo i rischi. Ma questo è tecnicamente impossibile. Già due lavoratori sono morti da quando la magistratura è intervenuta. Uno ai treni merci e l’altro alle gru con la tromba d’aria. Nel primo caso i lavoratori si sono rifiutati di continuare a lavorare nel trasporto materiali se non venivano aumentati gli organici e definite rigorose condizioni di sicurezza. Hanno dovuto scioperare giorni e giorni perché ci fossero segnali in questa direzione da parte dell’azienda. Oggi i lavoratori delle gru giustamente si rifiutano di salire su di esse perché non sanno quanto siano affidabili.

Se si procedesse a una rigorosa ricognizione delle condizioni operative del’Ilva rispetto ai parametri di sicurezza, una distesa di reparti dovrebbe essere fermata. La direzione Ilva ha sempre imposto una organizzazione del lavoro brutale e senza regole, fondata sulle minacce e sui provvedimenti disciplinari, dubito che sappia lavorare in altro modo. Il caos organizzativo con cui l’azienda ha risposto alle ordinanze della magistratura dimostra che non solo il rischio non diminuisce, ma che probabilmente aumenterà. Per quanto riguarda poi l’emissione di fumi e polveri, anche qui c’è un’enorme contraddizione nel decreto. Se davvero Taranto deve continuare a produrre per alimentare gli stabilimenti Ilva del nord e rifornire di acciaio il sistema italiano, allora le emissioni di fumi e polveri continueranno; anzi, come si è rilevato in questo periodo, saranno destinate ad aumentare. Questo perché o si produce davvero a marcia ridotta, e allora l’acciaio per il nord verrà a mancare, oppure si dovranno stressare ancora di più gli impianti rimasti aperti per fare la produzione di quelli chiusi. Anche qui il rischio concreto è Il ministro Corrado Cliniche i pericoli per la salute delle persone aumentino, anziché diminuire, nei due anni di licenza concessi dal governo a Riva.

Quindi o non è vero che si salva la produzione, o non è vero che si salva la salute. E la magistratura viene esautorata proprio per impedire il rigore nelle scelte, per andare avanti alla giornata senza un vero controllo, senza alcuna chiarezza. E’ vero, una parte dei lavoratori soprattutto a Genova ha tirato un sospiro di sollievo con il decreto. Non si può criticarli, visto che tutto il palazzo della politica e tutto il sindacato confederale aveva loro spiegato che finivano in mezzo ad una strada. Anzi, la consapevolezza dei lavoratori Ilva in questi mesi è molto cresciuta, se si pensa che a luglio si scendeva in piazza per difendere l’azienda. Chi invece non ha fatto passi avanti è stato il gruppo dirigente dei sindacati confederali, Cgil e Fiom comprese. Una sola alternativa era possibile: si doveva chiedere l’immediato esproprio dell’azienda da parte del governo, un piano di sicurezza immediato, un piano strategico per il futuro: e la proprietà doveva pagare, cominciando con il garantire il reddito pieno a tutti i lavoratori.

La pubblicizzazione in questo caso non era certo una opzione socialista, ma assolutamente realistica, ed è stata proposta anche da quel noto sovversivo anticapitalista che è Carlo De Benedetti. Il sindacato avrebbe dovuto partire dalla propria conoscenza della realtà del lavoro all’Ilva per costruire una posizione autonoma dal solito ricatto del padrone: o così o si chiude. Invece la Fiom stessa non ha più sostenuto la posizione assunta a suo tempo a Pomigliano, allora anche contro la maggioranza dei lavoratori. Così, la gestione della fabbrica è tornata ad una proprietà pluriincriminata con latitanti in Florida, e il rischio è che oggi si continui a perdere la salute per il lavoro e domani si perda anche il lavoro. Ma forse sta proprio qui la ragione Landini e Camussovera del decreto. Prima del diritto al lavoro e di quello alla salute, per il governo Monti è stato necessario tutelare il diritto alla proprietà, sennò cosa avrebbero detto gli investitori internazionali.

Quanti morti in più si possono accettare a Taranto per non danneggiare lospread? In realtà non stupisce che un governo che pensa di affrontare lacrisi del paese con la produttività del lavoro e le deroghe alle leggi e ai contratti, creda di risolvere così la crisi Ilva. Stupisce invece che Camusso e Landini non abbiano neppure tentato una strada diversa e abbiano ben accolto un decreto che rappresenta la prima grande applicazione di quel patto sulla produttività che non hanno firmato. Tutto questo è la rappresentazione dello stato di degrado della nostra democrazia e della nostra stessa civiltà e dimostra che la nube di buone parole di cui si riempiono i talk show e le primarie non riesce neanche per un giorno a scacciare i fumi dell’Ilva.

(Giorgio Cremaschi, “Quanti morti si possono accettare a Taranto per non danneggiare lo spread?”, da “Micromega” del 5 dicembre 2012).

Consulta e Quirinale: due facce della stessa medaglia. Di piombo.

– di Lorenzo Baldo –

 L’esito scontato della Consulta che ha bocciato il ricorso della Procura di Palermo seguendo le indicazioni legate all’art. 271 del codice di procedura penale sulle intercettazioni vietate dà lo spunto per un’ampia riflessione. Con un colpo di spugna è stata respinta la tesi dall’avvocato Alessandro Pace che ha tentato invano di dimostrare come il ricorso del Quirinale potesse avere effetti assurdi.

 Prima di tutto, ha sottolineato Pace, “un fatto fortuito“, come incappare nel presidente della Repubblica intercettando una terza persona, “non può essere oggetto di divieto. E’ mai possibile vietare di scivolare accidentalmente su una strada ghiacciata?”. Nella parte conclusiva del suo intervento Pace si è domandato che cosa dovrebbero fare i magistrati se intercettassero una conversazione del presidente della Repubblica che complotta per un golpe. Eliminare i files? Quindi se questo “surplus di garanzie” dovesse valere anche per ministri e premier, i pm non potrebbero più intercettare nessun sospettato che avesse contatti con loro? Secondo il legale della procura palermitana un iter “lineare” sarebbe stato, se mai, quello di inoltrare “la richiesta dell’apposizione del segreto di stato da parte del Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio” sul contenuto delle telefonate intercettate. Ma in questo caso sarebbe stato come ammettere la gravità del contenuto di quelle scomode conversazioni tra Giorgio Napolitano e Nicola Mancino. E di fatto il Quirinale si è ben guardato dal farlo. All’indomani della decisione della Consulta, puntuali come sempre, si sono materializzati i commenti dei tanti “difensori di ufficio” del Presidente della Repubblica. A partire dal fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, secondo il quale la critica nei confronti di Napolitano da parte di una certa stampa e di una certa fazione politica sarebbe a tutti gli effetti “una consapevole quanto irresponsabile posizione faziosa ed eversiva che mira a disgregare lo Stato e le sue istituzioni”, una sorta di “fascismo di sinistra”. Sulla stessa onda l’ex magistrato Luciano Violante per il quale in tutta questa vicenda viene fuori “un eccesso di personalizzazione delle indagini” da parte di quei magistrati che evidentemente hanno perso “lucidità” e non hanno visto “i limiti costituzionali nell’azione della pubblica accusa”. A stretto giro di posta l’Anm si è affrettata a dichiarare quanto sia “del tutto fuori luogo” e financo “impossibile” attribuire alla decisione della Consulta un significato politico. Dello stesso avviso il Csm che ha difeso a spada tratta la Corte Costituzionale invocando il “regolamento dei confini tra poteri dello Stato”. In mezzo a questo delirio di comunicati stampa si sta tentando di nascondere la causa scatenante di questa ingerenza del Quirinale nei confronti della Procura di Palermo. Il bieco obiettivo resta quello di far dimenticare che in alcune telefonate il privato cittadino Nicola Mancino – ex ministro ed ex vice presidente del Csm – chiedeva aiuto al Colle per evitare il confronto con Claudio Martelli in merito alle indagini sulla trattativa Stato-mafia, fino a tentare di far togliere la suddetta inchiesta alla Procura di Palermo. Una questione gravissima e soprattutto di rilevanza politico-istituzionale. Che in un altro Paese avrebbe imposto al presidente della Repubblica l’obbligo di trasmettere ai cittadini il contenuto delle sue conversazioni con il signor Mancino. Lo scorso 17 agosto il noto giurista, Gustavo Zagrebelsky, ex giudice della Corte Costituzionale, aveva predetto immancabilmente la sentenza della Consulta basandosi su dati oggettivi. “Qui, si tratta della posizione nel sistema costituzionale del Presidente – scriveva Zagrebelsky su Repubblica – , in una controversia che lo coinvolge tanto come istituzione, quanto come persona”. Per l’ex membro della Consulta si trattava di “un giudizio nel quale una parte getta tutto il suo peso, istituzionale e personale, che è tanto, sull’altra, l’autorità giudiziaria, il cui peso, al confronto, è poco”. Secondo il giurista al di là degli argomenti giuridici l’esito era “scontato” in quanto “nel momento stesso in cui il ricorso è stato proposto, è stato anche già vinto”. “Una sola norma – spiegava Zagrebelsky – tratta espressamente delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica e della loro intercettazione, con riguardo al Presidente sospeso dalla carica dopo essere stato posto sotto accusa per attentato alla Costituzione o alto tradimento. ‘In ogni caso’, dice la norma, l’intercettazione deve essere disposta da un tale ‘Comitato parlamentare’ che interviene nel procedimento d’accusa con poteri simili a quelli d’un giudice istruttore. Nient’altro. Niente sulle intercettazioni fuori del procedimento d’accusa; niente sulle intercettazioni indirette o casuali (quelle riguardanti chi, non intercettato, è sorpreso a parlare con chi lo è); niente sull’utilizzabilità, sull’inutilizzabilità nei processi; niente sulla conservazione o sulla distruzione dei documenti che ne riportano i contenuti. Niente di niente”. Ed è proprio attorno a quel “niente” che paradossalmente oggi assume i contorni di un perno giuridico di acciaio che tanti pavidi, collusi e quaquaraquà si allineano per sferrare un nuovo attacco nei confronti di un pugno di magistrati ostinati a scandagliare il fondo putrido di questa Repubblica. Siamo di fronte alla dimostrazione plastica di una “ragione politica” che prevale su quella giuridica e che impone di dare ragione al presidente della Repubblica. La sentenza della Consulta rappresenta a tutti gli effetti una sconfitta del diritto e della Costituzione. L’obiettivo di fermare il pool di magistrati che investiga sulla trattativa Stato-mafia passa prepotentemente anche attraverso questa vergognosa sentenza sulla quale la società civile ha l’obbligo morale di tenere alta la guardia.

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 – Napolitano, la Consulta e quel silenzio sulla Costituzione – di Gustavo Zagrebelsky

 – Saverio Lodato: “Mancino parli!”

  

  

Tratto da: Consulta e Quirinale: due facce della stessa medaglia. Di piombo. | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/12/06/consulta-e-quirinale-due-facce-della-stessa-medaglia-di-piombo/#ixzz2EISY1xAD 

– Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario! 

 TRATTATIVA STATO MAFIA/ Il Giornale vuole isolare Ingroia. Di Pietro il solo a difenderlo

        

Scritto da Viviana Pizzi

Giovedì 06 Dicembre 2012

Dopo la decisione della Consulta di dichiarare illegittime le intercettazioni avvenute a carico del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nell’affaire trattativa Stato Mafia– ne deduciamo quindi che in Italia qualcuno è più uguale degli altri – l’ex pm di Palermo, oggi in Guatemala Ingroia, ha parlato di sentenza già scritta e difeso il suo lavoro. Ma gli sciacalli de Il Giornale hanno colto la palla al balzo per isolare il magistrato e scatenare una campagna mediatica contro di lui. Risultato: Ingroia è isolato e a difenderlo resta, come al solito verrebbe da dire, Antonio Di Pietro.

 di Viviana Pizzi

 Contro di lui, oltre ai due principali partiti politici, anche il Csm e l’Anm.

 La prima ad esprimersi è stata però il ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri sottolineando come la sentenza fosse  “una cosa molto bella ed attesa”. Cassa di risonanza a queste dichiarazioni è arrivata da quelle del presidente del Csm Michele Vietti secondo il quale “la Corte Costituzionale è una della massime istituzioni della Repubblica, la sua autonomia e indipendenza non possono essere messe in discussione da nessuno, in particolare da chi ricopre incarichi pubblici”.

 Non è da meno Rodolfo Sabelli presidente dell’Anm che afferma: “La Corte per indipendenza e autorevolezza dà ogni garanzia non si può parlare di decisione politica, né intendere il conflitto in termini di contrapposizione tra poteri dello Stato”.

 IL DISPOSITIVO DELLA SENTENZA  E LE INDAGINI SULLA TRATTATIVA

 antonio_ingroia_isolatoCosa recita il dispositivo della Corte Costituzionale? L’organo giudiziario non ha fatto altro che accogliere il ricorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sul conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo in merito alle intercettazioni telefoniche a carico del senatore Nicola Mancino. Che per ben quattro volte è stato ascoltato parlare con il Capo del Quirinale. L’ex senatore, che figura tra i dodici indagati, si era rivolto al Colle per discutere sull’inchiesta sulla trattativa Stato Mafia che sarebbe avvenuta all’indomani delle stragi del 1992- 1993.

 Lo Stato e la Mafia, secondo le indagini della procura siciliana, sarebbero giunti ad un accordo che avrebbe previsto la fine della stagione stragista in cambio di un’attenuazione delle misure detentive previste dall’articolo 41 bis.

 Dopo anni di indagini iniziate all’inizio del nuovo millennio il 24 luglio il sostituto procuratore di Palermio Antonio Ingroia, ha chiesto il rinvio a giudizio per 12 indagati con l’accusa di “concorso esterno in associazione mafiosa” e”violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”.

 Questi i nomi degli indagati: l’ex ministro DC Calogero Mannino, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri; gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno; i boss Giovanni Brusca, Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, Bernardo Provenzano.

 Massimo Ciancimino, oltre che di “concorso in associazione mafiosa”, è accusato anche di “calunnia” nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro mentre l’ex ministro Nicola Mancino è accusato di “falsa testimonianza”.

 LA FIGURA DI NAPOLITANO

 La Corte ha accolto il principio dell’inviolabilità della riservatezza del Capo dello Stato anche nel caso in cui le intercettazioni riguardino l’interlocutore ( in questo caso Mancino) che si era messo in contatto col Quirinale.

 E’emerso quindi una verità inconfutabile: la  Corte Costituzionale ha sancito che la sua figura è intoccabile e che non sarà mai possibile sapere, tramite le inchieste delle procure ordinarie, quali sono i contenuti delle sue telefonate. Nemmeno se queste dovessero presentare profili di illecito.

 Quelle tra lui e Mancino ora saranno distrutte e dichiarate inutilizzabili ma da questo emerge una verità dura ma costituzionalmente accettabile: “Napolitano (come i Presidenti della Repubblica che lo avvicenderanno negli anni) è inintercettabile e quindi più uguale degli altri”.

 Vale quindi il principio che se un Capo dello Stato possa commettere reati sarà quasi impossibile saperlo.

 LA REAZIONE DI INGROIA: “SENTENZA POLITICA”

 Non è stata delle più felici la reazione del pm di Palermo che ha portato avanti la maxinchiesta con dodici indagati.

 Ora che non è più coinvolto nell’inchiesta come magistrato riferendosi alla pronuncia della Corte Costituzionale non ha usato mezzi termini per definirla “sentenza politica”.

 “Bisognerà attendere di leggere le motivazioni –  ha sottolineato-  che saranno depositate a gennaio. Ma è molto probabile che la pronuncia abbia seguito anche un filo per così dire “formale” e che uno dei pilastri della decisione sia proprio l’impossibilità per la Corte costituzionale di contrapporsi al capo dello Stato, pena un “crollo” dell’impianto istituzionale. “Sottigliezze” giuridiche che probabilmente “il popolo” faticherà a comprendere.Che d’altronde fossero questi i termini della questione era abbastanza chiaro sin dall’inizio, come era evidente che la procura di Palermo volesse anche scandagliare questi “abissi”, considerando che da quello che si sa le intercettazioni tra Mancino e Napolitano non avrebbero rilevanza ai fini processuali”.

 Dichiarazioni alle quali si sono contrapposte quelle di Luciano Violante “secondo cui viene fuori un eccesso di personalizzazione delle indagini” e quelle del procuratore capo di Palermo Francesco Messineoche si discosta da Ingroia sostenendo che : ”Le opinioni del dottor Ingroia sono opinioni del dottor Ingroia, io non qualifico le sentenze”.

 LA CAMPAGNA CONTRO INGROIA  DE “IL GIORNALE”

 A gettare benzina sul fuoco e sostenere che Antonio Ingroia sia ormai “un partigiano”, avendo avviato una campagna diffamatoria e tesa a screditare il personaggio ci si mette ancora una volta la stampa. Questa volta a picchiare duro è proprio “Il Giornale” di Alessandro Sallusti noto a tutti per le sue personali controversie giudiziarie.

 I giornalisti di Berlusconi hanno sottolineato la partigianeria di Ingroia non dal punto di vista della Costituzione ma di quel potere politico che appoggia facendo comparsate nelle varie riunioni dei partiti “rossi”. Hanno avviato una raccolta di firme contro il pm della procura di Palermo e in particolare contro frasi che avrebbero accostato “Forza Italia alla mafia senza avere uno straccio di prova” per presentare una causa civile contro di lui.

 LA DIFESA DI ANTONIO DI PIETRO: CON INGROIA NON CONTRO NAPOLITANO

 In difesa di Antonio Ingroia è sceso ancora una volta l’ex pm di mani pulite Antonio Di Pietro. Il presidente dell’Italia dei Valori ha rivendicato con orgoglio la sua facoltà di difendere le posizioni del pm palermitano.

 “Noi siamo i partigiani della nuova resistenza e rivendichiamo, con orgoglio – ha sostenuto-  il diritto di sostenere, senza se e senza ma, Antonio Ingroia per quello che ha scritto, per quello che ha detto e per quello che ha fatto. Noi difendiamo il diritto di ogni cittadino ad esprimere le proprie opinioni anche se si chiama Ingroia ed è per questo che lanciamo la petizione: ‘Io sto con Ingroia’.”

 Per firmare l’appello basta inviare una mail a iostoconingroia@gmail.com

 Sulla sentenza della Corte Costituzionale è invece questa la posizione dell’Italia dei Valori esplicitata nelle scorse ore in una conferenza stampa del presidente Idv insieme al senatore Luigi Li Gotti.

 “Non saremo certo noi a mancare di rispetto a una sentenza, al Capo dello Stato o alla Corte costituzionale – hanno sostenuto- Rispettiamo le sentenze e rispettiamo le istituzioni. Con la massima pacatezza e con tutto il riguardo, però, non possiamo rinunciare a dire ciò che pensiamo e a esprimere le nostra perplessità. Prima di tutto, devo rimarcare che la Corte costituzionale è intervenuta in assenza di una legge tale da colmare un vuoto intepretativo che prosegue ormai da 15 anni. La verità è che oggi una legge che dica chiaramente cosa fare quando nel corso di una intercettazione legittima e autorizzata sulla linea di un privato cittadino viene intercettato anche chi, come il Presidente della Repubblica, non può essere soggetto a intercettazione, in Italia non c’è. Noi dell’Italia dei Valori ci impegniamo pertanto e presentare un progetto di legge, così che sarà il Parlamento sovrano a dissipare una ambiguità che dura da 15 anni. Se la politica lo avesse fatto prima, come era suo dovere, non si sarebbe prodotto questo incidente”.

Droni Usa nei cieli iraniani

I Pasdaran annunciano la cattura di un velivolo che aveva sconfinato. Washington smentisce, ma ci sono dei precedenti 

Ferdinando Calda

Le forze armate dell’Iran hanno catturato un drone statunitense che volava sulle acque territoriali iraniane del Golfo Persico. Lo hanno annunciato ieri i Guardiani della Rivoluzione in un comunicato. Poco dopo la televisione iraniana Al Alam ha diffuso le immagini di quello che sembra uno ScanEagle (piccolo drone statunitense) intatto in un hangar.
Da Washington hanno smentito di aver perso alcun velivolo, tenendo a sottolineare che le operazioni statunitensi nell’area “sono limitate nello spazio aereo e sulle acque riconosciute come internazionali” e non violano lo spazio aereo iraniano. Tuttavia proprio il giorno prima la stampa Usa aveva riferito dell’aumento delle operazioni di spionaggio sopra alla centrale nucleare di Bushehr, città nel sud-ovest dell’Iran sulle sponde del Golfo Persico. Inoltre già in precedenza gli iraniani hanno denunciato violazioni del loro spazio aereo da parte di droni statunitensi. E non sarebbe neanche la prima volta che gli Usa compiono “incursioni” in territorio iraniano per spiare le attività di Teheran o per testarne le reazioni.
“Il velivolo senza pilota statunitense che pattugliava le acque del Golfo Persico, in missione di ricognizione e raccolta di materiale di intelligence, è stato catturato e posto sotto il controllo delle unità di difesa aerea (iraniane) dopo che aveva violato lo spazio aereo del Paese”, ha dichiarato il comandante della Marina dei Pasdaran, il contrammiraglio Ali Fadavi. Nel comunicato non viene specificato come sia stato catturato il velivolo, ma si precisa che si tratta di uno ScanEagle. Questo è un piccolo drone della Boeing, di solito imbarcato a bordo di navi della marina statunitense, delle dimensioni di un grosso modellino e senza un particolare valore economico o strategico. Una preda certo meno prestigiosa del sofisticatissimo RQ-170 Sentinel, soprannominato “la Bestia di Kandahar”, finito nelle mani iraniane esattamente un anno fa.
Tuttavia la notizia della sua cattura, insieme alle immagini che la confermerebbero, rappresenta un nuovo potenziale motivo di imbarazzo per gli Stati Uniti. Sia perché dimostrerebbe un nuovo fallimento del Pentagono, che avrebbe così perso (o si sarebbe addirittura fatto dirottare) un altro drone. Ma anche perché sarebbe la prova delle violazioni territoriali statunitensi in Iran. Proprio lunedì scorso il Wall Street Journal ha scritto che negli ultimi due mesi gli Stati Uniti hanno rafforzato le loro operazioni di intelligence sulla centrale nucleare iraniana di Bushehr, lanciando diversi droni per registrare immagini e comunicazioni audio provenienti dal sito.
Il 19 novembre l’Iran ha inviato al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, una protesta formale per le ripetute violazioni statunitensi dello spazio aereo iraniano. Un paio di settimane prima un drone Predator statunitense in volo sul Golfo Persico era stato intercettato e bersagliato dai caccia iraniani, senza però riportare danni. Secondo Washington, che per primo ha denunciato l’accaduto, il velivolo si trovava in acque internazionali, ma Teheran sostiene che fosse penetrato in territorio iraniano. “I voli di ricognizione sulle acque internazionali del Golfo continueranno”, chiarì in quell’occasione il Pentagono, avvertendo Teheran dell’esistenza di “una vasta gamma di opzioni, dalla diplomazia all’azione militare, per proteggere navi e aerei statunitensi nella zona”.
 
Le provocazioni Usa e gli esempi del passato
 
Le manovre delle forze armate statunitensi nel Golfo Persico hanno il duplice scopo di mantenere costante la pressione e la sorveglianza sulla Repubblica Islamica, e allo stesso tempo di provocare una reazione iraniana per testare la prontezza e la capacità delle forze armate di Teheran. Uno schema già sperimentato durante la guerra Iraq-Iran – con Usa e alleati schierati al fianco dell’Iraq di Saddam Hussein – e che venne alla luce quando, nel luglio del 1988, l’incrociatore statunitense Vincennes abbatté per errore l’aereo civile della Iran Air (volo IR655) sullo stretto di Hormuz. Le inchieste successive, soprattutto le testimonianze del capitano della nave, evidenziarono che la presenza stessa della Uss Vincennes in acque iraniane faceva parte di una deliberata manovra provocatoria per testare le capacità di reazione della difesa di Teheran. Nel contesto attuale, simili provocazioni potrebbero essere utilizzate da Washington anche per trovare un casus belli che giustifichi un’eventuale rappresaglia militare (senza necessariamente scatenare una guerra), come durante l’operazione Mantide Religiosa. Pochi mesi prima dell’incidente del volo IR655, l’incrociatore statunitense Samuel B. Roberts si scontrò con una mina iraniana nel Golfo Persico, riportando danni significativi ma riparabili. Gli Usa risposero con una violenta rappresaglia che prese di mira tra l’altro un paio di piattaforme petrolifere iraniane, e che venne considerata sproporzionata e “ingiustificata” anche da una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia.


05 Dicembre 2012 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=18193

Il siero iraniano che salva i soldati Usa

Il Pentagono compra dall’Iran un anti-veleno contro i serpenti afgani, mentre le sanzioni affondano l’industria farmaceutica iraniana 

Ferdinando Calda

Per salvare la vita ai soldati statunitensi morsi dai serpenti velenosi in Afghanistan, il Pentagono acquista un antidoto da una società dell’Iran, Paese attualmente colpito dalle dure sanzioni Usa che ostacolano la stessa industria farmaceutica iraniana. Lo riporta il Wall Street Journal – ripreso dalla stampa iraniana – sottolineando l’ironia del fatto.
Nell’articolo il quotidiano spiega che, nonostante il tentativo statunitense di bloccare il commercio iraniano con il resto del mondo, dall’inizio del 2011 il dipartimento della Difesa Usa ha già acquistato, tramite un intermediario, un centinaio di fiale anti-veleno dal Razi Vaccine & Serum Research Institute, per un totale di oltre 3mila dollari. Questo perché il siero iraniano sembra essere l’unico capace a neutralizzare il veleno di particolari serpenti che si trovano in Asia centrale, come alcune razze di cobra o di vipera. Gli altri anti-veleno approvati in precedenza dalla Food and Drug Administration statunitense, spiegano i dottori, non funzionano contro i morsi di tutti i serpenti afgani, perché sono prodotti partendo dai veleni delle specie presenti negli Stati Uniti.
Per continuare ad acquistare il medicinale iraniano, gli avvocati del Pentagono si sono detti pronti a chiedere una deroga sulle sanzioni al dipartimento del Tesoro statunitense. “Stiamo lavorando con il dipartimento della Difesa per chiarire i dettagli di questi acquisti e garantirne la conformità” rispetto alle sanzioni, ha dichiarato al Wsj un portavoce del Tesoro.
Da parte loro, gli iraniani della Razi si dicono contenti se il loro prodotto serve a salvare delle vite umane, “anche quella di un soldato statunitense”. Tuttavia sottolineano come la campagna sanzionatoria degli Stati Uniti stia rendendo difficile anche per la stessa Razi produrre medicinali, compresi quelli acquistati dai militari statunitensi. “È molto difficile (per l’Istituto) comprare i prodotti chimici per i laboratori e alcune delle attrezzature di cui abbiamo bisogno – ha dichiarato il responsabile del dipartimento anti-veleni della Razi, Hadi Zareh – Inoltre i prezzi sono saliti a causa delle sanzioni”.
Gli effetti dannosi delle restrizioni statunitensi sul sistema sanitario iraniano sono emersi anche nei mesi scorsi quando il Washington Post ha descritto la penuria di medicine dovuta alle sanzioni e ai conseguenti tagli alla Sanità. Una mancanza che colpisce soprattutto chi ha bisogno di trattamenti lunghi e costosi, come malati di cancro, emofiliaci, malati di sclerosi multipla, talassemia, trapiantati e dializzati. A ottobre il quotidiano iraniano in lingua inglese Iran Daily ha lanciato l’allarme con un articolo dal titolo “Massacro o sanzioni? Sei milioni di vite in gioco”. Nell’articolo veniva citato in particolare l’accorato appello al segretario generale dell’Onu lanciato un paio di mesi prima dal capo dell’Istituto di beneficenza per le malattie speciali (Cisd), Fatimeh Hashemi. “Sebbene le medicine non siano incluse nella lista delle sanzioni – spiegava la responsabile – l’impossibilità di trasferire denaro attraverso le banche e la pessima atmosfera” creata dalle misure internazionali ha “severamente colpito l’importazione di medicine nel Paese. Quale capo di un istituto che si occupa della vita di sei milioni di pazienti, qui Vi imploro di compiere ogni sforzo per difendere i diritti umani”.

05 Dicembre 2012 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=18194

MULTE/ In Italia le più alte e ingiuste. In Svizzera? Si paga in base al reddito. E nessuno evade

Inchieste Italia

Scritto da Viviana Pizzi

Mercoledì 05 Dicembre 2012 

Cifre proibitive portano la metà degli italiani che subiscono multe per eccesso di velocità ad evadere e non pagare: altrimenti  rischiano di restare senza soldi per mangiare. In Germania e in Austria sono meno salate e si pagano di più. La vera svolta è la Svizzera: l’importo è calcolato in base al reddito.

 di Viviana Pizzi

In Italia vengono contestate ogni anno circa due milioni di multe per eccesso di velocità. Circa la metà viene regolarmente evasa creando uno scoperto che non è possibile calcolare con precisione ma comunque vicino al mezzo miliardo di euro. Denaro in meno per le pubbliche amministrazioni che sono costretti a tassare altrove per ottenere quello che occorre per continuare a sopravvivere.

Perché i cittadini non pagano le multe e spesso le strappano per non ricordarsi di averle ricevute? Una delle cause è relativa di sicuro all’incidenza che esse hanno sul bilancio mensile di una famiglia. Sono di certo più care di quelle tedesche e austriache e più incisive di quelle svizzere che si calcolano in base al reddito del cittadino che le riceve.

Ci ha pensato un cittadino torinese a sottolineare questa enorme differenza sulla sua pagina facebook. Dopo essere stato multato in Germania per aver viaggiato oltre i limiti e aver subito in Italia la stessa multa per la stessa ragione.

Multa presa in Germania – recita lo status –  18km orari in più del consentito totale € 18,00….. (diciotto) …… stessa multa in Italia € 177,00 + 3 di spese……… e poi dicono ……….”

Una frase che non lascia nulla da interpretare se non l’evidenza dei fatti: in Germania le multe per eccesso di velocità costano meno e per questo vengono pagate senza battere ciglio.

LA NORMATIVA ITALIANA E IL PESO SUL BILANCIO DEI CITTADINI

autovelox_multe_record_italiaUna tariffazione così proibitiva potrebbe servire da deterrente per evitare comportamenti scorretti da parte dei cittadini italiani. Spesso però lo diventa per le tasche di persone che se non hanno un lavoro oppure ricevono lo stipendio in ritardo è davvero impossibile da pagare.

Questa è nel dettaglio la normativa da seguire: chi supera il limite di non oltre dieci km orari si becca una sanzione di 38 euro, per chi va oltre i dieci ma entro i quaranta si arriva a 155 euro più la decurtazione sulla patente di 5 punti. Se il documento di guida è arrivato da meno di tre anni i punti tolti raddoppiano e si arriva a dieci

Da 40 a 60 km/h la sanzione è di 370 euro con dieci punti di decurtazione, ritiro immediato della patente e sospensione della stessa per circa un mese, i patentati da non più di tre anni subiscono la penalità di venti punti. Il che significa costosi corsi di recupero che posso portare via altri mille euro dal bilancio mensile di un italiano (per un disoccupato un costo quasi impossibile).

Superare di oltre 60 km/h il limite di velocità comporta una sanzione di  500 euro e sospensione della patente di guida per un minimo di 6 mesi. Non comunicare inoltre i dati della patente del conducente comporta una ulteriore sanzione di 500 euro – art. 126bis comma 2 del codice della strada.

Insomma girare a 110 km/h dove non si possono superare i 50 costa a un operaio medio, che magari lo ha fatto per ragioni di necessità, il costo di mezzo stipendio.  E proprio per questo i più disperati che pensano di fare? Non pagare nonostante il conto della multa arrivi direttamente a casa con tanto di fotografia

 COME FUNZIONA IN GERMANIA E AUSTRIA

In Germania se si supera di un chilometro la velocità massima consentita su strade e autostrade la multa che arriva a casa è di un euro. Che aumenta di un euro alla volta in base a quanti km/h l’automobilista ha superato la velocità prestabilita. Se la si supera di diciotto km/h come avvenuto nel caso del nostro contatto facebook, la multa è di diciotto euro.

Se si va 60 km/h più veloci del normale la multa è di solo sessanta euro: quattrocentoquaranta in meno rispetto al corrispettivo italiano e quindi più facilmente pagabile da un tedesco medio che lavora più di un italiano (disoccupazione 6.9% contro 11.1% dell’Italia stando ai dati Istat), che riceve salari più alti e che ha alle spalle un sistema fiscale meno opprimente anche sulle pensioni.

Stesso discorso anche per gli austriaci che addirittura hanno un tasso di disoccupazione pari al 4,4% e si trovano con lo stesso sistema di multe da pagare dei tedeschi.

In questi due Stati la riscossione è sicuramente più veloce rispetto a quella italiana (si paga subito ed è possibile farlo direttamente nelle mani dei vigili che contestano l’infrazione) un dato però è certo: l’evasione è quasi pari a zero e il denaro che deriva dalle multe arriva con certezza nelle casse dello Stato.

In Svezia è impossibile non pagare perché chi non lo fa rischia di vedersi sequestrata l’auto con la quale ha commesso l’infrazione.

IL CASO SVIZZERA: MULTE IN BASE AL REDDITO

La Svizzera è senz’altro il Paese con la più alta riscossione di multe: l’evasione non esiste quasi. Lo Stato elvetico ha infatti stabilito convenzioni con tutti gli altri paesi europei per ottenere il pagamento delle infrazioni al codice stradale mediante le banche.

In Svizzera c’è però una normativa che incentiva anche il più povero a pagare la sanzione collezionata. Infatti le multe per eccesso di velocità vengono stabilite in base al reddito del cittadino colpito. I più ricchi alla guida di Suv possono arrivare a pagare anche multe che vanno dai 140 mila euro ai 200 mila. Una sanzione, carte alla mano, è arrivata a costare anche di 1.740.000 euro. Che nelle tasche dei banchieri svizzeri con conti a dieci cifre possono incidere allo stesso modo di una multa da 500 euro che arriva nelle tasche di un operaio con uno stipendio medio di milleduecento euro al mese.

In Italia invece la multa è di cinquecento euro, a prescindere dallo status sociale del soggetto “incriminato”.

 L’INIZIATIVA DI NOCENSURA.IT

Giusto togliere i punti dalla patente – scrivono dallo staff di Nocensura.it – giusto anche sequestrare le auto ma non lo è altrettanto privare i sanzionati del pane quotidiano per vivere, nonostante abbiano corso a folle velocità con la loro autovettura.

Questo è il testo con cui si promuove l’iniziativa:

Un’altra indecenza schifosa di cui nessuno parla, e con nessuno includo la gente comune (talmente assuefatta alle ingiustizie che passano inosservate) è il fatto che le multe devono essere calcolate in base al reddito!!! Non mi stancherò mai di dirlo, e ringrazio Antonio per questo articolo: avevamo già affrontato la questione. Nei paesi civili come la svizzera funziona cosi e dovrebbe essere normale: leggete come funziona nella vicina svizzera… Tutti i movimenti e le associazioni davvero vicine ai cittadini dovrebbero inserire questo “punto” nel programma insieme al tetto max per le pensioni e urlarlo a gran voce: i cittadini devono/possono fare pressione!

La questione è molto importante e come già detto nessuno ne parla; compresi i blog liberi, i movimenti e le associazioni “dal basso”; cerchiamo di fare pressione affinché se ne parli!!! Tuttavia non facciamoci “distrarre” con proposte come questa se chi le fa non parla di sovranità monetaria: dobbiamo abituarci a diffidare da chi non lo fa; da chi accusa i politici e basta, senza mai parlare delle banche, del sistema monetario-economico-finanziario. Una parte della popolazione non conosce la questione perché (ci risiamo) nessuno ne parla, almeno nei mass media ‘mainstream’, ma i politici conoscono benissimo la questione, dal primo all’ultimo. E se non la conoscono che si facciano da parte: significherebbe che non sono adeguati al ruolo che hanno”.

 

Viva la democrazia!

Giorgio Napolitano


 Quando il colonnello Monti doveva salire al potere, sotto la sacra investitura del Re e della sua Corte, Napolitano ha fatto tutto in 24 ore, al grido di “Fate Presto“. Ora che Monti deve cadere, sotto la spinta di un Parlamento che riscopre improvvisamente il suo ruolo solo a due mesi dalle elezioni, Napolitano dice “fate con calma“, “prendetevela comoda”, “che fretta c’è…”, “tra poco è Natale”, “Non dovete fare un regalo ai vostri bambini?”, “Natale con i tuoi, elezioni con chi vuoi”. Nel frattempo, i giornali allarmano: “Lo spread sale, lo spread sale!”, “Siete pazzi? Volete anticipare le elezioni di ben un mese?”. Eppure, siamo andati avanti sessant’anni con Governi che cadevano anticipatamente rispetto alla fine della legislatura, e a nessuno era mai venuto in mente di alzare lo spread. E poi, Monti dice di avere ormai messo in sicurezza il Paese, dunque si può votare subito. O i mercati hanno forse qualcosa in contrario?
 In ogni caso, JP Morgan e Goldman Sachs sono salite al Colle per un giro di consultazioni. La troika sta già passando in rassegna i parlamentari, camera per camera, seggio per seggio, controllando se le scarpe sono ben lucidate e comunicando le disposizioni finali di voto per la fiducia da dare al prossimo esecutivo. E mentre Putin fa riassettare in fretta e furia il lettone, che giaceva impolverato dopo le ultime performance con Ruby, le borse contrattaccano prendendo di mira le aziende del Cavaliere, la Merkel chiama Sarkozy e si fa qualche risatina al telefono, seduta sul culone, e la magistratura spulcia il codice penale per vedere se avanza qualche nuovo capo di imputazione da consegnare a Ghedini e alla stampa, meglio se a pochi giorni dal voto. 

 Intanto, continuano gli accordi per una legge elettorale che, senza premio di maggioranza e con l’incredibile, fondamentale, imprescindibile cavillo di richiedere uno statuto ai partiti che si presentano alle elezioni (i non statuti non valgono), blindi i palazzi rispetto alle assurde pretese del popolo di partecipare alla vita istituzionale con una propria delegazione. Una cosa che non si è mai vista (almeno fino alla Rivoluzione Francese).

 Viva la democrazia!

http://www.byoblu.com/post/2012/12/06/Viva-la-democrazia!.aspx

VIDEO: Siria, terroristi salafiti uccidono soldati che implorano (SCONSIGLIATO A PERSONE SENSIBILI)

TEHERAN – Un nuovo video diffuso dai media iraniani mostra scene raccapriccianti dell’attivita’ dei gruppi terroristici salafiti/wahhabiti in Siria.

Un gruppo di questo genere, tra quelli sostenuti solitamente da Qatar, Arabia Saudita e Turchia, ha sequestrato vivi alcuni soldati siriani. Come si vede nel video questi implorano ma senza esito. I terroristi li uccidono uno per uno con colpi nella tempia. Una carneficina scioccante che soprattutto aiuta a capire la situazione in Siria. E soprattutto mostra chi sia quella “opposizione” che l’Occidente sostiene cosi’ tanto…

Nota della Redazione: Ci scusiamo per le immagini cruente e sconsigliamo il video qui sotto alle persone sensibili.

Fonte: http://italian.irib.ir//notizie/mondo/item/117540-


Tratto da: VIDEO: Siria, terroristi salafiti uccidono soldati che implorano (SCONSIGLIATO A PERSONE SENSIBILI) | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/12/06/video-siria-terroristi-salafiti-uccidono-soldati-che-implorano-sconsigliato-a-persone-sensibili/#ixzz2EIToSQre 
– Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario! 

«Noi, il Fiscal compact e i vincoli europei»

QUESTO È IL NOSTRO PROGRAMMA DI GOVERNO

«Noi, il Fiscal compact e i vincoli europei»

di Pierluigi Bersani e Nichi Vendola*

«Ci sono motivi esterni molto importanti che determinano lo spread, ma anche ragioni interne ed europee, che aiutano a comprendere meglio la sfida politica italiana del 2013.


Molte di queste ragioni sono legate ai limiti imposti dal fiscal compact. Potrà venire infatti un governo più incline alla spesa o più favorevole a tagliare le tasse, ma il deficit strutturale dovrà restare entro lo 0,5% del Pil. Se il pareggio del bilancio e quello dei conti con l’estero sono sostenibili, gli investitori esteri possono considerare il Paese stabile chiunque lo guidi. Anche se vincesse una coalizione politica tutt’altro che moderata, il governo sarà tenuto da un trattato internazionale a ridurre deficit e debito. Se non lo fa, il trattato prevede che «nel caso di deviazioni significative osservate dall’obiettivo di medio termine» meccanismi di sanzione scattino automaticamente con l’imposizione di penalità finanziarie.

Qualunque sia il prossimo governo, non potrà nemmeno discutere unilateralmente una deviazione dal fiscal compact, perché farebbe fuggire gli investitori dal Paese. Inoltre il fiscal compact è stato introdotto come contropartita dei fondi salva-Stati a garanzia dei Paesi creditori. Il testo del Trattato dice chiaramente che gli aiuti finanziari saranno condizionati alla ratifica del fiscal compact entro il 1° marzo 2013, nove giorni prima della data più probabile delle elezioni italiane. Quindi se il fiscal compact fosse abbandonato dall’Italia, l’Esm (il fondo salva-Stati) perderebbe senso, probabilmente verrebbe addirittura svuotato. Sarebbe la fine dell’euro. I partiti italiani più radicali, che criticano sia il rigore fiscale sia l’euro, hanno quindi una tragica coerenza. Ma sono costretti a proporre un’uscita dalla moneta unica che li confina in una posizione scomoda e irrealistica di fronte agli elettori italiani.

La legge di bilancio del prossimo governo inoltre dovrà essere sottoposta ai Paesi partner prima ancora di essere votata dal Parlamento italiano. Sarà sottoposta a sorveglianza della Commissione in relazione al rispetto degli obiettivi di medio termine e al calendario della convergenza non solo fiscale, ma macroeconomica. Il nuovo governo potrà comunque intervenire sulla qualità e l’articolazione della politica economica, ma paradossalmente più nella natura tecnica delle riforme che nel loro impianto ideologico. Tutte le maggiori riforme politiche, infatti, devono essere discusse con gli altri governi prima ancora di essere approvate. Se possibile devono essere coordinate tra i diversi Paesi. Questo significa che ogni riforma ispirata da uno spirito particolarmente ideologico deve incontrare il sostegno dei Paesi partner. I quali però hanno orientamenti politici diversi tra di loro e quindi difficilmente daranno luce verde a un’agenda molto radicale di uno dei Paesi membri.

Infine, per non violare gli obiettivi annuali, un piano di riforma economica radicale, per esempio il taglio secco delle tasse o l’aumento della spesa, dovrebbe essere spalmato su diversi anni. Al limite su più di una legislatura. Ma questa lunga durata crea un problema di credibilità per qualsiasi politica ideologizzata, perché la riforma rischierebbe di essere revocata al primo cambio di maggioranza o perdita di consenso del governo. Per questa ragione in Europa c’è una certa tendenza a preferire “grandi coalizioni” nei Paesi indebitati in cui sono necessari ampi piani di riforma.

In caso di un governo recalcitrante, la Commissione farebbe scattare un “programma di partnership” che in realtà mette sotto stretta sorveglianza la politica del Paese e richiede un piano dettagliato di riforme strutturali. Ma non erano molte di queste forme di sorveglianza già in vigore in passato e senza efficacia? Sì, ma ora i mercati sono molto più allerta. I Paesi partner poi hanno un’arma nucleare in mano: qualsiasi Paese aderente al Trattato può portare un altro Paese, che sospetta di violare gli accordi, di fronte alla Corte di Giustizia Ue. Dato il livello di populismo in Europa in materia di rigore fiscale altrui, non è improbabile che questo clamoroso processo pubblico al Paese deviante avvenga davvero. In fondo è stata sufficiente un po’ di pressione, informale ma pubblica, di Berlino nelle scorse settimane per far finire la Francia tra i Paesi fragili.

Il prossimo governo avrà dunque un forte controllo dall’esterno, nessun margine fiscale e nessuna possibilità di far leva su ideologie radicali. Privo di risorse fiscali, con la politica monetaria gestita solo a livello europeo e con le riforme strutturali che richiedono tempo per dare effetti, il prossimo governo potrà puntare soprattutto su un clima più cooperativo in Europa che consenta di realizzare politiche di sviluppo, di spostare l’attività economica italiana sui settori esportatori e di uscire dalla spirale debito-deflazione che sta contagiando anche i Paesi più solidi.

Tuttavia per influenzare la politica economica europea un governo deve essere credibile a Bruxelles. E per essere credibile a Bruxelles deve condurre politiche credibili a casa. Se per esempio Hollande avesse oggi un pareggio di bilancio, sarebbe politicamente più forte di una Merkel a termine di legislatura. Alla fine dunque un governo post-Monti dovrebbe comportarsi più o meno allo stesso modo del governo attuale. La campagna elettorale sarà condotta polemicamente pro o contro l’agenda Monti, ma in realtà qualsiasi sarà il prossimo governo rischia di avere ancor meno margine di manovra di quello attuale, dovendo costruire da zero la propria credibilità europea».

* In verità si tratta di un articolo di Carlo Bastasin dal titolo «La credibilità è lo “scudo” sui Btp». Il Sole 24 ore di mercoledì 5 dicembre 2012. Scusateci per l’inganno [?]

EVASIONE/ Altro che redditest! Lo Stato avanza 5 miliardi dalle banche ma Monti fa spallucce

Scritto da Carmine Gazzanni

Martedì 04 Dicembre 2012 

Attilio Befera, numero uno dell’Agenzia delle Entrate, ha parlato chiaro: guerra a tutto campo ai furbetti del fisco per recuperare un po’ di milioni e riportarli nelle dissanguate casse pubbliche. Eppure, numeri alla mano, il problema grosso starebbe altrove: se infatti l’evasione di piccole famiglie e piccoli lavoratori si aggirerebbe intorno ai 2 miliardi, sono ben 5 i miliardi che lo Stato avanza dalle banche. Al momento, però, nessun forcing è stato avanzato dall’Agenzia delle Entrate. Nonostante anche i tanti e tanti controlli e indagini a cui diversi istituti – da Mps a Unicredit fino a San Paolo – sono stati sottoposti. L’elenco è lungo, così come però lo è quello dei ministri ex manager d’alto livello delle banche.

 di Carmine Gazzanni

Si aspetta solo l’approvazione del decreto ministeriale – che probabilmente arriverà entro gennaio – e poi l’Agenzia delle Entrate avrà un nuovo strumento a disposizione per combattere i furbetti del fisco e riportare nelle casse pubbliche un po’ di milioni: il cosiddetto redditometro, il software che servirà a scandagliare le nostre dichiarazioni dei redditi. Insomma, le famiglie non avranno più scampo: chi dichiarerà meno di quanto possiede sarà attenzionato dall’Agenzia delle Entrate. Un nuovo modo per combattere l’evasione fiscale, dunque. Quella piccola, però. Pur significativa – stando ai dati – sempre piccola resterebbe. L’imponibile sottratto al fisco da piccole famiglie di lavoratori in proprio (commercianti, artigiani et coetera), infatti, sarebbe di due miliardi. Una cifra alta, ovviamente. Da recuperare, senz’altro.

Una cifra, però, che impallidisce davanti ai 5 miliardi che lo Stato avanza dalle banche. Peccato, però, che  se Agenzia delle Entrate e Governo sono – a giusta ragione – rigidi nei confronti dei furbetti di quartiere, non lo sono – per nulla – nei confronti dei furboni d’alto borgo. Nessuna informativa, nessun pressing sulle richieste di pagamento, avanzate già dal 2009 ma nei fatti mai prese in considerazione dalle stesse banche. Niente di niente. Soltanto la presa d’atto che lo Stato avanza ben 5 miliardi dagli istituti bancari.

Eppure ci sarebbe da tenere gli occhi ben aperti. Le banche, i loro peccatucci, li hanno commessi eccome. Checché ne dicano i ministri ex manager di punta di istituti bancari (da Fornero a Ciaccia, da Gnudi a Passera). Alcuni esempi. A Unicredit sono stati sequestrati dall’Agenzia delle Entrate ben 246 milioni di euro per l’operazione Brontos, nome con cui la controparte Barclays, importante merchant bank, aveva battezzato la frode fiscale che è costata al numero uno di Unicredit, Alessandro Profumo, il rinvio a giudizio per evasione: ben 246 milioni di euro di tasse non pagate. Altro che piccoli evasori e redditest.

Eppure lo Stato continua a rimpinguare i bilanci di banche e fondazioni.  E quando c’è una controversia, a guadagnarci sono sempre loro. Mai lo Stato. Clamoroso il caso di Mps che ha dovuto chiudere una controversia con l’Agenzia dello Stato da un miliardo e 100 milioni di euro. Alla fine, però, la banca senese ha versato all’erario solo 260 milioni, un quarto della cifra contestata. Stesso discorso anche per la Popolare di Milano che ha accettato di pagare 180 milioni, nonostante le venissero contestati 313 milioni di imposte non pagate. Infine San Paolo intesa: la ex banca di Corrado Passera ha pagato 270 milioni di euro a fronte di una contestazione di un miliardo e 150 milioni di euro tra imposte non pagate, sanzioni e interessi.

Il silenzio è assordante. Nonostante quanto detto, per il momento il Governo Monti ha deciso di intraprendere un’altra strada e di restare in silenzio dinanzi ai privilegi di cui godono le banche. Anzi, l’impressione è che, fin dove possibile, si vogliano ingrandire quegli stessi privilegi. Come già documentato tempo fa, infatti, non sono poche le misure adottate dall’esecutivo che, in un modo o nell’altro, sono tornate utili per i conti di banche e fondazioni bancarie. Così è stato con la norma del decreto Salva Italia tramite cui il ministero dell’Economia (allora in mano allo stesso Monti) “fino al 30 giugno 2012 è autorizzato a concedere la garanzia dello Stato sulle passività delle banche italiane, con scadenza da tre mesi fino a cinque anni, o a partire dal 1 gennaio 2012 a sette anni per le obbligazioni bancarie garantite”.

Un modo per non far fallire le banche, insomma. Così è stato – ancora – con il provvedimento tramite cui si è stabilito che dal mese di marzo gli enti di previdenza (come ogni pubblica amministrazione o ente pubblico) non potranno più effettuare i pagamenti in contante delle pensioni d’importo superiori ai mille euro, per via del divieto cosiddetto della “tracciabilità” imposto dalla manovra. Ergo: i pensionati dovranno farsi un conto corrente. A vantaggio, ancora una volta, delle banche.

Tutto questo mentre si continua nella lotta contro la piccola evasione facendo passare l’immagine che il grande problema dell’Italia sia la famiglia che non dichiara quanto effettivamente possiede. Vero, grande problema. Ma, come visto, non il più grosso.